LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 09:35:56 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 3 [4] 5 6 7
  Stampa  
Autore Discussione: Francesco GIAVAZZI.  (Letto 66079 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #45 inserito:: Luglio 16, 2010, 05:30:17 pm »

Il pasticcio della Consob


La Consob, l’Autorità che vigila sul mercato finanziario, langue: da un mese è senza presidente, ridotta a soli tre commissari invece dei cinque previsti. Questo non sembra minimamente preoccupare il governo. Il mercato finanziario è il luogo in cui si incrociano le esigenze di finanziamento delle imprese e il risparmio delle famiglie. Informazioni puntuali sono essenziali affinché l’incontro avvenga nelle condizioni di massima trasparenza. Questo è il compito della Consob, che oggi però lo esercita in modo solo formale e burocratico.

Un esempio. Un’eccellente media impresa bergamasca, un caso di imprenditoria di qualità, la Gewiss, quotata in Borsa, è stata recentemente oggetto di un’offerta pubblica di acquisto (Opa) da parte del socio di controllo. A un investitore interessano soprattutto due cose: le motivazioni dell’offerta e il prezzo. Nelle 89 pagine del documento di offerta, approvato dalla Consob, queste informazioni non ci sono. Ad alcuni investitori viene il legittimo sospetto che la società, tolta dalla Borsa, verrà venduta in blocco con un premio sul prezzo dell’Opa: nel Bel Paese succede spesso. Un investitore istituzionale scrive all’offerente per chiedergli se il dubbio è fondato, e informa la Consob. Risposta dell’offerente: leggete il documento, nel quale però di spiegazioni non vi è traccia. La Consob tace. Il documento di offerta dice anche che si «intende offrire agli attuali azionisti un’opportunità di disinvestimento a condizioni più favorevoli di quelle registrate negli ultimi mesi dal titolo»: ci mancherebbe altro, dato che la Borsa si sta riprendendo da un periodo di prezzi depressi! Un investitore istituzionale osserva che il prezzo è basso e di nuovo informa la Consob. L’offerente risponde che consulenti indipendenti (pagati dal medesimo) garantiscono. Di nuovo la Consob non chiede che all’investitore venga data una risposta più articolata e più seria.

È solo un esempio che dimostra l’incapacità di tutelare davvero gli interessi dei risparmiatori. Vengono così quotate in Borsa società che non lo meritano affatto, emesse obbligazioni che non dovrebbero essere offerte al pubblico, effettuate scorribande quotando a un prezzo alto e poi ritirando dal mercato quando il prezzo scende. Si è proposto di nominare presidente della Consob Antonio Catricalà, oggi alla presidenza dell’Antitrust. Sono certo che Catricalà non accetterebbe, in quanto è una nomina che mina la sua indipendenza. Lo statuto di molte istituzioni indipendenti non consente ai membri del proprio consiglio di accettare, a fine mandato, alcuna nomina governativa.

Le Autorità sono organismi terzi rispetto al mercato e alla politica: la loro indipendenza e autorevolezza è garanzia del fatto che perseguano l’interesse collettivo. Oggi la politica, indebolendo le Autorità, si riappropria di questo potere per trattare direttamente con il mercato. Se questo danneggia i risparmiatori, poco importa. Il disprezzo per l’interesse dei cittadini è segno dei tempi. Tant’è che in un Paese in cui sul regionale Bergamo-Milano si va arrosto perché è rotta l’aria condizionata, il governo con grande tempestività ha nominato presidente delle Ferrovie il 76enne presidente uscente della Consob. Non sia mai che lor signori restino un sol giorno con la sola pensione.

Francesco Giavazzi

16 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_16/giavazzi-pasticcio-consob_e83266f4-909a-11df-8665-00144f02aabe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #46 inserito:: Agosto 11, 2010, 11:09:17 am »

LE CONDIZIONI PER USCIRE DALLA CRISI

Le invasioni della politica

La crisi finanziaria, di cui si compie un triennio, ha avuto una radice comune sia negli Stati Uniti che in Europa: la corruzione della politica.


Oltre Atlantico si consentì che Wall Street diventasse il maggior finanziatore delle campagne elettorali americane e così acquisisse il potere di dettare le proprie regole al Congresso. Nel contempo i governi premevano sulle banche perché concedessero mutui a tutti, inclusi molti immigrati recenti. Consentire a queste famiglie di acquistare una casa e realizzare in pochi anni il loro «sogno americano» fu una priorità sia delle amministrazioni di Bill Clinton che di George W. Bush. Poco male se questo incrinava la solidità delle banche: bastava blandire i banchieri consentendo loro di attribuirsi compensi favolosi.

In Germania i presidenti dei Länder spingevano le casse di risparmio, di cui sono i maggiori azionisti, a concedere prestiti a condizioni di favore alle aziende della loro regione. Poiché alla fine dell'anno gli stessi politici esigevano anche ricchi dividendi, i banchieri facevano tornare i conti investendo in titoli molto rischiosi: obbligazioni greche e mutui americani.

Non è un caso che le poche banche che non hanno superato i test di solidità patrimoniale effettuati dalla Bce sono tutte pubbliche. La proprietà pubblica impedisce l'apertura al mercato e rende difficile rafforzare il patrimonio quando ciò si rende necessario: è la situazione del Monte dei Paschi di Siena, che pur avendo superato il test, rimane pericolosamente vicino alla soglia di capitale minima richiesta.

Pensare che la crisi sia stata prodotta da un eccesso di mercato, dalla finanza, o dalla globalizzazione, è una sciocchezza, sostenuta da chi ha interesse a evitare che si sottolineino le responsabilità della politica. Anzi, è proprio la globalizzazione che oggi consente all’Europa di ricominciare a crescere. In pochi anni, grazie all'apertura al mercato di molti Paesi emergenti, il motore dell'economia mondiale si è spostato. Oggi la crescita non proviene più dagli Usa, ma da India, Cina e Brasile, i grandi mercati delle aziende europee.

Negli Stati Uniti la riforma dei mercati finanziari approvata il mese scorso potrebbe ridurre la probabilità di nuove crisi impedendo alle banche di assumere rischi eccessivi. Ma quella legge detta solo principi generali: per capire quanto sarà efficace occorrerà attendere i regolamenti attuativi sui quali è in corso un'aspra battaglia.

Un cambiamento importante è stata la nomina di Mary Schapiro alla guida della Securities and Exchange Commission (Sec), la Consob americana. È diventata una delle persone più temute dalla finanza americana e ha riabilitato la Sec, la cui sudditanza alla politica era stata un'altra causa della crisi.

Diversamente da Washington, il governo italiano non riesce a nominare il presidente della Consob. Eliminato il tappo di un presidente-burocrate, i tre commissari rimasti hanno varato più provvedimenti (e più incisivi) in un mese di quanti la commissione ne avesse approvati in cinque anni. Ma l’incapacità di nominare un nuovo presidente è segno evidente di debolezza della politica.

Come dimostra ancora una volta la crisi finanziaria di questi anni, la politica spesso fa la voce grossa e produce dannose invasioni di campo. Ma poi è debole quando si tratta di affrontare le questioni davvero importanti.

Francesco Giavazzi

11 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_11/giavazzi-invasione-politica_cbc0717c-a509-11df-80bf-00144f02aabe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #47 inserito:: Settembre 06, 2010, 06:24:16 pm »

LE MANCATE RIFORME CHE CI TENGONO FERMI

L'emergenza non è finita

Anziché rendere i Paesi che partecipano all’Unione monetaria più simili l’uno all’altro, l’euro ha spaccato l’Europa. La Germania cresce, risparmia e accumula ricchezza che investe nel resto del mondo; il Sud langue, spende più di quanto non riesca a produrre e si indebita. Non si tratta solo di Grecia, Spagna e Portogallo. Nei dieci anni prima della crisi il reddito pro capite italiano è cresciuto un punto all’anno meno che in Germania; durante la crisi è caduto di oltre 6 punti, a fronte del -3,7 tedesco. Anche la nostra ripresa è più lenta: la produzione industriale tedesca è quasi tornata al livello pre crisi; in Italia rimane 15 punti più bassa.

Di questo passo la disoccupazione (soprattutto fra i più giovani) rimarrà elevata per molti anni. La mancanza di crescita si riflette nella difficoltà delle famiglie che non riescono più a risparmiare, almeno tanto quanto prima. In questo decennio il risparmio privato è sceso di 2 punti (dal 20 al 18% del reddito), mentre in Germania saliva dal 22 al 24,5%. Il risultato è che per la prima volta gli italiani cominciano a indebitarsi all’estero: quest’anno prenderemo a prestito circa 50 miliardi di euro. I tagli alla spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale (salita di 3 punti nel decennio, a fronte di -2 in Germania) non sono riusciti a ridurre il debito pubblico. Alla fine degli anni Novanta, grazie alle privatizzazioni, era sceso di dieci punti, ora è risalito di 18, più che in Germania. L’economia tedesca cresce perché più degli altri ha saputo approfittare dell’Europa. Gli studi di Dalia Marin, un’economista austriaca, dimostrano che le aziende tedesche hanno approfittato dell’allargamento a Est sfruttando il capitale umano dei nuovi Paesi membri.

I tedeschi non hanno trasferito in Romania la produzione di scarpe; hanno costruito, in Polonia e nella Repubblica Ceca, fabbriche di automobili e di macchine utensili con management tedesco e operai qualificati locali. La competitività dei prodotti tedeschi non dipende dalla compressione dei salari (che per un operaio cinquantenne sono del 50% circa più elevati dei nostri), ma dall’aumento della produttività reso possibile dalla riorganizzazione della produzione. Ma è anche la nostra debolezza ad aiutare l a competitività tedesca. Senza le difficoltà del Sud dell’Europa, in questi mesi l’euro si sarebbe rafforzato almeno quanto yen e franco svizzero: le esportazioni tedesche ne avrebbero sofferto. L’interesse della Germania è un Sud saldamente ancorato all’euro (e infatti Berlino ha pagato pur di evitare l’uscita della Grecia), ma debilitato, così da mantenere debole il cambio. La nostra bassa crescita non preoccupa i tedeschi: ormai i loro mercati sono Cina, India e Brasile. I nostri politici dovrebbero capire che quando non fanno quelle riforme che libererebbero l’economia aiutando la crescita, danneggiano le famiglie italiane e fanno un regalo a Berlino.

Eppure nell’ambito degli obiettivi europei per il 2020, come ricordava ieri Mario Monti, è di questo che dovrebbero occuparsi. Il presidente della Repubblica lamenta il ritardo nella nomina del ministro per lo Sviluppo. Mi dispiace contraddirlo. Abbiamo già un ministro per lo Sviluppo e la crescita: si chiama Antonio Catricalà, il presidente dell’Antitrust. Anziché rischiare un ministro che si inventi una nuova «politica industriale», meglio tradurre in leggi e regolamenti le segnalazioni che l’Antitrust invia a governo e Parlamento e che ormai nessuno nemmeno più legge. Che fine ha fatto il disegno di legge sulla concorrenza (benzina, commercio, farmaci, appalti) che il governo ha promesso?

Francesco Giavazzi
05 settembre 2010

http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_05/l-emergenza-non-e-finita-francesco-giavazzi_8d15b544-b8ba-11df-aec9-00144f02aabe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #48 inserito:: Settembre 22, 2010, 05:02:21 pm »

Un errore, grave


Non è il disaccordo sulla presenza dei libici che ha indotto le fondazioni italiane e gli azionisti tedeschi a sfiduciare Alessandro Profumo, peraltro senza scegliere subito un sostituto, come dovrebbe avvenire in una grande banca internazionale. Sarebbe infatti sciocco opporsi a un socio di minoranza che non esita a mettere mano al portafogli quando la banca ha bisogno di capitale fresco. La Libia è solo un pretesto.

Il vero scontro che oppone Profumo ai grandi azionisti della banca è la sua decisione di trasformare Unicredit da una somma di feudi locali (Monaco di Baviera, Verona, Torino, Modena, Treviso...) in una struttura unica, come lo sono le grandi banche internazionali, ad esempio Hsbc (Hong Kong and Shanghai Banking Corporation), la più estesa e la migliore banca al mondo. Una banca unica è più efficiente, ha costi inferiori ed è in grado di offrire ai propri clienti (aziende e famiglie) credito e servizi a condizioni più favorevoli. È evidente che se fossero i clienti a decidere sceglierebbero una banca unica; ma non sono loro, e gli interessi dei grandi azionisti di Unicredit non coincidono con quelli dei suoi clienti.

Per creare una banca unica è necessario smantellare tanti piccoli feudi, ciascuno con i suoi interessi locali, con le sue parrocchie e le sue poltrone da difendere. «Quando ci sono delle decisioni che incidono sul mio territorio ho diritto di dire la mia» ha proclamato ieri Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona. Non vi è dubbio, anche se il suo diritto si limita a poter esprimere un’opinione perché il sindaco di Verona non è un azionista di Unicredit. Tosi omette di spiegare perché teme la banca unica: forse perché essa ridurrebbe il suo «peso politico» in Unicredit? Oppure pensa che danneggerebbe le aziende della sua città? Ma se così fosse, come mai ieri Emma Marcegaglia, presidente degli industriali, è scesa in campo in difesa del progetto di Profumo? I politici della Lega non sono diversi dai vecchi democristiani: loro controllavano il territorio (e i voti) attraverso le Casse di risparmio e le municipalizzate, la Lega mi pare sulla stessa strada.

I piccoli feudi non esistono solo in Italia: l’altro ieri la Süddeutsche Zeitung lamentava che Monaco di Baviera non è più un grande centro finanziario; sono rimaste BayernLB, una cassa di risparmio in difficoltà, e l’ex Hvb, una banca che Unicredit ha acquistato salvandola dal fallimento. È curioso che dopo i loro clamorosi insuccessi i bavaresi oggi reclamino posizioni di comando in Unicredit (caso mai, voce in capitolo nella gestione della banca potrebbe chiederla a giusto titolo la Polonia, dove Unicredit va a gonfie vele).

Alessandro Profumo ha anche commesso degli sbagli: comprare Capitalia, per esempio, e gestire troppo frettolosamente l’ingresso dei libici. Ma oggi paga per una sua scelta giusta: non aver accettato di venire a patti con le consorterie che comandano in Italia. In quindici anni ha creato l’unica grande multinazionale con una testa italiana. I piccoli feudi sono fermamente intenzionati a distruggerla. Con il capitalismo dei feudi le nostre imprese non andranno lontane. E le modalità ieri usate dagli azionisti possono solo danneggiare la reputazione dell’Italia.

Francesco Giavazzi

22 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_22/giavazzi-grave-errore_aa024ec8-c608-11df-89af-00144f02aabe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #49 inserito:: Ottobre 11, 2010, 06:18:19 pm »

SE VINCE SOLO LA GERMANIA

Chi è ostaggio dell'euro forte

Da qualche giorno il problema più grave non sembra essere la disoccupazione, o un'economia americana sull'orlo di una nuova recessione, ma i tassi di cambio fra le monete. I ministri finanziari del G7 hanno dedicato gran parte della giornata di venerdì al problema di che fare per «stabilizzare» i cambi, senza concludere alcunché. Qual è il tasso di cambio «giusto» fra l'euro e il dollaro? La parità cui le due monete si stavano avvicinando prima dell'estate, o 1,4 dollari per un euro, il cambio della scorsa settimana? Nessuno lo sa. I tassi di cambio non sono il toccasana che può sostituirsi alla politica economica: sono prezzi che riflettono le scelte dei governi e i loro limiti. Ogni giorno sui mercati si scambiano valute per 4 mila miliardi di dollari, un quarto di quanto produce l'America in un anno.

La debolezza del dollaro è il riflesso dell'impotenza di Obama che non riesce a convincere le famiglie americane a spendere. Se i consumi interni non riprendono, l'unico modo per evitare una nuova recessione è aumentare le esportazioni: il dollaro debole serve proprio a questo. Cercare di arrestarne la caduta sarebbe una sciocchezza.

L'euro forte è il riflesso del dilemma in cui si dibatte la Banca centrale europea (Bce). La ripresa dell'economia tedesca consiglierebbe di aumentare i tassi. Ma la debolezza di molte banche non consente di farlo. L'euro forte risolve il dilemma della Bce: rallenta la Germania e non obbliga Trichet a tagliare i finanziamenti alle banche. Anche in questo caso intervenire sarebbe, oltre che inutile, sciocco.

Il guaio è che l'euro forte risolve il dilemma tedesco ma condanna la periferia dell'Europa. I sub-fornitori della Germania oggi si trovano a Est e sempre meno in Italia. A Varsavia la qualità del lavoro è simile a quella di Modena, ma il costo è una frazione di quello italiano. Sempre meno la crescita tedesca si tramuta in ordini per le nostre aziende. Per recuperare i livelli di produzione pre-crisi (siamo ancora 15% sotto) possiamo contare solo su noi stessi. Poiché da anni i consumi ristagnano, avremmo bisogno, come l'America, di un euro debole. Ma siamo troppo piccoli ed è la Germania a determinare il valore della moneta comune.

Come risolvere il nostro dilemma? Riducendo le tasse sul lavoro per far crescere il potere d'acquisto delle famiglie; tagliando le rendite con una «botta di concorrenza» per ridurre i prezzi; aumentando la produttività per ridurre il costo del lavoro senza tagliare i salari. Servirebbe un governo pienamente impegnato sullo sviluppo e l'occupazione ma questi punti non appaiono al centro del programma di Berlusconi.

Da tre anni la Federal Reserve, la banca centrale americana, e la Bce creano un'enorme quantità di liquidità: questo consente alle banche di riprendere a concedere prestiti, ma è anche una miccia che può da un giorno all'altro alimentare la speculazione, soprattutto verso i Paesi dove il debito è elevato. Non fare nulla, confidare sulla nostra «buona stella» e sperare di averla fatta franca mi pare una scelta azzardata.

Francesco Giavazzi

11 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_11/giavazzi-euro-forte_0436c2c8-d4f7-11df-a471-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #50 inserito:: Ottobre 24, 2010, 10:34:01 am »

UNIVERSITÀ E CATTIVA COSCIENZA

Un paese fuori corso


In questi giorni molti ragazzi iniziano l'università. Per alcune famiglie si tratta della prima generazione che può continuare gli studi dopo la scuola. Che immagine hanno questi ragazzi del Paese in cui diventano cittadini adulti? In molti atenei le lezioni non cominciano: interi corsi di laurea sono stati rinviati (per ora) al secondo semestre. Gli studenti si aggirano spaesati per aule vuote, preoccupati dall'incertezza che li attende.

Del disastro universitario siamo tutti responsabili. Baroni delle cattedre, politici cinici o ignoranti, una classe dirigente che guarda all'università con sufficienza e alla prima delusione manda i figli a studiare lontano dall'Italia. In tre anni 4.500 professori, il 12% del totale, sono andati in pensione. Molti dei corsi che insegnavano non ci sono più perché, tranne casi rari, chi è andato in pensione non è stato sostituito. Il motivo è che i tagli ai finanziamenti pubblici hanno fatto sì che nella quasi totalità degli atenei la spesa per stipendi oggi superi il 90% delle risorse, soglia al di sopra della quale non si può più assumere nessuno. I ricercatori sono 24 mila. Fino a ieri due su tre insegnavano, sebbene una legge sciocca ma ancora in vigore dica che dovrebbero fare solo ricerca, non insegnare. Quest'anno oltre un terzo dei ricercatori non farà lezione: altri corsi che non partono, spesso i più avanzati poiché i più vicini alla frontiera della ricerca.

Che nell'università ci siano troppi professori è un fatto. La responsabilità è di quei sindaci e presidenti di Provincia, di destra, di centro e di sinistra, che hanno ottenuto che si aprissero università ovunque, e che in ciascuna si avviassero corsi di triennio, biennio e dottorato. Se a errori ripetuti per decenni si vuol rimediare in un giorno c'è un solo modo: chiudere i corsi di laurea. È la strada che ha scelto il ministro dell'Economia che in nome del vincolo di bilancio ha deciso di sacrificare l'università. Se i ragazzi buttano al vento un anno della loro vita, poco male. Ma se davvero il vincolo di bilancio è così stretto, come mai nel primo semestre dell'anno il governo ha consentito che la spesa corrente al netto degli interessi, evidentemente in altri settori, aumentasse di 2.800 miliardi? Chi sono i privilegiati? Possiamo permetterci di sprecare il nostro capitale umano? Non credo. Si poteva far meglio? Sì.

In luglio il Senato ha approvato la riforma dell'università. Non è una legge ideale, ma va dato atto al ministro Gelmini di aver fatto un importante passo avanti. La legge riconosce che i corsi devono essere ridotti, le università snellite, alcune chiuse. Ma si propone di farlo gradualmente, con un piano di sostituzioni solo parziali dei professori che vanno in pensione: altri 5.800 nei prossimi cinque anni. La Camera è pronta ad approvare la legge. I deputati della maggioranza non esigono che i tagli all'università (1.200 miliardi, un ulteriore 15% in meno il prossimo anno) siano cancellati: chiedono che siano ridotti della metà, per consentire alle università di funzionare. Neppure questo è compatibile con i vincoli di bilancio? Allora si abbia il coraggio di spiegare alle famiglie che non possiamo più permetterci un'università quasi gratuita, cioè rette che coprono meno di un terzo del costo degli studi. Trovo terribile il cinismo di chi lascia una generazione allo sbando perché non ha il coraggio di dire la verità.

Francesco Giavazzi

24 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_24/un-paese-fuori-corso-editoriale-francesco-giavazzi_b658834c-df3d-11df-ae0f-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #51 inserito:: Novembre 13, 2010, 04:47:22 pm »


MERCATI, SIAMO TORNATI AL PUNTO DI PARTENZA?

Febbre irlandese, miopia tedesca

Sei mesi fa l’indecisione dell’Europa fu sul punto di trasformare la crisi della Grecia nella crisi terminale dell’euro. Quando alcuni già studiavano in che modo un Paese potesse uscire dall’unione monetaria, l’Europa trovò la forza di reagire. Alla Grecia furono concessi prestiti che le consentiranno di non ricorrere ai mercati per i prossimi tre anni, e i capi di Stato si impegnarono a far sì che mai un Paese dell’euro si trovi nella situazione di non poter onorare i propri debiti. Per rendere credibile questo impegno essi hanno creato una nuova istituzione, il Fondo europeo per la stabilità finanziaria, il cui compito è offrire ai Paesi in difficoltà prestiti garantiti.

Si disse che la «paura greca» aveva insegnato all’Europa che tergiversare può essere fatale. Invece siamo tornati al punto di partenza. Il rendimento dei titoli irlandesi oggi ha raggiunto il 9 per cento, oltre sei punti più dei corrispondenti titoli tedeschi. Dublino non dovrà emettere nuovo debito fino alla prossima primavera, ma è evidente che con questi tassi non può tornare sul mercato. Perché i rendimenti irlandesi sono saliti tanto? Il nuovo Fondo offre finanziamenti a tassi poco superiori al 5 per cento, e non avrebbe difficoltà ad acquistare l’intero debito irlandese: inoltre può assumere impegni per circa 400 miliardi di euro, tre volte il debito di Dublino. Perché i mercati non si fidano?

Due settimane fa, nel vertice di Deauville, il presidente Sarkozy e la signora Merkel trovarono un accordo politico. Alla Francia, preoccupata di non riuscire a ridurre il proprio deficit tanto rapidamente quanto Bruxelles vorrebbe, la Merkel concesse che eventuali multe non fossero automatiche, ma subordinate ad un’approvazione politica. Questo consentiva a Sarkozy di dire che la Francia avrebbe ridotto il deficit alla velocità che riteneva più opportuna, senza imposizioni esterne. In cambio la Germania ottenne un impegno a non estendere la vita del Fondo oltre il 2013. Entro quella data, chiede la signora Merkel, l’Europa dovrà approntare un meccanismo per la «gestione ordinata di un fallimento sovrano », un modo educato per dire che dopo il 2013, diversamente da ciò che era stato annunciato a maggio, il default di un Paese dell’euro non sarà più un’eventualità da escludere. Dobbiamo sorprenderci se sui mercati sono tornate le preoccupazioni dei momenti peggiori della crisi greca?

Due anni fa, quando il Tesoro americano consentì che Lehman fallisse io scrissi sul sito www.voce.info: «È un bel giorno per il capitalismo, perché non si possono salvare i banchieri sempre e comunque». Era un’evidente sciocchezza perché quel fallimento fu una delle cause, forse la maggiore, che ha precipitato il mondo nella Grande recessione. La signora Merkel ha evidentemente ragione quando sostiene che impegnarsi a salvare i Paesi dell’euro sempre e comunque è un pessimo segnale. Purtroppo Lehman insegna che oggi questo rigore non possiamo permettercelo: il costo potrebbe essere la fine della moneta unica.

Il paradosso dell’euro è che la Germania è il Paese che più trae vantaggio dall’unione monetaria: senza la moneta unica il marco avrebbe seguito il rialzo dello yen e del franco svizzero, penalizzando le esportazioni tedesche. Ma la signora Merkel non riesce a spiegarlo ai suoi concittadini: è costretta ad essere inflessibile, apparentemente con buone ragioni, in realtà mettendo l’euro a repentaglio.

Francesco Giavazzi

13 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_13/giavazzi-febbre-irlandese-miopia-tedesca_9be60b62-eeef-11df-979e-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #52 inserito:: Novembre 25, 2010, 09:06:27 am »

I MERCATI EUROPEI

Quei giochi pericolosi


Non si può continuare ad affrontare la crisi che da quasi un anno attraversa i Paesi dell’euro «a spizzichi e bocconi », sempre in ritardo, senza mai risolvere i problemi fino in fondo. Per affrontare la crisi greca si impiegarono cinque mesi perché non si poteva decidere prima delle elezioni regionali tedesche. Il negoziato fra l’Europa e Dublino è durato molte settimane e la sua conclusione ha tanto convinto i mercati che la speculazione si è spostata a Lisbona senza peraltro ridurre la pressione sui titoli irlandesi. Fra qualche settimana, dopo un po’ di fibrillazione, Europa e Fondo monetario salveranno anche il Portogallo.

Sarà poi la volta della Spagna? Dopo gli interventi a favore di Grecia, Irlanda e Portogallo le risorse del nuovo Fondo europeo per la stabilità finanziaria saranno esaurite: sarà necessario rifinanziarlo ed è facile prevedere che quel negoziato richiederà una lunga trattativa. Tempi compatibili con la pressione che i mercati potrebbero esercitare su Madrid? A quel punto l’Italia potrebbe trovarsi nel mezzo di una difficile transizione politica: che accadrà alle aste dei nostri titoli pubblici? Se l’accordo non ci fosse, i problemi della solvibilità dei governi verrebbero trasferiti sulla Banca centrale europea posta di fronte alla scelta se evitare una crisi finanziaria o difendere la stabilità dei prezzi. Non tranquillizzerebbe i mercati sapere che la Bce potrebbe diventare la nuova autorità fiscale federale dell’Europa.

Mi pare un gioco al massacro dal quale l’euro (e l’Europa) rischiano di uscire a pezzi. Eppure Irlanda, Portogallo, Spagna, e a maggior ragione l’Italia, non hanno difficoltà maggiori di Gran Bretagna o Stati Uniti. Sono l’incertezza e i ritardi della politica che preoccupano i mercati e alimentano la speculazione: perché non si può essere certi che ogni crisi verrà risolta. C’è il rischio che prima o poi un ritardo, un’impuntatura facciano saltare un accordo e portino un Paese alla bancarotta. Se si vuole salvare l’euro occorre che i governi europei cambino strategia, diano una risposta politica alla crisi e la smettano di rincorrere i mercati. Ormai è chiaro che nessun Paese è disposto a rischiare la fine della moneta unica. In primis la Germania, che dall’euro sta traendo i benefici maggiori.

Ma fino a che punto sono pronti a pagarne il prezzo? Dieci anni fa, quando si decise di adottare una moneta unica, il patto che i Paesi europei sottoscrissero era molto chiaro: nessuno avrebbe lasciato crescere il debito pubblico oltre il 60%. Chi, come l’Italia, si trovava al di sopra di quella soglia, si impegnava a raggiungerla «ad una velocità adeguata». Un debito pari al 60% del reddito nazionale era quindi il livello considerato «normale ». Bene, si mantenga quel patto e ci si impegni a garantire il debito di tutti i Paesi dell’euro entro quella soglia. Gli effetti sui mercati sarebbero immediati. La Spagna, ad esempio, finirà l’anno con un debito pari al 65% del reddito, 5 punti solo sopra la soglia. Ciò significa che praticamente l’intero debito spagnolo sarebbe automaticamente garantito dall’Unione.

Il Portogallo ha un debito maggiore, l’85%, ma se il 60% fosse garantito, gli investitori non si preoccuperebbero certo della solvibilità di Lisbona. E l’Italia, che ha un debito doppio rispetto alla soglia, dovrebbe far leva sulla stabilità del suo sistema finanziario. Il nuovo Fondo europeo diverrebbe l’embrione del federalismo fiscale dell’Unione: non senza vincoli, come di fatto sta avvenendo oggi, ma con una soglia di interventi ben chiara. Limitare la garanzia al livello pattuito nel Trattato avrebbe anche l’effetto di ridurre l’azzardo morale. Oggi, se scoppia una crisi, non c’è altra scelta che garantire tutti i titoli di un Paese. Gli incentivi, sia dei mercati che dei Paesi, sarebbero molto diversi se fosse chiaro che oltre il 60% ciascuno deve risolvere i propri problemi da solo.

Francesco Giavazzi

24 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_24/quei-giochi-pericolosi-francesco-giavazzi_05b4e2ac-f792-11df-9137-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #53 inserito:: Novembre 30, 2010, 05:28:41 pm »

UNIVERSITA', IL REALISMO NECESSARIO

Riforma che va difesa


«Del valore dei laureati unico giudice è il cliente; questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all'ingegnere, e libero di fare meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi». (Luigi Einaudi, La libertà della scuola, 1953).

Il ministro Gelmini non ha il coraggio di Luigi Einaudi, non ha proposto di abolire il valore legale dei titoli di studio. Né la sua legge fa cadere il vincolo che impedisce alle università di determinare liberamente le proprie rette, neppure se le maggiori entrate fossero interamente devolute al finanziamento di borse di studio, cioè ad «avvicinare i punti di partenza» (Einaudi, Lezioni di politica sociale, 1944). Né ha avuto il coraggio di separare medicina dalle altre facoltà, creando istituti simili a ciò che sono i politecnici per la facoltà di ingegneria. Perché a quella separazione si oppongono con forza i medici che grazie al loro numero oggi dominano le università e riescono a trasferire su altre facoltà i loro costi.

Ma chi, nella maggioranza o nell'opposizione, con la sola eccezione del Partito Radicale, oggi appoggerebbe queste tre proposte? La realtà è che la legge Gelmini è il meglio che oggi si possa ottenere data la cultura della nostra classe politica.

Il risultato, nonostante tutto, non è poca cosa. La legge abolisce i concorsi, prima fonte di corruzione delle nostre università. Crea una nuova figura di giovani docenti «in prova per sei anni», e confermati professori solo se in quegli anni raggiungano risultati positivi nell'insegnamento e nella ricerca. Chi grida allo scandalo sostenendo che questo significa accentuare la «precarizzazione» dell'università dimostra di non conoscere come funzionano le università nel resto del mondo. Peggio: pone una pietra tombale sul futuro di molti giovani, il cui posto potrebbe essere occupato per quarant'anni da una persona che si è dimostrata inadatta alla ricerca.

«Non si fanno le nozze con i fichi secchi», è la critica più diffusa. Nel 2007-08 il finanziamento dello Stato alle università era di 7 miliardi l'anno. Il ministro dell'Economia lo aveva ridotto, per il 2011, di un miliardo. Poi, di fronte alla mobilitazione di studenti, ricercatori, opinione pubblica e alle proteste del ministro Gelmini, Tremonti ha dovuto fare un passo indietro: i fondi sono 7,2 miliardi nel 2010, 6,9 nel 2011, gli stessi di tre anni fa. «La legge tradisce i giovani che oggi lavorano nell'università, non dando loro alcuna prospettiva». Purtroppo ne dà fin troppe. Per ogni dieci nuovi posti che si apriranno, solo due sono riservati a giovani ricercatori che nell'università non hanno ancora avuto la fortuna di entrare: gli altri sono destinati a promozioni di chi già c'è.

La legge innova la governance delle università: limita l'autoreferenzialità dei professori prevedendo la presenza di non accademici nei consigli di amministrazione (seppure il ministro non abbia avuto la forza di accentuare la «terzietà» del cda impedendo che il rettore presieda, al tempo stesso, l'ateneo e il suo cda). Per la prima volta prevede che i fondi pubblici alle università siano modulati in funzione dei risultati.

La valutazione è l'unico modo per non sprecare risorse, per consentirci di risalire nelle graduatorie mondiali e fornire agli studenti un'istruzione migliore. Per questo l'Anvur, l'Agenzia per la valutazione degli atenei, è il vero perno della riforma. Purtroppo il ministro Mussi, che nel precedente governo la creò, ne scrisse un regolamento incoerente con la legge. Fu bocciato dal Consiglio di Stato e ha dovuto essere riscritto da zero con il risultato che l'Anvur parte soltanto ora.

La legge però non deve essere approvata ad ogni costo. Agli articoli ancora da discutere sono opposti (dall'opposizione, ma anche dalla Lega) emendamenti che la snaturerebbero. Uno alquanto bizzarro, dell'Udc, abroga il Comitato dei garanti per la ricerca, introdotto su richiesta del Gruppo 2003, i trenta ricercatori italiani i cui lavori hanno ottenuto il maggior numero di citazioni al mondo. La scorsa settimana Fli ha proposto che i 18 milioni che la legge finanziaria destina ad aumenti di stipendio per chi nell'università già c'è non siano riservati ai giovani, ma estesi a tutti. Così quei 18 milioni si sarebbero tradotti in venti euro al mese in più per tutti, anziché quaranta al mese per i giovani. Fortunatamente quell'emendamento non è passato. Ma altri sono in agguato, tra cui alcuni che introducono ope legis di vario tipo. Se passassero, meglio ritirare la legge.

Il Pd ha annunciato che voterà contro. Davvero Bersani pensa che se vincesse le elezioni riuscirebbe a far approvare una legge migliore? Migliore forse per chi nell'università ha avuto la fortuna di riuscire a entrare. Dubito per chi ne è fuori nonostante spesso nella ricerca abbia ottenuto risultati più significativi di chi è dentro.

Francesco Giavazzi

30 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_30/giavazzi-riforma-universita_d4d29fcc-fc4a-11df-8fb3-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #54 inserito:: Dicembre 22, 2010, 04:53:50 pm »

PIU' RISORSE SOLO A CHI LE MERITA

Voti (severi) agli atenei


La legge sull'Università dovrebbe essere approvata fra oggi e domani. A Mariastella Gelmini va il merito dell'unica riforma varata in due anni e mezzo di governo. Ma l'esecutivo ha perso un'occasione. Il dibattito sulla legge era un'opportunità. Per smascherare chi si è opposto in nome dell'autonomia della ricerca e dell'insegnamento, quando in realtà proteggeva la sua piccola rendita. Per convincere gli studenti che un'Università più aperta è innanzitutto nel loro interesse: difendere chi nell'Università ha avuto la fortuna di entrare, tenendo fuori chi non ha potuto godere di sorte analoga, danneggia prima di tutti i giovani. Per incalzare infine l'opposizione e vedere se il Pd è pronto a tutelare il merito anche quando questo entra in collisione con i sindacati dei docenti.

Invece il governo ha ridotto la discussione a un problema di ordine pubblico. Non ha capito che il movimento degli studenti ha ragioni profonde: è il sintomo preoccupante di una generazione che si sente sempre più abbandonata. Ragazzi allibiti dalla politica che raccontano i giornali, angosciati dalla prospettiva del lavoro che non c'è, delusi da un governo che non ha fatto nulla per loro. Se lo ha fatto, questa era l'occasione per spiegarlo. Accettando il dialogo, non invitando i giovani a restare a casa come ha fatto ieri il capogruppo pdl al Senato Maurizio Gasparri. Gli studenti non rimarranno a casa perché è l'Università la loro casa, ma non cadranno neppure nella trappola di chi vuole farli passare per violenti teppisti.

Ciò premesso, la legge Gelmini non è certo una riforma perfetta, soprattutto per una maggioranza che si dichiara «liberale»: Luigi Einaudi avrebbe redatto un testo molto diverso. Ma, come ho già scritto Corriere, 30 novembre, è la migliore che possiamo attenderci da questa classe politica. In due anni di discussione le proposte avanzate dal Pd sono state o variazioni marginali sul testo del governo, o modifiche più sostanziali, ma nella direzione di una maggiore protezione di chi nell'Università già c'è. La legge è un canovaccio tutto da riempire: se sarà una buona riforma, dipende da come saranno redatti, e in che tempi, i regolamenti attuativi. Tenere accesa l'attenzione è responsabilità dell'opposizione che nei prossimi mesi non dovrà dimenticarsene.

Se la parziale liberalizzazione avrà risultati positivi, sarà effetto degli incentivi che gli atenei percepiranno, cioè dell'efficacia della valutazione, che è il vero cardine della legge. Anche aver trasformato le università telematiche in normali università private non è necessariamente uno scandalo. L'open university inglese è un'istituzione seria e utile. Le nostre telematiche sono per lo più delle truffe: promuovere un insegnamento a distanza qualificato sarà uno dei compiti della valutazione.

L'Anvur, l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'Università e della ricerca, nasce oggi con la designazione dei membri del suo consiglio direttivo. Essi dovranno essere molto ambiziosi, avere come propri riferimenti la Banca d'Italia e la Consob perché la formazione del capitale umano è più importante sia delle banche sia della Borsa. Per farlo l'Anvur dovrà avere risorse adeguate. La credibilità del ministro si giocherà anche sui fondi di cui riuscirà a dotarla: se questi verranno lesinati, la riforma sarà stata un esercizio inutile.

Francesco Giavazzi

22 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_22/voti-severi-atene-editoriale-francesco-giavazzi_e46bf2e0-0d92-11e0-8558-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #55 inserito:: Gennaio 09, 2011, 11:26:53 am »

GLI AFFARI E LA DEMOCRAZIA

Se Pechino compra tutto


Molti continuano a credere che aprire i nostri mercati ai prodotti cinesi, accettando Pechino nell'Organizzazione mondiale del commercio, sia stato un errore, l'origine lontana della crisi che stiamo vivendo. Altri pensano invece che sarà proprio la Cina a salvarci dalla crisi, sostituendosi agli Usa come nuovo motore della crescita mondiale. Spesso questa contraddizione risiede nelle medesime persone. Il ministro Tremonti da anni tuona contro la globalizzazione, ma parlando alla Scuola del Partito comunista cinese ha detto: «Il mondo è ormai multipolare». Ed ha aggiunto: «Dobbiamo rispettare forme politiche diverse dalla nostra», un duro colpo per chi, dalle prigioni cinesi, lotta per la libertà di critica.

Dal timore per la Cina siamo passati alla speranza che Pechino acquisti i nostri titoli pubblici. Si stima che a fine giugno il governo cinese detenesse 630 miliardi di obbligazioni dell'Eurozona, il 7,4% del totale e il 28% di quelle detenute fuori dalla zona. Alcuni temono che questi titoli siano uno strumento di pressione che la Cina userà nel momento opportuno.

È venuto il tempo di riflettere in modo meno episodico sui nostri rapporti con Pechino. Occorre innanzitutto rendersi conto che il governo cinese è meno sicuro della propria forza di quanto spesso si pensi. Sostiene l'euro perché teme un mondo bipolare che lo lasci solo di fronte agli Usa. Un mese fa diffidò dal recarsi a Oslo per la consegna del premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo (che a Oslo non c'era perché in carcere). Gli europei invece ci andarono, ma Pechino non si vendicò: anzi, pochi giorni dopo fece un comunicato di forte sostegno all'euro. Prysmian, l'ex divisione cavi della Pirelli, ha lanciato un'offerta pubblica su Draka, una società olandese. A Draka erano interessati anche i cinesi, ma la gara l'hanno vinta gli italiani. Il governo di Pechino ha accettato lo smacco con spirito sportivo, non ha minacciato di vendere i Btp che detiene.

Il surplus cinese (oltre 200 miliardi di euro) è in gran parte il riflesso della pirateria informatica. Il valore delle esportazioni supera quello delle importazioni anche perché i cinesi copiano la maggior parte del software che usano. Se acquistassero le licenze, il saldo sarebbe molto più vicino al pareggio. La tutela dei diritti di proprietà è la prima cosa da chiedere a Pechino. Garanzie su questo punto potrebbero creare le condizioni per eliminare l'embargo sulla vendita ai cinesi di tecnologie duali, cioè utilizzabili sia per scopi civili che militari, una loro vecchia richiesta. Per alcune aziende europee, ad esempio Alenia Thales, la società italo-francese che produce satelliti, si aprirebbe un mercato enorme, oggi precluso.

Per stabilire nuovi rapporti con la Cina dobbiamo innanzitutto smetterla di pensare che la globalizzazione è il diavolo. Ma al tempo stesso essere consci della nostra forza che è la tecnologia, ma anche la democrazia. Rinunciare alle nostre convinzioni, passare sotto silenzio le violazioni dei diritti civili e di proprietà ha solo l'effetto di indebolirci agli occhi dei cinesi.

Francesco Giavazzi

09 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_09/giavazzi_se-pechino-compra-tutto_f3ff12b6-1bc8-11e0-9ee8-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #56 inserito:: Gennaio 29, 2011, 11:32:32 am »


L'IPOTECA TEDESCA SULL'EURO

Il futuro dell'euro si deciderà nel Consiglio europeo del 24 marzo. Quella riunione potrebbe cambiare il nostro ordinamento economico in modo più profondo delle blande norme sul federalismo che il Parlamento discuterà la prossima settimana.
La posta in gioco sono le condizioni che la Germania chiede per salvare l'unione monetaria. O meglio: le condizioni che la signora Merkel ritiene necessarie per convincere i suoi cittadini a farlo.
Da molti anni la Germania ha un eccesso di risparmio, cioè spende meno di quanto non produca e investe una parte del suo reddito all'estero. Nel 2011 l'eccesso di risparmio ammonterà a oltre 120 miliardi di euro.

Diversamente dalla Germania, altri Paesi dell'eurozona hanno un deficit di risparmio, cioè spendono più di quanto non producano. La somma dei loro deficit è identica al surplus tedesco: 40 miliardi circa Spagna e Italia, 20 circa Portogallo e Grecia, 120 miliardi in tutto.

Per un decennio l'equilibrio dell'unione monetaria è stato garantito dal fatto che i tedeschi investivano il loro eccesso di risparmio nei Paesi in deficit. Era evidentemente una libera scelta, dettata dall'aspettativa che quei Paesi sarebbero cresciuti e avrebbero garantito rendimenti più elevati che in Germania.

Oggi tuttavia gli investitori tedeschi si chiedono se investire nella periferia dell'euro sia ancora prudente. Se non sarebbe meglio acquistare attività cinesi, brasiliane o indiane. Il risparmio destinato ai Paesi della periferia ha sempre più il sapore di un sussidio anziché di un investimento interessante.

Che cosa accadrebbe se quel flusso di risparmio s'interrompesse? È un fenomeno ben noto nell'esperienza latinoamericana, che va sotto il nome di sudden stop, un brusco arresto. Il Paese che non riesce più a finanziare il suo eccesso di spesa deve tagliare consumi e investimenti e precipita in una recessione profonda. Il brusco arresto è amplificato dal fatto che il Paese non solo non riesce più a finanziare i flussi, ma neppure il debito in scadenza. In America Latina ciò che a quel punto di solito accade è una grande svalutazione che dà fiato alle esportazioni e attenua la recessione. Ma poiché nell'unione monetaria ciò non è possibile, un sudden stop finirebbe per indurre il Paese che lo subisce a uscire dall'euro.

Che condizioni pone la Germania per continuare a finanziare la periferia? Essenzialmente tre. Che la Grecia accetti la ristrutturazione del proprio debito e quindi l'evidenza di non riuscire a sostenerlo, con la conseguenza di dover rivedere interessi e tempi di rimborso. Una lezione per chi, come Atene, ha raccontato bugie sui propri conti pubblici. In secondo luogo che ogni trasferimento fiscale - come quelli di cui lo scorso anno hanno goduto Grecia e Irlanda - sia d'ora in poi soggetto al veto tedesco. Infine (come confermato l'altro ieri dal viceministro delle Finanze, Jörg Asmussen) che ogni Paese appartenente all'eurozona modifichi la propria Costituzione, introducendovi la regola del pareggio di bilancio, come ha fatto la Germania due anni fa. È una regola che non consente di usare la politica di bilancio come strumento per stabilizzare l'economia, e che è particolarmente dura per i Paesi con molto debito. L'Italia sarebbe costretta a compensare con maggiori tasse o tagli alle spese ogni fluttuazione nei tassi di interesse.

Se queste sono le condizioni per salvare l'euro, siamo pronti a sottoscriverle?

Francesco Giavazzi

29 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_29/giavazzi_merkel_decide_52e13008-2b6d-11e0-8f5d-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #57 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:46:35 am »

PIU' CORAGGIO PER CRESCERE

Il reddito degli italiani

Nella classifica della ricchezza privata, le famiglie italiane sono al primo posto. La loro ricchezza netta è pari a quasi otto volte il loro reddito annuale (dopo le imposte). In Germania il rapporto è di 6 volte, 7,5 in Francia. La classifica tuttavia s'inverte se anziché la ricchezza consideriamo la crescita. In un decennio (fra il 2001 e il 2010) il reddito delle famiglie italiane è diminuito del 4%. In Francia, in Germania e nella media dell'eurozona è cresciuto fra il 5 e il 7%.
Evidentemente utilizziamo male la nostra ricchezza, cioè non la impieghiamo là dove potrebbe aiutare la crescita.

Alcuni ritengono che l'errore sia una distribuzione squilibrata fra lo Stato e le famiglie: troppo patrimonio privato e al tempo stesso troppo debito pubblico. E propongono di usare una parte della ricchezza delle famiglie per ridurre il debito dello Stato. Il modo per farlo è un'imposta patrimoniale straordinaria. L'effetto sulla crescita sarebbe devastante. Allineerebbe l'Italia a Paesi come il Venezuela, dove la proprietà privata è alla mercé dell'arbitrio dei governanti. Farebbe scappare gli investimenti e anche le persone migliori che cercherebbero lavoro in Paesi in cui le regole sono meno arbitrarie. (Giulio Tremonti non è apertamente favorevole a una patrimoniale, ma che cosa ha in mente quando dice che ricchezza privata e debito pubblico vanno sommati?).

È vero che la nostra bassa crescita è anche frutto di una ricchezza mal distribuita, ma lo squilibrio rilevante non è fra Stato e privati. È nel modo in cui i capitali si sono accumulati e come essi sono impiegati. Troppo spesso sono frutto di posizioni di rendita e rimangono estranei al circuito della crescita. È il caso di aree economiche dove il guadagno è garantito da norme che concedono ampie riserve di attività. Raramente le sostanze accumulate grazie a posizioni di rendita finanziano idee nuove, che hanno bisogno di capitali per trasformarsi in imprese. Lo stesso vale per la ricchezza investita in imprese mature, le quali resistono solo perché protette dalla concorrenza, occupando uno spazio di mercato che impedisce la crescita di aziende più giovani e produttive.

Affinché il patrimonio accumulato possa diventare un motore della crescita è quindi necessario abbattere rendite e protezioni, consentendo alla ricchezza di accumularsi là dove è più facile che finanzi lo sviluppo. Giulio Tremonti ritiene che per farlo sia necessario modificare la Costituzione. È un modo (forse) per tranquillizzare parte della sua base elettorale, che teme un colpo alle rendite. La lunghezza e l'incertezza di una riforma costituzionale non cambierebbe nulla e lascerebbe tutti tranquilli per molti anni.

Se si vuole dare un segnale concreto occorrono microinterventi che favoriscano la concorrenza e indichino una nuova direzione di marcia: possono essere varati in pochi giorni e non costano nulla. Due esempi. Evitare il ripristino delle tariffe minime previsto nella riforma forense approvata dal Senato (ma non ancora dalla Camera) che impediscono ai giovani che accedono alla professione di poter offrire prezzi più competitivi. Consentire l'apertura di nuove parafarmacie, uno degli esperimenti di maggior successo di questi anni. Poter acquistare un'aspirina a mezzanotte in autostrada (da un farmacista neolaureato che non ha avuto la fortuna di ereditare il negozio dai genitori) ha fatto capire anche ai più scettici che cosa significhino le liberalizzazioni.

Francesco Giavazzi

04 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #58 inserito:: Aprile 08, 2011, 10:28:12 pm »

I veri nemici dell'euro

Non sarà la crisi portoghese a determinare il fallimento dell'euro, così come non lo fu un anno fa la crisi greca, o in autunno quella irlandese. L'euro sopravvive a queste ricorrenti turbolenze (anzi si rafforza, in un anno il suo valore rispetto al dollaro è aumentato del 16 per cento) per due motivi. Innanzitutto perché una generazione di politici europei ha legato la propria credibilità al successo dell'unione monetaria. Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, lo stesso Silvio Berlusconi sono pronti a tutto pur di non essere giudicati responsabili della fine dell'euro. I loro elettori non lo capirebbero, soprattutto i giovani, che neppure ricordano le vecchie monete nazionali, alcuni non le hanno mai viste nella loro vita adulta.

La Merkel, Sarkozy, Berlusconi non appartengono alla generazione di François Mitterrand, Helmut Kohl, Giulio Andreotti, i padri dell'unione monetaria. Anzi, alcuni di loro in passato la criticarono, spesso con violenza. Eppure oggi ne sono i difensori più strenui: basti pensare a come si è ribaltata la posizione di Giulio Tremonti nei confronti dell'euro.
Ha avuto ragione chi pensava che sarebbe stata la moneta unica a far crescere l'Europa politica, non viceversa. Il primo a sostenerlo fu Gustav Stresemanns, cancelliere della Repubblica di Weimar: a Ginevra, alla Lega delle Nazioni, nel 1929, disse: «Al congresso di Versailles abbiamo creato un gran numero di nuovi Stati europei. Ora ci vuole una moneta europea».

Il secondo motivo per cui l'euro si salverà è che chi è davvero nei guai non sono i debitori (Grecia, Portogallo, Irlanda) ma chi li ha finanziati: soprattutto le banche pubbliche tedesche. Male amministrate e succubi dei loro padroni, i governatori dei Länder, queste banche hanno inseguito qualche decimo di rendimento in più senza chiedersi quale fosse il rischio cui andavano incontro. Hanno riempito i loro bilanci di titoli greci, irlandesi, portoghesi, anche di mutui subprime americani. Altro che superiorità dello Stato sul mercato, come alcuni si ostinano a ripetere! Lo aveva capito dieci anni fa Mario Monti quando, da commissario europeo, tolse alle banche pubbliche tedesche i privilegi di cui godevano: evidentemente non è bastato per sottrarle all'influenza della politica. Come sempre accade i debitori verranno tutti salvati, per salvare i loro creditori.

Ciò che mette a rischio l'euro non sono i debiti, per i quali si troverà una soluzione, ma la mancanza di crescita. Questo vale per la Grecia quanto per l'Italia. Se i cittadini identificheranno nell'euro la causa della bassa crescita e dell'alta disoccupazione, la generazione di governanti che oggi difende l'unione monetaria sarà rimpiazzata da politici che stanno costruendo la propria fortuna sulla critica all'euro. La tentazione dei liberali tedeschi di risollevarsi dal disastro elettorale cavalcando il populismo, e soprattutto la popolarità di Marine Le Pen in Francia, sono il maggior pericolo che corre la moneta unica. L'unico modo per evitarlo è ricominciare a crescere.

Francesco Giavazzi

08 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_08/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #59 inserito:: Maggio 25, 2011, 04:28:30 pm »

LA SCELTA PER LA BANCA D'ITALIA

Chi verrà dopo Draghi

Una settimana fa l'Ecofin, il Consiglio dei ministri finanziari europei, ha designato il governatore della Banca d'Italia per la presidenza della Banca centrale europea. Se, come è probabile, la scelta verrà ratificata dal Consiglio europeo del 24 giugno, il primo novembre Mario Draghi succederà a Jean-Claude Trichet. Si dovrà quindi aprire la procedura per la nomina di un nuovo governatore. La legge prevede che egli sia nominato con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio, sentito il Consiglio superiore della Banca.

La struttura dell'Unione monetaria europea rassomiglia sempre più al sistema della Riserva federale degli Stati Uniti. Le banche centrali nazionali sono le strutture operative, ma ogni decisione è presa a Francoforte, dove ciascun governatore dispone di un voto su 23.

E tuttavia, più che altrove in Europa, la Banca d'Italia continua ad essere una delle istituzioni più importanti perché è, insieme all'Antitrust, l'unica autorità davvero indipendente dal governo. E lo è grazie alla sua storia centenaria e alla qualità delle persone che hanno ricoperto la funzione di governatore, da Einaudi, a Ciampi, a Draghi. L'indipendenza della Banca è stata rafforzata dal suo essere «fucina di talenti», in grado di produrre un gran numero di persone di straordinaria qualità, selezionate sulla base del merito. Cosicché, nella scelta del governatore, i presidenti del Consiglio, in quarant'anni, non hanno mai dovuto ricorrere a persone esterne. Questo vale anche per l'attuale governatore che pur non essendo un interno in senso stretto appartiene a quell'esiguo gruppo di professori (oltre a lui Modigliani, Caffè, Vicarelli, Rey e Tarantelli) che, in periodi diversi, i suoi predecessori hanno voluto accanto come consulenti. Scegliere un governatore esterno significa rinunciare a una tradizione che finora ha ben funzionato, umiliare la Banca e indebolirla.

Fuori da Palazzo Koch persone che potrebbero ricoprire la funzione di governatore con grande dignità ed esperienza non mancano certo, ma una scelta esterna esporrebbe la Banca d'Italia al mercato della politica. Anche se la persona designata fosse la più meritevole, e certamente lo sarebbe, il precedente potrebbe in futuro riservare qualche brutta sorpresa. La scelta più opportuna è quella di un membro del direttorio (Saccomanni, Visco, Tarantola, Carosio), nella tradizione della Banca.

La funzione più importante e delicata che oggi svolge la Banca d'Italia è la vigilanza sugli istituti di credito. Molte attività sono state trasferite a livello europeo, ma il ruolo del «vigilante» locale rimane insostituibile: perché non ci sono carte e moduli che descrivano la situazione di una banca con altrettanta immediatezza come il faccia a faccia fra la vigilanza e i suoi dirigenti. La vigilanza di Banca d'Italia, e la disponibilità del ministro Tremonti a ricapitalizzarle, hanno contribuito a tenere le nostre banche fuori dal ciclone della crisi. La fermezza di Draghi ha infastidito qualche banchiere, soprattutto le Popolari, che hanno più difficoltà a rafforzare il loro capitale. Oggi premono sulla politica e auspicano un cambio della guardia e un governatore esterno, meno severo e che guardi più di buon occhio alle «banche di sistema». Non è accettabile che coloro che debbono essere vigilati esercitino pressioni sulla scelta di chi dovrà vigilarli. Il nuovo governatore non deve avere referenti politici: una ragione in più per non deflettere dalla tradizione di scegliere un successore interno alla Banca.

Francesco Giavazzi

24 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_24/
Registrato
Pagine: 1 2 3 [4] 5 6 7
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!