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Autore Discussione: GIOVANNA ZINCONE. -  (Letto 21129 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 03, 2010, 04:17:32 pm »

3/7/2010

Immigrazione, corsa a ostacoli per Obama
   
GIOVANNA ZINCONE

Nel mito americano e in quello italiano le immagini delle migrazioni sono speculari. Il Presidente Obama ha voluto ricordare con forza nel suo discorso all’American University che gli Stati Uniti sono diventati una grande nazione grazie all’immigrazione. L’Italia, invece, sente ancora l’impronta del suo passato di Paese di emigrazione. Nel nostro dibattito pubblico, alla visione idealizzata dell’emigrato italiano, si contrappone quella dell'immigrato in Italia, presentato fin troppo spesso come un fastidioso e talvolta pericoloso estraneo. Questa persistente diversità tra i due Paesi nella rispettiva raffigurazione del fenomeno migratorio si riflette, in particolare, nelle leggi che regolano la trasformazione da straniero in cittadino. Negli Stati Uniti, i figli di immigrati diventano cittadini alla nascita e agli adulti bastano cinque anni di residenza per naturalizzarsi. I nati nel nostro Paese devono aspettare di arrivare a 18 anni, e dimostrare di essere sempre vissuti qui, per diventare italiani.

D’altra parte, per i discendenti di americani all’estero non è facile ereditare la cittadinanza: già i figli dei primi emigrati nati all’estero devono avere entrambi i genitori americani, o uno solo dei due ma con un provato periodo di residenza nella madre patria. Da noi, invece, basta un solo nonno italiano per poter diventare cittadini. Ma, al di là dei miti speculari radicati nel passato dei due Stati e delle loro persistenti diversità giuridiche, Italia e Stati Uniti si trovano oggi ad affrontare problemi simili. L’immigrazione irregolare è certamente uno dei grossi nodi, duri da sciogliere per entrambi. È una di quelle questioni in cui la politica si trova in trappola, perché non esiste una soluzione priva di costi. Come ha ricordato Obama, non regolarizzare implica una perdita per il fisco: gli irregolari che lavorano in nero non possono pagare né tasse, né contributi. Favorisce lo sfruttamento di quei lavoratori e quindi una potenziale concorrenza al ribasso con i lavoratori nazionali. Pone limiti all’ordine pubblico perché se vittime di reati gli irregolari non possono denunciare. Ma non è immaginabile - ed anche questo Obama ha ricordato - espellere numeri così elevati di persone sia per questioni logistiche, sia perché sono di fatto tasselli troppo importanti dell’economia nazionale.

Aggiungo che lasciare le cose come stanno significa pure aggravare dannose tensioni con gli Stati di provenienza. I governi di quei Paesi potrebbero essere disposti a rafforzare i controlli sull’emigrazione clandestina, ma vogliono avere in cambio la regolarizzazione dei loro cittadini già emigrati. Non solo Obama, ma anche le precedenti amministrazioni hanno avuto forti pressioni in tal senso dal Messico. Inoltre, irregolari, regolari, immigrati naturalizzati appartengono spesso alle stesse famiglie, alle stesse comunità, e ciò significa che le pressioni in favore delle regolarizzazioni provengono anche da attuali o potenziali elettori. In Italia, quella degli immigrati diventati cittadini non è ancora una lobby forte, come lo è ad esempio la comunità ispanica negli Stati Uniti, ma in entrambi i Paesi contano le influenti pressioni dei datori di lavoro e delle benevole organizzazioni religiose. Questo insieme di fattori sposta la bilancia tutta in favore delle regolarizzazioni? Direi proprio di no. Sull’altro piatto pesa e molto il giudizio prevalentemente negativo dell’opinione pubblica, della maggioranza dell’elettorato.

Nell’ultimo sondaggio Transatlantic Trends, effettuato in vari Paesi europei e negli Stati Uniti, il 48% degli intervistati americani si dichiara contrario (44% favorevoli, 6% dipende), contrario è pure il 51% degli italiani (36% favorevoli, 13% dipende). Si capisce quindi perché gli Stati Uniti abbiano aspettato tanti anni, dal 1986, a lanciare un’altra regolarizzazione di massa. E perché i recenti tentativi bipartisan di Bush nel 2006 e nel 2007 siano falliti. Quanto a noi, a partire dallo stesso 1986, ne abbiamo fatte ben sei di regolarizzazioni, sempre però promettendo che sarebbe stata l’ultima, e poi vantando di volta in volta l’adozione di criteri più severi rispetto a quelle varate da governi di colore diverso. Da un certo momento in poi, i decisori italiani, di qualunque maggioranza, hanno messo molta cura nel contrapporre «sanatoria» a «regolarizzazione». La prima, tipica del passato, viene presentata come un colabrodo privo di requisiti, la seconda, quella varata dal governo in carica, è invece una seria e severa selezione dei meritevoli.

La prima rappresenterebbe un semplice regalo all’illegalità, la seconda è invece accompagnata da dure ed efficaci misure di contrasto dell’immigrazione clandestina. La differenza tra i due tipi di misure è in parte reale, in parte retorica, ma in politica la retorica è un elemento costituivo della realtà. Obama lo sa, e la sua proposta di regolarizzazione è un po’ in salsa italiana. Dichiara di non voler fare la «blanket amnesty», una sanatoria indiscriminata sgradita agli americani; non approva ma capisce le paure che hanno spinto recentemente l’Arizona a negare diritti fondamentali agli immigrati clandestini; accompagna la proposta di regolarizzazione con l’obbligo per i regolarizzandi di seguire un percorso di rientro nella legalità. Obama vanta un già avvenuto maggiore contrasto dell’immigrazione clandestina attraverso il controllo delle frontiere. Promette controlli ulteriori e punizioni per chi impiega irregolari, ma soprattutto promette di alleggerire i gravami burocratici per chi vuole entrare regolarmente. È presto per dire se Obama riuscirà a convincere di nuovo un po’ di repubblicani. Non sappiamo quanto conteranno le spinte e le lobby a favore e contro, né quanto peserà l’apertura della campagna per le elezioni di medio termine.

Non è chiaro, quindi, se questa volta, dopo tanti anni, la regolarizzazione di massa riuscirà a sfondare anche al di là dell’Atlantico. Ma sia noi che loro potremmo provare ad assaggiare una ricetta spagnola. Lì non si espellono quegli irregolari che mostrano un radicamento nel Paese: ad esempio quelli che lavorano, che mandano i figli a scuola. Eviteremmo così di non volere le regolarizzazioni, ma di volere, allo stesso tempo, regolarizzare il papà di quello studente tanto buono e bravo, quel decoratore così puntuale e capace. Qualunque misura, se a piccole dosi, si nota meno.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7553&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 08, 2011, 10:31:35 pm »

4/4/2011

Una difficile strada obbligata

GIOVANNA ZINCONE

Sono in troppi ad avere un disperato bisogno di consenso. Tutti i principali soggetti coinvolti nell’emergenza immigrazione in Italia non possono farne a meno. E questo complica di molto le cose. Partiamo da Sarkozy, che si trova con le elezioni presidenziali alle porte e il fiato di Marine Le Pen sul collo. Perché non dovrebbe applicare il Trattato di Chambéry che prevede la restituzione al mittente degli irregolari che valichino i confini tra i due Paesi? L’accordo era del 1997.

Peraltro l’agognato ingresso dell’Italia nell’area Schengen, a partire dal 1998, ci impone di riprenderci i «nostri» irregolari da qualunque Paese dell’area in cui fossero arrivati. Per inciso, siamo anche tenuti a riprenderci eventuali richiedenti asilo che siano arrivati da noi e volessero essere accolti in un altro Paese europeo. Il Trattato di Dublino prevede, infatti, che a occuparsene sia il primo «Paese sicuro» dove sono approdati, e certo l’Italia è (fortunatamente) considerato tale. Si sostiene che la direttiva Ue del 2001 sui rifugiati imporrebbe una ridistribuzione del carico tra i Paesi dell’Unione in caso di flussi straordinari. Ma si riferisce, appunto, ai rifugiati e non ai clandestini, e la valutazione della straordinarietà degli arrivi è comunque affidata alla discrezione degli altri Paesi. La distribuzione dei carichi all’interno dell’Unione europea ha una discutibile base giuridica, e soprattutto si profila molto difficile in pratica.

Non siamo infatti nei tempi migliori per giocare la carta della solidarietà europea. La Germania e altri partner pesanti sono da tempo molto critici sulla gestione degli irregolari da parte dei Paesi del Sud Europa: troppe regolarizzazioni di massa e magari poca capacità di controllo. Difficilmente Merkel può intenerirsi proprio ora, dopo la batosta elettorale nella sua ex roccaforte del Baden-Württemberg; anche lei ha oggi un disperato bisogno di consenso. Non stupisce invece la solidarietà all’Italia espressa dal presidente Barroso: viene non a caso da un esponente del Sud Europa, area che condivide i nostri problemi migratori, ma per la quale la necessità di supporti finanziari da parte dell’Unione di fronte alla crisi del debito pubblico rende difficile giocare un ruolo determinante su altri temi. La commissaria Malmström ha espresso la posizione dominante nell’Ue: l’Italia ha ricevuto molte risorse per il controllo delle frontiere, per l’integrazione degli immigrati, per i rimpatri assistiti; si può al massimo ragionare sulla possibilità di una diversa utilizzazione di quei fondi che privilegi i rimpatri. È possibile persino che l’Italia spunti un aumento delle risorse, molto meno probabile appare una redistribuzione su scala europea dei clandestini.

Anche il governo italiano ha un dannato bisogno di consenso, perché si avvicina un test elettorale che vede coinvolte città molto significative. E al consenso elettorale conquistato in passato dal centrodestra non è stata indifferente la promessa di controllare l’immigrazione, anzi, soprattutto il successo della Lega deve molto a quella promessa. Si capisce quindi che le incrinature che già si profilavano nel patto di ferro Bossi-Berlusconi si stiano evidenziando e rischino di trasformarsi in crepe, e il premier non può certo rischiare che queste aprano il varco a una frattura. La proposta, da poco ventilata, di applicare l’articolo 20 del Testo Unico sull’immigrazione concedendo ai tunisini sbarcati in Italia un permesso di soggiorno di protezione temporanea per motivi umanitari ha suscitato forti obiezioni leghiste. Non sono infondate. È dubbio che una misura, nata per affrontare esodi di massa dovuti a condizioni drammatiche del Paese di partenza, si possa applicare oggi alla Tunisia impegnata in una transizione democratica attualmente pacifica. Quella misura fu infatti adottata in Italia nel 1999 a fronte del dramma del Kosovo e, non a caso, in quell’occasione anche altri Paesi, europei e non, accettarono di accogliere quote di rifugiati. Ma il punto non è il fondamento giuridico della misura, visto che di norme in Italia se ne stiracchiano parecchie. Il fatto è che questa decisione equivarrebbe a gettare la spugna: visto che l’esecutivo non è in grado di trattenere nei centri i clandestini, visto che non riesce a imporne l’accoglienza neanche ad alcune delle regioni e delle città che governa, visto che, insomma, non è in grado di gestire la situazione, lascia liberi tutti.

Dunque, trattare con Tunisi appare oggi come l’unica residua strategia credibile, ma non vuol dire che sia facile da praticare. Infatti, anche il fragile governo tunisino ha un disperato bisogno di consenso: deve ancora affrontare il test delle prime elezioni libere. Disfarsi di giovani maschi disoccupati e potenzialmente riottosi gli fa molto comodo, e se tra quegli emigrati ci fossero pure alcuni criminali, la capacità di scaricare all’estero anche quel fardello rappresenterebbe solo un vantaggio in più. Se Tunisi non dirà di no, di certo alzerà molto il prezzo per concedere l’applicazione, anzi il rafforzamento del vecchio accordo di riammissione, che la obblighi a riprendersi gli emigrati clandestini. I contatti con Sarkozy, il suo appoggio, l’appoggio dell’intera Unione su questa strategia potrebbero servire molto. E su questa linea anche Barroso potrebbe credibilmente influire. Ma nell’insieme, ora, quella di Berlusconi che parte per Tunisi, stressato dalle sue vicende giudiziarie e da iter legislativi ad esse collegate, appare tutt’altro che un’impresa facile. Come cittadini italiani, però, siamo tenuti ad augurargli «in bocca al lupo». Contenere almeno parzialmente gli esodi non solo solleverebbe il nostro Paese da un serio problema, ma ridurrebbe le sofferenze, i rischi, le morti di coloro che attraversano il Mediterraneo sognando un’Europa che non è pronta a riceverli.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 10, 2011, 04:53:45 pm »

10/4/2011

Egoismi, furbizie e piagnistei


GIOVANNA ZINCONE

La destabilizzazione del Nord Africa sta creando contraccolpi sull’Unione europea, che già non godeva di ottima salute.
Il flusso d’immigrati da quell’area ha esacerbato le tensioni, peraltro già ben presenti, tra un’Europa settentrionale, che si sente più efficiente e giudiziosa, e un Sud Europa in affanno per tante ragioni. È prioritario raffreddare una situazione incandescente, che rischia di far esplodere le tensioni tra i partner dell’Unione, prima ancora di cercare di capire dove stia la ragione. Anche perché assegnare torti e ragioni in questa storia non è facile.

Da un punto di vista formale, l’Italia è libera di concedere tutti i permessi di soggiorno che vuole, e proprio nel corso della recente emergenza migratoria questo diritto è stato confermato dalla commissaria Ue Malmström. Se ne deduce, quindi, che il nostro Paese possa concedere liberamente anche permessi temporanei di protezione umanitaria. È quanto ha fatto il governo applicando l’articolo 20 del Testo Unico sull’immigrazione: ha assegnato un permesso a chi è sbarcato dal Nord Africa in Italia dall’1 gennaio al 5 aprile. Si tratta di una mossa inizialmente proposta e sempre condivisa anche dall’opposizione.

Il permesso dovrebbe autorizzare gli immigrati sbarcati in Italia a circolare, per un periodo di tre mesi, nell’area Schengen: che poi non si fermino irregolarmente nel Paese prescelto, anche con permessi scaduti, non lo garantisce nessuno. E proprio questo è l’aspetto che preoccupa i partner europei, Francia in primis. È una preoccupazione politica ovvia; ma si può imputare all’Italia una palese violazione delle regole?

Ora, il Trattato di Schengen ha subito così tanti interventi e regolamenti attuativi da essere diventato un testo di difficile interpretazione e ambigua applicazione, ma la tesi italiana giuridicamente sembra reggere, perché anche il Regolamento 562 del 2006 esclude dai permessi che abilitano i cittadini dei Paesi terzi a circolare solo quelli rilasciati in attesa di risposta alla domanda di asilo o di un altro titolo di soggiorno. Gli Stati aderenti alla convenzione di Schengen sono poi tenuti a fornire un elenco dei permessi che essi stessi non considerano validi a quello scopo, e l’Italia ha aggiunto alla lista degli esclusi dalla libera circolazione soltanto il permesso per cure mediche e quello per ragioni di giustizia.

Lo stesso regolamento richiede come principale requisito ulteriore il «disporre di mezzi di sussistenza», ed è sul verificarsi di questo requisito che le autorità francesi minacciano di esercitare un esame puntiglioso. Fin qui, insomma, appaiono sostenibili le ragioni giuridiche italiane. Per capire la contestazione dei francesi, e ancor più dei tedeschi, bisogna però entrare nel merito di questa «concessione di permesso per ragioni umanitarie». In Italia, il decreto di venerdì si basa sull’articolo 20 della legge Turco-Napolitano, secondo il quale la protezione si rivolge a sfollati da Paesi non Ue a causa di «conflitti, disastri naturali e situazioni di particolare gravità».

Si può affermare che tutti coloro che sono venuti dal Nord Africa, tra l’1 gennaio e il 5 aprile, si sono sottratti alle gravi situazioni? E che questo valga - in particolare - per i recenti afflussi dalla Tunisia? La risposta è incerta, ma nessuno può vietare all’Italia di interpretare le proprie leggi come crede. D’altra parte cosa intenda l’Ue per la protezione temporanea per motivi umanitari emerge dalla lettura della direttiva n. 55 del 2001, che l’Italia ha recepito nel 2003. Secondo la direttiva la misura è applicabile a fronte di un «massiccio afflusso di sfollati provenienti da Paesi non appartenenti all’Ue che non possono rientrare nel loro Paese d’origine» perché il loro «rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta momentaneamente impossibile in dipendenza della situazione nel Paese stesso». A fronte di eventi del genere, i Paesi membri devono sentirsi impegnati a condividere il carico degli sfollati.

Pure quando non lo dicono apertamente, i nostri partner più robusti ci accusano di aver trasformato in «sfollati» quelli che sono di fatto clandestini. Quegli stessi che autorevoli esponenti politici italiani erano adusi descrivere come un branco di lupi, sono stati convertiti - secondo i nostri critici - in un pacifico gregge di agnelli. I clandestini sono stati troppo spesso equiparati nella retorica politica nostrana ad altrettanti potenziali o reali delinquenti, ed era una fesseria; ma oggi potrebbe non essere facile identificare tra gli sbarcati quanti sono fuggiti dalle carceri tunisine. Inoltre, gli immigrati dalla Tunisia sono, come sostengono alcuni politici italiani e come penso sia vero, in gran parte bravi ragazzi accomunati dal sano desiderio di fare fortuna in Francia. Ma se è così, perché dovrebbero essere titolari di un permesso per ragioni umanitarie, visto che si muovono non per scampare a disastri, ma per trovare lavoro? E se invece riteniamo che i disastri nella loro patria ci siano davvero, perché la protezione dovrebbe riguardare solo chi è arrivato dopo l’1 gennaio e fino alla mezzanotte del 5 aprile? Il governo italiano ritiene che applicare questa gabbia temporale serva a evitare che la prospettiva di altri permessi attiri altri flussi verso le nostre sponde. È lecito, però, dubitare che una gabbia così fragile funzioni, e che comunque i flussi si arrestino.

Il dato di fondo è che l’Italia in questo momento ha dovuto affrontare un’emergenza che non è in grado di controllare, ed è stata lasciata sola. La concessione del permesso per ragioni umanitarie è stata insieme un’uscita di sicurezza e una ripicca contro l’insufficiente solidarietà europea. Di fronte alla destabilizzazione del Nord Africa non bastano i soldi messi a disposizione dall’Unione, l’Italia ha bisogno non solo di più risorse, ma di una cooperazione europea a più ampio raggio. Gli Stati europei che godono di più alta considerazione, che aspirano a ragione a un ruolo guida nell’Unione, non possono pensare di far gravare solo o soprattutto sull’Italia i problemi che derivano dalla fragilità dei nuovi regimi sulla sponda Sud del Mediterraneo. Con questi regimi è necessario rilanciare la prospettiva di un’area euro-mediterranea. Deve essere una strategia forte e concertata fra tutti i membri dell’Unione, in particolare proprio tra Francia e Italia. Non è il caso di trastullarsi con accuse reciproche, non c’è tempo

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« Risposta #18 inserito:: Maggio 12, 2011, 11:00:16 am »

12/5/2011 - IMMIGRAZIONE

Se l'Europa imparasse da Obama


GIOVANNA ZINCONE

Parlando a El Paso, su quel confine con il Messico da cui sono transitati milioni di immigrati, Obama ha ricordato che anche oggi gli Usa devono la loro posizione nel mondo alla capacità di alimentare la vita economica con nuovi talenti ed energie, quindi anche all’immigrazione.

Lo provano grandi, recenti successi nell’informatica dovuti a immigrati: Intel, Yahoo, Google, eBay. A El Paso Obama ha perciò soprattutto rilanciato il Dream Act, dove Dream è la sigla che sintetizza il contenuto della proposta di legge ma anche un richiamo simbolico al «sogno» americano. Se passasse, i giovani immigrati irregolari diplomati negli Usa potrebbero ottenere un permesso di soggiorno permanente. Il Dream Act ha una storia complicata. Era già stato proposto nel 2001, riproposto nel 2009 alla Camera, ma nel dicembre 2010, per la defezione di vari senatori repubblicani prima favorevoli, si è di nuovo bloccato. Obama ha invitato gli elettori a convincere i loro rappresentanti sia democratici che repubblicani ad appoggiare il provvedimento e ha promesso di fare la sua parte. Insomma, ha fatto capire che i sistemi decisionali degli Stati democratici sono meccanismi complessi. Bisogna farsene una ragione, perché questa complessità non è solo un costo: riduce i rischi di errori, ma soprattutto le minacce alla libertà.

Il che non vuol dire che si debba desiderare il massimo di complessità possibile. In questo senso l’Unione Europea esagera. I suoi processi sono complicatissimi: prevedono passaggi tra una Commissione che elabora proposte, un Parlamento eletto dai cittadini e un Consiglio che rappresenta i governi degli Stati membri, entrambi chiamati a decidere. L’Unione, in più, funziona male non solo perché è complicata, ma perché le spettano solo spezzoni di competenze. Gli Stati membri prendono decisioni determinanti che seguono logiche incongrue rispetto agli spezzoni delle regole comunitarie. Su questo sfondo, oggi si riunisce un Consiglio straordinario dei ministri degli Interni dell’Unione per valutare una Comunicazione della Commissione sull’immigrazione. Si tratta di un altro passo in un percorso di riforma. A dare il via è stata la confusa gestione dei flussi di clandestini dalla Tunisia, confusione dovuta proprio alla incongruenza tra decisioni di competenza dei singoli Stati e spezzoni di regole di livello europeo. C’è uno spazio comune, condiviso da tutti i Paesi che hanno aderito a Schengen, ma il diritto ad entrarci dipende da permessi di soggiorno concessi dai singoli Stati. L’incongruenza ha creato tensioni tra l’Italia, che ha dato ai clandestini tunisini i permessi di soggiorno, e la Francia recalcitrante ad accettarli. Schengen è quindi entrato in crisi - lo dimostra anche la scelta della Danimarca di investire sui controlli alle frontiere - e le sue regole hanno bisogno di un ripensamento che non faccia venir meno il principio di fondo: far circolare merci e persone senza intoppi.

Comunque vada il Consiglio di oggi, inciderà marginalmente sul nucleo del problema, sulla generale discrepanza tra spazi, regole e diritti a livello europeo e la possibilità di accedervi, tenuta ben salda nelle mani dei singoli Stati. Per questa Europa a spezzoni non si profilano potenti riforme, ma si può sperare in una serie di ragionevoli emendamenti. La Comunicazione della Commissione Europea ne prospetta due. A decidere se reintrodurre temporaneamente controlli limitati alle frontiere non dovrebbero più essere i singoli Stati, ma l’Unione. In pratica, se ci fosse un accordo sulla nuova procedura e scoppiasse un altro caso Ventimiglia, spetterebbe all’Unione l’arbitraggio tra Italia e Francia. La Comunicazione propone, come secondo rimedio alla discrepanza, l’introduzione di procedure comuni per la concessione dell’asilo: sono enormi infatti le differenze nell’accettazione delle domande dei diversi Paesi dell’Unione, e questo rende difficile qualsiasi ridistribuzione dei carichi. Quanto al supporto ai Paesi più esposti nei confronti dei flussi, la Commissione osserva che oggi non ci sono sufficienti strumenti di intervento. Quindi soprattutto l’Italia potrebbe sperare in maggiori aiuti, anche se la Germania non manca occasione per farci notare che ha sempre accolto molti più rifugiati di noi, e senza fare una piega. E l’invito a una maggiore solidarietà verso i Paesi alla frontiera dell’Unione riguarda soprattutto la gestione dei rifugiati, che arrivano numerosi a Lampedusa. Ma di solidarietà europea avrebbero bisogno anche i Paesi al confine con la Libia dove si muove la stragrande maggioranza dei rifugiati. Ancora di solidarietà, e di soccorsi immediati, avrebbero bisogno coloro che affrontano il mare con mezzi di fortuna, ed è proprio questa solidarietà che a volte drammaticamente latita. La Comunicazione prevede di rafforzare le frontiere esterne con più fondi per Frontex, l’agenzia Ue che gestisce la difesa di confini comunitari, e torna a ragionare su un corpo europeo di guardie di frontiera.

Insomma, tra l’atteggiamento generale dell’Europa nei confronti dell’immigrazione e la visione che ne ha dato Obama a El Paso c’è una bella differenza, per essere precisi c’è una brutta differenza. Oggi l’Unione Europea ha paura degli immigrati: è riluttante anche nei confronti di nuovi flussi regolari. Al contrario, Obama ha mostrato apertura, gratitudine e fiducia. Non ha trascurato l’aspetto della legalità, ma non lo ha drammatizzato. Ha proposto, piuttosto, di facilitare gli ingressi legali, soprattutto i ricongiungimenti familiari. Ha ricordato ai repubblicani i successi ottenuti dalla sua amministrazione nel controllo delle frontiere. Non ha evitato di citare i rischi che il lavoro di irregolari comporta, per lo sfruttamento dei lavoratori stessi e per la concorrenza sleale degli imprenditori che li utilizzano. Ma ha pure osservato che è bene non enfatizzare il problema, anzi ha prospettato un rigoroso ma ampio programma di regolarizzazione degli irregolari. E negli Stati Uniti ce ne sono 11 milioni. Un approccio equilibrato - suggerisce Obama - consente di concentrare gli strumenti repressivi sul pericolo reale, quello dei delinquenti. Concentrando gli sforzi l’amministrazione Obama è riuscita ad aumentare del 70% l’espulsione di spacciatori e malfattori vari. Il Presidente ha parlato così perché l’America sa di essere un Paese di immigrazione e ne è fiera, mentre l’Europa, nonostante episodici proclami, non vuole ancora accettarlo. E sbaglia, perché nell’ultimo decennio come bacino di immigrazione ha superato decisamente gli Stati Uniti.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #19 inserito:: Maggio 25, 2011, 04:30:29 pm »

25/5/2011

Anche i cattivi alla fine sono buoni


GIOVANNA ZINCONE

Per buonismo si intende quell’insieme di lassismo e di eccessive generosità a favore di minoranze svantaggiate. Chi usa il termine - ovviamente per biasimarne la pratica - mai lo utilizzerebbe a proposito di lassismo o eccessive generosità a favore di appartenenti alla maggioranza, specie alla componente benestante, come i condoni fiscali o edilizi.

Il buonismo, considerato appannaggio del centrosinistra, di fatto lo attraversa come un’incrinatura, perché non pochi dei suoi esponenti lo ritengono responsabile delle proprie sconfitte elettorali. Al contrario, quando provvedimenti simili, come le regolarizzazioni di massa di immigrati, sono varati da governi di centrodestra non si parla mai di buonismo, né se ne paventano i costi elettorali. Ma un’incrinatura di segno opposto attraversa pure il centrodestra.

Infatti lì c’è chi punta sul «cattivismo», cioè sul fare ricorso ai cattivi sentimenti e alla faccia feroce, pensando anche che, rispetto alla banalità del bene, le attitudini da spiriti robusti esprimano una superiore intelligenza.

Può darsi che questa tattica continui a spostare un po’ di voti nell’immediato, ma produce pesanti contraddizioni interne e costringe a vistose retromarce. La campagna elettorale milanese esemplifica bene i problemi del cattivismo. Il candidato Pisapia è accusato di voler consentire la costruzione di una moschea. Intanto il nostro Paese ha ottenuto un seggio alla Commissione straordinaria per la tutela e la protezione dei diritti umani dell’Onu e il ministro Frattini, non arruolato tra i cattivisti, ha dichiarato che «l’Italia intende farsi portatrice di una visione dei diritti umani improntata ad alcuni temi prioritari» e ha citato come primo obiettivo «la promozione della libertà di religione e di culto». È lecito chiedersi se questa priorità debba valere anche nel nostro Paese, nella città di Milano.

Poter usufruire di luoghi di culto adeguati è un elemento essenziale della libertà religiosa. Lo hanno ribadito, proprio a proposito del progetto di moschea milanese, il cardinale Tettamanzi e, a nome della Conferenza episcopale, il segretario generale monsignor Cruciata. Si tratta di una reazione prevedibile, perché sarebbe contraddittorio per chi rivendica questo diritto per le minoranze cristiane nel mondo, come fa giustamente la Chiesa cattolica, negarlo ai musulmani che stanno da noi. A tale banale argomentazione, il «lucido» cattivismo ribatte che le moschee sono sedi di terrorismo, mentre le chiese non lo sono e non lo sono mai state. Bisogna però ricordare che in un passato non remoto i papisti venivano considerati nel mondo protestante come pericolosi sovversivi; quanto ai rischi di trame islamiste si deve osservare che, se e quando le moschee fossero pure focolai del terrore, avrebbero il vantaggio, già sperimentato, di essere facili da monitorare e infiltrare. Di norma, però, oltre a essere luoghi di culto, erogano e facilitano l’accesso ai servizi, quindi sono potenziali strumenti di integrazione. Talora fungono persino da ponti tra culture, in particolare lo sono proprio le grandi moschee come quella di Parigi, che ha favorito l’emergere di un Islam francese non prigioniero del fondamentalismo.

Per il cattivismo un bersaglio ancora più facile dei musulmani è rappresentato dai rom e sinti, minoranza piuttosto impopolare, per la verità non senza qualche fondato motivo. Ed ecco che la campagna elettorale milanese propone puntualmente l’incubo della metropoli lombarda trasformata in zingaropoli. Lo sprovveduto candidato buonista vorrebbe niente meno che trovare una sistemazione abitativa per i rom, magari coinvolgendoli nella costruzione dei loro alloggi. La strategia dell’autocostruzione, dove è stata provata come nel caso Dado in Piemonte, ha avuto un buon successo. Alla base di questa come di altre misure di integrazione dei rom c’è l’idea che aiutarli ad avere una vita decorosa serva anche all’intera comunità: a liberare forza lavoro (oggi il tasso di disoccupazione tra i rom supera il 70 per cento), a drenare un fertile terreno di devianza. L’istruzione è comunemente considerata lo strumento principe dell’integrazione, e quella rom è una minoranza fatta di moltissimi ragazzi e bambini in età scolare. Da una recente rilevazione campionaria della Croce Rossa emergeva che quasi il 43 per cento dei rom aveva meno di sedici anni e che oltre il 29 per cento era sotto gli 11. Per minori che vivono in campi igienicamente disastrati, non collegati con mezzi di trasporto, l’istruzione è un’impresa. Infatti sono particolarmente alti tra i rom gli abbandoni scolastici e i ritardi. Sui bambini, anche i cattivisti sono costretti al cordoglio quando qualcuno brucia o soffoca in catapecchie o camper riscaldati con la carbonella. Tutti concordano sulla necessità di trovare alternative ai campi fatiscenti. E, al di là della retorica feroce esibita sotto elezioni, chiunque assuma posizioni di governo, al centro o in periferia, di fatto deve affrontare il problema e, a prescindere dal partito o dalla coalizione di appartenenza, lo fa. Magari non subito, perché appena arrivato al potere deve pagare la cambiale emessa ai suoi elettori, e per farlo smantella campi senza troppo giudizio. Ma poi deve pensare a dove destinare decentemente i loro abitanti, quindi investe risorse. Ci sono anche fondi europei disponibili per integrare i rom. Il commissario Ue Andor, responsabile per l’occupazione, gli affari sociali e l’inclusione, ha espressamente invitato gli Stati membri a utilizzare i fondi strutturali per migliorare le condizioni di vita di queste minoranze. L’Italia ne utilizza ancora pochi, ma più per difficoltà burocratiche che per avversione ideologica. Comunque, amministrazioni e governi non solo di centrosinistra, ma anche di centrodestra, stanziano, assegnano e spendono fondi per rom e sinti. La commissione straordinaria per la tutela dei Diritti umani del Senato ha prodotto un importante documento conoscitivo sulla condizione dei rom e sinti approvato all’unanimità. Se ne consiglia la lettura.

Nella fase preparatoria la commissione ha compiuto varie audizioni. In una di queste il prefetto di Roma Pecoraro ha dichiarato: «Ad oggi abbiamo potuto disporre complessivamente di circa 32 milioni di euro (…). Nello specifico i fondi erogati dal ministero ammontano complessivamente a 19 milioni e 447.000 euro, quelli della Regione Lazio a 5 milioni e i fondi messi a disposizione dal Comune di Roma sono pari a circa 7 milioni e 900.000 euro».

Insomma, anche coloro che in campagna elettorale demonizzano stanziamenti in bilancio per rom e sinti, quando devono amministrare sul serio destinano denaro pubblico per farlo. Viene il dubbio perciò che il cattivismo sia, alla fin fine, anche più impraticabile e irrealistico del buonismo. Certamente è più antipatico.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #20 inserito:: Giugno 20, 2011, 08:37:04 am »

19/6/2011

Il buon cibo che serve all'Italia

GIOVANNA ZINCONE

La politica in difficoltà rischia di produrre junk food, cibo spazzatura che riempie e non nutre. Deve sfamare l'elettore inquieto con decisioni magari poco utili, alla lunga persino nocive ma attraenti. Le misure adottate, o anche solo annunciate, devono essere apparentemente sazianti, e soprattutto vistosamente confezionate. I piatti forti del momento sono due, tasse e immigrazione con contorno di pezzetti ministeriali al Nord. Non è detto che il contenuto sia sempre nocivo: qualche volta semplicemente non corrisponde all'etichetta.

Questo è il caso del decreto sul rimpatrio degli irregolari approvato il 16 giugno. Nell'involucro appaiono gli intenti severi. Il decreto viene presentato al pubblico di Pontida con l'allettante promessa di ridurre l'immigrazione clandestina e di farlo a muso duro. Di fatto, la parte che prevede una stretta repressiva avrà effetti limitati, mentre non sono poche le misure che renderanno la vita degli immigrati, anche degli irregolari, meno aspra.

Il decreto ristabilisce sì la possibilità di espulsione immediata e coatta degli irregolari, ma la circoscrive a casi specifici.

Il provvedimento più vistoso, quello che ha scatenato le indignate proteste dell'opposizione e dell'associazionismo, prevede l'aumento fino a 18 mesi del tempo di custodia nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione. È un aumento consentito, come tetto massimo, dalla direttiva europea del dicembre 2008 sui rimpatri degli irregolari. E si tratta del terzo incremento introdotto dal centro-destra rispetto agli iniziali 30 giorni della legge Turco-Napolitano: nel 2002 il tetto è salito a 60 giorni, nel 2009 a 6 mesi. Quest'ultimo scatto ha fatto aumentare del 40% le identificazioni, ma dubito che quello nuovo produca simili effetti: se non si individuano gli estremi di una persona in 6 mesi è difficile riuscirci nei tempi supplementari.

E 18 mesi rappresentano comunque una privazione della libertà del tutto sproporzionata rispetto all'infrazione commessa: reati come il furto o la truffa sono punibili da 6 mesi a 3 anni di carcere, ma un incensurato se la può cavare con meno del minimo. Per chi crede che rinchiudere sia comunque un buon rimedio, il problema della congruità del danno inflitto non si pone. Di qualcosa altro però anche lui dovrebbe preoccuparsi. I Cie ospitano già troppe persone che ci vivono in condizioni di degrado. Si può reggere l'ulteriore affollamento derivante dall'allungamento dei tempi senza rischiare altre sommosse? Il bilancio dello Stato e quello specifico del ministero dell'Interno sono alla disperata ricerca di fondi: si può tenere un anno in più nei Cie un soggiornante che costa da 40 a 50 euro il giorno? La risposta è un doppio «no».

Anche l'associazione nazionale dei funzionari di polizia non crede alla promessa di Maroni di riuscire a espellere tutti alzando il tetto a 18 mesi, anche loro paventano rivolte. Ma il decreto non impone di rinchiudere tutti gli irregolari intercettati, né di espellerli coattivamente. Nei casi non pericolosi, il Cie e le espulsioni forzate si evitano e si applica il foglio di via; nel tempo necessario al rimpatrio il questore può imporre misure di garanzia come la consegna del passaporto o l'obbligo di dimora. Il decreto è insomma meno feroce di quanto voglia far credere. Per esempio, agevola l'ingresso e il soggiorno dei familiari stranieri dei cittadini comunitari. E chi infrange le misure alternative imposte, chi non se ne va a tempo debito, chi rientra di nuovo irregolarmente, non è più punito con il carcere, ma solo con un'ammenda. Certo, anche queste cifre (da 3 mila a 18 mila euro) sono sproporzionate, quando in Italia per lesioni colpose gravissime si pagano da 309 a 1239 euro. Ma sappiamo che i nullatenenti comunque non pagano, per il buon motivo che non possono. Dubito quindi che dagli irregolari ribelli si possano spremere grandi multe.

La principale ragione per la quale nella minacciosa scatola del decreto si trovano nascoste anche misure che stemperano le politiche repressive non è un accesso di resipiscenza buonista. Il fatto è che il decreto, come dice il suo titolo, attua due direttive comunitarie. Il governo ne ha dovuto tenere conto anche perché una sentenza della Corte di giustizia europea del 28 aprile ha invitato il legislatore italiano ad adeguarsi. Lo ha fatto rigettando la pena del carcere per irregolari recidivi, ed è ovvio che dopo questa tirata di orecchie tutto l'impianto andava cambiato. Ma la sindrome junk food impone, nel vituperato decreto, una forma più dura della sostanza.

Sempre con l'intento di quietare i malumori dei propri elettori, molti esponenti del centrodestra prospettano una mossa che potrebbe rivelarsi un junk food assai più preoccupante di quello migratorio: tagli fiscali non bilanciati da altre entrate e da consistenti riduzioni di spesa. L'effetto di provvedimenti del genere potrebbe essere devastante. Il presidente dell'eurogruppo Jean-Claude Juncker ha appena ricordato che siamo tra i Paesi a rischio di contagio per l'eventuale crac greco. Il Fondo monetario internazionale ci ha appena fatto osservare che il nostro debito pubblico è troppo alto e non accenna a diminuire.
Moody, pur mantenendo un giudizio relativamente ottimista sulla tenuta dei conti, minaccia di abbassarci il voto se non prendiamo provvedimenti; Standard & Poor’s lo ha già abbassato. Qualunque persona responsabile sa che non si possono tagliare le imposte se questo implica l'incremento del deficit, e quindi del debito. D'altra parte, è urgente curare la debolezza della nostra crescita economica con consistenti apporti proteici. L'Italia oggi non può permettersi junk food, ma non può neppure aspettare. Ha bisogno di fast food di qualità che combinino con equilibrio tagli di spesa, nuove entrate e incentivi alla ripresa. Dovrebbe evitare di spendere soldi in provvedimenti costosi e di dubbia utilità come l’apertura di sedi di rappresentanza ministeriali al Nord.

Le misure serie che si potrebbero adottare sono state suggerite da più fonti, anche in questo giornale, in particolare da Mario Deaglio, che ha proposto tra l'altro di vendere parte della nostra riserva di oro. Un'ottima proposta che andrebbe seguita anche dalla Bce per liberare risorse da investire in infrastrutture che darebbero lavoro ai cittadini dei Paesi membri. Restando al nostro Paese, si tratta non solo di colpire ulteriormente l'evasione, ma di eliminare privilegi ed esenzioni. Bisognerebbe snellire le istituzioni riducendo drasticamente il numero dei comuni e delle province, se proprio non si riesce a eliminarle. Si dovrebbero ridurre costi e numeri del ceto politico, se non altro per dare il buon esempio. L'Italia ha un disperato bisogno di misure urgenti che incidano sul precariato e la disoccupazione giovanile, il costo del lavoro va alleggerito per favorire investimenti e consumi. Quindi certo le imposte devono essere sforbiciate, ma è questione di sequenze e selezione: lo si può fare solo quando si siano acquisite entrate e tagliate spese.

Per continuare con l'allegoria della ristorazione, l'economia italiana non può neanche permettersi di ignorare lo slow food, in particolare le lunghe cotture: gli investimenti sui nodi strutturali del Paese, che sono essenzialmente l'istruzione, la ricerca, l'energia, la lotta al crimine organizzato, la radicale revisione delle procedure burocratiche, perché da questi interventi dipende il nostro futuro. Quella che dovremmo praticare è una dieta fatta sia di tagli sia di investimenti mirati, una dieta per l'oggi e per il domani. Credo sia sana, ma non particolarmente gradita al palato di una parte cospicua della classe politica e probabilmente dei cittadini. Non è facile quindi individuare una maggioranza sociale e politica capace di assumersi lo sgradito compito di imporla. Certo non può essere una minoranza di governo risicata o ostaggio di populismi di qualunque colore. In fondo a suo tempo gli italiani votarono a favore dell'abolizione della scala mobile, forse è possibile risvegliare quel senso di responsabilità collettiva. Ma le diete necessarie ce le facciamo prescrivere solo da medici competenti e fidati.

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« Risposta #21 inserito:: Luglio 10, 2011, 04:01:00 pm »

10/7/2011

La lezione delle "nonne"

GIOVANNA ZINCONE

Il movimento delle donne riprende finalmente fiato: le manifestazioni di febbraio e le assise di Siena di questi giorni lo testimoniano. Auguriamoci però che funzioni meglio del suo antenato prossimo. Il femminismo degli Anni Settanta è stato come l’algebra: erano poche quelle che sapevano insegnarlo, non abbastanza quelle che avevano voglia di impararlo.

Una quota troppo significativa delle femministe di allora era assorbita dall’autocoscienza in piccoli gruppi, talora persino impantanata in astruse teorie che si sforzavano di dimostrare l’insuperabile differenza tra i sessi allo scopo di promuovere la separazione culturale e politica dal mondo maschile. Ma questo femminismo troppo introverso e isolazionista ha avuto il grande pregio di rivendicare autonomia e dignità. E, nell’insieme, nonostante questi limiti, il femminismo delle nonne - come hanno ricordato ieri Mariella Gramaglia su «La Stampa» e Benedetta Tobagi su «Repubblica» - ha ottenuto molto. Ma i successi pratici si devono soprattutto ad un’altra componente, quella pragmatica: alle reprobe che hanno dirazzato portando istanze femministe nei partiti e negli organismi rappresentativi, magari alleandosi con maschi non necessariamente radicali, ma fautori della parità di genere. Ad esempio, la riforma del diritto di famiglia, che ha decisamente riequilibrato i rapporti tra i coniugi, è stata frutto anche dell’impegno e della collaborazione di un pregevole studioso e politico moderato come Paolo Ungari.

A partire dagli Anni Settanta la componente pragmatica è andata avanti ottenendo molto sotto il profilo dei diritti: basti ricordare l’ingresso in carriere tipicamente maschili come le Forze Armate o l'introduzione di nuovi strumenti contro la violenza sessuale e contro le molestie reiterate. Tuttavia molto resta da fare su quello stesso piano dei diritti e ancor più sul piano della dignità culturale dove più forte era stato l’impegno dell’altro femminismo, quello isolazionista. Anche in tempi recenti comportamenti inaccettabili, azioni inopportune o compiacenti reazioni segnalano l’insufficienza dell’impatto del femminismo pragmatico sul piano culturale, in particolare in alcuni Paesi europei.

La diagnosi si applica pure a partiti progressisti che hanno preteso di interpretare il ruolo di super-paladini della parità di genere. In Francia Dominique Strauss-Kahn, candidato in pectore del Partito socialista alla Presidenza della Repubblica, sarà forse assolto dalle infamanti accuse di stupro, ma difficilmente potrà togliersi di dosso la fama di molestatore. A quanto pare, però, nei circoli influenti queste scomposte pulsioni erano note ed evidentemente tollerate. Non costituivano un impedimento alla candidatura di Dsk a cariche pubbliche di massimo livello. Infatti, appena il castello accusatorio per il reato di stupro ha cominciato a scricchiolare a New York, dalla Francia sono arrivate immediate offerte di rimandare i termini di iscrizione alle primarie che sceglieranno il candidato socialista alle prossime elezioni presidenziali.

Questa subitanea esuberanza di fair play non ha coinvolto solo il concorrente maschio Hollande, ma anche le due donne: Martine Aubry e Ségolène Royal. I limiti del femminismo pragmatico si rivelano, insomma, quando si tratta di anteporre la dignità femminile alla logica di partito. Insomma il femminismo pragmatico si è occupato più della parità di diritti, sulla quale era più facile trovare alleanze, che di pari dignità. Anzi, sotto il manto pragmatico delle pari opportunità, qualche donna ha ottenuto qualcosa e ceduto molto sul piano del rispetto personale. La pari dignità è un obiettivo sul quale si incontrano non solo resistenze maschili, ma anche compiacenti disattenzioni femminili.

Conferma questa tesi la strategia pubblicitaria adottata in tempi recenti da un giornale progressista, «L’Unità», all’epoca dei fatti diretto da una donna. Questi casi, che hanno molto infastidito il nuovo movimento femminista di «Se non ora quando?», toccano un aspetto assai meno pesante rispetto alle molestie sessuali in Francia, e però fastidioso: l’uso consumistico dell’immagine femminile. Ottobre 2008: «L’Unità» in nuova veste grafica è infilato in una tasca strategicamente piazzata sul didietro di una minigonna, e allegoricamente si presenta come «nuova, libera, mini».

La direttrice sotto attacco risponde che anche Gramsci, il fondatore del giornale, avrebbe approvato, «perché il corpo di una donna questa volta viene usato per pubblicizzare un prodotto intellettuale. Mi sembra pertinente. È molto peggio quando è utilizzato per accompagnare la pubblicità di un’auto o di un detersivo per i piatti». Mah? In questo caso si tratta di un’autocitazione di Oliviero Toscani, la vecchia pubblicità dei Jeans Jesus: micro calzoncini siglati con il dissacrante «Chi mi ama mi segua». Giugno 2011: torna la polemica con la pubblicità del festival dell’Unità di Roma, dove il felice slogan «Cambia il vento» fa alzare le gonne di una giovinetta. Qui la citazione è di Marilyn Monroe in «Quando la moglie è in vacanza». Messaggio progressista? Marilyn fu attrice del tutto deliziosa, ma i suoi unici ruoli politicamente memorabili restano quelli erotici con entrambi i fratelli Kennedy. La comunicazione contemporanea ama farcirsi di allusioni sexy e citazioni del passato. Ma che almeno ci sia risparmiata nella politica.

«Se non ora quando?» è un movimento pragmatico, ma trova la sua spinta iniziale proprio nella rivendicazione di pari dignità. Ma temo che per ottenere risultati in quel campo non bastino movimenti, e serva una massa critica di donne comuni capaci di farsi rispettare. Bisogna però augurarsi che il nuovo movimento riesca a suscitare una diffusa radicale richiesta di rispetto. A partire da Siena «Se non ora quando?» appare anche impegnato a far progredire il lavoro del femminismo pragmatico: trovare obiettivi comuni, individuare priorità. Se torniamo al confronto con la Francia ci accorgiamo che, se sul piano della pari dignità non sono molto avanti a noi, lo sono certo su quello delle pari opportunità. Faccio l’esempio più lampante: la maternità.

Obiettivo prioritario per il femminismo pragmatico italiano è la conciliazione tra famiglia e lavoro. La Francia (non ai primissimi posti in Europa) spende comunque più del doppio dell’Italia per i nidi. Il 78% delle mamme francesi con 2 figli lavora, mentre delle italiane nella stessa condizione lavora solo il 54,1%. Lo squilibrio di genere nei tassi di attività nel nostro Paese (73,4% maschi, 51,7% donne) è decisamente più ampio che oltralpe (74,8% e 61,6%), e rappresenta un grosso vincolo per le nostre potenzialità di crescita economica. Al nuovo movimento italiano resta un sacco di lavoro da fare. Gli auguro di riuscire a farlo dosando con accuratezza il meglio dei due femminismi delle nonne: l’attenzione alla dignità di quello radicale, la capacità di raggiungere risultati di quello pragmatico.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8961&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #22 inserito:: Luglio 17, 2011, 07:00:10 pm »

17/7/2011

Il Paese dei liberali immaginari

GIOVANNA ZINCONE

Il fatto che il tuo avversario abbia torto non significa che tu abbia ragione.
Questo grano di saggezza di origine anglosassone purtroppo non ha prodotto ricche messi. Alcuni liberali più o meno doc paiono non aver colto una tale incongruenza logica: Il fatto che Marx avesse torto non vuol dire che Hayek avesse ragione. Che sia impossibile raggiungere una condizione di piena uguaglianza economica e di conseguente piena libertà politica, come pretendeva Marx, non vuol dire che muoversi sulla strada di una maggiore uguaglianza comporti un necessario scivolamento verso la pianificazione centralizzata e una perdita di libertà politica, come credeva Hayek e come, ancor oggi, credono i suoi epigoni.

Purtroppo, anche in occasione del recente dibattito sulla manovra finanziaria, la confusione logica tra torto dell’uno e ragione dell’altro - seppure senza riferimento esplicito ai due maestri - è tornata in campo. Sul banco degli accusati troviamo gli eccessi ugualitari del nostro Welfare che la finanziaria non correggerebbe restando così intrappolata nel deficit. E come origine del male e pietra dello scandalo vediamo citato l’articolo 3 della nostra Costituzione. «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza di cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione economica del Paese».

La diagnosi ingloba almeno due errori: il primo è che l’articolo 3 contrasti con una possibile interpretazione liberale del ruolo dello Stato; il secondo è che questa finanziaria sia sbagliata perché conferma gli eccessi ugualitari dell’intervento pubblico. Primo errore. L’articolo 3 non indica come meta verso cui dirigersi una marxista utopia di uguaglianza, non invita le politiche pubbliche italiane a produrre in prospettiva una situazione in cui le classi sociali evaporino e tutti i cittadini abbiano parità di redditi e di beni. Propone, al contrario, di «rimuovere gli ostacoli» che impediscono lo sviluppo della persona, non qualunque diseguaglianza. Indica quindi l’esigenza che non sussistano situazioni di intollerabile privilegio e forti disparità nei punti di partenza.

È una ricetta che dovrebbe solleticare i palati liberali: non obbligo i cittadini a realizzarsi a modo mio, ma li metto il più possibile in condizione di farlo a modo loro. Senza scomodare il liberale progressista Rawls, che considera eticamente accettabili solo le disuguaglianze che generino maggiore benessere per i più poveri, ricordiamo gli scritti e le prese di posizione di Dahrendorf: quella che propone è l’uguaglianza rispetto delle Life chances, delle opportunità di vita. Proprio in quest’ottica Dahrendorf ha dedicato particolare attenzione, anche nella sua attività politica, all’istruzione. Un settore al quale certi liberali odierni i danno poco peso. Dahrendorf, inoltre, già negli anni Ottanta in Al di là della Crisi criticava sì il «consenso socialdemocratico» che aveva dominato a lungo su tutti i partiti democratici europei, liberali inclusi, ma lo faceva perché questa politica aveva espanso il Welfare in modo irrazionale e con strumenti sbagliati, creando gruppi iper-protetti e gruppi senza protezione.

Il percorso imboccato dalla manovra finanziaria merita di essere ripensato e corretto in base alla ricetta liberale: non solo spendere meno, ma prelevare e spendere in modo più equo; non cercare eguaglianza attraverso nuovi vincoli, ma rimuovere quelli vecchi che limitano le opportunità e ingessano immotivati privilegi.

Secondo errore. La manovra non è abbastanza severa perché vuole essere troppo ugualitaria. Non è vero. Il suo nucleo incorpora, al contrario, alcuni strumenti destinati a incidere in modo tendenzialmente regressivo su redditi e patrimoni, a colpire cioè più intensamente se non le fasce più povere, almeno quelle intermedie rispetto ai redditi più alti.

Vanno in questa direzione i tickets e i tagli orizzontali sulle detrazioni, come hanno già osservato diversi analisti. E vanno in questa direzione anche le norme relative all’imposta sul deposito titoli, che è marcatamente progressiva fino ai 500.000 euro, con i soliti effetti iniqui che derivano dalle soglie (chi sta subito sotto gode, chi sta subito sopra piange), per poi diventare piatta, e quindi sempre meno rilevante per i grandi patrimoni. L’effetto iniquo della soglia vale anche per il blocco all’adeguamento delle pensioni. L’esenzione dell’Ici sulla prima casa e sulle abitazioni utilizzate come prima casa da figli e parenti stretti dei proprietari non è stata introdotta ora, ma non è stata nemmeno ritoccata. Si tratta di un’altra norma che premia i più abbienti, perché le somme che dovrebbero pagare per le loro lussuose case sono molto più alte.

Però anche la disuguaglianza è utile, presenta infatti un importante aspetto positivo: spinge a fare e premia il merito. Questo versante della disuguaglianza è molto apprezzato dai liberali: guadagni pure di più e rivesta ruoli più importanti chi è più capace e produttivo, l’intera società se ne gioverà. In un’ottica utilitarista non si vede però a cosa serva la dicotomia tra lavoratori inamovibili e ben pagati, da una parte, e lavoratori precari e poco pagati, dall’altra. Dal momento che le due categorie operano fianco a fianco nelle stesse amministrazioni, nelle stesse imprese, negli stessi media e la categoria dei protetti non è necessariamente più meritevole né più produttiva dell’altra. Non si capisce quale sia l’utilità economica e sociale di questa disuguaglianza. Al contrario, quando si attribuisce un’eccessiva sicurezza «a un determinato gruppo, l’insicurezza del resto della popolazione non può che aumentare» e non è un bene per nessuno, cito Hayek. Sulle diseguaglianze create e tutelate dall’ordinamento, sulle nicchie di rendita sociale che distribuiscono in modo insieme iniquo e inefficiente sicurezza e insicurezza, insomma sulle diseguaglianze certamente illiberali, poco o nulla è stato fatto. Latitano o si ammorbidiscono le misure volte ad abbattere ostacoli corporativi allo svolgimento delle attività economiche e professionali.

Insomma, l’accusa rivolta a destra e sinistra da alcuni liberisti nostrani, di gonfiare il Welfare e di far proliferare regole per rincorrere un assurdo obiettivo di uguaglianza, dovrebbe essere riformulata. Il Welfare è stato spesso gonfiato a sproposito, nuove regole sono state imposte e vecchie regole non sono state soppresse soprattutto allo scopo di difendere piccoli e grandi privilegi.

Il governo è intervenuto in fretta e l’opposizione non lo ha ostacolato perché era giusto e necessario agire subito. Ma sull’insieme delle strategie di fondo le forze politiche oggi in campo hanno bisogno di tornare a riflettere. Devono chiedersi quale Italia vogliono, con quali credibili strumenti intendono costruire un Paese meno antiquato ed iniquo, più capace di premiare merito e produttività senza però abbandonare i troppo deboli. Devono pensare con quali convincenti motivazioni possono costruire consensi intorno alle strategie che intendono adottare. E tutto questo, prima o poi, dovrebbero anche dircelo.

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« Risposta #23 inserito:: Luglio 20, 2011, 10:20:44 am »

20/7/2011

Liberismo non sempre vuol dire libertà

GIOVANNA ZINCONE

Nel mio articolo di domenica non prendevo spunto da un' immaginaria opinione espressa da un immaginario liberale, come ipotizza Mingardi nella sua lettera di ieri al direttore: mi riferivo al concreto editoriale di un autorevole opinionista de Il Corriere della Sera. Si tratta peraltro di un amico, Piero Ostellino, con il quale ho condiviso una comune esperienza liberale. Il primo rilievo che mi era sembrato utile fare all'editoriale del Corriere riguardava la colpevolizzazione, a mio parere ingiustificata, dell'articolo 3 della Costituzione. Quell'articolo, che invita a limitare gli ostacoli che limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, verrebbe preso troppo sul serio da un'ipotetica e trasversale ideologia egualitaria e starebbe quindi alla radice della malformazione del Welfare italiano e quindi della sua insostenibile espansione. Le cose non stanno così. Il nostro stato sociale ha deboli radici egualitarie, incorpora inaccettabili privilegi, tutela poco chi è fuori del sistema e non si preoccupa certo di garantire una base di pari opportunità. E la manovra da poco varata, osservavo - e Mingardi concorda nulla fa per rimediare a questi vizi, anzi li aggrava in più punti. Proprio la scarsa equità della manovra - resa manifesta dalla imbarazzante tutela dei privilegi di singoli ceti, in particolare di quello politico la rende meno accettabile, ed è quindi una delle ragioni, anche se certo non la sola, del suo fin qui inadeguato impatto.

Il secondo motivo di dissenso riguarda la tesi secondo la quale un sistema economico caratterizzato da una sostenuta redistribuzione delle risorse anche attraverso la leva fiscale sia necessariamente fragile, incapace di crescere e quindi destinato a incassare le dure smentite del mercato, se non della storia. Su questa tesi concorda pure Mingardi. Tuttavia l'esperienza recente, così come le tendenze di lungo termine provano il contrario: si sono dimostrati più solidi e capaci di crescere alcuni paesi del Nord Europa caratterizzati rispetto a noi da livelli di tassazione non inferiori e da policies più egualitarie, ma al tempo stesso molto più attenti a evitare sprechi, a salvaguardare il corretto funzionamento del mercato, a fornirgli strumenti idonei. Aggiungo che attualmente le economie in più forte crescita, i famosi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) non seguono certo ricette liberiste. Basti vedere come li colloca bassi in classifica l'Index of Economic Freedom del 2011.

Concludo con un'ultima osservazione: non solo non è vero che più liberismo implichi necessariamente più crescita, ma non si accompagna neppure sempre a maggiore libertà politica. In cima alla classifica delle libertà economiche mondiali, con un brillante secondo posto, troviamo un stato come Singapore ed un ottimo piazzamento (decimo su 179) spetta al Bahrain. Sono luoghi dove un liberale attento alle libertà classiche non vorrebbe certo vivere: quindi - ne sono sicura - neanche Mingardi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8997
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 12, 2011, 09:11:04 am »

12/8/2011

Ma l'Italia è un'altra storia

GIOVANNA ZINCONE

La coesione sociale è un guscio fragile, costantemente attraversato da rischiose incrinature sociali. A volte basta un colpo per romperlo. Ci sono anche in Italia le condizioni perché si verifichi un’esplosione all’inglese?

Per rispondere si può cominciare osservando - come è stato fatto da vari commentatori - che i rischi di deflagrazione aumentano quando le incrinature si sovrappongono: ad esempio quando la marginalità sociale e culturale riguarda ceti in difficoltà e minoranze etniche che si concentrano in pezzi di territorio. Ma, mentre a prima vista la rivolta inglese pareva avere una connotazione etnica, si è poi capito che il colpo iniziale dell’uccisione del ragazzo afro-caraibico ha solo dato l’avvio a un’orgia di rabbia e di giocosi saccheggi, una scorribanda senza confini razziali e alla quale hanno partecipato persino persone mature e gente non priva di mezzi.

Concentriamoci, però, sull’avvio, e cioè sul rischio che in Italia possa verificarsi un’esplosione che abbia radici etniche. Se questo è il quesito, più che chiedersi «capiterà anche a noi?», si dovrebbe osservare che un po’ è già capitato. Qualche assaggio della sindrome «esplosione da concentrazione etnica» in Italia lo abbiamo già avuto. Basti ricordare le rivolte dei negozianti cinesi concentrati a Milano nella zona via Paolo Sarpi o quella dei braccianti neri a Rosarno. C’erano le incrinature, i cattivi rapporti dei cinesi con i vecchi abitanti del quartiere, lo sfruttamento estremo dei lavoratori africani. In entrambi i casi però la rottura è avvenuta in seguito ad un colpo esterno. All’origine della rivolta di Chinatown c’è una vigile forse troppo zelante e - secondo la comunità cinese - persino aggressiva. In Calabria, a far scattare la molla è stato il tragico tiro al piccione contro gli immigrati organizzato da malavitosi locali. Le sommosse inglesi di questi giorni e quelle nelle banlieue francesi del 2005 sono state entrambe quantomeno innescate dall’uccisione ingiustificata di un giovane appartenete alle minoranze. Per abbassare i rischi di esplosioni bisognerebbe quindi non solo tenere sotto controllo le incrinature sociali (cosa tutt’altro che semplice), ma anche prevenire i contraccolpi di azioni sbagliate. Una polizia rispettosa e ben addestrata è una condizione necessaria ad evitare abusi e conseguenti reazioni. Nelle devastazioni degli stadi così come nelle evoluzioni violente di manifestazioni politiche si assiste ad una guerra tra ribelli e forze dell’ordine. Non si giustificano i ribelli, se si osserva che a volte la scarsa esperienza delle forze dell’ordine, come nel caso delle sommosse inglesi di questi giorni, non aiuta. In Italia il reclutamento nella polizia prevede test e colloqui che dovrebbero verificare capacità di mantenere equilibrio anche in condizioni di forte stress. Non è chiaro però quanto funzionino. È evidente, comunque, che non si può puntare solo su una repressione per quanto ben temperata e temprata.

La ricetta classica per la gestione dei conflitti richiede anche interventi sociali che ammorbidiscano i motivi di rivolta dei potenziali ribelli. Come ci hanno insegnato le ricerche di sociologia storica, quelle di Alber e Flora in primis, il primo serio Welfare nasce proprio per contenere i conflitti. Si tratta delle misure adottate nella Germania di Bismarck per tagliare l’erba sotto i piedi ai movimenti socialisti. Nei confronti dei quali il Cancelliere, prima di varare lo stato sociale, aveva adottato politiche repressive, ma non solo. Si deve anche all’intesa con Lasalle, il leader socialista morto prematuramente, l’introduzione del suffragio universale maschile assai prima che in altri Paesi europei. Tempi difficili richiedono strategie complesse.

Anche oggi in Italia, per affrontare i rischi di conflitti dirompenti, servirebbero accordi che affrontino la crisi senza limitarsi a tappare i buchi. Occorre danaro pubblico da investire non solo per far ripartire l’economia, ma anche contrastare emergenze sociali e di disuguaglianze generazionali destinate a peggiorare. E non si capisce come sia possibile recuperare oggi le risorse necessarie senza riformare la struttura delle pensioni e senza tassare i patrimoni. Ma serve anche altro: servono misure innovative che contribuiscano a dare la speranza di ottenere considerazione sociale e soddisfazione individuale senza il possesso di uno smartphone di razza e di sneakers di alta gamma. Nel 2005, Sarkozy come ministro dell’Interno non è andato per il sottile con la repressione delle rivolte nelle banlieues, né nei toni, né nei fatti. Però ai ragazzi residenti nei quartieri svantaggiati ha offerto una grande opportunità: l’accesso facilitato alle Università di pregio. È un esempio di misure che non bastano certo a riformare una cultura trasversale del consumo come involucro e terapia dell’io, ma cercano almeno di andare nella giusta direzione.

L’offerta di prospettive basate sull’impegno individuale, provvedimenti in grado di promuovere la mobilità sociale sono vie che l’Italia non ha mai imboccato. Per moderare le fratture esistenti dovrebbe iniziare a farlo, ad esempio con forti investimenti nell’istruzione, in particolare nella prima infanzia, quando si fondano le basi dell’apprendimento e si gettano i semi della morale collettiva. Se temiamo disordini dobbiamo tenere sotto osservazione l’impatto di quel tremendo «colpo esterno» che ci sta assestando la crisi economica. Ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che, sotto il profilo della coesione sociale, il colpo è aggravato dai fari accesi su incrinature pregresse. Cresce la consapevolezza sociale dell’esistenza di sprechi assurdi, di insopportabili privilegi, di disuguaglianze di reddito che ben poco hanno a che fare con il merito. Un forte colpo che si abbatte su gravi fratture sociali rappresenta l’habitat ideale per l’azione di gruppi violenti più o meno politicizzati, più o meno legati alla criminalità. Insomma ancora più che Londra dobbiamo temere Atene: più che sommosse di origine etnica che si trasformano in distruttivi uragani consumistici, dobbiamo temere manifestazioni di origine politica aperte ad infiltrazioni che degenerano in violenza, vandalismo, saccheggio. Possiamo sforzarci di prevenirle.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9084
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« Risposta #25 inserito:: Novembre 19, 2011, 12:10:52 pm »

19/11/2011

Porti il burqa? Non puoi vivere in Italia

GIOVANNA ZINCONE

I treni superveloci devono fare poche fermate e stare attenti anche alle piccole sbandate. L’osservazione si applica ovviamente al governo Monti. Deve evitare di perdere tempo su questioni marginali e spinose. Purtroppo non sempre potrà scegliere, perché dalla società civile, dal Parlamento, dalla magistratura qualche problema minore, qualche sasso sulle rotaie gli verrà piazzato. È utile che sia pronto a toglierlo di mezzo senza sbandare, senza abbracciare posizioni partigiane, un governo di larghe intese non può permetterselo.

Faccio un esempio di questioni oggi non in cima all’agenda politica, ma destinate a creare qualche fastidioso inciampo. Il velo islamico che fascia solo la testa è stato recentemente bandito da un tribunale torinese. Un testo base, approvato in Commissione e in arrivo in aula prima della caduta del governo Berlusconi, si occupava di vietare altri abbigliamenti: il niqab che copre tutto il corpo lasciando libera una fessura per gli occhi e il burqa che cela con una retina anche quella rischiosa fonte di ammiccamenti. È bene non confondere le due questioni: foulard e burqa non sono la stessa cosa. Equiparandolo al velo delle suore, due circolari nel 1995 e nel 2000 hanno esplicitamente consentito il foulard. Il solo articolo 129 del codice di procedura civile a cui si è appigliato il puntiglioso giudice subalpino continua a pretendere il capo scoperto nelle aule dei tribunali. Tuttavia non solo suore, ma anche carabinieri ed ebrei con la kippà non hanno mai subito questa ingiunzione. Del caso si occuperà il Consiglio Superiore della Magistratura. Speriamo che dia il buon esempio: il velo è già abbastanza diffuso e una sua superficiale repressione può creare seri problemi. Quanto al burqa e al niqab, partiamo da una constatazione di fatto: quante donne totalmente velate si vedono in giro? Anche in futuro è improbabile che frotte di involucri neri emigrino in luoghi abitati da impudiche cristiane. Non siamo dunque di fronte a un’emergenza, ma c’è chi si diverte a inventarne di finte anche quando ce ne sono fin troppe di vere. Perciò è meglio affrontare tempestivamente la questione con un approccio morbido. E questo invita a ragionare di tolleranza.

Tollerare significa consentire idee e comportamenti che non piacciono per niente. Questo principio cardine dei regimi liberali è una virtù difficile da praticare. D’altra parte, uno Stato che accetti solo credenze e pratiche gradite alla maggioranza si può forse definire democratico (se si regge sul libero consenso), ma non certo liberale. I regimi liberali sono dunque obbligati ad un’estrema pazienza, che però non è infinita. Anche i fautori della tolleranza mettono dei paletti.

Locke giustificava l’esclusione dei cattolici prevista dal Toleration Act del 1689 perché questi, più leali al Papa che alla Corona, erano possibili alleati di potenze straniere. Qui il paletto era la sicurezza dello Stato. Un altro illustre maestro della tolleranza, John Stuart Mill, ne ha piantato un altro: non provocare danni a terzi. Teorici piuttosto generosi della tolleranza non accettano neppure danni a carico di membri della stessa minoranza. Il principio è stato applicato nelle sentenze che hanno costretto Testimoni di Geova ad accettare trasfusioni necessarie alla sopravvivenza o al benessere dei figli. Libertà delle minoranze e vincoli sono iscritti in Convenzioni e Costituzioni, ma questo non risolve i conflitti. La loro interpretazione non è univoca e muta nel tempo. Le decisioni pratiche su dove piazzare i paletti restano quindi opinabili.

Anche oggi in Italia chi vuole vietare e chi vuole consentire il velo integrale si basa su valide motivazioni e su norme in vigore. I primi propongono di estendere alle coperture di origine etnica il divieto che già riguarda caschi e passamontagna, quando rendono difficoltosa l’identificazione. A rinforzare questa ragione di ordine pubblico torna la tesi di Locke: indossare niqab e burqa indica un’appartenenza a comunità potenzialmente sleali. Inoltre chi vuole metterli al bando rileva una forte lesione della parità di genere.

D’altra parte, chi vuole tollerarli si rifà al principio di Mill, quando osserva che non producono danni a terzi. A differenza di chi si copre il volto durante le manifestazioni per poter indulgere in azioni violente, nella velatura totale delle donne manca l’intenzione di nuocere, né è stata mai utilizzata di fatto allo scopo (almeno in Occidente). I critici del progetto di legge restrittivo sostengono, inoltre, che il danno che deriverebbe alle donne dal divieto sarebbe ben più grave di quello originato dal velo integrale: resterebbero recluse in casa. I contrari fanno pure osservare che, se è vero che Francia e Belgio hanno di recente messo al bando burqa e niqab, la Gran Bretagna si ostina a non farlo perché lo considera un divieto, secondo le dichiarazioni del ministro Greene, unbritish, cioè non consono alle tradizioni liberali del Paese. Le ragioni pro e contro appaiono dunque bilanciate e i riferimenti a principi e norme fondamentali insufficienti a dipanare la matassa. Se cerchiamo una soluzione di compromesso dobbiamo spostarci su un altro terreno e in un altro territorio.

Teorie della tolleranza più avanzate suggeriscono di evitare imposizioni. Meglio ricercare il dialogo, strategia ritenuta possibile dal momento che tutte le religioni contengono qualche principio liberale e di tutela della dignità femminile. Basterebbe farli emergere e lavorarci su per trovare una base comune, l’overlapping consensus, le aree di sovrapposizione dei valori di cui parla Rawls. L’invito al dialogo viene oggi dal presidente dell’Ucoii, la principale associazione musulmana. È forse la via da seguire per coloro che già risiedono stabilmente in Italia. In generale, purtroppo, la ricetta del dialogo per essere praticata richiede una condizione fondamentale: che la distanza culturale tra i dialoganti non sia abissale. Se invece l’abisso esiste, che fare? Reprimerli, se si tratta di abitanti stabili, costituisce un trauma sia per chi subisce il divieto, sia per lo Stato liberale che lo impone. Meglio traslocare il problema al momento del rilascio del permesso di soggiorno.

A torto o a ragione sempre più spesso i Paesi d’immigrazione cercano di anticipare le politiche d’integrazione, selezionando soggetti ipoteticamente più integrabili. Si tratta di una tecnica spesso inefficace e talvolta persino lesiva dei diritti umani, ma in questo caso potrebbe funzionare: se non troviamo un accordo sul fissare o meno il paletto burqa entro le nostre frontiere, proviamo a spostarlo fuori. È già in vigore in Italia l’Accordo di Integrazione in base al quale il permesso di soggiorno viene concesso solo a chi accetta la Carta dei valori condivisi, una carta elaborata nel 2007 su sollecitazione di Giuliano Amato, allora ministro dell’Interno. Tra i valori citati dalla carta si ribadisce in più punti la pari dignità e l’uguaglianza di diritti della donna dentro e fuori della famiglia, e il divieto di coercizione in tutti gli ambiti. Mi pare chiaro che chi imponga o indossi burqa e niqab dimostra di non accettare questi valori della carta, e quindi non possa ottenere un permesso di soggiorno. Non vedo come questa constatazione possa dividere destra e sinistra. Non reprime nulla, pone semplicemente una condizione che si può consapevolmente accettare o respingere. Basta dunque renderla più esplicita, come si è fatto con la poligamia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9453
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 29, 2011, 03:53:08 pm »

29/12/2011 -

2065, STRANIERI TRIPLICATI

Il nostro futuro multietnico

GIOVANNA ZINCONE

Bisogna smettere, e pure in fretta, di pensare l’italiano tipo come un individuo dotato di nonni nati in Italia. Questo è un messaggio chiave che trasmette il rapporto dell’Istat sul futuro della popolazione del nostro Paese. Infatti, a vivere in Italia nel prossimo mezzo secolo saranno sempre di più persone e famiglie che hanno origini straniere, più o meno lontane nel tempo. E fin d’ora non sono poche. Già all’inizio del 2011 i residenti stranieri in Italia erano più di 4 milioni e mezzo, cioè il 7,5% del totale. E dal computo sono esclusi gli immigrati e i loro discendenti che hanno ottenuto la cittadinanza. L’Istat prevede, seppure con molte cautele metodologiche, che nel 2065 la percentuale degli stranieri arrivi nell’ipotesi più bassa al 22% e in quella più alta al 24% dell’intera popolazione residente.

Possono sembrare dati impressionanti, ma non è il caso di lasciarsi impressionare. E per una serie di motivi. Come sanno bene i ricercatori dell’Istat, le previsioni sulla popolazione quando si proiettano su tempi molto lunghi possono presentare grosse sorprese. Su un arco di tempo più breve (20 anni), immaginando cioè nel 1987 cosa sarebbe successo nel 2007, l’Istat aveva previsto un impatto quasi irrilevante dell’immigrazione, e lo stesso aveva fatto l’Irp, cercando di prevedere nel 1988 cosa sarebbe successo 20 anni dopo. Insomma, in quegli anni il contributo dell’immigrazione alla popolazione del nostro Paese era stato largamente sottovalutato.

Siamo sicuri di non cadere, oggi, nell’eccesso opposto? Probabilmente stiamo rischiando di sopravvalutare il numero dei nuovi arrivi. Non è, infatti, detto che il mercato del lavoro italiano, in futuro, sia ancora capace di attrarre potenti flussi dall’estero. Già con il decreto flussi del 2010 il Governo italiano ha offerto più permessi di soggiorno rispetto a quelli di fatto utilizzati. E il tasso di disoccupazione degli immigrati tra il 2008 e il 2010 è aumentato tre volte e mezzo di più di quello degli italiani. Così come non è detto che potenti esportatori di popolazione verso l’Italia, come la Romania o la Cina, abbiano in futuro condizioni economiche tanto peggiori delle nostre, e tali da spingere a emigrare in massa nel nostro Paese. Emigrare è costoso anche in termini emotivi e, se la differenza di prospettive economiche tra il posto che si lascia e quello verso cui si va non è abbastanza ampia, non si emigra. Non è detto neppure che gli stranieri che si fermano in Italia continuino a fare più figli degli italiani. Insomma, quando guardiamo a un futuro lontano, ci possiamo sbagliare sui numeri. E comunque se i numeri fossero alti sarebbe un bene: vorrebbe dire che nel nostro Paese c’è un’economia attraente.

Quello di sbagliare sui numeri non sarebbe grave. L’Istat, inoltre, guardando al futuro, ha ritenuto opportuno distinguere tra immigrati che restano stranieri e coloro che hanno ottenuto la cittadinanza. Fa le sue previsioni in base alla legge attuale, ma osserva giustamente che la normativa sulla cittadinanza può cambiare. Ed è probabile che cambi. Un recentissimo sondaggio del Centro Italiano di Studi Elettorali dà un 71% di favorevoli a dare subito la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, e conclusioni analoghe vengono da Tti, il sondaggio annuale condotto da Gmf e Compagnia di San Paolo. A maggior ragione potrebbe essere accettata la riforma oggi in cantiere, che la concederebbe ai figli di immigrati che risiedono stabilmente da un certo numero di anni. Quindi, il numero di persone statisticamente straniere potrebbe ridursi parecchio, in seguito a una nuova normativa.

Quest’osservazione apre un’altra questione più importante: basta la cittadinanza a fare il cittadino? L’immigrazione è un fenomeno complicato da interpretare, perché ci interessa non solo la sua accertata capacità di sopperire alle carenze di popolazione e forza lavoro, di aiutarci a tenere i conti pubblici in ordine, ma anche per l’impatto che può avere sulla coesione sociale. Se vogliamo ragionare su quest’aspetto, la distinzione giuridica tra immigrati rimasti stranieri e quelli divenuti cittadini non basta. Si può non essere immigrato ed essere comunque straniero e questo è proprio il caso dei bambini nati in Italia. Ma, se prendiamo in considerazione un altro aspetto, quello dell’identità, della cultura, osserviamo che molti che restano stranieri in base al diritto, sono italiani per identità e per cultura. Un’interessante inchiesta televisiva, che ha fatto incursione in varie scuole piene di bambini in gran parte ancora stranieri, ci ha dato un saggio di quanti di loro parlino un ottimo italiano, magari con un po’ di accento dialettale, di quanti tra loro conoscano la storia del Risorgimento, anche meglio di altri bambini con nonni italiani. Questo vale ovviamente anche per molti immigrati arrivati da adulti e rimasti stranieri, perché non vogliono scegliere o perché preferiscono evitare i lunghi tempi di attesa e le trafile della nostra burocrazia. Se ci sembra opportuno prevenire futuri conflitti tra italiani con nonni italiani e italiani con nonni stranieri, dobbiamo porci due obiettivi. Il primo consiste nel favorire una maggiore integrazione sociale e strutturale. Infatti, non possiamo segregare gli immigrati, specie le seconde generazioni, in percorsi scolastici di minore qualità, in occupazioni scarsamente remunerate e poco considerate socialmente, non possiamo farli vivere in quartieri degradati. Le rivolte delle Banlieue dovrebbero averci insegnato qualcosa. Ma non basta: dobbiamo mirare anche all’integrazione culturale, offrire rispetto, e questo è il secondo obiettivo. Non possiamo accettare che si traccino, come alcune forze politiche stanno facendo, barriere di disprezzo nei confronti degli immigrati in genere e di certe minoranze in particolare. Individui anche benestanti e colti, se si sentono estraniati, possono diventare membri attivi di gruppi eversivi, come dimostrano varie biografie di attentatori. Per tutti questi motivi è bene smettere di pensare all’Italia come un Paese di noi e di loro. Già ora ha poco senso, tra cinquant’anni sarà semplicemente ridicolo. O tragico.

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« Risposta #27 inserito:: Marzo 20, 2012, 06:32:54 pm »

20/3/2012

Il salto che i sindacati devono fare

GIOVANNA ZINCONE

Paradossalmente proprio chi si propone come deciso difensore degli interessi dei lavoratori sembra aver dimenticato la lezione di Marx. Eppure una parte di quella lezione rappresenta un valido strumento per capire e gestire il passato prossimo e il presente. Il teorico del socialismo scientifico sosteneva - come è noto - che una profonda modificazione delle «forze di produzione», cioè delle tecnologie produttive, dei mezzi di trasporto e di comunicazione, della formazione e organizzazione del lavoro provoca un’altrettanto profonda modificazione dei rapporti di produzione, quindi dei rapporti di potere all’interno della sfera economica.
Tralascio i passi successivi delle tesi marxiste, come quella del dominio assoluto dell’economia sulle altre sfere, perché sono assai meno convincenti e utili. Una radicale trasformazione delle forze di produzione ha modificato i rapporti di potere nelle relazioni industriali. Prodotti più leggeri, quindi più facili da trasportare, mezzi di trasporto più veloci e meno costosi, comunicazioni più rapide, efficaci e a basso prezzo hanno reso possibile delocalizzare. È diventato fattibile e conveniente spostare anche molto lontano dalla casa madre originaria, non solo spezzoni di produzione e servizi, ma anche gangli decisionali e persino la sede principale dell’impresa. Accordi e organizzazioni internazionali, in particolare la Wto, l’Organizzazione Internazionale del Commercio, istituita nel 1995 e nella quale a partire dal 2001 è stata accolta anche la Cina, hanno abbattuto barriere doganali che avrebbero inceppato il processo. Chi non gioca questa partita rischia di uscire dal gioco.

Le imprese sono diventate sempre più multiformi e cosmopolite: non possono permettersi di privilegiare a tutti i costi gli interessi dei lavoratori della patria di origine. Anche se, potendo, lo farebbero e lo fanno. La delocalizzazione è una strategia macroscopica, ma costituisce solo uno degli strumenti che la trasformazione delle forze di produzione ha messo a disposizione dei datori di lavoro per affrontare situazioni di conflitto o di difficoltà. Dopo l’autunno caldo del 1969, che segnò un momento estremo di conflitto industriale (277.000 auto perse e 20 milioni di ore non lavorate alla Fiat) questa ed altre imprese reagirono introducendo tecnologie e organizzazioni produttive risparmia-lavoro. Rafforzarono anche la strategia del subappalto per trasferire su imprese minori l’onere di liquidare eventuali lavoratori in esubero e per ridurre il rischio di conflitti, più alto nei grandi stabilimenti.

Anche l’afflusso di manodopera immigrata contribuisce a ridurre il potere contrattuale della forza lavoro autoctona nella misura in cui questi lavoratori hanno meno protezioni. Infatti, storicamente i sindacati dei Paesi di immigrazione hanno alternato richieste di blocco della immigrazione con azioni a favore dei diritti dei lavoratori immigrati per scongiurare una competizione al ribasso. Agli strumenti adottati per contenere i rischi e i costi di utilizzo della forza lavoro autoctona in attività produttive si è accompagnato un crescente distacco tra investimenti direttamente impiegati in quelle attività e strumenti finanziari basati su assicurazioni e contro assicurazioni, su scommesse sull’andamento dell’economia reale che assorbono ormai il grosso delle risorse finanziarie.

Tutti questi sono processi iniziati da tempo e che da tempo sono stati abbondantemente analizzati. Lo hanno fatto anche le organizzazioni dei lavoratori, che però non hanno accettato di coglierne le conseguenze fino in fondo. Era ed è difficile per loro, perché una delle ovvie conseguenze è proprio la maggiore debolezza delle classi operaie nazionali. La controparte può contare sulle armi potenti che in parte ho citato. Al contrario, gli strumenti classici di lotta dei lavoratori, gli scioperi, i boicottaggi portati all’estremo provocano un effetto boomerang: perdita di competitività dell’impresa, meno profitti, meno uso di forza lavoro, più decisioni dannose per i lavoratori. C’è poco da essere soddisfatti.

Fortunatamente, seppure in questa condizione di debolezza strutturale, le organizzazioni dei lavoratori possono agire a proprio vantaggio, ottenendo buoni risultati. Proprio in una situazione di svantaggio strutturale è cruciale per le sorti dei lavoratori che i sindacati non sbaglino strategia. Per evitare che i datori di lavoro cerchino di proteggersi dai lavoratori nazionali occorre aumentare il valore di quel lavoro, incrementarne la produttività. Questo non implica solo lavorare di più e in modo più flessibile: si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente e che può essere temperata adottando altre politiche convergenti.

La produttività infatti aumenta quando si utilizzano mezzi di produzione più sofisticati, quando si opera in contesti più ricchi di infrastrutture e di servizi alle imprese, quando si può contare su una giustizia più rapida e prevedibile. Aumenta quando si riducono le specifiche imposte che aggravano il costo del lavoro; quando i lavoratori diventano più competenti, dotati di una formazione migliore che risponda alle richieste del mercato; quando gli addetti vengono occupati in imprese competitive. Tutto questo implica che i sindacati, sul terreno delle relazioni industriali, hanno oggi più interesse a cooperare che ad alzare il livello del conflitto.

Non solo. Hanno pure interesse, ma questa è un’operazione assai più complessa, a contenere l’impatto negativo della globalizzazione e delle regole che l’accompagnano. La drastica riduzione dell’export cinese negli ultimi mesi potrebbe essere un fatto stagionale, ma in ogni caso dimostra che l’Europa resta un potente attore economico, un’indispensabile area di consumo globale. Quindi l’Europa è in grado di contrattare per proteggere le condizioni di vita dei propri lavoratori, dei propri cittadini. Se lo vuole. Per farlo - come ci ha ricordato su questo giornale l’ambasciatore tedesco a Roma - deve diventare un attore economico internazionale forte e coeso. È urgente e necessario che i sindacati abbiano voce in questi processi di trasformazione, che siano in grado di entrare in coalizioni trasversali vincenti, che diventino promotori di modernizzazione, capaci di muoversi su uno scacchiere internazionale. Se non ora, quando?

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« Risposta #28 inserito:: Aprile 15, 2012, 11:30:53 am »

15/4/2012

Gli ostacoli del premier

GIOVANNA ZINCONE

Oltre allo scarso tempo a disposizione, sei fattori, sei oggettive e potenti limitazioni, hanno segnato il perimetro entro il quale il Governo Monti ha potuto agire.

E, seppure con alcuni mutamenti, ancora lo condizionano.


La crisi delle economie reali sud-europee, che colpisce con particolare durezza il nostro Paese, ormai incapace di crescita da anni, ha origini non solo in debolezze interne, ma anche in decisioni e comportamenti esterni sui quali la nostra presa, per quanto meno risibile rispetto al recente passato, non può che restare marginale. Un pesante debito pubblico, della cui tenuta gli investitori-creditori possono dubitare: ne conseguono alti interessi, e le stringenti regole di livello europeo per contenerlo, che implicano la necessità di ridurre la spesa pubblica e di aumentare la pressione fiscale, con il risultato di aggravare le condizioni dell’economia reale.

Una maggioranza parlamentare ampia, ma il cui carattere eterogeneo e la cui indipendenza dall’esecutivo costituisce un altro vincolo. Un fattore di impedimento, un lato assai insidioso dell’esagono, è costituito dalla scarsa cooperazione tra le forze sociali e dalla presenza di organizzazioni sindacali poco coese al proprio interno e competitive tra loro. C’è poi il lato della crisi sociale, dove troviamo una cittadinanza stanca e invecchiata, resa insicura e impoverita dalla crisi, colpita dalla riduzione dei redditi, da fallimenti e perdite di lavoro, dalla pesante disoccupazione giovanile: tale insieme di difficoltà, che le riforme tese a contenere il debito pubblico sono destinate a esacerbare, è certo una ragione di preoccupazione etica e un fattore di rischio molto preoccupante per il governo. Questa base di grave frustrazione sociale, sommata allo scontento dei cittadini nei confronti di tutta la classe politica e delle élite in generale, può infine dar fiato a tribunizi leader di opposizione, nutrire pericolosi movimenti collettivi, offrire occasioni a gruppi eversivi.

Proprio i primi due lati di questa sorta di esagono di ferro, cioè l’aggravarsi della crisi economica e dell’interconnessa crisi del debito pubblico, sono stati la forza motrice e il pilastro iniziale del Governo Monti. Incaricato di un compito salvifico - tirare fuori il Paese da un possibile prossimo tracollo - il governo aveva infatti bisogno di un ampio consenso politico e, seppure con eccezioni nello schieramento dei partiti e tentennamenti tra le organizzazioni sindacali, lo aveva ottenuto.

Ma non appena l’azione del governo ha cominciato a dispiegare effetti positivi e gli interessi sul debito pubblico hanno iniziato rapidamente a scendere, il collante del consenso ha dato segni di cedimento. Su alcuni lati dell’esagono, attori importanti hanno fatto sentire il loro peso, hanno stretto la morsa sull’azione del governo. Ingenuità comunicative dello stesso esecutivo hanno contribuito a sollecitarli.

La riforma del lavoro ha fornito il principale casus belli. Con una sorta di effetto domino, le fratture interne e le competizioni tra i sindacati si sono messe in moto: la pressione contro la riforma Fornero da parte della Fiom ha condizionato la Cgil, che a sua volta a cascata ha attratto nell’area della critica alla riforma la Cisl e la Uil, che inizialmente parevano pronte a un accordo su formulazioni più incisive. Il desiderio che una riforma del lavoro non fosse osteggiata proprio dai rappresentanti dei lavoratori, probabilmente anche il timore che vaste manifestazioni sindacali, radicalizzate all’insegna dello slogan «no a licenziamenti facili» potessero degenerare in tumulti, magari accesi da infiltrazioni sovversive, hanno spostato l’ago iniziale della bilancia della riforma verso sinistra. Questo spostamento ha provocato a sua volta una reazione delle organizzazioni dei datori di lavoro, in particolare la protesta troppo esplicita di Marcegaglia.

Le posizioni degli ambienti imprenditoriali italiani hanno contribuito a suscitare, anche se certo non a determinare, reazioni di disapprovazione dell’operato del governo da parte di importanti organi di stampa stranieri e, cosa ben più grave, da parte dei mercati. La reazione negativa nei confronti della riforma del lavoro, combinata con il timore di uno scivolone ulteriore dell’economia spagnola, e di una conseguente crisi letale dell’euro, hanno ricondotto l’Italia nel bel mezzo dell’area di rischio, un’area dalla quale non era mai uscita, ma da cui pareva almeno aver trovato la direzione per allontanarsi.

Non è un’osservazione consolante, ma proprio il ritorno in una situazione di pericolo, l’andamento negativo di produzione, Borse e spread, le gravi condizioni della Spagna, possono tornare a ridurre la morsa dell’esagono. Il riaggravarsi della crisi può indurre comportamenti più virtuosi, una qualche rinata propensione a cooperare. Anche altri recenti mutamenti indeboliscono di fatto la pressione di almeno un lato dell’esagono. Il principale partito di opposizione, la Lega, è corrosa dagli scandali e non in grado di incidere significativamente. La stessa eterogeneità della maggioranza può avere, a questo punto, anche risvolti positivi. In seguito alla presa di posizione del mondo imprenditoriale, il Pdl ha chiesto modifiche al disegno di legge di riforma del mercato del lavoro che potrebbero riportare verso il centro l’ago della bilancia di quel difficile equilibrio, anche se non sappiamo quali controspinte potrebbe innescare un eventuale distacco dalla linea del dialogo con Cgil.

Ma il carattere composito della maggioranza e il suo parziale scollamento sta producendo soprattutto effetti negativi: una serie di iniziative da parte di singoli partiti e correnti della maggioranza che portano fuori rotta le strategie di riforma del governo. In prossimità delle elezioni amministrative e nella prospettiva non lontana di quelle politiche, l’eterogeneità dei gruppi parlamentari può ritrasformarsi in una rissa tra fazioni che pone ostacoli all’attività del governo. I segnali sono fin d’ora forti e chiari, ma è un rischio inevitabile: anche se a qualcuno piace ignorarlo, i regimi liberaldemocratici richiedono che l’esecutivo si basi sul voto del Parlamento, che ne accetti le critiche e i dissensi, che sia in grado di evitare le sue trappole e le sue manovre ostili.

Il Parlamento italiano si distingue, purtroppo, per intemperanze a dir poco eccessive, ma i principali soggetti di poco commendevoli esternazioni sono stati ampiamente votati dai cittadini, e spesso sono tra i più apprezzati ospiti dei talk show nostrani. Evidentemente le loro dichiarazioni assurde, i loro sguaiati insulti non turbano a sufficienza l’elettorato italiano. Ma turbano un governo composto da individui che provengono da ambienti magari competitivi e conflittuali, dove però le soglie delle buone maniere vengono oltrepassate moderatamente e raramente.

Da altri lati dell’esagono di ferro possono venire ancora più pesanti sfide al governo: la crisi economica può continuare ad aggravarsi oltre limiti tollerabili, la sfiducia dei mercati e la pressione sul debito possono aumentare, le difficoltà economiche degli italiani possono peggiorare ulteriormente, tribuni politici e sindacali possono suscitare nuovi e più ampi movimenti di opposizione al governo, minacciando di destabilizzare l’ordine pubblico. Tutto questo può generare nel Paese una percezione di partita persa. Il governo stesso potrebbe essere colto da una deprimente sensazione di sconfitta. È questo oggi uno dei principali fattori di rischio.

A Monti e ai suoi ministri dovrebbe invece essere chiaro un dato di fatto: hanno dalla loro parte la convinzione, ampiamente diffusa tra l’opinione pubblica e tra le élite, che nessun esecutivo ipotizzabile in tempi brevi potrebbe fare di meglio. Anzi. Per non restare impantanato il governo minaccia di tanto in tanto le dimissioni, ma ha in mano un’arma ben più potente che sostiene di non volere usare, ma che costituisce comunque un temibile deterrente: se il Partito Monti si presentasse oggi alle elezioni arriverebbe probabilmente primo. I partiti tutt’altro che in buona salute della sua maggioranza lo sanno.

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« Risposta #29 inserito:: Aprile 28, 2012, 11:35:49 am »

28/4/2012

Immigrati, dal panico al buonsenso

GIOVANNA ZINCONE

La popolazione italiana è fatta sempre più di immigrati. E, come sappiamo, la nozione di abitante è sempre meno collegata a quella di cittadino. I primi dati del Censimento 2011 ci dicono come l’Italia abbia raggiunto il massimo storico nel numero di abitanti l’anno scorso, sfiorando i 60 milioni, e tenendo quindi il passo con le altre grandi nazioni europee, come Francia e Gran Bretagna, che hanno varcato questa soglia nell’ultimo decennio. Ci dicono anche come la popolazione sia cresciuta maggiormente al Nord, e come due grandi città, Roma e Torino, abbiano invertito la tendenza alla decrescita, recuperando abitanti rispetto al 2001.

È uno scenario diverso da quello registrato 10 anni fa, e soprattutto è uno scenario del tutto difforme da quello che le migliori previsioni demografiche degli Anni 80 e 90 avevano ipotizzato. Rilevando la bassa natalità registrata tra la popolazione nazionale, prevedevano per il 2011 un’Italia più piccola - ben staccata dalla pattuglia di testa dei Paesi europei - e più vecchia, più meridionalizzata e de-urbanizzata. La variabile che ha cambiato radicalmente le carte in tavola, il singolo più importante fattore di mutamento ha un nome ben preciso: immigrazione.

Rispetto al censimento 2001 la popolazione straniera «abitualmente dimorante» in Italia è quasi triplicata: da circa 1.300.000 a circa 3.770.000 (un dato provvisorio). E il censimento, per quanto ci dia i dati più approfonditi, non è l’ultima foto scattata, e non può utilizzare né il grandangolo né il macro: molti italiani si sottraggono alla rilevazione, e a maggior ragione questo accade per gli stranieri. Se guardiamo ai dati Istat basati sulle rilevazioni anagrafiche, gli stranieri residenti in Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, sono 4.570.317, pari a circa il 7,5% della popolazione. Ma anche così aggiornata, la consistenza degli stranieri in Italia resta sottovalutata dai dati ufficiali.

Se ai residenti si aggiungono, secondo la stima del Dossier Caritas, le persone regolarmente presenti ma non registrate in anagrafe, e i veri e propri irregolari, la cifra sale ulteriormente e supera ampiamente i cinque milioni.

Non meraviglia quindi che una trasformazione così rapida e importante abbia suscitato una sensazione di spaesamento: tanti immigrati, così in fretta, e per di più tanti irregolari, non sono un fenomeno al quale ci si adatti con disinvoltura.

Soprattutto il carattere irregolare preoccupa, ma un po’ a ragione e un po’ a torto. A ragione, perché segnala un’immigrazione fuori controllo e potrebbe far supporre che le nostre frontiere siano porose. A torto, perché il grosso degli irregolari non è entrato clandestinamente pur di trovare una via di fuga da situazioni disperate. Gran parte degli irregolari entra legalmente, seppure da un uscio laterale: utilizzano cioè un permesso di soggiorno valido che poi scade, perché magari era stato rilasciato per improbabili motivi turistici, mentre i titolari volevano cercare lavoro e fermarsi. E, almeno finché la situazione economica non si è fatta dura, ci sono pure riusciti. Quegli immigrati di straforo sono diventati lavoratori in regola con il permesso di soggiorno.

Dal 1998 al 2012 ci sono state tre sanatorie, per un totale di circa 1.160.000 persone, ma non si è trattato di grandiose estrazioni di biglietti tutti vincenti. Per essere regolarizzati c’era bisogno di un contratto di lavoro. Quindi quel vasto universo, quelle impressionanti cifre che oggi registriamo di lavoratori immigrati, di decorose famiglie e di cari bambini che hanno origini straniere, hanno attraversato la porta stretta dell’irregolarità. Meglio ricordarselo, quando siamo presi dal panico di perdita di controllo.

Meglio consolarsi constatando che la stragrande maggioranza di chi entra, anche se di straforo, fa più bene che male al nostro Paese. E se si pensa che si debba contenere l’immigrazione, bisogna osservare che a dissuadere i potenziali immigrati a entrare, e a spingere quelli presenti a rientrare nella patria di origine, ben più della repressione sta cominciando ad agire la recessione. Gli immigrati continuano a crescere, ma di poco, a un ritmo più ridotto degli anni precedenti. La disoccupazione ha colpito in particolare i lavoratori immigrati. Il tasso annuale medio è passato dall’11,6% del 2010 al 12,1% del 2011, crescendo molto più di quanto non sia accaduto per gli italiani. E, se anche nel 2011 ci sono stati 170.000 lavoratori immigrati in più, il loro livello di occupazione è sceso dal 63,1% del 2010 al 62,3%, pur rimanendo comunque più alto di quello dei lavoratori italiani, che è al 56,6%.

Insomma, gli immigrati sono formalmente - come detto all’inizio - il 7,5% della popolazione, ma costituiscono il 9,4% della forza lavoro. La presenza degli immigrati, dei lavoratori immigrati non è dunque un’opzione che si può rifiutare, si può semmai governare con buon senso. Gli italiani sembrano averne. In un sondaggio comparato che include vari Paesi europei, gli italiani risultano i meno preoccupati della concorrenza degli immigrati nel mercato del lavoro. Due terzi (69%) non ritengono che portino via posti agli italiani e tre quarti (76%) affermano che gli immigrati vengono impiegati per mansioni che non potrebbero essere svolte altrimenti. Insomma gli italiani sono pronti ad augurare anche ai lavoratori immigrati un buon 1˚ maggio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10041
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