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Autore Discussione: Francesco GIAVAZZI.  (Letto 60797 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Luglio 05, 2012, 11:57:54 am »

MERKEL E LA MONETA UNICA

L'europa vista da Berlino

I risultati del vertice europeo della scorsa settimana potrebbero segnare un punto di svolta nella lunga crisi dell'eurozona. E tuttavia essi rendono ancor più urgente accelerare le riforme. Perché fra gli annunci di Bruxelles e le azioni concrete che ora dovranno seguire trascorrerà molto tempo, e i mercati si interrogano se alla fine tutto andrà come il comunicato di venerdì scorso ha lasciato intendere. In questa incertezza è solo la determinazione di ciascun Paese a fare i propri «compiti a casa» che può tranquillizzare gli investitori.

La novità più interessante emersa nel vertice è la strategia della Germania. Solo poche settimane fa Angela Merkel non aveva consentito l'uso diretto di fondi europei per ricapitalizzare le banche spagnole. Venerdì invece ha detto sì, ma a condizione che il potere di vigilare sulle banche di ciascun Paese sia trasferito alla Banca centrale europea. Sarebbe una decisione storica: neppure la Federal reserve americana ha poteri tanto ampi. Ma non sarà facile.

Innanzitutto non è chiaro se lo si può fare senza modificare i trattati europei (l'articolo 107 consente il trasferimento alla Bce solo di «alcuni compiti» di vigilanza). In secondo luogo perché proprio in Germania le Casse di risparmio - feudo dei politici che comandano nei Länder - hanno già detto che non intendono farsi vigilare da un'istituzione europea, e che se ciò fosse loro imposto ricorrerebbero alla Corte costituzionale. Insomma, ci vorrà del tempo prima che la condizione tedesca sia soddisfatta, e nel frattempo la ricapitalizzazione delle banche può solo avvenire a carico dei già debolissimi conti pubblici spagnoli.

Sulla possibilità di usare fondi europei per acquistare titoli pubblici e quindi ridurre gli spread (la richiesta dell'Italia durante il vertice a Bruxelles), Angela Merkel ha per ora di fatto detto no. La Germania ritiene che per arrivarci sia necessario un altro passo avanti nell'integrazione, cioè un'ulteriore cessione di sovranità. Ad esempio accettare che, se un Paese non rispetta gli impegni che ha preso sui propri conti pubblici, la nuova legge finanziaria che si renderà necessaria non sia scritta dal suo governo e approvata dal suo Parlamento, ma scritta dalla Commissione di Bruxelles e approvata dal Parlamento europeo.

Un simile passo, che sarebbe infinitamente più rivoluzionario dell'inutile battaglia sugli eurobond, potrebbe essere meno lontano di quanto si pensi. L'idea di un meccanismo antispread ha avuto il merito di affermare che divari troppo ampi nel costo del denaro sono incompatibili con la moneta unica. Ma allo stato attuale interventi sui titoli appaiono improbabili. Chi li potrebbe fare, infatti, non ha le risorse necessarie per essere credibile: lo European financial stability fund ha solo poche decine di miliardi di liquidità, e il nuovo European stability mechanism (Esm) ha solo il suo capitale (80 miliardi, che riceverà poco alla volta). Come abbiamo imparato nel settembre del 1992, durante la crisi dei cambi fissi rispetto al marco tedesco, solo disponendo di risorse teoricamente illimitate si possono stabilizzare i prezzi.

Allora solo la Bundesbank era in grado di difendere i cambi fissi: nel momento in cui non fu più disposta a farlo il sistema crollò. Oggi solo la Bce potrebbe impegnarsi a limitare gli spread: acquistando essa stessa i titoli o finanziando l'Esm. La Germania (fortunatamente) si oppone a un simile uso improprio (e inutile) della politica monetaria: infatti non ha consentito che all'Esm fosse data una licenza bancaria. Gli interventi quindi non sarebbero credibili, e perciò sarebbero controproducenti.

Con buona pace di coloro che da settimane accusano Angela Merkel di essere un'irresponsabile, il vertice ha chiarito che la cancelliera non ha alcuna intenzione di lasciare fallire l'unione monetaria. È l'unico leader europeo ad avere una strategia chiara e che potrebbe funzionare. Non salti nel buio, proposte inutili e irrealizzabili, come gli eurobond, ma una progressiva cessione di sovranità all'Europa, cioè una transizione graduale ma concreta verso un'unione politica.

Nel frattempo però gli argini rimangono fragili e le nostre debolezze le stesse di una settimana fa, perché non vi era nulla che il vertice potesse fare per risolverle.

L'unica strada è continuare a fare ciascuno i propri compiti. Nel nostro caso una riduzione drastica della spesa pubblica (e quindi il prima possibile delle imposte), vere privatizzazioni (non trasferimenti di azioni da un braccio dello Stato ad un altro), il completamento degli interventi (finora troppo timidi) volti ad aprire i mercati.

Il tempo sta per scadere. La campana potrebbe suonare già il 7 agosto, quando si conosceranno i dati sulla crescita del secondo trimestre dell'anno, purtroppo, temo, non buoni.

P.S. Riprendo a scrivere dopo aver consegnato al governo, il 23 giugno scorso, il rapporto sui Contributi pubblici alle imprese , ed aver così esaurito l'incarico che mi era stato affidato. Mi auguro che quel lavoro sia di qualche utilità nell'ambito della spending review.

Francesco Giavazzi

3 luglio 2012 | 8:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_03/europa-vista-da-berlino-francesco-giavazzi_6e6f634e-c4cd-11e1-a141-5df29481da70.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Agosto 05, 2012, 07:36:28 pm »

IL COMMISSARIAMENTO SI PUÒ EVITARE

Ce la facciamo anche da soli

Dobbiamo farcela da soli. Non chiedere l'aiuto del Fondo europeo per la stabilità finanziaria (Efsf e poi Esm), non sottoporci alla vigilanza dell'Eurogruppo e rinunciare allo scudo che ci offre la Bce. Ce la possiamo fare da soli perché la nostra situazione è diversa da quella spagnola: non abbiamo avuto una bolla immobiliare e le nostre banche non sono zeppe di mutui andati a male; il debito pubblico è elevato (123% del Pil), ma i conti dello Stato al netto degli interessi sono attivi (+3,6% nel 2012), e soprattutto non abbiamo accumulato un ingente debito estero spendendo per oltre un decennio il 10% più di quanto veniva prodotto. La Spagna non ha alternative, noi sì.


Per riuscirci da soli ci vuole uno scatto di orgoglio. È necessario che Mario Monti ritrovi lo slancio e la determinazione iniziali. E soprattutto è necessario che il Parlamento si occupi di meno degli interessi particolari dei quali è diventato il paladino e guardi un po' di più all'interesse generale. Se pensassimo di non esserne capaci, tanto varrebbe votare subito: la campagna elettorale sarebbe in gran parte inutile perché l'agenda politica verrebbe comunque dettata da altri, i quali non necessariamente fanno solo i nostri interessi. E il risultato delle elezioni sarebbe pressoché irrilevante: anche questioni di nostra pertinenza verrebbero risolte a Berlino e a Francoforte.


Per riuscire a tutelare la nostra indipendenza economica e politica ci vuole un piano. Oggi, non a settembre. Perché quando la Spagna firmerà la sua richiesta di aiuto - prevedo nei prossimi giorni - se non avremo una strategia alternativa e senza l'intervento della Bce, il nostro spread salirà ancora. Ci troveremmo a dover chiedere aiuto con un'economia allo stremo.


Il piano per «salvare l'Italia» ha due parti. Innanzitutto bisogna sospendere, da qui alle elezioni, le emissioni di titoli a medio-lungo termine. Da settembre a marzo il Tesoro ne deve emettere 100 miliardi circa, di cui 60 circa detenuti da residenti, 40 da investitori esteri. Si cominci a vendere qualche società pubblica, ad esempio quote di Terna e Snam Rete Gas: i prezzi di Borsa sono depressi, ma anche i rendimenti dei Btp sono straordinariamente elevati. Vendere con la rapidità necessaria è tuttavia tecnicamente impossibile. Le azioni di queste società sono già state trasferite alla Cassa Depositi e Prestiti che può scontarle alla Bce e con la liquidità così ottenuta acquistare Btp.

La Cassa ha una licenza bancaria e lo può fare: è quello che da mesi fanno le nostre banche. Si può riprodurre il meccanismo con altre società pubbliche e veicoli diversi dalla Cassa. Affinché una simile operazione sia credibile non deve essere un'alchimia finanziaria, ma un «anticipo in conto vendita», cioè si deve cominciare a vendere. Si potrebbe anche pensare ad attrarre il risparmio delle famiglie con emissioni di titoli non soggetti a imposte per i residenti. Il ministro Grilli avrà certamente idee migliori: l'importante è la rapidità. Cento miliardi sarebbero sufficienti per cancellare la maggior parte delle aste di qui a marzo.


Sette mesi senza l'assillo delle aste dovrebbero essere impiegati, come diceva Prodi (che però purtroppo non lo fece), per «smontare l'Italia come un meccano e rimontarla in modo che funzioni»: ridurre le spese, tagliare il debito vendendo, riprendere riforme (liberalizzazioni e mercato del lavoro) che sono state lasciate a metà, fare una legge elettorale decente. Se lo farà, Mario Monti ci avrà regalato un Paese indipendente e moderno.

Francesco Giavazzi

4 agosto 2012 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_04/ce-la-facciamo-da-soli-giavazzi_88188e44-ddf3-11e1-9fa2-bd6cbdd1a02d.shtml
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« Risposta #77 inserito:: Settembre 04, 2012, 10:49:36 am »

ELEZIONI E PROGRAMMI DEI PARTITI

Ogni promessa non sia debito

Durante la campagna elettorale del 2006 la coalizione di centrosinistra si impegnò, qualora avesse vinto le elezioni, a cancellare la riforma Maroni, che a partire dal 2008 avrebbe aumentato di tre anni l'età minima per andare in pensione. Vinte le elezioni, il governo Prodi mantenne la promessa, con un costo, per il sistema previdenziale, stimato in circa 10 miliardi sull'arco di un decennio. Durante la successiva campagna elettorale, era il 2008, Silvio Berlusconi, in un dibattito televisivo, promise di cancellare l'Ici sulla prima casa, anche in questo caso senza spiegare come il governo avrebbe fatto fronte al mancato gettito, circa 2 miliardi di euro l'anno.

Si avvicinano le elezioni e tornano le promesse. In sordina, durante il mese di luglio, la Camera ha approvato un ordine del giorno - promosso da Cesare Damiano, ministro del Welfare nel secondo governo Prodi, ma sottoscritto da deputati di tutti i partiti che sostengono Mario Monti - che chiede al governo di favorire un iter parlamentare spedito per l'approvazione di un disegno di legge che smonterebbe pezzi importanti della riforma Fornero, con un costo per lo Stato stimato in circa 5 miliardi dal 2012 al 2019.

Nel centrodestra è forte la tentazione di ripetere le gesta del 2008 e impostare la campagna elettorale sulla promessa di cancellare l'Imu sulla prima casa, un'imposta il cui gettito è stimato quest'anno in 3,3 miliardi di euro. Angelino Alfano pensa che si possa far fronte alle minori entrate non tagliando le spese, bensì vendendo immobili pubblici per una cifra straordinaria: 400 miliardi di euro. Basta alzare gli occhi e leggere quanti cartelli «affittasi» e «vendesi» sono appesi nelle nostre città per dubitare di questa copertura.

L'incertezza su ciò che accadrà dopo le elezioni è la maggior preoccupazione degli investitori cui chiediamo di acquistare i titoli del nostro debito pubblico. Se nei prossimi mesi non saremo capaci di tranquillizzare i mercati sulla tenuta dei conti dopo le elezioni i tassi di interesse rimarranno elevati: è un'incertezza che nemmeno la Banca centrale europea può cancellare.

Vi sono due modi per rassicurare i mercati: ci si può legare le mani affidandoci alla vigilanza di organismi esterni (Bruxelles, la Bce, il Fondo monetario), oppure possiamo dare noi delle garanzie. Il presidente del Consiglio potrebbe chiedere ai partiti della sua maggioranza - i maggiori concorrenti nelle prossime elezioni - di votare una risoluzione parlamentare in cui si assumono alcuni impegni precisi: ad esempio, il centrodestra si impegna a non cancellare l'Imu e il centrosinistra a non modificare la riforma delle pensioni. Mario Monti e Giorgio Napolitano, che siederanno nel nuovo Parlamento come senatori a vita, dovrebbero assumersi l'onere di garantire questo impegno. Un vincolo liberamente sottoscritto dai partiti e votato dagli elettori sarebbe incomparabilmente più forte (e dignitoso) di qualunque coercizione esterna.

Francesco Giavazzi

4 settembre 2012 | 8:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_04/giavazzi-ogni-promessa-non-sia-debito_2378ace4-f64e-11e1-ac56-9abd64408884.shtml
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« Risposta #78 inserito:: Ottobre 07, 2012, 04:02:16 pm »

IL GOVERNO E LA CAMPAGNA ELETTORALE

Quel che resta (molto) da fare


Vi è una sorprendente asimmetria fra l'economia tedesca e la nostra. In Germania quest'anno il reddito crescerà di circa l'1%; in Italia scenderà di oltre due punti. Ci aspetteremmo che in un'economia che soffre di scarsa domanda i prezzi scendano, o almeno non salgano. Invece l'inflazione è più alta in Italia che in Germania: 2,7% contro 1,8%. Questi dati si riferiscono ai prezzi al consumo depurati dall'effetto delle imposte indirette: cioè la differenza fra la nostra inflazione e quella tedesca non può essere attribuita all'aumento dell'Iva o di altre accise.

Il motivo per cui, nonostante la recessione, l'inflazione non scende, è la scarsa concorrenza. L'anno scorso (dati Mediobanca) il margine operativo netto in percentuale del valore aggiunto, una buona misura della redditività di un'azienda, è stato del 43% nel settore dell'energia, 33% nei servizi, 17% nell'industria manifatturiera.

Insomma, siamo un Paese in cui chi compete sui mercati internazionali continua ad ottenere grandi successi, ma con margini sempre più ridotti, che rendono problematico investire. Altre aziende, invece, protette dalla concorrenza, aumentano i prezzi e così riescono a estrarre ricche rendite dal resto dell'economia.

Queste rendite sono poi suddivise a seconda dei rapporti di forza fra gli imprenditori e i loro dipendenti: non è un caso che i sindacati più potenti si trovino proprio nei settori protetti (gli elettrici ad esempio). Avere un sindacato forte là dove non c'è polpa serve a poco. Il salario contrattuale medio (anno 2011, dati Istat) era di 32.600 euro nel settore elettrico e nelle concessionarie autostradali, 28.500 nelle aziende comunali di smaltimento rifiuti, e solo 22.700 nell'industria meccanica, dove vi sono alcune eccellenze della nostra economia.

Alle elezioni mancano sei mesi, ma solo quattro concretamente utilizzabili dal governo. Non sono pochi, e nelle condizioni in cui si trova il Paese sarebbe folle sprecarli. Questo governo tecnico non ha nulla a che fare con le elezioni, con la campagna elettorale e con il suo risultato. Se alcuni ministri, diversamente dal presidente del Consiglio, meditano di presentarsi alle elezioni dovrebbero lasciare subito il loro incarico per evitare che la campagna elettorale interferisca con l'azione del governo.

Nel presentare il suo programma alle Camere, Mario Monti disse: «Ciò che occorre fare per ricominciare a crescere è noto da tempo: provvedimenti rivolti a rendere meno ingessata l'economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e poi indurne la crescita. L'obiezione che spesso si oppone a queste misure è che esse servono, certo, ma nel breve periodo fanno poco per la crescita. È un'obiezione dietro la quale spesso si maschera - riconosciamolo - chi queste misure non vuole, non tanto perché non hanno effetti sulla crescita nel breve, ma perché si teme che ledano gli interessi di qualcuno».

Francesco Giavazzi

7 ottobre 2012 | 11:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_07/quel-che-resta-molto-da-fare-giavazzi_3d0e9392-104a-11e2-9c6c-96f0bb140020.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Novembre 26, 2012, 05:38:15 pm »


Una domanda al professor Giavazzi su Giubbe rosse

Pietro Spataro

Data: 2012-11-25

Da tempo Sofia Ventura, politologa vicina al Pdl e poi a Fini, sta conducendo su Twitter una martellante campagna per votare Matteo Renzi alle primarie del centrosinistra. Ha già fatto sapere, però, che se il sindaco di Firenze non dovesse vincere, lei Bersani o Vendola non li voterà mai. Una scelta, come dire, politologicamente bizzarra.

Ora anche Francesco Giavazzi – che come si sa è un economista e un editorialista del Corriere della Sera molto liberista e piuttosto lontano dalle posizioni del Pd – ha firmato un appello di sostegno allo stesso candidato. Non ha specificato, il professore, che cosa voterà alle elezioni del 2013 se le primarie dovessero andare in modo diverso dai suoi auspici. In attesa che presto sia svelato l’arcano, facciamo notare che non sarebbe moralmente onesto se anche lui, come Sofia Ventura o altri ancora se ce ne sono in giro, dovesse partecipare alla scelta del candidato premier di una coalizione con un retropensiero rivolto a un’altra.

La politica è una cosa seria, come stanno dimostrando da stamattina quei milioni di cittadini che sono in fila perché si sentono elettori del centrosinistra e vogliono partecipare alla sua battaglia per ricostruire il Paese. Il doppio gioco non è mai un buon comportamento nemmeno in una spy story, figuriamoci in una consultazione democratica. E quindi è abbastanza scorretto, sia che lo pratichi chi dà un «sostegno condizionato» a Renzi sia chi lo fa con qualunque altro candidato. L’Italia, dopo il ventennio dei molteplici inganni, oggi ha bisogno di un gioco pulito che rispetti finalmente le regole elementari.


da - http://giubberosse.com.unita.it/2012/11/25/una-domanda-al-professor-giavazzi/
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« Risposta #80 inserito:: Novembre 26, 2012, 07:45:57 pm »

 23/11/2012

Jacopo Iacoboni 


Se anche Giavazzi firma l'appello per votare Renzi


Anche Francesco Giavazzi firma un appello - molto milanese, professionisti, avvocati, uomini di Università, impresa e finanza - per votare Matteo Renzi domenica.

 

L'appello, promosso da Alessandro Balp, avvocato, uno dei finanziatori del sito Linkiesta ( sul sito c'è l'elenco completo dei firmatari), capita a due giorni dalle primarie, quando tutto sembra convergere verso un esito che porterebbe al ballottaggio tra Bersani e il sindaco di Firenze; dunque, un altro endorsement arricchisce la corsa del centrosinistra, ma è un endorsement di pregio particolare, di peso e valore politico differenti. Giavazzi, l'Altro Professore, economista pure lui, bocconiano pure lui, commentatore e prima tra le firme del Corriere della Sera, è grande amico di Mario Monti da quarant'anni, come ricorda spesso, ma non gli ha risparmiato in questi mesi critiche, sempre naturalmente "costruttive". 

 

A giugno Monti lamentò «il mio governo e io abbiamo sicuramente perso in questi ultimi tempi l’appoggio che gli osservatori ci attribuivano, spesso colpevolizzandoci, dei cosiddetti poteri forti». L’affondo non passò inosservato; con chi ce l’avesse esattamente, com’è ovvio, il Professore non lo disse. Si riferiva tuttavia ad ambienti rispetto ai quali era tradizionalmente considerato omogeneo. Probabilmente non aveva gradito un articolo di altri due professori, Francesco Giavazzi, appunto, e Alberto Alesina, sul Corriere. O certe critiche ricolfiane sulla Stampa. Fatto sta che nei suoi pezzi Giavazzi denunciava ancora una volta «i passi indietro compiuti sulle liberalizzazioni e sulla riforma del mercato del lavoro». Parlava di «una direzione sbagliata» del governo, che procede alla creazione di più infrastrutture fisiche, quando ci vorrebbero infrastrutture immateriali, giustizia civile più veloce, cause di lavoro più certe e spedite, pagamenti rapidi della pubblica amministrazione alle imprese, lotta alla criminalità, un’università che produca «buon capitale umano e buona ricerca». 

 

Parlando quella volta con La Stampa, Giavazzi si mostrò consapevole che critiche come le sue - o quelle di alcuni altri sui giornali - potessero aver irritato il premier, «ma so anche che Mario è una persona perbene, non permalosa e sicuramente in buona fede, prova ne è il fatto che ha chiamato a collaborare con lui proprio chi lo criticava». Monti, spiegò Giavazzi, ha sempre avuto «una capacità di ascolto che in tanti anni di vita pubblica raramente avevo riscontrato». Lo stesso Prodi - ancora un Professore - reagiva assai più piccato alle critiche.  Ora, aggiunge il suo nome in calce al candidato di centrosinistra che più si sposa con l'agenda liberal e più è distante dall'agenda economica della sinistra Pd incarnata da uomini come Fassina. 

twitter @jacopo_iacoboni 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/23/blogs/arcitaliana/se-anche-giavazzi-firma-l-appello-per-votare-renzi-mX0IaaDlVTGr5MkA3IkGRL/pagina.html
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« Risposta #81 inserito:: Aprile 30, 2013, 11:42:32 am »

L'agenda per l'emergenza

Ora ridurre senza indugi le tasse sul lavoro


Quando il 35% dei giovani non trova lavoro, e se lo perdi dopo i quarant'anni non lo trovi più, quando a Milano, nel cuore dell'Italia più ricca, sono sempre più numerose le famiglie che portano i figli alla mensa dei frati di San Francesco perché entrambi i genitori hanno perso il lavoro e non ce la fanno più a portare in tavola pranzo e cena, un governo deve avere una sola priorità: il lavoro.

La prima cosa da fare è cancellare la parola riforme dal vocabolario del governo. Gli stessi partiti che sostengono Enrico Letta hanno sprecato un anno a parlare di riforme, senza farle. Non sprechiamone un altro. Servono misure concrete, non grandi riforme (tranne ovviamente le riforme istituzionali come la legge elettorale). Scelte immediatamente operative che non si perdano nel labirinto dei regolamenti attuativi, cadendo preda di una burocrazia che pensa solo ad autoalimentare se stessa. Le riforme economiche dovranno aspettare un governo sufficientemente coeso per farle. Purtroppo non questo.

La riforma Fornero non è riuscita a sostituire contratti a tempo determinato e indeterminato con un contratto unico, cioè non ha riformato il mercato del lavoro. Il risultato paradossale è che oggi assumere è diventato un po' più difficile. I contratti a tempo determinato non sono certo l'ideale, ma sono meglio della disoccupazione. Bisogna cancellare le norme che dallo scorso anno li hanno resi più complicati.

Le tasse sul lavoro fanno sì che in Italia un lavoratore non sposato costi all'impresa circa due volte il suo stipendio netto, contro un rapporto pari a 1,7 nel resto dell'area euro. I contributi sociali ammontano (dati Istat per il 2011) a circa 216 miliardi. Per riportare il cuneo fiscale a livelli europei servono circa 50 miliardi. Quindici si possono recuperare eliminando tutti i sussidi, come da mesi chiede Confindustria. Altrettanti tagliando detrazioni fiscali, come proposto dalla Commissione Ceriani. Sette (come suggerisce Tito Boeri su Repubblica ) cancellando i corsi di formazione regionale che non servono a nulla. Una decina (stima della Uil) tagliando alcuni costi della politica, a cominciare dai rimborsi elettorali. Il resto proponendo uno scambio ai contribuenti più abbienti: aliquote più basse, ma costi dei servizi più elevati, a cominciare da sanità e università. Per farlo occorre rendere operativa l'Isee (Indicatore della situazione economica equivalente), lo strumento che consente di far pagare alcuni servizi in funzione del reddito, che il governo uscente non è riuscito a far approvare.

Sei mesi fa il presidente dell'Antitrust Giovanni Pitruzzella (uno dei dieci saggi nominati da Napolitano) ha inviato al governo 75 proposte concrete per liberare l'economia, cancellando un po' di rendite e di vincoli che rendono tanto difficile lavorare. Il governo uscente le ha riposte in un cassetto. Le si traducano in altrettanti articoli di un decreto legge e lo si adotti nel primo mese di governo.

Le banche hanno chiuso i rubinetti del credito: il motivo principale è che hanno troppo poco capitale. Nell'attesa che l'Europa trovi il modo per rafforzarle (ci vorranno molti mesi), si può ridurre il capitale di cui le banche devono disporre per erogare il credito, garantendo i prestiti alle piccole e medie imprese, come fa la Sace con il credito all'esportazione. Queste garanzie potrebbero essere offerte dalla Cassa depositi e prestiti. Negli anni la Cassa si è trasformata in una nuova Iri (l'Istituto per la ricostruzione industriale creato da Mussolini nel 1933) via via acquistando pezzi di imprese pubbliche. Bisogna smontare questo sistema sovietico privatizzando per liberare il credito alle imprese. Gli argomenti per cui lo Stato dovrebbe continuare a mantenere partecipazioni rilevanti in Eni, Enel, Terna, Snam Rete Gas, Finmeccanica, Assicurazioni Generali non solo sono sbagliati. Sono anche difficili da spiegare ad un'azienda che chiude perché la banca le ha tagliato le linee di credito.

Francesco Giavazzi

29 aprile 2013 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_29/giavazzi-ora-ridurre-senza-indugi-le-tasse_8c7d2ee0-b098-11e2-b358-bbf7f1303dce.shtml
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« Risposta #82 inserito:: Maggio 09, 2013, 04:37:37 pm »

CHI DETIENE LE VERE LEVE DEL POTERE

Burocrazia inossidabile

Uno dei motivi, forse il principale, per cui il governo guidato da Mario Monti non è riuscito a tagliare la spesa pubblica è stata la scelta di mantenere al loro posto, quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri.
Il nuovo governo ha tempo fino al 31 maggio per decidere se confermare gli alti dirigenti dei ministeri: capi di gabinetto e degli uffici legislativi, capi dipartimento, direttori generali. Chi non verrà esplicitamente confermato, automaticamente decadrà. È una delle scelte più importanti delle prossime settimane.

Accadde qualcosa di analogo con il primo esecutivo Berlusconi. I nuovi ministri della Lega che scesero a Roma nel 1994 - Giancarlo Pagliarini, Vito Gnutti, Roberto Radice - erano uomini concreti, abituati a gestire imprese, inesperti di burocrazia romana. Al suo primo giorno di lavoro il neoministro del Bilancio, Pagliarini, dopo aver letto un documento della Ragioneria generale dello Stato, a suo avviso incomprensibile, disse: «Bisogna rifare il bilancio dello Stato da zero. Se continuano a scriverlo così, solo la Ragioneria generale lo capisce e solo loro decideranno».

Il monopolio delle informazioni è il vero motivo della potenza della burocrazia. Gestire un ministero è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Gli alti dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e tutto l'interesse a mantenerlo. Hanno anche l'interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni, a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. Giancarlo Pagliarini perse la sua battaglia con la Ragioneria e in quel 1994 nulla cambiò.

Mario Canzio, l'attuale Ragioniere generale dello Stato, entrò in Ragioneria nel 1972, 41 anni fa, come funzionario dell'Ispettorato generale del Bilancio, l'ufficio che ha il controllo della spesa pubblica. Da quel giorno la spesa pubblica al netto degli interessi è cresciuta (ai prezzi di oggi) di circa 200 miliardi, dal 32 al 45 per cento del Pil. Da quando, otto anni fa, fu nominato Ragioniere generale, è cresciuta di oltre 30 miliardi.
I sindaci durano in carica cinque anni, con la possibilità se rieletti di un solo secondo mandato, il Governatore della Banca d'Italia sei, il presidente della Bce otto. Il Ragioniere generale a vita. Andrea Monorchio rimase tredici anni, con dieci diversi governi.

Sono tutti ottimi funzionari dello Stato, ma se non sono riusciti ad arginare la spesa pubblica per quarant'anni saranno davvero le persone più adatte per gestire una spending review ? Non è venuto il momento di affrontare il ricambio della burocrazia? E di farlo per davvero, ponendo un termine alla perenne rotazione da un ministero all'altro, da un ministero a un'autorità indipendente e da questa ancora a un ministero? Non c'è ricambio se si abbassa l'età media dei ministri mentre la struttura sotto di loro resta immutabile.

Cambiare i vecchi burocrati è certamente costoso perché un nuovo dirigente ci metterà un po' a prendere in mano le redini del ministero. Ma è un costo che val la pena pagare. L'alternativa è continuare a non fare nulla.

Francesco Giavazzi

9 maggio 2013 | 8:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_09/burocrazia-inossidabile_1c2f7c84-b862-11e2-8563-aab5ecf30b92.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Maggio 21, 2013, 07:06:54 pm »

POCHI GLI IMPATTI SUI CONTI PUBBLICI

Pagare le imprese: si può fare subito

Dopo 23 mesi consecutivi di decrescita, con un livello della produzione industriale inferiore del 10% al livello del 2008, e un tasso di disoccupazione che sfiora il 12%, il fatto che le pubbliche amministrazioni continuino a non pagare quanto devono alle imprese è francamente criminale. Le fatture non saldate sono stimate in circa 100 miliardi di euro, una cifra enorme, pari al 6% del Prodotto interno lordo. Se un'impresa fallisce perché lo Stato non paga ed essa a sua volta non riesce a pagare i suoi fornitori, quell'impresa non c'è più. Non è che quando arriva il pagamento l'imprenditore la riapre. Quell'impresa è scomparsa e basta.

Dopo aver rimandato il problema per 16 mesi, l'8 aprile il governo Monti ha adottato un decreto che prevede, per quest'anno, pagamenti per 20 miliardi: un quinto del totale. Perché non tutti? Il 18 marzo la Commissione europea aveva scritto (comunicato congiunto dei vicepresidenti Rehn e Tajani): «La liquidazione del debito commerciale pregresso si rifletterebbe in un corrispondente aumento nel debito pubblico. La parte di questo corrispondente a spesa per investimenti avrebbe anche un impatto sul deficit pubblico». Nonostante il tono severo, ciò significa che la maggior parte dei debiti commerciali (tranne quelli derivanti da spese per investimenti) sono già registrati nei conti pubblici per competenza, cioè nella misura del deficit pubblico rilevante per i vincoli europei. Nel momento in cui verranno saldati, il Tesoro, per pagare, emetterà titoli pubblici: non cambierà il deficit, ma si alzerà il livello del debito. Tuttavia solo un investitore sprovveduto già non conteggia quei titoli nel totale del debito pubblico.

Anche una quota delle fatture derivanti da spese per investimenti è già stata registrata: quella relativa alla parte dell'investimento effettuato. Restano fuori circa 20 miliardi, il che significa che la somma rimborsabile senza effetti sul deficit è circa 80 miliardi.

L'allungamento dei tempi di pagamento è un fenomeno che si è aggravato negli ultimi anni. Un po' per lo stupido orgoglio di ministri che volevano far credere che il debito pubblico fosse più basso del suo valore reale. Un po' per l'inefficienza delle amministrazioni, in particolare le aziende sanitarie, che non riescono a certificare le fatture che ricevono. Molte sono certamente «gonfiate», ma questo non giustifica che si impieghino mesi a certificarle.

La maggior parte delle imprese, per sopravvivere, ha venduto questi crediti alle banche. E ha dovuto accettare uno sconto perché le banche si assumessero il rischio dei ritardi: un'altra tassa occulta pagata dalle imprese. Se lo Stato pagasse, le banche vedrebbero rientrare una parte dei loro prestiti e potrebbero riaprire le linee di credito alle imprese.

Il ministro Saccomanni sta rompendosi il capo su cifre che in confronto sono spiccioli, mentre potrebbe immettere 80 miliardi nell'economia praticamente senza alcun effetto sui conti pubblici. Potrebbe pagarne una metà subito e dare alle amministrazioni tre mesi per certificare le fatture. Alla fine dei tre mesi pagherà il resto e se la Corte dei conti verificherà che sono state pagate fatture false la responsabilità ricadrà sui funzionari che non le hanno certificate. Le certificazioni spunteranno alla velocità del suono.

Emettere 40 miliardi di titoli per saldare i debiti è possibile e questo è un buon momento per farlo. La scorsa settimana il Tesoro ha emesso Btp trentennali con un rendimento lordo del 4,8%. Tassi così bassi non dureranno a lungo. È un'occasione unica per far ripartire la crescita.

Francesco Giavazzi

20 maggio 2013 | 8:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_20/giavazzi-pagare-imprese-si-puo-fare_6ce1022c-c10b-11e2-9182-3948fb309202.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Luglio 27, 2013, 06:38:51 pm »

STABILITÀ E AFFIDABILITÀ DEL PAESE

La circolare degli equivoci

Francesco Giavazzi

Lunedì scorso la Banca d'Italia e le altre istituzioni che controllano chi custodisce i nostri risparmi (banche, compagnie di assicurazione e ogni tipo di fondi di investimento) hanno emanato una circolare in cui si invita a non dare eccessivo peso ai giudizi delle agenzie di rating. D'ora in poi questi gestori dovranno valutare la rischiosità di un'azione o di un'obbligazione ragionando con la propria testa, senza fidarsi troppo dei bollini blu (AAA) e senza preoccuparsi eccessivamente di quelli rossi (BB o inferiori).

Finora questi bollini determinavano se una compagnia di assicurazione potesse detenere determinati titoli nelle proprie riserve, o quanto capitale una banca dovesse mettere da parte per far fronte a eventuali perdite su un titolo che possedeva. Se un'azienda, o uno Stato, riceveva un bollino rosso, alcuni gestori, ad esempio le assicurazioni, erano obbligati a venderne i titoli, aggravando una situazione già precaria.

Dopo il declassamento da parte di Standard & Poor's due settimane fa, il rating dei nostri Btp (lo spiegava mercoledì su queste colonne Ferruccio de Bortoli) è solo due gradini sopra il livello corrispondente al bollino rosso. Altri due passi indietro avrebbero significato, in assenza di questa circolare, vendite automatiche di quantità ingenti di titoli. Con l'effetto di far salire i rendimenti dei Btp e aggravare il costo, già ingente, del debito pubblico.

Che le agenzie di rating abbiano perduto molta della loro credibilità è un fatto da almeno un decennio. Nel 2002 mantennero la tripla A ai titoli di Enron fino a un giorno prima che l'azienda fallisse per bancarotta fraudolenta. Fino al 2006 davano la tripla A a tutte le obbligazioni emesse a fronte dei mutui immobiliari americani, senza rendersi conto che si era formata una straordinaria bolla nei prezzi delle case. Quindi ben venga l'invito ai gestori a ragionare con la propria testa assumendosi le proprie responsabilità (questo almeno giustificherà i loro stipendi spesso stravaganti).

E tuttavia fuori dall'Italia, fra quegli investitori che detengono circa un terzo del nostro debito, questa circolare, se non accompagnata da altre decisioni, potrebbe essere controproducente. Innanzitutto in molti Paesi, ad esempio in Asia e negli Stati Uniti, alcuni investitori non possono detenere titoli con bollino rosso e quindi dopo un nostro ulteriore declassamento sarebbero obbligati a vendere. Ma anche chi ragiona con la propria testa, ma è lontano dall'Italia, ad esempio il fondo sovrano di Singapore, uno dei più grandi investitori al mondo, continua nonostante tutto a dar peso ai giudizi delle agenzie. Che penserà quel gestore di un Paese che «attesa la particolare situazione di incertezza sui mercati finanziari» (come recita la circolare) interviene sulle eventuali conseguenze di un declassamento, ma sembra far poco per ribaltare le ragioni che potrebbero giustificarlo? Un'ammissione che siamo consapevoli dei rischi, ma incapaci di attenuarli.

Il governo continua a dar l'impressione di non cogliere la gravità della situazione. Il Paese ha bisogno di una scossa che ridia fiducia e faccia ripartire l'economia. Non i pochi miliardi di cui si discute ormai da due mesi, ma 50. Di tanto bisogna ridurre le spese per consentire di portare le tasse sul lavoro al livello tedesco. E poi un'accelerazione nel pagamento dei 100 miliardi di debiti dello Stato alle imprese. Almeno 50 subito, non i 5 che sono stati pagati finora o i 20 che il governo ha promesso per Natale.

27 luglio 2013 | 7:43
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_27/circolare-degli-equivoci-giavazzi_56f6d758-f67a-11e2-9839-a8732bb379b1.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:47:23 pm »

I TAGLI ALLA SPESA POSSIBILI

La ragnatela corporativa


Fra il 2008 e il 2011, all'epoca dei tagli lineari del ministro Tremonti, la spesa delle amministrazioni pubbliche (dati Banca d'Italia) è cresciuta di 21 miliardi, un aumento del 2,8%. Escludendo investimenti, interessi, pensioni e altre prestazioni sociali, la spesa è cresciuta, nel triennio, di 9 miliardi, più o meno quanto servirebbe oggi per cancellare l'Imu sulla prima casa e l'aumento dell'Iva. È quindi evidente che i tagli lineari, cioè indiscriminati, non hanno funzionato. Il motivo, come sa ogni imprenditore, è che non si riducono le spese se non si riorganizza l'azienda, chiudendo o riaccorpando uffici e reparti.
È quello che ha cercato di fare il governo Monti, puntando sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. L'esempio migliore è la legge Severino che voleva rendere più efficienti le sedi giudiziarie con la chiusura di 31 tribunali, 31 Procure, 220 sezioni distaccate e 667 uffici del giudice di pace (che vi sia un eccesso di sedi è dimostrato dal Piemonte, con 17 tribunali e 139 uffici giudiziari). Il vantaggio di chiudere un tribunale è che, diversamente dai tagli lineari, la riduzione della spesa che ciò comporta è davanti agli occhi di tutti.

E tuttavia nemmeno questo ha funzionato. Innanzitutto perché la legge Severino è rimasta un caso isolato. Non sono state chiuse caserme inutili, né università giudicate pessime nella valutazione del ministero. Ma soprattutto, mentre dei tagli lineari nessuno si preoccupa, tanto si sa che non verranno applicati, le chiusure di specifiche strutture pubbliche, proprio perché più difficilmente aggirabili, suscitano reazioni violente.
Nel caso dei tribunali sono insorti gli avvocati delle sedi accorpate. E puntualmente, due settimane fa, al momento dell'approvazione della cosiddetta legge sul «Fare», il Senato ha votato un ordine del giorno, firmato da tutti i gruppi della maggioranza, che impegna il governo a modificare la legge Severino entro il 12 settembre, il giorno prima che entri in vigore. Cioè quei tribunali non verranno chiusi mai. L'errore del ministro Severino - che pure è l'unico che ha concretamente cercato di ridurre le spese - è di aver ritenuto esaurito il suo compito una volta ottenuta l'approvazione della legge.

I nostri presidenti del Consiglio trascorrono anche le vacanze e i fine settimana a Palazzo Chigi. Durante la difficilissima battaglia per l'approvazione della sua riforma sanitaria, il presidente Obama trascorreva poche ore alla Casa Bianca. Per mesi ha viaggiato da un lato all'altro degli Stati Uniti cercando di convincere gli americani in ogni città, scuola e associazione che le aziende farmaceutiche mentivano e quella legge era nel loro interesse. La difficoltà infatti non era scrivere una buona legge, ma evitare che la lobby la bloccasse. E oggi, alla vigilia dell'entrata in vigore della legge, quando la lobby è di nuovo tornata in campo per impedirla, ha schierato la sua straordinaria macchina elettorale - il team di esperti e volontari che per due volte lo ha portato alla presidenza - per convincere gli americani con un'operazione capillare.

Crederò che il governo sia impegnato a ridurre le spese quando Letta e Saccomanni si recheranno a Saluzzo, uno dei tribunali accorpati, per convincere i cittadini che togliere l'Imu richiede anche la chiusura di tribunali in eccesso, malgrado le proteste corporative degli avvocati. O a Bari, Messina, Urbino e a spiegare che la chiusura di quelle tre università (in fondo alla classifica dell'Anvur) è nell'interesse dei loro figli. Non è frequentando una fabbrica delle illusioni che ci si costruisce un futuro.

19 agosto 2013 | 7:56
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Francesco Giavazzi

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_19/ragnatela-corporativa_bb05a596-088e-11e3-abfd-c7cdb640a6bb.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Dicembre 18, 2013, 06:16:45 pm »

COME L’ITALIA PUò FARSI VALERE IN EURopa
La trappola perversa

In Europa talvolta occorre coraggio, fermezza e determinazione. È quanto speriamo abbia Enrico Letta domani sera nel Consiglio europeo di fine anno. Altrimenti le conseguenze per il nostro sistema finanziario potrebbero essere gravi.

Domani a Bruxelles Letta troverà, nel suo dossier, una gran quantità di analisi tecniche relative all’unione bancaria, il tema della riunione. Sono perlopiù questioni secondarie rispetto al vero problema: come verranno valutati nel nuovo assetto di vigilanza europea, che verrà inaugurato il primo gennaio, i titoli pubblici posseduti dalle nostre banche (circa 400 miliardi, il doppio di due anni fa)?

Alcuni di questi titoli le banche li detengono per mantenere liquidi i mercati finanziari acquistandoli e vendendoli quotidianamente: questi titoli sono valutati, giorno per giorno, ai prezzi ai quali vengono scambiati. Possono quindi produrre perdite e perciò richiedono che la banca disponga di abbastanza capitale per assorbirle. Ma una parte dei titoli pubblici le banche li detengono con l’intenzione di non venderli fino alla scadenza: questi sono valutati al prezzo al quale saranno rimborsati. Non comportano rischi e quindi non richiedono capitale. Così infatti prevedono le regole internazionali. Tutto bene, a meno che non si metta in dubbio che alla scadenza essi vengano davvero rimborsati.

Alcune settimane fa il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha detto che è giunto il momento di smetterla di assumere che il debito degli Stati venga sempre onorato: Grecia docet . Le conseguenze di un simile cambiamento delle regole sarebbero esiziali per molte banche. Nessuna oggi disporrebbe di abbastanza capitale, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna dove il debito è elevato e le banche ne posseggono una gran quantità. E se li vendessero per alleggerire la loro esposizione il mercato dei titoli pubblici affonderebbe.

Le dichiarazioni di Weidmann hanno già prodotto effetti concreti. L’agenzia di rating Standard&Poor’s si è chiesta che cosa accadrebbe al bilancio delle Assicurazioni Generali se lo Stato non rimborsasse i Btp che esse possiedono. E ha messo sotto osservazione la compagnia chiedendo che, per affrontare questo rischio, raddoppi il proprio capitale, richiesta evidentemente impossibile da esaudire, almeno in tempi brevi.
È curioso che S&P si sia posta questa domanda per una società di assicurazione e non (o non ancora) per le banche. Una banca infatti, se congela i titoli pubblici fino a scadenza, si espone ad un rischio di liquidità, che invece non corre una compagnia di assicurazioni la quale allinea la scadenza dei titoli che possiede a quella delle polizze vita che ha emesso.

Comunque sia, Generali non può raddoppiare il proprio capitale, né vendere, almeno in tempi brevi, i Btp che possiede (per lo stesso motivo per cui sarebbe pericoloso se lo facessero le banche). Quindi ha una sola scelta, trasferirsi altrove per evitare che l’Italia (nonostante conti meno del 25% nelle attività della compagnia) la trascini verso un downgrade .
Per la verità Jens Weidmann ha ragione quando dice che dopo la Grecia non si può più assumere che i titoli pubblici siano privi di rischio. D’altronde non c’era bisogno del caso greco, basta studiare la storia e i default dell’impero austro-ungarico, o più recentemente della Russia nel 1998 e dell’Argentina tre anni dopo. Ma il presidente della Bundesbank dimentica un fatto importante. In Paesi ad alto debito, come Spagna e Italia, possono verificarsi «equilibri multipli», cioè situazioni in cui un default è prodotto semplicemente dall’aspettativa che esso possa verificarsi. È come quando i depositanti si chiedono se la loro banca abbia abbastanza contante per far fronte ad un immediato ritiro di tutti i depositi in conto corrente. Certo che in quel caso la banca fallirebbe, ma perché i clienti dovrebbero chiudere improvvisamente e tutti insieme i loro conti? Solo se temessero che la banca fallisse, cioè se si verificasse un «equilibrio perverso». Per questo esistono le assicurazioni sui depositi (fino a centomila euro nei Paesi dell’eurozona).
Ma per i titoli pubblici non esiste un’assicurazione: solo l’impegno dei governi a rimborsarli. Se quell’impegno non è più certo, un equilibrio perverso diviene una possibilità concreta. D’altronde è proprio questo il motivo per cui diciotto mesi fa Mario Draghi introdusse il programma di acquisti condizionati di titoli pubblici (Outright Monetary Transactions , Omt) che è l’unico motivo per cui la crisi dell’eurozona per ora è rientrata. Grazie cioè allo scudo della Banca centrale europea contro perverse evoluzioni sui mercati.

Domani il presidente del Consiglio dovrebbe quindi chiedere che, coerentemente con l’Omt, il Consiglio europeo stabilisca che i titoli pubblici emessi dai Paesi dell’euro sono soggetti ad un rischio di mercato (perché il loro prezzo può fluttuare prima della scadenza) ma indenni da un rischio di default . Purché i Paesi stessi non si discostino dal percorso di risanamento concordato con la Commissione europea. Le istituzioni che intendono tenere titoli di Stato fino alla data di scadenza non devono accantonare capitale. D’altronde non è stato proprio il Consiglio europeo a dire, dopo il default di Atene, che «la Grecia è un episodio che non si ripeterà»?

18 dicembre 2013
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FRANCESCO GIAVAZZI

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_18/trappola-perversa-97fad442-67aa-11e3-963a-2749949921b5.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:20:36 pm »

COME L’ITALIA PUò FARSI VALERE IN EURopa
La trappola perversa

In Europa talvolta occorre coraggio, fermezza e determinazione. È quanto speriamo abbia Enrico Letta domani sera nel Consiglio europeo di fine anno. Altrimenti le conseguenze per il nostro sistema finanziario potrebbero essere gravi.

Domani a Bruxelles Letta troverà, nel suo dossier, una gran quantità di analisi tecniche relative all’unione bancaria, il tema della riunione. Sono perlopiù questioni secondarie rispetto al vero problema: come verranno valutati nel nuovo assetto di vigilanza europea, che verrà inaugurato il primo gennaio, i titoli pubblici posseduti dalle nostre banche (circa 400 miliardi, il doppio di due anni fa)?

Alcuni di questi titoli le banche li detengono per mantenere liquidi i mercati finanziari acquistandoli e vendendoli quotidianamente: questi titoli sono valutati, giorno per giorno, ai prezzi ai quali vengono scambiati. Possono quindi produrre perdite e perciò richiedono che la banca disponga di abbastanza capitale per assorbirle. Ma una parte dei titoli pubblici le banche li detengono con l’intenzione di non venderli fino alla scadenza: questi sono valutati al prezzo al quale saranno rimborsati. Non comportano rischi e quindi non richiedono capitale. Così infatti prevedono le regole internazionali. Tutto bene, a meno che non si metta in dubbio che alla scadenza essi vengano davvero rimborsati.

Alcune settimane fa il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha detto che è giunto il momento di smetterla di assumere che il debito degli Stati venga sempre onorato: Grecia docet . Le conseguenze di un simile cambiamento delle regole sarebbero esiziali per molte banche. Nessuna oggi disporrebbe di abbastanza capitale, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna dove il debito è elevato e le banche ne posseggono una gran quantità. E se li vendessero per alleggerire la loro esposizione il mercato dei titoli pubblici affonderebbe.

Le dichiarazioni di Weidmann hanno già prodotto effetti concreti. L’agenzia di rating Standard&Poor’s si è chiesta che cosa accadrebbe al bilancio delle Assicurazioni Generali se lo Stato non rimborsasse i Btp che esse possiedono. E ha messo sotto osservazione la compagnia chiedendo che, per affrontare questo rischio, raddoppi il proprio capitale, richiesta evidentemente impossibile da esaudire, almeno in tempi brevi.
È curioso che S&P si sia posta questa domanda per una società di assicurazione e non (o non ancora) per le banche. Una banca infatti, se congela i titoli pubblici fino a scadenza, si espone ad un rischio di liquidità, che invece non corre una compagnia di assicurazioni la quale allinea la scadenza dei titoli che possiede a quella delle polizze vita che ha emesso.

Comunque sia, Generali non può raddoppiare il proprio capitale, né vendere, almeno in tempi brevi, i Btp che possiede (per lo stesso motivo per cui sarebbe pericoloso se lo facessero le banche). Quindi ha una sola scelta, trasferirsi altrove per evitare che l’Italia (nonostante conti meno del 25% nelle attività della compagnia) la trascini verso un downgrade .
Per la verità Jens Weidmann ha ragione quando dice che dopo la Grecia non si può più assumere che i titoli pubblici siano privi di rischio. D’altronde non c’era bisogno del caso greco, basta studiare la storia e i default dell’impero austro-ungarico, o più recentemente della Russia nel 1998 e dell’Argentina tre anni dopo. Ma il presidente della Bundesbank dimentica un fatto importante. In Paesi ad alto debito, come Spagna e Italia, possono verificarsi «equilibri multipli», cioè situazioni in cui un default è prodotto semplicemente dall’aspettativa che esso possa verificarsi. È come quando i depositanti si chiedono se la loro banca abbia abbastanza contante per far fronte ad un immediato ritiro di tutti i depositi in conto corrente. Certo che in quel caso la banca fallirebbe, ma perché i clienti dovrebbero chiudere improvvisamente e tutti insieme i loro conti? Solo se temessero che la banca fallisse, cioè se si verificasse un «equilibrio perverso». Per questo esistono le assicurazioni sui depositi (fino a centomila euro nei Paesi dell’eurozona).
Ma per i titoli pubblici non esiste un’assicurazione: solo l’impegno dei governi a rimborsarli. Se quell’impegno non è più certo, un equilibrio perverso diviene una possibilità concreta. D’altronde è proprio questo il motivo per cui diciotto mesi fa Mario Draghi introdusse il programma di acquisti condizionati di titoli pubblici (Outright Monetary Transactions , Omt) che è l’unico motivo per cui la crisi dell’eurozona per ora è rientrata. Grazie cioè allo scudo della Banca centrale europea contro perverse evoluzioni sui mercati.
Domani il presidente del Consiglio dovrebbe quindi chiedere che, coerentemente con l’Omt, il Consiglio europeo stabilisca che i titoli pubblici emessi dai Paesi dell’euro sono soggetti ad un rischio di mercato (perché il loro prezzo può fluttuare prima della scadenza) ma indenni da un rischio di default . Purché i Paesi stessi non si discostino dal percorso di risanamento concordato con la Commissione europea. Le istituzioni che intendono tenere titoli di Stato fino alla data di scadenza non devono accantonare capitale. D’altronde non è stato proprio il Consiglio europeo a dire, dopo il default di Atene, che «la Grecia è un episodio che non si ripeterà»?

Francesco Giavazzi

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18 dicembre 2013


Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_18/trappola-perversa-97fad442-67aa-11e3-963a-2749949921b5.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Gennaio 30, 2014, 04:20:47 pm »

EDITORIALE

Privatizzare solo per finta
Il caso (emblematico) delle Poste

La «privatizzazione» delle Poste è l’esempio di ciò che accade quando un governo debole e pressato dai conti pubblici, perché non è capace di tagliare le spese, si trova a dover cedere a interessi particolari anziché operare nell’interesse dei cittadini e dello Stato. L’operazione pare costruita su due principi: far contenti i sindacati concedendo loro un implicito diritto di veto su qualunque modifica del contratto di lavoro. E non contrapporsi a un management che si è abilmente conquistato la benevolenza del governo rischiando 70 milioni della propria cassa per coprire le perdite di Alitalia.

Se l’obiettivo fosse stato la massimizzazione dei proventi, la privatizzazione avrebbe dovuto essere strutturata in modo diverso. Gli investitori cercano aziende trasparenti, con obiettivi e strategie chiari, che non usino i ricavi di un’attività per coprire le perdite di un’altra. È il caso delle Poste. L’azienda è, al tempo stesso, un grande banca (con BancoPosta): la maggiore del Paese per numero di sportelli; una compagnia di assicurazione (con PosteVita) e il gestore di un servizio di spedizioni (oltre a essere, da qualche mese, uno dei maggiori soci di Alitalia e possedere una propria compagnia, Mistral). E poi vi sono PosteMobile, operatore di telefonia con 3 milioni di clienti; Postel che offre servizi telematici allo Stato; PosteTributi (attività di riscossione). Come un investitore può comprendere se le attività bancarie e assicurative sono gestite in modo efficiente? Come capire in che modo vengono allocati i costi degli oltre 13.000 uffici postali fra le tre attività che svolgono, posta, banca e assicurazione? Le Poste hanno anche un grande patrimonio immobiliare: come valutare se è sfruttato bene?

Sono questi i motivi per i quali in Germania Postbank fu scorporata dalle poste e venduta a Deutsche Bank prima della privatizzazione. Anche la britannica e ora privata Royal Mail svolge solo il servizio di spedizione. L’unica azienda che fa tre cose assieme sono le poste francesi, che infatti rimangono al 100% pubbliche.

E che dire del modo con il quale viene scelto il management? I veri investitori vogliono che gli amministratori possano essere sostituiti se non massimizzano il valore dell’azienda: improbabile che ciò accada in una società della quale il governo mantiene il 60% delle azioni (il governo di Berlino è sceso al 21%). Tanto più se è lo stesso management che, è vero ha completamente trasformato l’azienda, ma poi si è fatto coinvolgere nel salvataggio Alitalia.

Il ricavo per lo Stato non è l’unico obiettivo di una privatizzazione. Il trasferimento di un’attività economica dal settore pubblico ai privati è anche l’occasione per migliorare la concorrenza nell’interesse dei cittadini. Le Poste sono una ragnatela di posizioni dominanti. Hanno un numero di sportelli superiore a Banca Intesa, che li ha dovuti ridurre per favorire la concorrenza. Attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, il risparmio postale è investito nella Tesoreria dello Stato, non a tassi di mercato, ma a interessi negoziati. Quando i tassi scendono l’adeguamento del rendimento che il Tesoro paga avviene lentamente, generando un sussidio improprio dello Stato (cioè dei contribuenti) alle Poste e alla Cassa.

E ancora, privatizzare è anche una strada per attirare investimenti dall’estero, per affermare l’apertura del Paese al mercato, per far fare un passo indietro allo Stato nella gestione dell’economia, per mostrare ai mercati che si vuole davvero ridurre il debito pubblico e non continuare a finanziare una spesa che non si riesce a tagliare. Invece, ancora una volta si è imboccata una strada di cui ci pentiremo: l’ennesima occasione perduta.

29 gennaio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Francesco Giavazzi

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_gennaio_29/privatizzare-solo-finta-edec0f78-88a8-11e3-9f25-fc2a5b09a302.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Agosto 02, 2014, 11:12:22 pm »

IL GOVERNO E L’UOMO DEI TAGLi
Il mistero Cottarelli

Di Francesco Giavazzi

Il magistrato Raffaele Cantone, classe 1963, dall’aprile scorso presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, è una delle buone notizie dell’Italia di Matteo Renzi. Napoletano, esprime il meglio di quella travagliata città. Nel nuovo ruolo ha esordito con la richiesta al prefetto di Milano (che l’ha accolta) di commissariare l’impresa Maltauro finita nelle indagini dell’Expo. Non era mai accaduto. Da qualche giorno si occupa delle aziende venete indagate per gli appalti del Mose.

La qualità dell’uomo e la sua determinazione (dimostrata quando, alla Direzione distrettuale antimafia, condusse le indagini contro il clan dei Casalesi) non sono l’unico motivo del suo successo, che dipende anche dalle norme che regolano la sua attività di contrasto alla corruzione. Innanzitutto il potere di proporre direttamente al prefetto il commissariamento di un’azienda. Inoltre, la possibilità di limitarlo ad un ramo dell’azienda, salvaguardando la normale operatività in altre aree non coinvolte nelle indagini. Questo è molto importante perché gli consente di intervenire anche su grandi aziende delle quali sarebbe più difficile chiedere e gestire un commissariamento totale.

Di fronte alla rapidità con cui si è mosso Cantone, ci si chiede a che punto sia il lavoro dell’altro commissario, Carlo Cottarelli, incaricato di individuare aree in cui ridurre la spesa pubblica, sprechi che spesso vanno a braccetto con la corruzione. Si pensi ad esempio alla sanità e a ciò che spesso si cela dietro le ampie differenze nei prezzi pagati da diversi ospedali per i medesimi strumenti. Da mesi non se ne sa più nulla. Le capacità della persona sono eccellenti. Forse che la sua scarsa incisività, per usare un eufemismo, dipenda dal fatto che i tagli sono una scelta politica? Neppure Cantone può commissariare un’azienda: può solo chiederlo al prefetto, il quale potrebbe negarlo, ma sarebbe obbligato a spiegare perché; nessuno impedisce a Cottarelli di rendere noto dove, come e quanto, secondo lui, si dovrebbe tagliare, mettendo il governo di fronte alla responsabilità di non farlo.

Burocrazia e sindacati stanno facendo una lotta nascosta alla riorganizzazione della pubblica amministrazione. Attraverso il Parlamento stanno cercando di smontare la riforma proposta dal governo. Sulla mobilità obbligatoria, ad esempio, il testo è stato emendato dalla Camera inserendovi eccezioni per le lavoratrici con figli sotto i tre anni, per le quali la mobilità diventa facoltativa. Si mantiene così una differenza di trattamento rispetto al settore privato. Ed è stato inserito l’obbligo di coinvolgere i sindacati nelle procedure di mobilità. Anche le retrocessioni a compiti e stipendi inferiori per gli statali in esubero che (anche qui diversamente dai lavoratori privati) hanno il privilegio di mantenere il posto di lavoro, sono state limitate ad un solo gradino, su 16, nella scala gerarchica. Delle otto sedi distaccate dei Tribunali amministrativi regionali che il governo vuole sopprimere ne sono state salvate 5, almeno fino al 2016.

E sui tagli alla spesa, dove in molti casi il governo potrebbe procedere senza il consenso del Parlamento, ancora nulla. Dottor Cottarelli, le chiediamo un po’ di coraggio! Il suo non è il lavoro di un burocrate. Le è stato chiesto di rientrare da Washington per fare proposte anche controverse. Il presidente del Consiglio si arrabbierà? Niente di male. Se non ha fiducia in lei meglio saperlo oggi che perdere altro tempo. E se possiamo dare un consiglio al premier Renzi, accorpi l’ufficio di Cottarelli all’Autorità presieduta da Cantone. Vedrà che le proposte di tagli alla spesa cominceranno a fioccare.

30 luglio 2014 | 09:00
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_30/mistero-cottarelli-458a47f6-17a9-11e4-a7a2-42657e4dcc3b.shtml
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