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Autore Discussione: Francesco GIAVAZZI.  (Letto 60884 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Febbraio 11, 2009, 02:13:32 pm »

Obama e la crisi

Facciano presto e tanto


di Francesco Giavazzi


Dall’inizio della crisi gli Stati Uniti hanno mobilitato una quantità straordinaria di denaro, quasi 9 trilioni di dollari, ai quali si è aggiunto ora il programma fiscale del presidente Obama che vale un altro trilione di dollari. Per avere un’idea delle dimensioni, con una cifra simile il governo di Washington avrebbe potuto acquistare i mutui di tutte le famiglie americane (valgono circa 10,5 trilioni) e così liberare le banche da ogni rischio immobiliare. Entrato in possesso dei mutui ne avrebbe potuto cambiare rate e condizioni di rimborso, in modo da consentire alle famiglie di continuare a pagare e così non perdere la casa. Le abitazioni abbandonate da famiglie che non sono riuscite a tenere il passo con le rate del loro mutuo sono oggi 2,3 milioni, un milione e mezzo più di due anni fa.

Nonostante tanto denaro mobilitato, siamo ancora al punto di partenza. Nei mesi scorsi gli interventi delle banche centrali hanno allentato le tensioni sui mercati finanziari, ma l’opera di riparazione dei bilanci delle banche americane è ancora sostanzialmente tutta da fare. E questa rimane la priorità perché dalla lunga recessione giapponese abbiamo imparato che se non si riparano i bilanci delle banche gli interventi fiscali sono denari gettati al vento.

Dopo diciotto mesi di tentativi falliti, il neoministro del Tesoro, Tim Geithner, e il nuovo consigliere di Obama per le questioni finanziarie, Jerome Stein, si sono convinti che per risanare le banche occorre liberarle dai prestiti andati a male trasferendoli a nuove istituzioni, cosiddette «bad banks» garantite dallo Stato. (Con grande preveggenza già un anno fa, sul «Corriere della Sera», Luigi Spaventa scriveva che questa era l’unica soluzione che avrebbe funzionato). La difficoltà è come valutare i titoli che vengono trasferiti dalle banche alle «bad banks»: se si pagano troppo, i contribuenti fanno un regalo alle banche, se troppo poco l’intervento non serve a salvarle. Geithner avrebbe deciso di affidare queste valutazioni al mercato, dando ad alcuni investitori specializzati (ad esempio fondi di private equity) l’incentivo a farlo.

Teoricamente è il modo giusto, speriamo funzioni.

Alcuni, infatti, temono che il programma di Geithner allinei gli incentivi di questi investitori a quelli dei banchieri, con il rischio che a pagare siano i contribuenti. L’alternativa — sostenuta fino all’ultimo da alcuni dei consiglieri di Obama—è la soluzione inglese: nazionalizzare le banche e poi rivenderle, magari proprio a fondi di private equity, che a quel punto avrebbero interessi opposti a quelli dei banchieri e quindi potrebbero meglio garantire gli interessi dei contribuenti. Ma il Congresso degli Stati Uniti non è pronto ad accettare nazionalizzazioni.

L’avversione ad un intervento diretto dello Stato nelle banche non è solo ideologica, riflette anche qualche valutazione sull’esperienza degli anni Trenta. Secondo alcuni storici, ad esempio Robert Higgs, la Grande Depressione durò così a lungo anche perché il New Deal di Franklin D. Roosevelt diffuse dubbi sul futuro dell’economia di mercato e soffocò gli investimenti privati.

Lammot du Pont, presidente di du Pont de Nemours, una delle maggiori aziende americane, scriveva nel 1937: «L’incertezza su quali saranno le condizioni giuridiche nelle quali le nostre imprese si troveranno a lavorare, quale ruolo avrà lo Stato nell’economia, il rischio di limitazioni alla libertà d’impresa, la possibilità stessa che l’economia di mercato sopravviva alla crisi ci preoccupano e certo non ci incoraggiano a investire».

Riparate le banche, il problema successivo è come cambiare le aspettative. Quanto pessimismo vi sia fra gli imprenditori lo si legge nei dati sulla produttività americana che in questi mesi è aumentata rapidamente: più 3,2% nell’ultimo trimestre dello scorso anno. Di solito in una recessione la produttività diminuisce perché le aziende riducono i dipendenti meno rapidamente di quanto non riducano la produzione: questa volta è accaduto il contrario, segno che gli imprenditori vedono un futuro particolarmente cupo.

Il modo per cambiare le aspettative delle aziende è ripristinare gli ordini, e la politica fiscale oggi è l’unico strumento che consenta di farlo. Negli Stati Uniti si è svolto un dibattito acceso sui meriti relativi di un taglio delle tasse rispetto ad aumenti di spesa. Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale, ha scritto sull’Economist della scorsa settimana: «Fate come preferite, ma fate presto, soprattutto fate tanto perché interventi marginali non riuscirebbero a cambiare le aspettative».

Il piano che il Congresso approverà oggi soddisfa questa condizione perché la sua dimensione è davvero straordinaria: il 7 per cento del Pil. Riuscirà a salvare il mondo? Speriamo. Il piano di Obama consiste per circa il 60% in aumenti di spesa, 40% in riduzioni di imposte. Gli studi che conosco concludono che il denaro pubblico speso per evitare licenziamenti (il piano include 40 miliardi di dollari di trasferimenti alle amministrazioni locali per evitare riduzioni di dipendenti) o per sostenere il reddito di chi perde il lavoro, si traduce in consumi. Sull’efficacia degli investimenti pubblici o dei tagli generalizzati delle tasse (ad esempio i 70 miliardi previsti per l’eliminazione dell’Alternative minimun tax, un’imposta introdotta da Bush e che colpisce soprattutto le famiglie più abbienti) non sappiamo abbastanza.

Ma una cosa è certa: dopo aver per anni accusato gli Stati Uniti di non risparmiare a sufficienza, Cina, Europa e Giappone oggi sperano che gli americani ricomincino a spendere perché questi paesi il rischio di un’espansione della loro domanda interna non se lo vogliono assumere. Poi non lamentiamoci degli «squilibri dell’economia globale».


11 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 22, 2009, 11:27:43 am »

LA CRISI GLOBALE


Come salvarci dall'abisso


di Francesco Giavazzi


Ci siamo infilati in una situazione assurda. I prezzi delle attività finanziarie, e quindi la ricchezza delle famiglie, sono precipitati, quasi che le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel 1945. In pochi mesi nel mondo è stata bruciata ricchezza per un valore di circa 40 mila miliardi di dollari. In una settimana Wall Street ha perso il 13 per cento; in poco più di un anno il valore delle azioni americane si è dimezzato. Ma non c’è stato alcun bombardamento: le aziende sono ancora tutte lì, anche le case, anche le nostre risorse naturali e i lavoratori hanno la medesima esperienza oggi che avevano ieri. È la sfiducia che ha trascinato il mondo in questa situazione assurda ed è da lì che occorre partire. La prossima sarà una settimana cruciale.

Se la caduta di Wall Street non si arresta, il vortice rischia di accelerare: un’ulteriore caduta della ricchezza delle famiglie americane rallenterebbe ancor più i consumi e cancellerebbe gli effetti dello straordinario piano fiscale approvato la scorsa settimana dal Congresso. Che fare? Innanzitutto non dimenticare che (grazie alla globalizzazione) mai il mondo era cresciuto tanto rapidamente quanto nel decennio precedente la crisi. E non solo i Paesi ricchi: per la prima volta anche l’Africa sub-sahariana aveva cominciato a crescere. Certo, c’erano molte debolezze: il prezzo delle abitazioni in qualche Paese era salito troppo; negli Stati Uniti ad alcuni immigrati recenti erano stati concessi mutui che non potevano permettersi; le banche si erano illuse di aver diversificato il rischio e invece spesso non lo avevano fatto; la regolamentazione faceva acqua; il Congresso aveva consentito che Fannie Mae e Freddie Mac, istituzioni che avrebbero dovuto essere dei semplici fondi di garanzia, si trasformassero in speculatori aggressivi, trasferendo il rischio su contribuenti ignari.

Ma tutto questo non giustifica l’abisso in cui siamo caduti. I mutui negli Stati Uniti oggi non valgono praticamente più nulla e tuttavia il prezzo delle case è sceso del 20-30%, non si è azzerato. Nelle città americane le abitazioni non sono scomparse, sono ancora tutte lì: varranno meno di due anni fa, ma dubito che non valgano più nulla. Come riportare il mondo alla ragionevolezza, come arrestare questa spirale perversa? È possibile e potrebbe non costare nulla. Il vortice in cui sono entrate le Borse dipende dalle banche: in una settimana Citigroup ha perso metà del suo valore e un’azione oggi vale meno di due dollari (ne valeva 50 un anno e mezzo fa). Ma la banca non è fallita: lo sarebbe se davvero pensassimo che le case e le aziende americane non valgono più nulla, ma così non è. Per far uscire i mercati dal vortice della sfiducia il governo americano dovrebbe garantire tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, cioè impegnarsi ad acquistarle a un prezzo prefissato, superiore all’attuale prezzo di mercato.

Una simile garanzia rialzerebbe immediatamente i prezzi e con essi la ricchezza delle famiglie. Risolverebbe anche i problemi delle banche. Come per Citigroup, se le banche americane siano, o meno, fallite, dipende dai prezzi delle attività che hanno in bilancio: se il prezzo di questi titoli è zero sono tutte fallite; se il prezzo è ragionevole non lo è nessuna (ieri il governatore Draghi ha proposto garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle banche, ma sui nuovi prestiti, un intervento che va nella medesima direzione e aiuterebbe a far ripartire il credito alle nostre aziende). A quale prezzo dovrebbero essere offerte queste garanzie? Certo non ai prezzi precedenti la crisi, ma nemmeno ai prezzi di oggi, che per molti titoli sono prossimi a zero. Una possibilità è usare i prezzi precedenti il fallimento di Lehman, cioè quando i mercati già scontavano la crisi, ma prima del crollo.

E quanto costerebbero le garanzie ai governi? È probabile che su alcuni titoli il governo perda, cioè che i prezzi di realizzo siano inferiori al valore della garanzia. Ma per la maggior parte — quando il mondo tornerà alla ragionevolezza — il prezzo salirà ben oltre il valore della garanzia: in questi casi si potrebbe tassare la plusvalenza. Non solo le garanzie potrebbero non costare nulla: per i contribuenti potrebbero rivelarsi un grande affare. In questo fine settimana a Washington si è fatta strada anche un’altra idea: essa pure potrebbe spegnere il vortice senza costare nulla. Sul Washington Post Ricardo Caballero, economista del Mit, ha proposto che il governo si impegni ad acquistare fra due anni il doppio delle azioni delle quattro maggiori banche al doppio del prezzo di oggi. Il primo effetto sarebbe quello di raddoppiare il capitale delle banche tramite fondi privati.

Nello stesso tempo il prezzo delle azioni salirebbe immediatamente vicino al livello della garanzia pubblica, sollevando tutto il mercato. Anche questo provvedimento non costerebbe nulla ai contribuenti, a meno che davvero pensiamo che l’economia americana sia come la Germania del ’45. Il vantaggio rispetto alle garanzie sull’attivo delle banche è che in questo caso basta un annuncio: potrebbe accadere già domani. Delle garanzie sull’attivo delle banche ci sarà comunque bisogno, ma per quelle c’è un po’ più di tempo (qualche giorno, non qualche mese). Ciò che invece accelera il vortice è parlare di nazionalizzazioni. Nazionalizzare una banca significa azzerare (o almeno diluire) il capitale degli azionisti: non c’è da sorprendersi se questo rischio fa crollare le Borse. Fortunatamente ieri l’amministrazione Obama ha preso le distanze da chi chiede nazionalizzazioni. Nella scena più famosa di Mary Poppins, Mr Dawes, l’anziano impiegato di banca, spaventa il piccolo Michael tentando di sottrargli un penny. La gente non capisce, si impaurisce e travolge la banca. È per evitare questi panici che sono nate le garanzie pubbliche sui depositi bancari. La prossima settimana il mondo potrebbe avvitarsi in una depressione, ma se accadrà sarà solo responsabilità nostra, cioè dei nostri governanti. Il mondo non è radicalmente diverso oggi da quanto fosse un anno fa, tranne che si è persa la fiducia. È da questa osservazione che deve partire l’opera di ricostruzione.

22 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 03, 2009, 04:51:07 pm »

LE NAZIONALIZZAZIONI

Allarmare non paga


di Francesco Giavazzi


Dalla crisi non usciamo finché il prezzo delle azioni negli Stati Uniti non risale. Quasi la metà della ricchezza delle famiglie americane è investita in Borsa: direttamente, o attraverso un fondo di investimento, e soprattutto tramite i 401(k), un sistema molto conveniente perché consente di risparmiare differendo alla vecchiaia la tassazione del reddito. Solo il 10 per cento dei lavoratori americani possiede (oltre alla pensione sociale) una pensione a «benefici definiti», cioè il cui valore dipende soltanto dagli anni di lavoro, non dai rendimenti di mercato. La maggioranza appartiene al sistema «contributivo»: la loro pensione è investita in un 401(k), e quanto ricevono, o riceveranno, dipende da come va la Borsa. La scorsa è stata un’altra settimana negativa per la Borsa; le perdite complessive del solo mese di febbraio sono il 17%. La discesa è continuata ieri. In dodici mesi il valore delle azioni si è dimezzato.

Pensate ad un lavoratore della classe media, andato in pensione un anno fa a 65 anni. Supponiamo che un anno fa la sua ricchezza, tra titoli e 401(k), valesse 700 mila dollari. Anche essendo cauto e ipotizzando un rendimento reale del 3%, egli avrebbe potuto spendere 50 mila dollari l’anno e non esaurire la sua ricchezza prima degli 85 anni, la sua speranza di vita. Oggi, per mantenersi fino a 85 anni, deve affidarsi alla pensione sociale: ai prezzi di oggi quanto ha risparmiato gli renderà poco più di 2 mila dollari al mese. Non è sorprendente che i consumi stiano crollando. Due anni fa le azioni erano probabilmente sopravvalutate, ma, come scrivevo la scorsa settimana, gli Stati Uniti non sono stati distrutti da una guerra, né da una bomba atomica: le case valgono certamente di meno, ma sono ancora tutte lì, e così anche gli aeroporti, le aziende e il capitale umano: quanto accade in Borsa si spiega solo con il panico e con l’incertezza.

L’incertezza riguarda il valore dei titoli: sui mercati finanziari è scomparsa la liquidità e quindi sono scomparsi i prezzi. Chi vuole vendere deve accettare prezzi che non hanno più alcuna relazione con il valore, per quanto basso, dei titoli che vengono scambiati. E poiché le banche devono valutare i titoli che possiedono ai prezzi di queste transazioni, sono contabilmente fallite. Certo, vi sono casi di vera insolvenza, ma il problema maggiore è l’assenza di liquidità. In agosto, quando già era trascorso oltre un anno dall’inizio della crisi, e l’esposizione a subprime e derivati non era più una sorpresa, ma i mercati ancora erano liquidi, le banche valevano poco, ma non erano fallite. In agosto, quando i suoi guai erano già tutti noti, un’azione di Citigroup valeva 20 dollari: non i 55 di un anno prima, ma nemmeno il dollaro e mezzo che vale oggi. Per riportare liquidità sui mercati e far sì che si rivedano prezzi non «da panico » è necessario che tornino gli investitori.

Da questo punto di vista quelle trascorse sono state due pessime settimane per l’amministrazione Obama. Il piano Paulson — che prevedeva una garanzia pubblica sui titoli detenuti dalle banche, o addirittura in alcuni casi il loro acquisto, e che rimane l’unico piano che avrebbe potuto funzionare—è stato di fatto abbandonato. A un certo punto il team economico di Obama si è lasciato sedurre dall’idea di nazionalizzare le banche, senza capire che questo è il modo infallibile per allontanare ancor più gli investitori dalla Borsa. E infatti, due venerdì fa, quando molti parlavano di nazionalizzazione, Citigroup è crollata del 22 per cento trascinando con sé tutta la Borsa. La nazionalizzazione spaventa, ma non per i motivi per cui spaventerebbe in Europa, cioè per il rischio che la politica influisca sulla gestione del credito: difficilmente negli Stati Uniti accadrebbe ciò che è accaduto qualche giorno fa in Francia, dove il presidente Sarkozy ha nominato un suo collaboratore a capo di una grande banca. Spaventa perché l’intervento dello Stato nel capitale delle banche potrebbe diluire i vecchi azionisti, e quindi ridurre il valore delle loro azioni. Resisi conto di questo errore, i ministri di Obama hanno escluso di voler nazionalizzare le banche, ma poi lo hanno sostanzialmente fatto.

Le modalità con cui giovedì il ministro Tim Geitner ha offerto a Citigroup di convertire in ordinarie le azioni privilegiate che il Tesoro aveva sottoscritto alcuni mesi fa comportano una forte diluizione dei vecchi azionisti. Come spiega Ricardo Caballero sul Washington Post, affinché i vecchi azionisti non venissero diluiti la conversione sarebbe dovuta avvenire ad un prezzo intorno ai 6-7 dollari (un terzo del valore di agosto): invece avverrà a 3,25 dollari. Non sorprendentemente la Borsa è di nuovo caduta. Sembra quasi che il team di Obama non riesca a capire che l’obiettivo primario di queste operazioni non è finanziario: non si tratta—o almeno non in primo luogo—di sistemare i bilanci delle banche, ma di mettere fine al panico. Perché se il panico finisce e torna un po’ di liquidità, i bilanci delle banche, o almeno della maggior parte, si aggiustano da soli. Certo, esiste un mondo diverso, nel quale, scomparsa la liquidità, le Borse vengono chiuse, le banche nazionalizzate e la ricchezza delle famiglie è amministrata direttamente dallo Stato.

Nel secolo scorso, come spiegava domenica Angelo Panebianco su queste colonne, quel modello non ha dato gran prova di sé (sebbene alcuni ritengano che la colpa non fu dell’Unione Sovietica ma di chi la accerchiò). Se non vogliamo ripetere quell’esperimento — e gli Stati Uniti certo non sono pronti a ripeterlo — occorre capire che il punto di partenza per risolvere la crisi sta nel riportare gli investitori in Borsa. A questo scopo spaventarli minacciando nazionalizzazioni è la ricetta più sbagliata. Come già ho ricordato, secondo alcuni storici dell’economia la depressione degli anni Trenta durò così a lungo anche perché il New Deal di Franklin D. Roosevelt diffuse dubbi sul futuro dell’economia di mercato e soffocò gli investimenti privati.

03 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 15, 2009, 10:37:17 pm »

CAPITALISMO E CRISI

L'alternativa che non c'è


di Francesco Giavazzi


Ricordate i mesi successivi all'11 settembre 2001? Molti si erano convinti che si fosse chiusa una fase storica — era iniziata a Vienna nel 1683 con la sconfitta dell'impero Ottomano — che aveva consentito all'Occidente di esercitare per tre secoli la propria egemonia sul mondo. Pensavano che quell'egemonia fosse in pericolo, forse era finita per sempre. Preoccupazioni oggi in gran parte dimenticate: non perché il problema dei rapporti fra l'Occidente e l'Islam non sia reale, ma perché lo è ora così come lo era prima dell'11 settembre.

Qualcosa di simile accade oggi. Uno straordinario paragrafo del Capitale di Karl Marx — in cui il filosofo tedesco prevede (nel 1867) che i debiti dei lavoratori avrebbero fatto fallire le banche, determinando il passaggio dall'economia capitalista al comunismo — viene richiamato per argomentare che il capitalismo è finito. «L'apertura dei mercati conteneva le radici della propria distruzione», ha scritto Martin Wolf sul Financial Times. «L'epoca della liberalizzazione finanziaria è finita, ma, come negli anni Trenta, non disponiamo di alternative credibili». Il ministro Giulio Tremonti cerca di immaginarle, prefigurando l'abbandono di un sistema fondato sulle leggi dell'economia e sui prezzi di mercato e la sua sostituzione con uno fondato sul diritto, sul conto patrimoniale e sui controlli giurisdizionali e amministrativi.

Il mio sommesso parere è che si tratti di discussioni sterili, che probabilmente faranno la fine dei dibattiti sul declino dell'Occidente, e soprattutto pericolose. Che cosa dovrebbe fare un imprenditore che si lasciasse sedurre da simili visioni? Combattere per far sopravvivere la sua azienda, magari investendovi i profitti accumulati in decenni di lavoro? Se si convince che nel nuovo mondo vi sarà più Stato e meno mercato, meno concorrenza, maggiori ostacoli alle esportazioni, chiude tutto e si ritira in campagna.

Alcuni anni fa le riflessioni sul futuro dell'Occidente erano al centro del dibattito anche negli Stati Uniti; oggi invece la domanda se il capitalismo sopravvivrà affascina gli europei ma non gli americani. E non perché negli Usa non ci si renda conto che la crisi ha evidenziato gravi carenze nel funzionamento e nella regolamentazione dei mercati finanziari. Ma, a differenza dell'Europa, gli americani (o almeno la maggior parte di essi) pensano che le regole fossero cattive non perché vi sia qualcosa di sbagliato nel capitalismo, ma semplicemente perché si era consentita troppa (non troppo poca) vicinanza fra politica ed economia. E quindi sono comprensibilmente scettici di fronte a chi propone di affidare alla politica la guida dell'economia (è interessante a questo proposito il dibattito sulla nazionalizzazione delle banche dove il punto centrale, cui nessuno in Europa mai accenna, è come evitare che i risparmiatori che posseggono azioni delle banche vengano espropriati).

Vi è anche una percezione molto diversa delle priorità. Gli europei possono permettersi di giocare a Monopoli con il futuro del capitalismo — e guardare altrove indispettiti quando i nostri vicini dell'Europa centrale chiedono di essere aiutati ad evitare il collasso economico e politico — perché tanto a salvare Polonia, Ucraina e Lettonia ci pensa il Fondo monetario internazionale. E quale è l'unico Paese che sinora ha dato al Fondo le risorse per farlo? Il Giappone, che non è esattamente confinante con l'Ucraina.


15 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Aprile 02, 2009, 03:43:31 pm »

LA SCOMMESSA DI GEITHNER

Non far morire i mercati


di Francesco Giavazzi


Diversamente dagli europei, i quali pensano che la priorità siano nuove regole e trasformazioni radicali nel modo in cui operano i mercati finanziari, le autorità americane stanno lavorando per riportare i mercati alla normalità. Si rendono conto che le regole devono essere migliorate, ma ritengono che regole perfette applicate a mercati morti non servirebbero a granché. La priorità di Washington è far rivivere i mercati.

Negli ultimi vent’anni i mercati finanziari americani si sono profondamente trasformati: non sono più le banche commerciali il principale canale attraverso il quale il risparmio delle famiglie affluisce alle imprese. Un po’ più della metà dei finanziamenti all’economia vengono concessi da istituzioni che si finanziano non con i depositi alla clientela, bensì indebitandosi sui mercati, e lo possono fare perché una leva elevata (cioè un’elevata quantità di debito) consente loro di offrire rendimenti interessanti e quindi attirare investitori privati.

Uno dei motivi che oggi impedisce ai mercati di funzionare, e quindi al credito di affluire alle imprese, è l’eccessiva riduzione della leva finanziaria, cioè il fatto che siamo passati dall’eccesso di debito ad una situazione in cui molte istituzioni non riescono più a indebitarsi. Il volume di commercial paper, ad esempio, si è ridotto in pochi mesi da 2.200 a 1.500 miliardi di dollari, un calo del 30 per cento che si è riflesso in una riduzione equivalente dei finanziamenti a famiglie e imprese. Con una leva eccessivamente ridotta queste istituzioni non riescono più a generare rendimenti capaci di attrarre investitori privati. La riduzione drastica nella leva è uno dei canali attraverso i quali la crisi si è trasmessa all’economia reale.

La possibilità di utilizzare la leva è anche determinante per convincere investitori privati a partecipare ai nuovi fondi pubblici-privati che, nel piano del ministro Tim Geithner, dovrebbero acquistare dalle banche i titoli cosiddetti «tossici ». Valutare questi titoli è difficile: se si offre troppo poco, le banche non hanno interesse a venderli; se si offre troppo si fa loro un regalo. E il problema non si risolve affidandone la valutazione ad una legge o a funzionari pubblici. La partecipazione di investitori privati che rischiano in prima persona è l’unico modo per scoprire il valore dei titoli tossici. Ma senza leva i rendimenti dei nuovi fondi creati da Geithner non attraggono nessuno e il piano non parte.

La priorità del Tesoro e della Federal Reserve è quindi ricostruire la leva delle istituzioni finanziarie. Finché ciò non avviene gli investitori non torneranno sui mercati, i prezzi rimarranno depressi, i titoli tossici rimarranno nei bilanci delle banche e dalla crisi non si uscirà.

Chi ripete, come Angela Merkel e il nostro ministro dell’Economia, che «da una crisi nata dall’eccesso di debito non si esce creando nuovo debito» non capisce né come funzionano i mercati finanziari negli Stati Uniti, né ciò che stanno cercando di fare le autorità di Washington. Questa incomprensione— più ancora che le differenze di opinione sull’opportunità di politiche di sostegno alla domanda—è ciò che dividerà europei ed americani al G20 di domani e renderà difficile raggiungere risultati concreti.

01 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Aprile 24, 2009, 10:32:41 am »

IDEE PER IL DOPO CRISI

L’occasione delle riforme


di Francesco Giavazzi


La crescita cinese, più 6,1% nel primo trimestre dell’anno, seppure in discesa rispetto al 9% del 2008, è il segno che l’economia mondiale non è crollata. Fra le famiglie americane ritorna un po’ di speranza: l’indice della fiducia dei consumatori è salito in Aprile a 61.9, il livello più elevato degli ultimi sette mesi, 12% meglio che nello scorso autunno. La caduta degli investimenti si è attenuata: cresce il numero delle imprese che dice di aver aumentato gli investimenti (sebbene continuino ad essere più numerose quelle che li stanno ancora tagliando).

I tassi di interesse su titoli decennali iniziano a salire, prova che imercati finanziari cominciano a vedere la ripresa e un’inversione della politica monetaria della Federal Reserve. Certo, le banche americane rimangono molto fragili e nell’economia reale — soprattutto in Europa dove il ciclo è tradizionalmente sfasato di sei mesi rispetto a quello americano —il peggio deve ancora arrivare. Ma è venuto il momento di cominciare a pensare al dopo. Nonostante il crollo degli ordini—30-40 per cento meno di un anno fa — gli imprenditori italiani non sembrano aver perduto la fiducia. Come ha scritto sul Corriere Dario Di Vico: «Mentre le élite si accapigliano sul ritorno di Keynes, le aziende del Nord Est non smettono di far girare le macchine, di cercare idee nuove, prodotti diversi, tecnologie più avanzate.

Sono coscienti della gravità della recessione, ma sanno anche che un giorno passerà e che quel giorno non bisogna farsi trovare con le mani in mano. Anzi che è il caso di porsi oggi quei problemi che il travolgente sviluppo a due cifre degli anni scorsi ha aperto e ha lasciato insoluti, a cominciare dal paesaggio distrutto dai capannoni ». Con straordinaria abilità Sergio Marchionne ha sfruttato la crisi per far uscire la Fiat dall’angolo. Un anno fa la domanda ricorrente era: «In Europa c’è un produttore di automobili di troppo: chi chiuderà? ». L’acquisizione della Chrysler apre all’azienda di Torino il mercato americano, che aveva lasciato all’inizio degli anni 70 e nel quale non era più riuscita a rientrare. La domanda «chi chiuderà?» non riguarda più la Fiat. E la politica? Rahm Emanuel, Chief of Staff del presidente Obama e la persona più influente nella nuova amministrazione, ripete spesso: «Non vuoi certo sprecare l’occasione di una grave crisi: le crisi sono opportunità straordinarie per fare cose che in tempi normali paiono impossibili».

Marchionne insegna. Possiamo cogliere appieno l’occasione anche noi? Alzare l’età della pensione non è solo necessario: in un momento in cui le famiglie sono preoccupate per il loro futuro potrebbe essere persino popolare. Il governo potrebbe incalzare Confindustria e sindacato proponendo uno scambio virtuoso fra un sistema moderno di sussidi di disoccupazione e la revisione dello Statuto dei lavoratori. Invece, fino ad oggi, ha limitato gli interventi all’emergenza: palliativi costosi ma insufficienti (estendere via via la cassa integrazione non è il modo per dare certezze a chi ha perso il lavoro e sostenere i consumi) e che non hanno affrontato alcuno dei nostri problemi strutturali. È venuto il momento di smetterla con le inutili discussioni sulle colpe della finanza e sul futuro del capitalismo (certo non saremo noi a determinarne la svolta, se mai ci sarà) e invece pensare al domani.

Roberto Zuccato, presidente degli industriali vicentini, lunedì scorso ha proposto una «agenda di riforme che vanno fatte senza perdere tempo e senza indugi», a cominciare da una profonda riforma del mercato del lavoro che semplifichi gli accessi e migliori i sistemi di protezione sociale. E ha concluso: «La crisi è l’occasione per preparare un futuro migliore. Senza crisi non ci sono sfide e senza sfide la vita è routine, lenta agonia. È dalla crisi che affiora il meglio di ciascuno».

23 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Maggio 21, 2009, 10:17:32 am »

A CHE PUNTO E’ LA CRISI

L'ottimismo un po' eccessivo


Sabato a Mosca il Presidente del Consiglio ha ostentato grande ottimismo: «C’è stato un diluvio ma tutto è tornato come prima, meglio di prima». Le previsioni per l’economia italiana pubblicate il 4 maggio da Bruxelles indicano una caduta dell’occupazione del 3,3% quest’anno e dello 0,6% nel 2010. Il tasso di disoccupazione, oggi poco sopra il 7%, sale all’8,8 alla fine di quest’anno, al 9,4 nel 2010. L’aumento della disoccupazione è più elevato che in Francia e Germania. Il governo ripete da mesi che la crisi è nata negli Stati Uniti e lì deve essere risolta.

Non ne usciremo finché gli Stati Uniti non riprenderanno a crescere e le loro banche a funzionare: nel frattempo nulla si può fare. Questo è vero solo in parte. Dall’inizio della crisi, l’istituzione che ha svolto con maggior successo un ruolo fondamentale è stato il Fondo monetario internazionale. I prestiti che ha concesso ai Paesi emergenti hanno circoscritto la crisi. Se il Fondo si fosse limitato ad attendere le risoluzioni di Washington, le economie dei Paesi baltici, di Ungheria, Polonia e Turchia sarebbero crollate. Gli interventi che il governo ha messo in atto per fronteggiare la crisi sono palliativi costosi e insufficienti. Nonostante l’estensione degli ammortizzatori, in caso di licenziamento circa il 10 per cento dei lavoratori del settore privato non riceverebbe alcun sussidio e una quota analoga un sussidio di poche centinaia di euro al mese.

Il ministro Sacconi dice che «una riforma organica degli ammortizzatori sociali dovrà essere rinviata a tempi migliori». Questo significa che egli pensa che una riforma dovrà prima o poi essere fatta: quale momento migliore? Non è questa l’occasione per offrire al sindacato uno scambio tra un sistema moderno di sussidi di disoccupazione e una riscrittura da zero dello Statuto dei lavoratori? Non è forse questo il momento di alzare l’età pensionabile e così accelerare la transizione al metodo «contributivo », destinando i risparmi al finanziamento di un nuovo sistema di sussidi? Di fronte all’offerta di un sistema moderno di indennità di disoccupazione, si pensa davvero che il sindacato si opporrebbe all’innalzamento dell’età pensionistica o alla riscrittura dello Statuto? Il ministro dell’economia auspica che le banche facciano il «loro dovere e non mollino la spinta etica».

Non sapevo che la sharia fosse entrata a far parte della nostra cultura. La questione non è etica. Si tratta di capire se la scarsità di capitale delle banche sia un ostacolo ai prestiti. Occorre fare ciò che ha fatto Tim Geithner: sottoporre le banche a uno stress test. Se questo individua una scarsità di mezzi propri, il governo deve offrire loro la scelta: trovare nuovo capitale sul mercato o accettare capitale pubblico. Nel primo anno del suo terzo governo, Berlusconi ha ripetuto l’errore che commise nel 2001. Allora, con la scusa dell’11 settembre, Giulio Tremonti lo convinse che non si potevano tagliare le tasse. Il risultato fu il lievitare della spesa e di tagliare le tasse nessuno parlò più. Oggi, come allora, attendere gli Stati Uniti è solo un pretesto: la realtà è che mancano il coraggio e una visione che vada al di là del giorno per giorno.

Francesco Giavazzi

19 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 17, 2009, 12:42:02 pm »

LE AZIENDE E LE RIFORME

Le occasioni da non perdere


Le crisi sono mo­menti difficili per le aziende, ma of­frono anche op­portunità che si manife­stano raramente in tempi normali. Come è accadu­to in altre recessioni, la se­lezione delle aziende che sopravvivranno e dei pro­getti per crearne di nuove sta avvenendo in questi mesi.

Nel mezzo della reces­sione del 2001 Diageo ac­quistò Seagram da Viven­di, che era in difficoltà, e con quell’acquisizione ini­ziò a costruire uno dei maggiori gruppi di bevan­de alcooliche al mondo. Dieci anni prima, nella re­cessione del 1991, IBM ac­quistò Lotus avviando il primo tentativo di integra­re hardware e software. Negli stessi anni Johnson&Johnson acqui­stò Acuvue, un piccolo produttore di lenti a con­tatto: partendo da quel­l’acquisizione costruì una nuova piattaforma di pro­dotti per l’oftalmologia.

Fusioni e acquisizioni erano praticamente scom­parse da un anno a questa parte perché era scompar­sa la liquidità necessaria per finanziarle. Oggi stan­no ricominciando, sia per­ché in alcuni settori è ri­masta molta liquidità (l’in­dustria farmaceutica ad esempio, dove il caso em­blematico è il recente ac­quisto per 41 miliardi di dollari, di cui metà in con­tanti, di Schering-Plough da parte della Merck), sia perché fra gli investitori sta ritornando l’appetito per il rischio e molti fondi di private equity hanno solo il problema di come impiegare la liquidità di cui sono inondati.

Lynn Tilton, fondatrice di Patriarch Partners, un fondo di private equity di New York, ha recentemen­te acquistato Stila Cosme­tics, un’azienda california­na in origine di Estée Lau­der. Un altro fondo, Hil­co, ha acquistato la Pola­roid dalla procedura falli­mentare nella corte del Minnesota; ora vuole usa­re il marchio Polaroid per costruire una nuova azien­da elettronica, un proget­to che potrebbe salvare al­meno una parte dei 6mila posti di lavoro di Pola­roid. Oracle ha acquistato Sun, una grande azienda di computer. Intel, il mag­giore produttore di chip al mondo, ha fatto un’of­ferta per Wind River, una società di software nata accanto all’università di Berkeley.

Due riflessioni. Quelle che ho citato sono tutte operazioni di mercato: le autorità pubbliche se ne sono occupate, come è lo­ro compito, solo per verifi­care eventuali violazioni alle regole della concor­renza, ma né le hanno fi­nanziate né, soprattutto, le hanno indirizzate trami­te interventi di «politica industriale». Il fatto che si­ano state finanziate con denari veri, anziché con le tasse dei cittadini, è la garanzia del loro succes­so.

Per effetto di queste operazioni alcune azien­de sono scomparse, men­tre ne sono nate di nuove. Ciò è possibile solo se il mercato del lavoro è suffi­cientemente flessibile e gli ammortizzatori sociali proteggono chi perde il la­voro, ma non eliminano l’incentivo a cercare una nuova occupazione. Ri­spondere alla crisi prolun­gando sine die la cassa in­tegrazione è evidentemen­te la strada sbagliata per­ché la cassa protegge an­che il posto di lavoro, non solo il lavoratore: così fa­cendo lo illude che la sua azienda sopravvivrà alla crisi e non gli dà alcun in­centivo a guardarsi intor­no per cercare una nuova occupazione. Un altro buon motivo per sostitui­re la cassa con un moder­no sistema di sussidi di di­soccupazione.


Francesco Giavazzi
17 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Luglio 21, 2009, 11:12:54 pm »

LA LEZIONE (INASCOLTATA) DELLA CRISI

Troppi ritardi sulle banche


Al di là delle scaramucce c'è oggi un solido intreccio di interessi fra i governi e le banche. Le banche sanno che potrebbero aver di nuovo bisogno dell'aiuto dei governi. Questi a loro volta devono convincere gli investitori ad acquistare una straordinaria quantità di titoli pubblici: le banche non sono solo acquirenti importanti, influenzano le scelte di risparmio delle famiglie. Non sorprende quindi la cautela dei governi, in primis dell'amministrazione Obama, nel tradurre le lezioni della crisi in nuove regole per le banche.

Alle riforme si preferiscono i richiami all'etica, quasi l'etica fosse un sostituto delle leggi. Oppure si solletica la pruderie dei cittadini puntando il dito sui compensi dei banchieri: certo, gli incentivi spesso sono stati mal congegnati, ma il compito di disegnare un buon meccanismo di remunerazione dei manager spetta agli azionisti, non alla legge. Le questioni davvero importanti rimangono invece nell'ombra, soprattutto quelle che potrebbero limitare il raggio di azione delle banche e quindi i loro profitti. Porterò due esempi.

1) La crisi ha reso evidente l'importanza della liquidità. Perché un titolo sia liquido è necessario poterlo comprare e vendere in un mercato trasparente, dove i prezzi sono noti a tutti, come accade nell'Mts, il mercato telematico dei titoli di Stato. Così non accade per la maggior parte degli altri titoli e anche per tutti gli strumenti derivati, che si possono acquistare o vendere solo passando attraverso una banca. Creare mercati in cui tutti i titoli, anche i derivati, possano essere scambiati in modo trasparente è quindi la prima cosa da fare e lo si potrebbe fare domani: basterebbe usare la piattaforma del Mts. Ma ciò significherebbe sottrarre alle banche una delle loro maggiori fonti di reddito.

2) I risultati di alcune grandi banche mostrano che la maggior parte dei profitti deriva dalla compravendita di titoli. Ma da quei bilanci è impossibile capire quanti titoli sono stati acquistati e venduti per i clienti, e quanti in proprio, impegnando il capitale della banca, cioè agendo come un fondo hedge. La crisi ha mostrato che le operazioni in proprio sono le più redditizie, ma anche le più rischiose. Come ha spiegato Alberto Giovannini in un intervento sul Financial Times (31/7/08), a una banca non dovrebbe essere permesso di esporsi ai rischi di un hedge. Perché le banche sono stanze di compensazione per gli scambi: se una fallisce, gli acquisti e le vendite che ha fatto per conto dei clienti rischiano di essere cancellate, vi è cioè un rischio di contagio. Se un fondo perde, il gestore ne sopporta i costi, sia direttamente (i gestori investono i loro soldi nei fondi che amministrano) sia attraverso i riscatti dei clienti. Questo in una banca non accade, e perciò le banche sono state, in genere, molto meno caute dei fondi.

Questi temi sono da mesi all'attenzione del Financial stability board (Fsb )— un organismo tecnico che ha il vantaggio di non essere esposto ai conflitti che attanagliano i governi. In un rapporto di oltre un anno fa l'Fsb ha avanzato proposte specifiche. Ma i tempi delle riforme sono lentissimi. Aspettare significa rischiare di non farle mai. Più i mercati si riprendono, meno le banche avranno bisogno dei governi. Non così i governi, che per molti anni avranno bisogno dell'aiuto delle banche per collocare titoli pubblici.

Francesco Giavazzi
21 luglio 2009

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« Risposta #24 inserito:: Agosto 26, 2009, 04:32:17 pm »

 COME IL FISCO PUÒ AIUTARE LA CRESCITA


Quelle tasse sui salari


Nel suo primo di­scorso politico, il 6 febbraio 1994, presentan­do il programma di Forza Italia, Berlusconi disse: «Noi vogliamo un’Italia con meno tasse. Proporre­mo la riduzione delle ali­quote fiscali, perché sia­mo convinti che aliquote più giuste siano un incen­tivo al lavoro, all’investi­mento, al rischio d’impre­sa, e soprattutto un gran­de disincentivo all’evasio­ne ». Sette anni dopo, nel Contratto con gli italiani, prometteva tre sole aliquo­te: zero, 23 e 33%.

Dal 1994 la pressione fi­scale (e cioè il totale delle tasse che famiglie e impre­se pagano alle varie ammi­nistrazioni pubbliche, e calcolata dall’Ocse in mo­do omogeneo per tutti i Paesi) è cresciuta di oltre 3 punti. Nello stesso perio­do in Germania è scesa di un punto, mentre in Fran­cia è salita, ma meno di un punto (0,7). Il livello della pressione fiscale ita­liana (oltre il 43%) è oggi simile a quello francese, ma 7 punti superiore a quello tedesco. Ci supera­no solo i Paesi scandinavi, di circa 5 punti (negli Stati Uniti la pressione è infe­riore al 30%). Ma in Italia la pressione «ufficiale» non è un buon indicatore del peso del fi­sco perché è commisurata a un Pil che include una stima dell’economia som­mersa, che le tasse non le paga. Questo significa che la pressione fiscale effetti­vamente subita da chi non evade è maggiore di quel­la ufficiale, di circa 11 pun­ti. In Italia chi non evade paga più tasse che in Sve­zia, il Paese dell’Ocse in cui il fisco è più esoso, e la differenza non è piccola, circa 6 punti in più.

Sul lavoro dipendente, dove non si evade e quin­di i dati ufficiali sono più attendibili, tra il 2000 e og­gi (i dati Ocse non sono di­sponibili prima del 2000) il carico fiscale è cambiato in modo diverso per diver­si lavoratori. Un dipenden­te che percepisce lo sti­pendio italiano medio (26.200 euro lordi l’anno) sta un po’ meglio: la sua aliquota marginale è scesa di un punto e mezzo. Ma un dipendente il cui sala­rio è del 30% superiore a quello medio (quindi la gran parte dei lavoratori del Nord, dove i salari lor­di sono più alti) ha subito una vera stangata: un au­mento dell’aliquota di qua­si 8 punti, dal 40 al 49% (questi dati si riferiscono all’aliquota marginale di un lavoratore senza fami­liari a carico).

A meno di una svolta nella politica economica del governo (che non c’è nel Dpef scritto dal mini­stro dell’Economia, ma si intravede nella proposta del ministro Sacconi di de­tassare un’ampia parte dei prossimi rinnovi contrat­tuali), il ventennio di Ber­lusconi si chiuderà con una pressione fiscale più alta del giorno in cui egli scese in campo. La bassa crescita di questo venten­nio (circa un punto in me­no del resto d’Europa) ri­flette anche l’incapacità dei vari governi che si so­no succeduti, anche quelli guidati da Berlusconi, di ridurre il peso del fisco. Un insuccesso che non possiamo giustificare con il livello del debito pubbli­co ereditato dagli anni ’80: la storia insegna che dal debito si esce o con l’inflazione o con la cresci­ta. Nessun Paese è mai riu­scito a ridurre il suo debi­to con più tasse e bassa crescita. Noi l’inflazione (fortunatamente) non la possiamo più fare, quindi non ci resta che crescere. Il modo per riprendere la crescita lo aveva intui­to Berlusconi 15 anni fa: una riforma coraggiosa del fisco.

Francesco Giavazzi
26 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #25 inserito:: Settembre 17, 2009, 05:09:07 pm »

Il commento

Il lavoro e i vantaggi del Fisco leggero


Nonostante i ripetuti se­gnali di ripresa, la di­soccupazione continua a crescere. Secondo l’Ocse raggiungerà il 10,5% prima di cominciare a scendere. Come si può accelerare il rientro? E' evi­dente che se ricominciamo a cre­scere l'1% l'anno il percorso sara' lunghissimo. Abbiamo risorse sotto-utilizzate che possono esse­re mobilitate per accelerare la cre­scita? La risposta è nei dati sul la­voro.

In Italia il numero di persone che partecipano al mercato del la­voro (cioè che lavorano o, pur non avendo un’occupazione, la cercano attivamente) è straordi­nariamente basso: il 63%. Cioè su 10 persone in età di lavoro (15-64 anni) poco più di sei lavorano o cercano un’occupazione. In Spa­gna, un Paese per molti aspetti si­mile a noi, il tasso di partecipazio­ne è 10 punti più alto, 13 in Germa­nia (dati Ocse per il 2006). Il moti­vo non sono solo le donne, che in Italia hanno un tasso di partecipa­zione 20 punti inferiore alla Ger­mania e 10 alla Spagna. Fra gli uo­mini nella fascia d’età 55-64, in Italia poco più di 4 su dieci lavora­no: in Germania e Spagna due di più. Un’analoga differenza c’è fra i giovani: su dieci maschi nella fa­scia 25-29 anni, quindi ben oltre la fine degli studi, in Italia ne lavo­ra o cerca lavoro uno in meno che in Spagna e in Germania.

Oltre a motivi culturali, religiosi, al ruolo della fami­glia (che tuttavia non possono esse­re la sola ragione considerando le differenze con la Spagna), l’eviden­za empirica mo­stra che una spie­gazione importante della scarsa partecipazione sono le tasse, che in Italia favoriscono la rendita e scoraggiano il lavoro. Siamo uno dei rari Paesi in cui un rentier può investire tutta la sua ricchez­za in titoli di Stato e pagare il 12,5%, mentre l’aliquota media di chi lavora è almeno il doppio. Se poi ha depositato i suoi titoli al­l’estero, ora con lo Scudo fiscale li può riportare in Italia pagando il 5% del capitale: se li ha detenuti per almeno un decennio, con un rendimento medio del 5% l'anno, paga un’aliquota inferiore al 10%. E' un regalo ai rentier (per di più evasori) che nessuno dei Paesi eu­ropei che hanno adottato provve­dimenti simili allo Scudo ha fat­to.

Il primo passo di una riforma del fisco è quindi lo spostamento del prelievo dal lavoro alle rendite finanziarie, ad esempio somman­do gli interessi a tutti gli altri red­diti, come accade nella maggior parte dei Paesi. Oggi è un buon momento per farlo. La domanda di titoli pubblici è elevatissima e i rendimenti sono bassi, quindi l'ef­fetto della nuova imposizione sa­rebbe graduale. Quando i rendi­menti cresceranno (accadrà pre­sto) crescerà anche il gettito. Ma le rendite non sono solo quelle fi­nanziarie: la riallocazione del pre­lievo dovrebbe riguardare ogni for­ma di rendita, ad esempio la con­cessione a privati di beni pubblici, dalle spiagge alle frequenze televisi­ve.

Una simile opera­zione non sarebbe neutrale, cioè non sposterebbe sem­plicemente il peso del fisco da alcuni cittadini ad altri.

Una riduzione dell’aliquota sui redditi da lavoro convincerebbe più persone a lavorare, facendo crescere il numero dei contribuenti, quindi, almeno in parte, si auto finanzierebbe.

Il mio invito al presidente del Consiglio ( Corriere del 26 agosto) affinché riprenda il suo progetto di tre sole aliquote (zero, 23 e 33%) è stato oggetto di un ampio dibattito sulle pagine del Foglio.

I commenti, soprattutto dall’interno della maggioranza di governo, sono stati favorevoli. La critica più frequente è che sarebbe bello, ma non possiamo permettercelo.

L’esempio che ho illustrato mostra che non è vero. Ma occorre un segnale forte: ridurre le aliquote di un punto non convincerebbe nessuno a lavorare di più. Le tre aliquote di Berlusconi sì, eccome.

Francesco Giavazzi
17 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:09:32 am »

IL G20 E LE NUOVE REGOLE

Troppa cautela verso le banche


Una svolta impor­tante nel gover­no dell’econo­mia del mondo, una soluzione intelligen­te al problema dei com­pensi dei banchieri, ma eccessiva cautela nel dise­gnare nuove regole per le banche. In questi tre pun­ti si riassumono i risultati del G20 di Pittsburgh.

Il governo dell’econo­mia del mondo, che anco­ra rispecchiava i rapporti di forza alla fine della Se­conda guerra mondiale, quando Cina, India e Bra­sile erano entità irrilevan­ti, è stato trasformato spo­stando le decisioni dal G8 (che viene abolito) al G20. La nuova architettu­ra ha tre pilastri. Una te­sta politica, il G20, e due strumenti operativi: il Fondo monetario interna­zionale, cui è affidata la responsabilità della stabi­lità macroeconomica, e il Financial stability board (Fsb), responsabile per la stabilità finanziaria. Molti prevedono che il segno dei nuovi rapporti di for­za sarà la designazione al­la testa del Fondo (da sempre affidato a un euro­peo) di Zhou Xiaochuan, l’attuale governatore del­la banca centrale cinese. La perdita d’influenza del­l’Europa a Washington è compensata dalla respon­sabilità per il secondo pi­lastro operativo, l’Fsb, af­fidato al governatore del­la Banca d’Italia. La presi­denza dell’Fsb è la posizio­ne di maggiore peso inter­nazionale che l’Italia ab­bia avuto dal dopoguerra a oggi, un riconoscimen­to alla reputazione di Ma­rio Draghi.

Ironicamente, la solu­zione prospettata per i compensi dei banchieri è ispirata da quanto fanno i migliori hedge fund , che molti avevano dipinto co­me diavoli pericolosi, e in­vece sono sopravvissuti al­la crisi meglio di molte banche. Le nuove regole prevedono tempi lunghi per la liquidazione dei bo­nus e la possibilità per le banche di attingere ai compensi individuali per far fronte a eventuali per­dite. Ma l’idea più innova­tiva è che i requisiti di ca­pitale si applichino a livel­lo individuale. L’ammon­tare di rischio che un ban­chiere può assumersi do­vrebbe dipendere dal ca­pitale che ha accumulato attraverso i bonus ricevu­ti in passato: se li ha spesi non ha capitale e non può lavorare.

Le grandi banche han­no evitato che venisse lo­ro sottratto il monopolio nella negoziazione di tito­li non governativi e di al­tri strumenti finanziari. Il trasferimento di queste contrattazioni su piatta­forme pubbliche (come accade per i Bot) ne au­menterebbe la liquidità, renderebbe più facile vigi­lare su chi li tratta e quin­di imporre requisiti mini­mi di capitale. Ma sottrar­rebbe profitti alle grandi banche e il tema, pure af­frontato dal G20 di Lon­dra, è stato accantonato.

Dei Legal Standards proposti dal nostro mini­stro dell'Economia non c'è traccia nel comunica­to del G20, risultato inevi­tabile di un progetto che nessuno fuori da via XX Settembre ha mai ben ca­pito. Abbiamo sprecato un’occasione. Negli ulti­mi vent’anni il maggior contributo italiano all’in­dustria finanziaria è stata la creazione del Mercato telematico dei titoli di Sta­to (Mts), uno dei primi esempi al mondo di piat­taforma pubblica traspa­rente per la negoziazione dei titoli e un modello og­gi diventato lo standard in molti Paesi. Se avessi­mo fatto leva sul successo dell’Mts, e battuto su que­sto chiodo dal G7 di Lec­ce al G8 dell’Aquila, forse a Pittsburgh i banchieri non avrebbero prevalso.

Francesco Giavazzi

27 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:26:18 am »

CONSEGUENZE DI UN’IMPOSTA DISCUTIBILE

L'Irap punisce chi dà lavoro


Non sono molte le aziende che quest’anno chiuderanno il proprio bilancio in attivo. Ma tutte, anche quelle che nel 2009 perderanno, dovranno pagare l’Irap, un’imposta che non colpi­sce i profitti, ma il costo del lavoro. Faccio un esempio. Un’azienda che quest’anno fattura 5 mi­lioni ed ha un costo del la­voro, diciamo, di 3 milio­ni, pagherà circa 100.000 euro di Irap, anche se chiuderà il bilancio con una perdita di 100 mila eu­ro. L’Irap cioè raddoppie­rà le perdite di questo im­prenditore.

Il paradosso è che que­sta imposta punisce le aziende che nella crisi hanno cercato di proteg­gere i loro dipendenti, evi­tando di ricorrere alla cas­sa integrazione anche quando gli ordini scarseg­giavano. Chi più ha sfrut­tato la cassa, meno Irap pagherà.

So bene che l’Irap è un’imposta regionale, che sostituisce la vecchia «tassa sulla salute» e ser­ve per pagare la sanità pubblica. Ma allora con­sentiamo alle aziende di considerarla al pari degli altri oneri sul lavoro: così almeno sarebbe intera­mente deducibile.

D’altronde questa è la promessa che aveva fatto Silvio Berlusconi già nel 2003: «Aboliremo l’Irap in 5 anni perché è un’im­posta anomala che colpi­sce il lavoro e le imprese che si vogliono sviluppa­re. Quando la aboliremo occorrerà una contropar­tita, forse ci sarà un ritor­no al passato come il con­tributo sanitario che però potrà essere parzialmen­te recuperato». Promessa rafforzata nel program­ma del Popolo della liber­tà per le elezioni del 2008, dove nel capitolo «Un nuovo fisco per le im­prese » è scritto: «Gradua­le e progressiva abolizio­ne dell’Irap, a partire dal­l’abolizione dell’Irap sul costo del lavoro e sulle perdite» (sic).

Il ministro dell’Econo­mia accusa le banche di strozzare le imprese lesi­nando il credito. Afferma di non comprendere per­ché le banche non usino la possibilità che egli of­fre loro di finanziarsi con i Tremonti-bonds per i quali la Legge finanziaria ha stanziato 12 miliardi di euro. Il motivo per cui le banche rifiutano queste obbligazioni è molto sem­plice: oggi possono finan­ziarsi sul mercato a condi­zioni più favorevoli di quelle che offre loro il Te­soro. Le renda più appeti­bili e vedrà che le banche le utilizzeranno. Finché non lo fa quei 12 miliardi non verranno spesi.

Perché allora non desti­narli all’abolizione del­­l’Irap? Ciò che io temo è che fra qualche giorno leggeremo che quei 12 mi­liardi sono stati destinati a finanziare la Banca del Sud, cioè non ad aiutare tutte le imprese, bensì le più furbe, quelle che cree­ranno attività fittizie nel Mezzogiorno per accede­re ai finanziamenti della nuova banca. Non sareb­be la prima volta.

Si osserverà che 12 mi­liardi non bastano per compensare la perdita dell’intero gettito del­­l’Irap, ne servirebbero al­meno altri 20. Ma se il mi­nistro dell’Economia è davvero convinto che le imprese abbiano dispera­tamente bisogno di liqui­dità, egli converrà che non sottrarre loro oltre 30 miliardi è un modo per sostenere la ripresa, e ciò consentirebbe al Teso­ro di recuperare una par­te del gettito perduto.

Francesco Giavazzi

14 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 23, 2009, 04:01:09 pm »

Tasse, come si può ridurle


Silvio Berlusconi entrò in politi­ca promettendo (febbraio 1994) più libertà per l'impresa priva­ta, uno Stato più efficiente e me­no tasse per tutti. Nel primo anno e mezzo di questa legislatura il suo go­verno ha seguito una strategia oppo­sta. Il ministro dell’Economia esclude­va che ci fosse alcuno spazio per ridur­re le tasse, il ministro del Welfare ripe­teva che il nostro modello si è dimo­strato il migliore al mondo e andrebbe esportato, altro che mi­gliorato! Quindi niente riforme. Quanto alla li­bertà d'impresa, chiede­re che vengano rimossi i vincoli che escludono i privati da ampie aree dell'attività economica ( in primis i servizi pub­blici locali) era quasi pronunciare un'eresia.

L'obiezione che tas­se elevate, un welfare che esclude molti e non protegge chi ne ha davvero bisogno, ampie riser­ve pubbliche, sono alcuni dei motivi per cui da 15 anni l'Italia cresce meno della media Europea, era respinta con disprezzo ed arroganza. Erava­mo incamminati sulla via di una ri­presa lentissima. Se altri Paesi impie­gheranno sette-otto anni per recupe­rare i livelli di occupazione preceden­ti la crisi, noi, crescendo di meno, ne avremmo impiegati quindici.

Se questa era la linea prevalente nel governo, non era la sola. Alcuni ministri, in primis Mariastella Gelmi­ni e Renato Brunetta, sono apparsi perplessi, se non apertamente contra­ri, e quando le decisioni hanno riguar­dato le aree di loro competenza non hanno avuto dubbi nello scegliere le riforme. Ma era una minoranza mal sopportata, soprattutto perché (guar­da, guarda) questi mini­stri sembravano anche relativamente popolari. Altre tensioni si sono avute sulla Banca del Mezzogiorno, apparsa ad alcuni — ad esem­pio al ministro Fitto — fumo negli occhi per non affrontare i proble­mi, ad altri un ritorno a politiche che il Sud lo hanno affossato, altro che fatto crescere!

L'esempio più recen­te si è verificato due giorni fa quando Mariastella Gelmini ha chiesto che ve­nisse messo all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri di oggi la sua ri­forma dell'università, e Giulio Tre­monti si è opposto. Se l'Italia è il nuo­vo paese di Bengodi in cui tutto fun­ziona a meraviglia, che bisogno c'è di riforme? Perché cambiare i vecchi con­corsi universitari?

Da qualche giorno l'equilibrio pare esser­si spostato. Quella riforma al Consiglio dei ministri di oggi verrà presentata e proba­bilmente approvata. Non sarà perfetta, ma è un passo avanti importante. Soprattutto dice chiaramente «no» alla richiesta dei sindacati (e del Pd) che ventimila ricercato­ri vengano promossi professori ope legis.

Un buon modo per chiudere una settima­na che il ministro dell'Economia aveva aperta tessendo gli elogi della stabilizzazio­ne sul posto di lavoro.

Anche sulla riduzione delle tasse è cam­biata l'aria. Ha riacquistato credito l’opinio­ne che dal debito pubblico non si esce con più tasse, ma con più crescita e che per ac­celerarla le tasse occorre ridurle. Berlusco­ni stesso, con una chiarezza che gli va rico­nosciuta, ha detto che si può cominciare riducendo l'Irap, un'imposta odiosa che colpisce indifferentemente le imprese che guadagnano e quelle che perdono. Di qui al ritorno al progetto originario di tre sole aliquote il passo potrebbe essere breve.



Francesco Giavazzi

23 ottobre 2009
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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 27, 2009, 07:03:43 pm »

 DUE LINEE A CONFRONTO

Come coniugare rigore e crescita


Il governo è in un vico­lo cieco. Col trascorre­re delle settimane è evidente che la scelta del ministro dell’Economia di attendere che passi la tempesta, nonostante il de­ficit sia cresciuto meno che altrove, non riesce a far fronte alla caduta dei con­sumi e all'aumento della di­soccupazione. Non solo. Senza riforme, il giorno in cui la crisi finirà riprendere­mo a crescere dell’1% l’an­no: la disoccupazione ri­marrà elevata per oltre un decennio.

Ma non appena la posi­zione di Giulio Tremonti è apparsa indebolirsi, si è fat­to avanti il «partito della spesa». Il gettito dello scu­do fiscale è stato speso più volte, prima ancora che sia rientrato un solo euro. Gli emendamenti alla Finanzia­ria presentati per il Pdl dal senatore Mario Baldassarri aumenterebbero significati­vamente il deficit. I 37 mi­liardi di minori tasse e mag­giori spese in infrastrutture che egli propone sono per­lopiù finanziati da tagli agli acquisti delle pubbliche amministrazioni. Vi è certa­mente molta spesa pubbli­ca inefficiente, ma chiun­que abbia osservato, per esempio, le condizioni in cui versano i nostri edifici scolastici converrà che que­sta copertura è non più che una speranza.
Giulio Tremonti fa bene a resistere al partito della spesa ma, poiché non rie­sce ad arginare la caduta del reddito, il debito cresce comunque: era sceso al 104% del Pil, tornerà al 118 fra un anno. A questo pun­to serve una svolta. Occorre capire che per mantenere stabile il debito, il rigore fi­nanziario deve essere co­niugato con politiche che accelerino la crescita.

La pressione fiscale, che all’inizio del decennio era scesa verso il 40%, è tornata sopra il 43: la riduzione del­le tasse sul lavoro e sulle imprese è quindi la prima condizione. Ma poiché il nostro debito è quasi il dop­pio di quello tedesco, non ci possiamo permettere di seguire la signora Merkel e semplicemente tagliare le tasse. Interventi come l’eli­minazione dell’Irap debbo­no essere parte di un pac­chetto di misure che ne compensino (in tempi bre­vi) le conseguenze sul defi­cit e soprattutto ne amplifi­chino gli effetti sulla cresci­ta.

Tra le molte cose che si potrebbero fare: accelerare l’aumento dell'età della pen­sione ripristinando lo spiri­to delle norme Maroni can­cellate dal governo Prodi; pagare i debiti delle pubbli­che amministrazioni verso le imprese private. Si stima ammontino a 60 miliardi, un aiuto che vale quasi il doppio della eliminazione dell’Irap (e senza effetti sul debito, poiché sono spese già contabilizzate). Allinea­re la tassazione delle rendi­te finanziarie a quanto si fa in Europa. Avvicinare le tas­se ai cittadini, cioè diminui­re le imposte destinate allo Stato e sostituirle con tasse locali che hanno un enor­me vantaggio: i cittadini possono prima decidere co­me destinarle e poi control­lare la qualità dei servizi for­niti. Due esempi. Ripristina­re l’Ici al di sopra di un red­dito minimo e rimuovere il vincolo di legge sulle tasse universitarie consentendo agli atenei di modularle sul reddito familiare, con bor­se di studio per i meno ab­bienti. Si chiama federali­smo fiscale? Bene, allora co­minciamo ad attuarlo subi­to.

Queste misure, accompa­gnate da qualche liberaliz­zazione (ad esempio l’aper­tura dei servizi pubblici lo­cali) e dalle riforme sul pub­blico impiego del ministro Renato Brunetta, accelere­rebbero la crescita e forse consentirebbero a Silvio Berlusconi di adottare, en­tro fine legislatura, le tre ali­quote che ha promesso agli italiani.

Francesco Giavazzi

27 ottobre 2009
da corriere.it
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