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Autore Discussione: GIOVANNA ZINCONE. -  (Letto 21121 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Maggio 24, 2012, 11:40:54 am »

23/5/2012

Come le donne possono difendersi

GIOVANNA ZINCONE

L’ uccisione di donne non accenna a rallentare. Durante la presentazione del Rapporto annuale Istat si è evidenziata una diminuzione generale degli omicidi nell’ultimo ventennio, ma non di quelli femminili. Nel 2011 sono state 137 le vittime in Italia, dieci in più dell’anno precedente, e nei primi mesi del 2012, già più di 50 donne hanno perso la vita, uccise da un maschio. Quasi sempre da un marito, un compagno, un ex. Sono diminuiti alcuni reati, ma gli stupri sono aumentati.

Stando a una ricerca del 2006, il rischio di essere oggetto di qualunque tipo di violenza cresce con il crescere della vicinanza del colpevole. Una donna su tre (tra i 16 e i 70 anni) è stata vittima di comportamenti lesivi più o meno gravi. La diffusa sopraffazione sulle donne costituisce non solo un terreno di coltura che può generare esiti letali, ma un male sociale in sé.

Si moltiplicano appelli e mobilitazioni contro questo intollerabile fenomeno. Ma perché abbiano un impatto rilevante non basta che risveglino le coscienze e attraggano la pigra attenzione dei media, devono anche informare le vittime sugli strumenti a loro disposizione, convincerle a reagire, spingere gli addetti a trovare nuovi strumenti di tutela. Inasprire ulteriormente le pene carcerarie è una scorciatoia inefficiente: i tempi di detenzione sono già stati allungati.

Nel 2009, con una maggioranza bipartisan, è passato il provvedimento contro la violenza sessuale che prevede da 6 a 12 anni di carcere. Sempre nel 2009 è stato introdotto con voto quasi unanime il reato di stalking (molestie di vario grado): il carcere va da 6 mesi a 4 anni, aumentabili fino a 6 se il colpevole è un partner o un ex, in larghissima maggioranza si tratta maschi. Le pene detentive non costituiscono un deterrente efficace e non arginano la forma estrema di violenza, l’omicidio, che prevede sanzioni ben più gravi.

Che fare? Partiamo dai casi che presentano maggiori rischi. In base alla legge anti-stalking, il giudice può imporre ai responsabili di atti persecutori l’obbligo di tenersi a distanza dalla vittima, ma ovviamente non si può contare sul fatto che proprio i soggetti più pericolosi lo facciano, né si può prospettare una sorveglianza continua e capillare delle forze dell’ordine. Nelle situazioni di maggior pericolo si potrebbero dotare le donne di strumenti di comunicazione semplice e immediata con il 113 o con lo speciale numero verde 1522 che, a sua volta, può attivare un intervento immediato. Occorre, però, che le donne stesse siano consapevoli dell’entità del rischio che corrono.

Questo vale anche per i casi, almeno inizialmente, meno gravi: l’1522 può metterle in contatto con i Centri antiviolenza specializzati nel seguire questi fenomeni. Nella quasi totalità dei casi le donne maltrattate non lo fanno. Molte evitano persino di parlarne con amiche e parenti.

Per spezzare il silenzio occorre partire dalla constatazione che parlare, a loro avviso, potrebbe avere costi troppo alti. Il primo costo, il più difficile da contenere è il rischio della perdita affettiva, la rinuncia a una relazione per quanto malata. Un secondo costo, temuto dalle vittime di aggressioni da parte di coniugi o conviventi, consiste nella perdita dello status sociale e della sicurezza economica garantiti dal partner. All’interno della coppia è ancora frequente uno squilibrio di genere di risorse e di status. Il rapporto annuale dell’Istat ha fotografato ancora una volta questo squilibrio. L’Italia è seconda solo a Malta per la presenza di famiglie in cui solo l’uomo lavora. La proprietà della casa in cui la coppia vive è più spesso del maschio. A picchiare non sono soltanto spiantati ubriaconi, ma anche individui benestanti, stimati lavoratori, professionisti apprezzati. E il divario di reddito tra maschi e femmine cresce con il crescere della posizione sociale. La legge prevede l’obbligo di versare un assegno periodico alle vittime di stalking, ma la denuncia, se si tratta di un convivente, potrebbe coincidere comunque con una rinuncia al benessere e alla considerazione sociale di cui la donna indirettamente gode. I centri anti violenza servono anche a far capire che le strategie sono molte e non necessariamente comportano una definitiva rottura. Perciò è necessario che i centri si rafforzino.

Per arginare i costi temuti che favoriscono il silenzio, bisogna evitare almeno nei casi meno gravi ricorsi troppo immediati al giudice e alle misure detentive. Quello che vale nelle relazioni conflittuali internazionali, può valere anche nelle relazioni conflittuali di genere. Funziona meglio l’escalation piuttosto che la deterrenza dell’arma estrema.

Occorre che le donne vittime di abusi sappiano che la normativa italiana prevede già la possibilità di chiedere aiuto senza pagare e far pagare subito costi troppo alti. Non infligge immediatamente ai colpevoli punizioni che le stesse vittime possono considerare troppo pesanti e con effetto boomerang.

La legge anti stalking è uno strumento flessibile. Quando le donne si rivolgono alle forze di polizia, invece di sporgere immediatamente querela, e con ciò attivare un procedimento penale, possono fare una richiesta di ammonimento. E il questore può cercare di dissuadere il responsabile attraverso questo strumento. Il questore può anche aprire un’istruttoria, convocare il colpevole e la vittima per approfondire la questione. In molti casi l’ammonimento ha dimostrato di funzionare. E, comunque, a fronte di recidiva o di comportamenti gravi, non occorre neppure la querela, scatta la denuncia di ufficio e si apre il procedimento penale.

Si potrebbe riflettere sulla possibilità di affinare ulteriormente le armi leggere di dissuasione, modulando ancora di più l’escalation: ad esempio, colpendo in misura crescente il capitale di onorabilità e di stima dei colpevoli.

Se il questore rafforzasse le misure di sorveglianza, questo servirebbe non solo a tutelare materialmente la vittima, ma anche a estendere la conoscenza dei misfatti. I vicini potrebbero interrogarsi sul perché una macchina della polizia si trova di fronte a quel portone. La stessa estensione della conoscenza potrebbe essere attuata attraverso un allargamento delle testimonianze nel corso dell’istruttoria. La possibilità di modulare il numero e il tipo di persone coinvolte offrirebbe al Questore uno strumento dissuasivo di potenza variabile ed eventualmente crescente. Ma la minaccia o l’attuazione di un danno di immagine è efficace solo a tre condizioni. La prima è che le vittime la mettano in moto: che si rivolgano al numero verde o alle forze dell’ordine, che accettino almeno questa modica sanzione per il colpevole. La seconda si collega alla prima: le donne abusate non devono vergognarsi di essere vittime. Purtroppo spesso capita. La vergogna dovrebbe essere monopolio assoluto dei colpevoli. La terza è forse la condizione chiave e si collega alla seconda: comportamenti come lo stalking e la violenza domestica dovrebbero essere considerati vergognosi persino a giudizio degli stessi autori, o almeno agli occhi della stragrande maggioranza dell’universo maschile. Ma lo sono?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10134
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« Risposta #31 inserito:: Agosto 19, 2012, 07:42:32 pm »

19/8/2012

All'Italia serve l'import di cervelli

GIOVANNA ZINCONE

Non sono tempi felici. La crisi colpisce l’occupazione e si restringono le prospettive di nuove assunzioni, non solo per gli italiani, ma anche per gli stranieri. Gli stranieri, però, se la cavano relativamente meglio. Questo almeno è quanto emerge dalle previsioni per il 2012 dell’indagine Unioncamere–Ministero del Lavoro. La domanda complessiva di lavoratori immigrati (stagionali inclusi) dovrebbe diminuire quest’anno del 18% rispetto al 2011, quella degli italiani del 31,6%. Quindi l’incidenza degli stranieri sulle assunzioni complessive dovrebbe salire ulteriormente (dal 16,3% dello scorso anno al 17,9% di quest’anno).
Si consolida, insomma, il carattere strutturale della forza lavoro immigrata nella nostra economia: si tratta di una componente che anche di fronte alla crisi perde colpi, ma resiste relativamente meglio. Le sue caratteristiche confermano, però, alcune pesanti debolezze del sistema Italia, che è bene non continuare a trascurare. La nostra economia attrae un’immigrazione meno istruita rispetto a quella che raggiunge altri paesi europei. Nel 2010 i laureati rappresentavano solo il 10% degli immigrati in età lavorativa residenti in Italia.

Decisamente meno non solo delle incidenze che troviamo in Francia, Inghilterra e Svezia, ma anche in Portogallo e Spagna. In compenso questi ultimi paesi, i soliti nostri compagni degli ultimi banchi, «battono» l’Italia per la consistenza di lavoratori con livelli di istruzione minimi. Ma la cosa non consola. Perché anche se i nostri immigrati sono nell’insieme abbastanza istruiti, sebbene non quanto quelli che si dirigono verso economie più solide della nostra, lo sono meno degli italiani. Quindi non arricchiscono il nostro capitale di competenze. Come se non bastasse, la quota di stranieri con un titolo di studio più elevato è diminuita tra il 2001 e oggi. Si aggiunga che l’investimento formativo degli stranieri, quando c’è, spesso non è messo a frutto. Specie le lavoratrici straniere - mediamente più qualificate delle loro controparti maschili - fanno lavori assai poco qualificati rispetto alle loro capacità.
Il fatto è che in Italia la domanda di addetti con alte competenze è scarsa in generale. Non solo: come ci segnala il Rapporto Isfol 2012, è pure in calo. Nel nostro paese la quota di professioni ad elevata specializzazione rappresenta solo il 18% del totale, contro il 23% della media Ue. E, mentre in Europa la percentuale di occupazione in quel tipo di professioni aumenta costantemente, in Italia invece negli ultimi 5 anni si è contratta dell’1,8%, contro un aumento che ha raggiunto il 4,3% in Germania, il 4,4% nel Regno Unito e il 2,8% in Francia.

Insomma, non solo aumenta la disoccupazione e diminuiscono le opportunità di nuove assunzioni, ma la qualità della forza lavoro presente sul nostro territorio nel suo insieme peggiora. Certo, la crisi degli ultimi anni contribuisce ad accentuare il problema, ma non lo ha creato. È lo stesso sistema produttivo italiano, fatto di piccole imprese in molte delle quali si investe poco in innovazione e sviluppo, dove si fa scarso uso di lavoro specializzato, che spiega sia l’impoverimento qualitativo della nostra forza lavoro, sia la sua scarsa e decrescente produttività, sia la complessiva debolezza e inadeguata competitività della nostra economia. È apprezzabile il tentativo di attrarre lavoratori super specializzati, ma – rebus sic stantibus, cioè con questa economia reale – non sappiamo quanto successo possa avere.

A favorire l’ingresso di immigrati istruiti mira il decreto, entrato in vigore da pochissimi giorni, che attua la Direttiva Europea sulla cosiddetta «carta blu», un permesso speciale attribuito proprio ai lavoratori stranieri specializzati (almeno una laurea triennale): per loro non si prevedono limiti di quote, purché dispongano di un’offerta di lavoro. Ma quanti ne faranno uso per venire a lavorare proprio in Italia? Temo pochi.

Si può presumere che, invece, numeri più consistenti siano il risultato di un altro provvedimento; anch’esso recente. A metà luglio 2012, partendo dall’attuazione di una Direttiva Europea contro lo sfruttamento del lavoro immigrato irregolare, è stato votato un decreto legislativo che in pratica consentirà un’altra sanatoria. Assai probabilmente questa misura farà emergere un’ulteriore quota di lavoro immigrato destinato per lo più a mansioni poco qualificate. A completare questo quadro poco roseo per le prospettive del sistema Italia, si inserisce non solo un generico aumento (+4%) dell’emigrazione italiana, ma la costante perdita di giovani qualificati e di ricercatori. Secondo il centro studi «La fuga dei talenti» il 70% degli oltre 60.000 giovani che lasciano ogni anno l’Italia è laureato. Come porvi rimedio? Qualche anno or sono, una ricerca finanziata della Commissione Europea aveva messo in evidenza il fatto che non bastano incentivi monetari o fiscali per evitare fughe di cervelli e invogliare rientri: il più efficace rimedio all’esodo è costituito da centri di eccellenza, dove i ricercatori possono lavorare con profitto, in ambienti che si confrontano con i migliori standard. La stessa logica si dovrebbe applicare alle imprese. Occorre premiare fusioni o reti tra imprese che consentano di raggiungere economie di scala tali da incentivare investimenti in ricerca e sviluppo; si devono, al contrario, evitare trattamenti che disincentivino il superamento di un certo numero di addetti. La riforma Fornero si è mossa in questa direzione, ma non senza difficoltà, ostacoli e forzosi arretramenti.

Il governo Monti sta facendo molto per evitare il disastro nei nostri conti pubblici. Non si può negare che stia pure tentando di riformare il sistema economico nel suo insieme, impresa non facile dato il contesto politico. Ma è necessario che continui con maggiore decisione su questa strada. Non si evita il disastro vivacchiando nel vecchio, come troppi pseudo innovatori politici vorrebbero. Abbiamo bisogno di riforme tali da rassicurare i mercati e i partner europei perché possano diminuire interessi sul debito, onerosi quanto ingiustificati.

Ma non bisogna mai dimenticare che al centro della nostra attenzione e dell’azione dei governi italiani deve restare l’economia reale. Per non restare intrappolati in un presente ansiogeno, abbiamo bisogno di regalarci un futuro economico credibile.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10438
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 09, 2012, 10:12:56 am »

28/8/2012

La primavera araba non giova alle donne

GIOVANNA ZINCONE

Non sempre il progresso giova alle donne. La Tunisia ne ha offerto da poco un infelice esempio. Grazie al Codice del 1956 e a successive riforme, rappresentava un ammirato precursore dell’emancipazione femminile tra i Paesi arabi. E il nuovo corso tunisino è stato considerato il più assennato tra quelli scaturiti dalla Primavera araba. I risultati elettorali del 2011 non hanno premiato i partiti laici moderati, ma i rischi di chiusure islamiste parevano evitabili. Purtroppo la Commissione «Diritti e libertà» dell’Assembla Costituente tunisina, in disinvolta contraddizione con il proprio titolo, ha approvato un nuovo articolo 28 che retrocede le donne. Afferma infatti: «Lo Stato assicura la protezione dei diritti della donna», un’affermazione positiva solo all’apparenza; secondo Roberta Aluffi, studiosa di diritto delle religioni, si tratta di una rischiosa espressione islamista perché implica specifici diritti femminili (il dono matrimoniale e il mantenimento), cui potrebbero fare da pendant pesanti diritti maschili (il ripudio e l’obbedienza delle donne di famiglia). L’articolo 28, inoltre, vuole la donna «associata» o «complementare» all’uomo non solo nella sfera familiare, ma anche nella «edificazione della Patria»; quindi, a differenza di quanto normalmente teorizzato da pensatori islamisti, in Tunisia il paternalismo potrebbe toccare anche la sfera pubblica. Manifestazioni anti-articolo 28 hanno coinvolto un buon numero di tunisine indignate. Richiami e proteste sono arrivati da organizzazioni internazionali, in primis il Consiglio d’Europa. La partita non è formalmente chiusa. La nuova Costituzione deve ancora essere approvata in seduta plenaria. L’Assemblea costituente include anche una componente femminile, ma non è chiaro quanto e come inciderà: sebbene eletta con il 50% dei posti in lista riservati alle donne, le rappresentanti sono solo il 24%. Per la quasi totalità appartengono al partito islamista di maggioranza, che sostiene di ispirarsi all’AKP di Erdogan, ma che in commissione ha votato l’articolo 28. In quel contestato articolo si dà pure un contentino ai progressisti perché all’ambigua protezione dei «diritti della donna» si affianca la protezione delle «acquisizioni», cioè di quanto esse hanno finora ottenuto. Quante difenderanno le proprie «acquisizioni» si vedrà nel voto in aula.

Torna, comunque, a farsi sentire quel sapore di dominanza maschile che troppo spesso ha accompagnato svolte istituzionali che parevano positive. La sindrome si è accompagnata al crollo di opprimenti dittature laiche, sostituite però da forme più o meno severe di regimi islamisti. L’autoritario Scià di Persia Reza Palhevi aveva comunque modernizzato il Paese e le sue donne, l’Iran degli ayatollah ha invertito la rotta. L’Afghanistan liberato dai comunisti è tenuto in scacco da talebani misogini.

Siamo dolorosamente abituati all’idea che la sostituzione di regimi autoritari modernizzanti con islamisti al potere possa nuocere alle donne. Dimentichiamo quel che le donne persero nei nuovi Stati di impronta liberale.

La nascita dell’Italia non giovò alle donne del Lombardo-Veneto. In quei territori, veniva applicato, fin dal 1816, il Codice civile austriaco che riconosceva a tutte le donne, mogli incluse, la capacità di agire, cioè di amministrare il patrimonio, stare in giudizio, concludere contratti senza l’autorizzazione del marito o di altri maschi. Al contrario, nel diritto civile del Regno di Sardegna le donne non avevano questo diritto e non lo ottennero con il Codice civile italiano del 1865; quindi le lombarde e le venete «liberate dal giogo austriaco» furono ridotte allo stato di minori, di incapaci. Solo con la riforma liberale del 1919 le maggiorenni italiane diventarono giuridicamente adulte. Ci pensò poi il Fascismo a imporre alle italiane notevoli passi indietro.

Neppure la formazione degli Stati Uniti fu per tutte un guadagno. Ad esempio, la Costituzione del 1776 del New Jersey concedeva il diritto di voto «a tutti gli abitanti», quindi alle donne. Ma è nel 1920, con il XIX emendamento, che tutte le americane diventano pienamente elettrici.

Quindi non solo la storia della democrazia fa passi indietro, ma procede anche a zigzag: acquisisce qualcosa, indipendenza nazionale, libertà per molti, ad esempio, ma perde altro, e quell’altro riguarda troppo spesso le donne.

Oggi si guarda con orrore alla Siria, a una repressione che non trova limiti umanitari. Preoccupa anche il futuro di quel Paese dopo la caduta di Assad. Chiunque abbia visitato la Siria prima della rivolta e del terribile massacro in corso capisce questa preoccupazione. Si poteva cogliere visivamente come quel regime poliziesco e autoritario fosse riuscito ad imporre una convivenza religiosa. Meravigliava la stretta e pacifica contiguità fisica tra chiese delle più diverse confessioni cristiane, la compresenza di moschee di declinazioni musulmane tra loro tradizionalmente ostili. Donne di culture e religioni diverse formavano patchwork opportunamente stridenti, alcune occultate da neri paramenti, altre esibite in più che liberali scollature. Come agire per bloccare il massacro e favorire l’avvento di un nuovo regime non oscurantista? Basta sostenere militarmente le componenti più moderate? Questa strategia per funzionare dovrebbe riuscire a coalizzare moderati, non si sa quanto numerosi, che appartengono a gruppi religiosi diversi, in particolare dovrebbe attrarre i meno integralisti dei sunniti. Infatti, se i democratici risultassero minoritari e isolati, quando si andasse votare, averli sostenuti militarmente sarebbe servito a poco.

Una delle contraddizioni della democrazia sta nel fatto che il demos , il popolo, non è sempre prevalentemente democratico, tollerante e femminista. Il pessimismo in casi come quello siriano è quindi quasi inevitabile, e riguarda molti aspetti. Sono stati finora espressi fondati timori per un futuro di endemici conflitti interreligiosi, di ulteriori scompensi nello scacchiere mediorientale. Dovremmo più spesso pensare alle donne siriane, agli strazi e ai lutti che stanno subendo, alle perdite di dignità e di diritti che potrebbero colpirle in futuro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10466
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 31, 2012, 05:57:31 pm »

Editoriali
31/10/2012 - il dossier caritas

Immigrati, i numeri e la realtà

Giovanna Zincone


Radiografando l’immigrazione con occhi aperti al mondo, il Dossier Statistico Caritas anche quest’anno ci parla dell’Italia. 

 

Rende evidenti emergenze del presente, pecche radicate, problemi strutturali. Secondo le stime Caritas, un po’ più generose come sempre di quelle Istat, gli stranieri nel nostro paese sono 5 milioni, una cifra appena più alta dell’anno precedente. La crisi, quindi, ha diminuito solo di poco il tasso d’incremento degli ingressi, ma non ha ancora intaccato il totale dei presenti. Siamo ormai sopra alla media europea, e la rapidità con cui il fenomeno si è sviluppato specie nell’ultimo decennio ha generato contraccolpi. Stando a vari sondaggi, per gli italiani gli immigrati sono troppi. In questa opinione si profilano due pecche nazionali: la riluttanza a fare i conti con la realtà e l’incongruenza dei giudizi.

 

Questi 5 milioni sono troppi rispetto a cosa? Non rispetto alle esigenze della nostra economia: gli immigrati sono circa l’8% della popolazione, ma il 10% della forza lavoro. Si tratta di una componente poco concorrenziale, collocata in larga misura nelle fasce basse dell’occupazione e del reddito: l’83% dei comunitari e Il 90% dei non comunitari sono operai. Sempre secondo i sondaggi, gli italiani concordano sul fatto che i lavoratori stranieri ricoprano mansioni lasciate scoperte dagli autoctoni. Temono semmai che consumino più risorse pubbliche di quante ne producano, ma è vero il contrario, come conferma anche il rapporto Caritas.

Il largo numero di immigrati alla base della piramide lavorativa non dipende solo dal fatto che molti italiani rifiutano certe mansioni, ma anche dal fatto che quella base è molto, troppo e crescentemente larga. La nostra economia attrae dall’estero soprattutto lavoratori non specializzati ed esporta giovani, anche specializzati, perché si colloca in settori arretrati nella divisione internazionale del lavoro. La nostra è un’economia seduta. È un sistema che scoraggia i giovani cervelli: il 62% per cento dei ricercatori italiani emigrati in Gran Bretagna ha meno di 35 anni, e lì solo il 9% di nostri accademici ha più di 50 anni. Che escano più persone qualificate di quante ne arrivino è inevitabile. Dubito che la Carta Blu dell’Ue, introdotta anche in Italia per favorire l’immigrazione di stranieri qualificati, rovesci il senso di marcia delle competenze in entrata e in uscita dal nostro paese. Abbiamo infatti un altro magnete di lavoro purtroppo spesso poco qualificato: un welfare marcatamente familiare che impiega numerose addette nelle funzioni di cura domestiche, anche e molto degli anziani. Questa strategia di delega alle famiglie può essere migliorata, ma evitare di internare gli anziani non autosufficienti è una buona cosa. Meno buono è che il welfare domestico costituisca un ricettacolo di lavoro nero. Anche la regolarizzazione del 2012 è stata utilizzata soprattutto da colf e badanti. Irregolarità e lavoro nero sono più facili da praticare in casa, ma lo sono anche in un tessuto di piccole imprese che, per quanto ricco di creatività ed esemplari successi, costituisce un altro limite e una fragilità del sistema Italia. In un contesto culturale che non ama le regole, le imprese non fanno eccezione. Nel 2011 il 61% per cento delle imprese controllate risulta non in regola, quindi talora più a rischio di incidenti sul lavoro. Per quanto in calo rispetto al passato, gli incidenti restano più alti della media europea e, per gli immigrati, addirittura in aumento (dal 15% al 15,9%). 

 

I «troppi» immigrati pagano quindi prezzi piuttosto alti: si collocano nella fascia più bassa dei redditi e delle occupazioni, sono più esposti a trattamenti irregolari e a rischi di incidenti. La crisi ha prodotto un aumento della loro disoccupazione che è decisamente più alta (12,1%) di quella dei nati in Italia. D’altra parte, il lavoro immigrato resta fondamentale per i datori di lavoro. Mentre gli occupati nati in Italia sono diminuiti, quelli nati all’estero sono aumentati di 170 mila unità. E non solo perché sono più flessibili: è alta infatti la loro quota tra gli assunti a tempo indeterminato. Gli immigrati costituiscono quindi un polmone sociale, ma è un polmone a rischio. Per loro, come per tutti i lavoratori, molto dipende dalla tenuta della nostra economia e da norme che aiutino ad affrontare la turbolenza in corso. È stato quindi opportuno rialzare il tempo di disoccupazione tollerata da 6 a 12 mesi, ma ancora meglio sarebbe lasciarlo alla valutazione dei singoli casi.

 

Il rapporto Caritas fornisce numeri, ma nella sua introduzione ci ricorda che gli immigrati non sono numeri, sono individui e famiglie degni di rispetto. Nei loro confronti si evidenzia, invece, un altro grave vizio nazionale che irrompe nei rapporti sociali e politici: la mancanza di rispetto, l’uso di un linguaggio volgare. Anche nel Dossier Caritas emerge dunque un’Italia che - come ha affermato Monti - non necessita di interventi moderati, ma di riforme radicali. D’altra parte, il nostro paese ha un grande bisogno di moderazione nei toni, di quelle buone maniere pubbliche che Monti cerca di diffondere. Auguriamoci che questa non si riveli la più difficile delle sue riforme. 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/31/cultura/opinioni/editoriali/immigrati-i-numeri-e-la-realta-MfabhHiXiKWChdp5x8sRJK/pagina.html
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« Risposta #34 inserito:: Agosto 13, 2013, 11:55:58 am »

Editoriali
13/08/2013

L’integrazione che serve all’Italia

Giovanna Zincone


L’incessante mancanza di rispetto che investe la Ministra Kyenge non nuoce solo a lei. Il dileggio e il disprezzo che piovono dall’alto – da importanti cariche dello Stato, da leader politici, compreso il pugnace Bossi, da accademici ed editorialisti – legittimano l’insulto stradale, l’aggressione spicciola. Espongono a un maggior rischio non solo le persone di origine immigrata che vivono in Italia, ma anche chi si trova nel nostro Paese come turista o come uomo d’affari straniero, se gli capita di avere una fisionomia poco europea. E questo ovviamente nuoce all’Italia, alla sua immagine internazionale, ai suoi rapporti commerciali, al suo turismo. 

 

Una commessa italiana di Zurigo che ha fatto notare alla supermiliardaria conduttrice nera Oprah Winfrey quanto il costo di una borsetta (27.000 euro, sic!) potesse risultare eccessivo per le sue tasche è finita in prima pagina; ma forse l’accorta commessa avrebbe messo in guardia qualunque signora priva di patenti indicatori di esagerata ricchezza. Chi dice a Kyenge che non può fare la Ministra, invece, lo dice proprio perché non vuole accettare in quella posizione una donna di colore. Dietro questo indecoroso rigetto individuale c’è un più ampio e pericoloso rigetto. C’è un rifiuto del presente destinato a produrre seri problemi nel futuro. 

 

La popolazione del presente italiano, che piaccia o meno, è fatta anche di immigrazione e di post-immigrazione. Gli stranieri residenti in Italia al primo gennaio 2013 erano 4.387.721, il 7,8% della popolazione, e tra questi non si computano gli individui che, pur essendo di origine straniera, come Kyenge o la sua ex collega Idem, sono diventati cittadini italiani: nel solo 2012 sono stati più di 65.000. I residenti stranieri aumentano: solo nell’ultimo anno di 334.000 unità, 8,2% in più rispetto all’anno precedente. E intorno a queste cifre, con varie oscillazioni, si sono assestati gli aumenti degli ultimi anni, anche se dobbiamo aspettarci nel breve termine un rallentamento legato alla crisi economica. Considerare l’immigrazione un fenomeno reversibile significa negare l’evidenza, affrontarlo a suon di insulti per incassare qualche voto è un atto di consapevole irresponsabilità. Anche se nel nostro Paese di atti di irresponsabilità politica se ne commettono in buon numero, non è un buon motivo per insistere. Partiamo dalla constatazione che la popolazione italiana futura sarà composta sempre più da individui e famiglie di provenienze nazionali e di etnie diverse. Occorre gestire questa potente trasformazione sociale con la prudenza che merita. Non è facile, perché le manifestazioni di insofferenza dimostrano che non si tratta solo di integrare gli immigrati, ma che si deve pure integrare quella parte non piccola di italiani che non accetta di vivere in un paese di immigrazione. 

 

Chi oggi non vuole cambiare la legge sulla cittadinanza, chi rifiuta forme moderate di ius soli, manifesta un più ampio rifiuto dell’immigrazione e dei suoi figli. Nel 2012 sono nati 80.000 bambini stranieri, ed è bene essere consapevoli che la stragrande maggioranza di loro resterà a vivere in Italia: farli diventare italiani prima dei 18 anni è solo ragionevole. Tuttavia, anche chi accetta l’immigrazione e vuole giustamente cambiare la legge sulla cittadinanza in senso più liberale, deve tener conto della realtà dei fenomeni migratori, dei loro aspetti presenti e delle probabili evoluzioni future. È bene non ripetere l’errore fatto con la riforma della cittadinanza del 1992, che guardava al passato: tutta rivolta a premiare i discendenti degli emigrati italiani all’estero, quando l’Italia era diventata più destinazione che fonte di emigrazione. 

 

Il grosso delle proposte in discussione mira a favorire i bambini nati e istruiti in Italia, e a ridurre i tempi di residenza richiesti agli adulti per fare domanda di naturalizzazione (ora sono tra i più lunghi d’Europa). Si tratta di proposte che circolano dalla fine degli anni Novanta: vanno benissimo ma hanno bisogno di una bella rinfrescata. È vero che il grosso degli immigrati è qui per restare, ma non tutti lo fanno o lo faranno. Gli stranieri (anche una volta naturalizzati) possono decidere di spostarsi in un altro Paese, o tornare in patria. Nel 2012 hanno lasciato l’Italia almeno 38.000 immigrati (probabilmente molti di più, visto che non tutti si cancellano all’anagrafe). Non sappiamo, invece, se e quanti «nuovi cittadini», immigrati naturalizzati italiani, abbiano lasciato il Paese. Chiediamoci se non sia il caso di individuare le condizioni in base alle quali si trasmette la cittadinanza da parte di naturalizzati che rientrano nella patria di origine o vanno altrove (e, in parallelo, ragionare sui requisiti da richiedere ai discendenti di emigrati italiani per ereditare la cittadinanza risiedendo all’estero). Insomma, occorre ideare una riforma della cittadinanza che tenga conto della mobilità. 

 

Il vecchio accordo italo-argentino del 1971 prevedeva che, a turno, la cittadinanza del Paese in cui non si risiedeva fosse «messa in sonno»: non era una cattiva soluzione. Invece, con la riforma costituzionale del 2001 abbiamo assegnato ai discendenti di emigrati italiani che magari non hanno mai visitato il nostro Paese il diritto di eleggere propri rappresentanti sulla base di stravaganti macro-circoscrizioni, e sappiamo quanti pasticci ne siano nati. 

 

D’altra parte, occorre regolare il pur auspicabile incremento delle carriere politiche dei «nuovi cittadini». Si vuole chiedere un supplemento di anni di residenza, dopo la naturalizzazione, per accedere alle massime cariche pubbliche? Si vuole riservare la carica più alta, quella della Presidenza della Repubblica, ai nati in Italia, come avviene negli Usa? Si vuole chiedere a chi viene eletto in Parlamento, o nei consigli regionali, di rinunciare alla cittadinanza del Paese di origine? Sono domande legittime, che non implicano necessariamente risposte affermative, ma richiedono una riflessione, specie in un contesto di crescente mobilità. Non vorrei, però, che la complessa questione dell’integrazione si avvitasse intorno al tema della cittadinanza e dei diritti politici. Abbiamo assistito a fallimenti nei percorsi di integrazione anche in Paesi a cittadinanza facile, come la Francia o la Gran Bretagna. Purtroppo non esistono ricette facili per integrare. C’è, però, una ricetta facile per sabotare l’integrazione e aumentare conflitti interetnici: esibire disprezzo culturale nei confronti degli immigrati. Se al rispetto umano non ci spinge un’auspicabile sensibilità, ci spinga almeno il calcolo razionale dei danni che fomentare i conflitti comporta.

da - http://lastampa.it/2013/08/13/cultura/opinioni/editoriali/lintegrazione-che-serve-allitalia-Lgx2WbqZpgmFha5WSlAu2N/pagina.html
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« Risposta #35 inserito:: Febbraio 10, 2014, 04:56:29 pm »

Editoriali
10/02/2014


Giovanna Zincone

Il referendum di revisione costituzionale che ha vinto ieri in Svizzera mira a limitare l’immigrazione in generale, ma impatterà in specie su quella dei cittadini dell’Ue. 

Infatti, non si limita a introdurre la possibilità di programmare i flussi migratori imponendo tetti massimi, ma prevede pure la revisione degli accordi internazionali in contrasto con questa politica: di fatto, quelli con l’Unione Europa, rispetto ai quali vigeva una politica di libera circolazione. Il referendum promosso dal partito di destra Udc ha visto avversi il governo federale e il mondo imprenditoriale. 

Il copione classico si ripete: le imprese sono favorevoli all’immigrazione, così come lo sono i governi più ragionevoli, ma una ampia parte della popolazione, non solo in Svizzera, vede l’immigrazione come una minaccia e una somma di problemi. La vittoria non è quindi, nonostante i sondaggi che l’hanno preceduta, una grande sorpresa. Semmai dovrebbe positivamente sorprendere il fatto che si tratta di una vittoria di stretta misura (50,3%). Anche in Paesi membri dell’Unione, in tempi recenti, non sono mancate minacce di restrizione alla libera circolazione: Cameron in Gran Bretagna e la Csu in Germania hanno avanzato con insistenza la proposta di escludere bulgari e romeni, e anche lì ad opporsi sono stati soprattutto gli imprenditori. Ma anche lì, come in Svizzera, sono i lavoratori nazionali a temere la concorrenza al ribasso da parte degli stranieri. E i cittadini in generale non hanno solo paure economiche: conta pure la paura di essere spodestati, di non ritrovare più il proprio panorama urbano, le proprie consuetudini di vita. 

Per accrescere queste paure i partiti xenofobi sono pronti a esagerare. Anche in questa campagna svizzera sono ricomparse le immagini di donne musulmane ricoperte dalla testa ai piedi, insieme con fantasiose proiezioni demografiche sul numero di musulmani pronti a islamizzare la Svizzera del futuro prossimo. Le fantasie demografiche usate in campagna elettorale hanno riguardato più in generale gli stranieri, che secondo questi poco attendibili scenari, potrebbero uguagliare gli abitanti svizzeri entro il 2060. Di fatto, anche a causa della crisi economica che non ha risparmiato la Confederazione, il saldo migratorio è sceso nettamente dal 2008 al 2013. Ma la presenza di stranieri in Svizzera è decisamente alta ed è cresciuta anche nel nuovo millennio. Secondo i dati più recenti si tratta del 23,3% della popolazione, nel 2001 si era al 19,9%: perché, se gli ingressi rallentano, non vuol dire che si fermino e i tassi di fertilità degli stranieri sono comunque più alti (1,8) di quelli dei nazionali (1,2). 

Tutto sommato, al di là delle esagerazioni dei promotori del referendum, non si può negare che la percentuale di stranieri in Svizzera sia decisamente alta: in Italia si mugugna per un dato che si colloca a meno di un terzo del loro. Va osservato, peraltro, che quando di tratta di opportunità e di diritti degli stranieri, il referendum è un’arma poco leale, perché a tenerla in mano sono soltanto gli altri, i cittadini. Infatti in Svizzera ben tre referendum hanno respinto tutte le proposte di facilitare l’acquisizione della cittadinanza per i minori nati nella confederazione. In generale, il referendum funziona poco quando si tratta di promuovere o tutelare i diritti delle minoranze. Ma di quali minoranze stiamo parlando per questo specifico referendum? Vale la pena di osservare che negli ultimi anni a incrementare le presenze straniere in Svizzera non sono stati gli ingressi di immigrati che si potrebbero considerare culturalmente distanti, alieni. 

Secondo dati del 2013 sono infatti altri europei a costituire i due terzi della popolazione straniera, con un peso preponderante anche nei flussi, che hanno visto in testa tedeschi e sud-europei, questi ultimi in netta crescita anche a causa della crisi. Insomma, anche in questo referendum si è brandita la retorica della lotta alla islamizzazione e del rischio di perdita dell’identità culturale, ma sul piano della concorrenza economica lo sguardo degli elettori si è probabilmente posato molto più vicino. Qual è infatti la prima minoranza nazionale oggi residente in Svizzera? Siamo noi, gli italiani. E si noti che la nuova normativa costituzionale approvata con il referendum di ieri prevede pure la possibilità di limitare l’accesso ai frontalieri. Si tratta in gran parte di lombardi e piemontesi. E il cantone in cui il voto ha più entusiasticamente sostenuto il referendum anti-immigrazione è stato il Canton Ticino, con il 68% di favorevoli. A dimostrazione che del fatto che siamo tutti i «terroni» di qualcun altro. 

Da - http://lastampa.it/2014/02/10/cultura/opinioni/editoriali/le-paure-che-muovono-leuropa-i3Bnirg66bR4b1K05AXXCI/pagina.html
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