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Autore Discussione: Francesco GIAVAZZI.  (Letto 60836 volte)
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« inserito:: Giugno 16, 2007, 06:20:17 pm »

14-06-2007

Risposta a Prodi

Tito Boeri
Francesco Giavazzi


"Le posso assicurare che interveniamo molto meno dei paesi che ci fanno la predica e che ci sono ventuno settori negli Stati Uniti in cui lei non può investire".

Così Romano Prodi al Festival dell’economia di Trento rispondeva alle domande della redazione de lavoce.info che, forse un po’ maliziosamente, gli chiedevano se fosse legittimo interpretare una frase delle Considerazioni finali del governatore Draghi ("Un sistema finanziario moderno non tollera commistioni fra politica e banche") come riferita all’azione del suo governo.
Siamo andati a verificare, come sempre cerchiamo di fare in occasione di dati citati durante confronti pubblici, la veridicità dell’affermazione del presidente del Consiglio.

I settori "chiusi" dell’America

Negli Stati Uniti i settori in cui esiste qualche limitazione agli investimenti esteri in realtà sono sedici, non ventuno. La tabella che pubblichiamo in calce a questo articolo mostra un elenco dei settori nei quali si applicano delle restrizioni e la loro fonte normativa. I dati riportati nella tabella suggeriscono tre considerazioni.
Innanzitutto, in sei casi su sedici, le imprese protette operano in settori molto particolari: dogane, reattori nucleari e impianti di arricchimento di combustibile nucleare, comunicazioni satellitari, società che offrono garanzie agli investimenti in determinati paesi in via di sviluppo. Tra questi sei settori, quelli che non sono militari, o affini, sono agricoltura e pesca - settore nel quale società non americane possono operare, ma sono escluse dagli aiuti di Stato - e il trasporto aereo e marittimo a piccolo raggio, cioè interno agli Stati Uniti, l’unica vera restrizione rilevante. Negli altri dieci settori esistono restrizioni, ma sono più deboli: in generale è richiesta semplicemente la reciprocità. Per citare un esempio recente, sebbene radio e televisioni siano indicate come un settore al quale si applicano talune restrizioni agli investimenti esteri, nessuna autorità Usa ha sinora sollevato obiezioni al progetto dell’australiano Robert Murdoch di acquistare la società che possiede il Wall Street Journal e che controlla numerose stazioni radio negli Stati Uniti.
La seconda osservazione è che la maggior parte dell’economia americana opera al di fuori di questi particolari settori ed è aperta agli investimenti esteri. Ad esempio non è stata sollevata alcuna obiezione all’acquisto da parte della cinese Lenovo dei Pc portatili Ibm.

Certezze Usa e incertezze di casa nostra

La terza considerazione è tuttavia la più importante. Le restrizioni americane, ove esistono, sono determinate con norme di legge, quelle che abbiamo riportato nella tabella. Un eventuale investitore conosce quindi con certezza dove potrà e dove non potrà investire. Ciò che scoraggia gli investimenti esteri in Italia (nel periodo 2000-2004 l’Italia ha ricevuto il 2 per cento del totale degli investimenti diretti esteri pervenuti nell’Unione Europea, a fronte del 6 per cento ciascuno di Francia e Germania, 7 per cento della Spagna, 9 per cento dell’Olanda, 14 per cento del Regno Unito) è l’incertezza normativa.
A metà degli anni Novanta il Banco Bilbao Vizcaja fu invitato a investire nella privatizzazione di Bnl. Nessuna norma vietava agli spagnoli di acquisire il controllo della banca ed essi investirono nell’aspettativa che avrebbero potuto aumentare la loro quota. Decisioni discrezionali della Banca d’Italia impedirono loro di farlo e, alla fine, dovettero abbandonare. Anche nel caso delle autostrade la concessione non prevede un diritto di veto dello Stato sulla proprietà della società che ottiene la concessione. La spagnola Abertis è stata esclusa con un’interpretazione ex-post delle norme.

Si potrebbe argomentare che un qualche grado di incertezza normativa esiste anche negli Stati Uniti. Si è molto parlato, ad esempio, del caso recente delle società che gestiscono i porti. Negli Stati Uniti i porti non sono un settore riservato a soggetti nazionali: anzi, la gestione straniera è la regola. Negli Usa ci sono circa quindici porti importanti: ognuno ha da 3 a 12 terminal. Il totale dei terminal è circa 100. Otto di questi sono gestiti da società statunitensi; una dozzina dai municipi e dagli stati; la gestione di circa 80 terminal è in mano a società straniere. La questione di cui recentemente si è parlato riguardava la Dubai Ports World, una società degli Emirati Arabi che aveva acquistato la Peninsular and Oriental Steam Navigation Company (P&O), un’azienda britannica. Attraverso questa acquisizione la P&O sarebbe entrata in possesso di alcuni importanti terminali situati in porti americani: New York, Miami, Newark-Port Elizabeth, Philadelphia, New Orleans, e Baltimore. Il divieto imposto dal Congresso di Washington era motivato non dall’essere la Dubai Ports World una società estera, ma araba, e l’argomento era il rischio che Al Qaeda potesse acquisire un’influenza sulla società. Altri casi simili sono stati il divieto opposto all’acquisto di Uncoal, una società energetica americana, da parte della cinese Cnooc, e al passaggio, anche in questo caso in mani cinesi, di alcune infrastrutture marittime collocate lungo il Canale di Panama. Nonostante questa incertezza normativa (che tuttavia è limitata a casi specifici) gli investimenti esteri negli Usa crescono ogni anno - come d’altronde è inevitabile considerando l’esigenza di finanziare l’enorme disavanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti Usa.

Gli interventi del governo

Quindi non è neppure l’incertezza normativa il fattore che allontana gli investimenti esteri dall’Italia. Ciò che preoccupa gli investitori internazionali sono gli interventi diretti del governo in decisioni che dovrebbero essere di esclusiva competenza delle imprese.
La notizia che uno stretto e importante collaboratore del presidente del Consiglio, su carta intestata della presidenza del Consiglio, avesse inviato agli amministratori di Telecom Italia, una società privata quotata in borsa, un progetto di ristrutturazione delle attività industriali di quell’azienda, ha fatto molto più danno della stessa presenza, nello statuto della società telefonica, di una "golden share". Lo stesso è accaduto quando il presidente del Consiglio non ha resistito alla tentazione di applaudire alla fusione tra Intesa e Imi-San Paolo prima ancora che i consigli di amministrazione delle due banche la approvassero, così dando l’impressione di essere stato informato dell’operazione prima del mercato. Il 24 agosto 2006 Prodi disse, riferendosi alla fusione bancaria, "bella notizia, mi auguro che la fusione vada in porto". I cda delle due banche si riunirono, per approvare la fusione, due giorni dopo, sabato 26 agosto. Il fatto non è irrilevante: lo scorso anno il governatore Draghi aveva abolito l’obbligo delle banche di informare la Banca d’Italia prima dei loro cda di eventuali progetti di fusione. Si è quindi avuta l’impressione che il governo si fosse appropriato del diritto all’informazione preventiva del quale la Banca d’Italia si era spogliata.
Ci spiace, signor presidente del Consiglio, ma continuiamo a credere che le Considerazioni finali si riferissero proprio all’operato dell’esecutivo da Lei presieduto.
 
da lavoce.info
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 13, 2007, 04:03:06 pm »

LA COMPAGNIA IN VENDITA

L'Alitalia e i consumatori

di Francesco Giavazzi


Il governo sta decidendo in queste ore se vendere Alitalia a Air One preferendo l’offerta della compagnia italiana ad altre, in particolare ad Air France. «Il nostro progetto industriale è forte e con basi solide », dice il presidente di Air One. Quanto il suo progetto sia forte dipende dall’ipotesi su ciò che accadrà alla tratta più redditizia del trasporto aereo italiano: Linate-Fiumicino. Se Air One acquisirà Alitalia, la nuova compagnia avrà oltre il 90% del mercato su quella rotta e quote molte elevate anche su altre tratte, ad esempio Catania-Fiumicino.

Essere forti con una simile posizione dominante è relativamente facile: certo più facile che per Air France o Lufthansa, le quali, acquisendo Alitalia, dovrebbero poi vedersela con Air One sulla Linate- Fiumicino. Che farebbe di fronte a questa concentrazione l’Autorità garante della concorrenza, il cui compito è difendere i consumatori? «La nostra legge antitrust vieta concentrazioni che restringono la concorrenza o che rafforzano posizioni già dominanti. Però l’articolo 25 (che in Italia non è mai stato usato) consente deroghe a fronte di un programma governativo concordato con noi, a condizione che tali deroghe siano giustificate da interessi strettamente generali, che si tratti di operazioni comunque favorevoli per i consumatori e che vengano subito fissati tempi ben precisi per il rientro nei limiti fissati dall’Antitrust».

Così il presidente dell’Autorità, Antonio Catricalà, nella sua prima relazione annuale e in un’intervista alla Stampa il 4 dicembre 2006. Quali siano gli interessi «strettamente generali » che verrebbero salvaguardati regalando a Air One un monopolio non mi è chiaro. Ma al presidente Catricalà non viene in mente che l’unica cosa che dovrebbe fare è liberalizzare gli slot e poi lasciare che si fonda chi vuole. È vero che la Germania nel 1998 utilizzò una clausola simile all’articolo 25 per consentire la fusione fra due aziende energetiche, E.On e Ruhrgas, ma il trasporto aereo, a differenza del gas, non è un settore strategico.

Di questo passo il governo potrebbe bloccare la liberalizzazione dei taxi sostenendo che il trasporto cittadino è esso pure strategico. «Se Alitalia dovesse andare a una società straniera saremmo l'unico Paese in Europa a non avere più una compagnia di bandiera », dicono i sindacati. Innanzitutto non è vero: Swissair e Sabena sono fallite, le rotte sono state cedute ad altri, ma a Bruxelles e a Zurigo si continua a volare e non mi pare che i consumatori di quei Paesi abbiano protestato, anzi. Invece è proprio il sostegno dei sindacati all’offerta di Air One a dover preoccupare i molti che approvano questa scelta. Il monopolio consentirebbe a Air One di incassare una buona rendita della quale i sindacati di steward e piloti sapranno facilmente appropriarsi: basterà minacciare uno sciopero sulla tratta Linate- Fiumicino che in assenza di alternative bloccherebbe l’Italia. I consumatori ringraziano.

13 dicembre 2007

da corriere.it
« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 06:08:27 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 01, 2008, 06:15:51 pm »

Due crisi e il buonsenso

Stefano Ceccanti


Ci sono due crisi intrecciate. La prima è quella della coalizione dell’Unione, che ha obiettivamente esaurito la sua spinta propulsiva e che non è pertanto riproponibile quando (e non sarà comunque tra molto) saremo chiamati a votare. Sul piano nazionale esistono dei problemi di complessità tale, ad esempio in materia di politica estera e della difesa, che escludono in questa fase un’intesa stabile con larga parte della cosiddetta sinistra radicale.

Per di più è senz’altro esclusa la possibilità di riannodare un rapporto con quelle forze e personalità moderate che hanno irresponsabilmente affondato il Governo Prodi. Questi sono aspetti che dovremo affrontare con coraggio, autonomamente, a prescindere dalle regole elettorali, al limite anche in controtendenza se dovessero restare quelle attuali, con l’unico vincolo che le proposte siano comprensibili al Paese.

Vanno quindi evitate scorciatoie solo apparentemente ingegnose, sia quelle che tecnicamente non esistono (le diverse coalizioni a scacchiera tra le Regioni al Senato, proibite dalla legge), sia quelle che, pur tecnicamente possibili, sono politicamente insensate (presentare una coalizione per la Camera e una per il Senato; abbiamo già dato con la brillante trovata del 2006 di presentare l’Ulivo alla camera e Ds e Margherita separati al Senato).

Questo è il lavoro che dobbiamo fare noi, sul piano politico, ma, se anche la crisi fosse solo questa, guardiamoci dal cadere nella trappola dei commentatori che, andando spesso sopra le righe, ci invitano a scaricare in negativo le responsabilità su Romano Prodi, un ottimo Presidente del Consiglio di una coalizione strutturalmente poco governabile. C’è poi la seconda crisi, quella obiettiva del sistema, da cui anche la coalizione dell’Unione è sorta come sua figlia legittima. Un sistema che incentiva coalizioni eterogenee, buone per vincere, ma non per governare e contro il quale più di ottocentomila cittadini, di sinistra e di destra, politicizzati e non, hanno sottoscritto per referendum abrogativi che ora debbono essere indetti.

Si può negare l’evidenza, cioè che questa crisi esista? In particolare si può immaginare che la rediviva Casa delle Libertà (definita solo qualche settimana fa «ectoplasma» dai suoi principali leaders) sia in grado di governare senza problemi? Segnalo in particolare due questioni alle personalità e alle forze del centrodestra che dovrebbero essere interessate a una prospettiva effettiva e stabile di Governo. Pressoché tutte le proiezioni sui seggi al Senato, comprese quelle fondate su una possibile ondata di voti favorevoli alla Cdl (tutta da dimostrare) pongono la Lega Nord, il partito più eterogeneo della coalizione, in una posizione determinante. Vediamo bene i numeri. Il partito di Bossi ha già oggi, in una legislatura in cui la Cdl ha perso le elezioni, 12 senatori.

In caso di successo in voti è difficile che ne abbia meno di 15. La Cdl è accreditata dalle proiezioni più benevole a 170, solo 12 in più della maggioranza. Ha senso cacciarsi una simile trappola, ammesso e non concesso che davvero vi sia questa ondata di voti? Ora capiamo tutti meglio perché la Lega Nord abbia la posizione più rigida di tutti nel confronti del presidente incaricato Marini, ma non è molto chiaro perché le altre forze del centro-destra siano anche loro così intransigenti. La seconda questione è quella del referendum che sarebbe solo congelato dallo scioglimento anticipato. A prescindere dalla reazione dei sottoscrittori, compresi quelli di centro-destra, che si vedrebbero improvvisamente privati del loro diritto di voto senza vedere il risultato di una legge approvata dal Parlamento, esso finirebbe col trasformarsi in una spada di Damocle sulla nuova maggioranza, notoriamente divisa sia sui quesiti sia sulle possibili riforme in Parlamento per superarli. È fin d’ora prevedibile che, in caso di scioglimento anticipato, il programma della Cdl sarebbe fatalmente evasivo su questo punto proprio per dissimulare le differenze. Una dissimulazione che reggerebbe poco in Parlamento, dopo il voto. Quando larga parte delle organizzazioni sociali, culturali, ecclesiali del Paese, comprese alcune di quelle più vicine per ispirazione ideale al centrodestra, chiedono un’intesa prima del voto non lo fanno per generico buonismo impolitico, ma perché hanno esattamente in mente questi scenari; paradossalmente rivelano una maggiore capacità di previsione di analisi dei loro referenti nelle istituzioni.

A questo punto non sarebbe per tutti ragionevole seguire il percorso indicato dal Presidente Napolitano nel dare l’incarico al Presidente del Senato, che, per rifarsi alle parole del Presidente «non può essere da nessuna parte inteso come scelta rituale o dilatoria»? Se fosse impossibile un’intesa di merito il governo potrebbe comunque accompagnare la consultazione referendaria che produce, com’è noto, una normativa auto-applicativa già migliorativa della legge vigente, ulteriormente migliorabile anche dopo le elezioni.

In ogni caso sono state prospettate nelle scorse settimane delle proposte ancor più migliorative che renderebbero tranquillamente possibile il voto in poche settimane. Per fare solo un esempio, il progetto esaminato in una riunione del 21 gennaio mattina da vari esperti, con un consenso di fondo di Forza Italia, non prevedendo nuovi collegi uninominali da ritagliare, che segue i confini noti delle province, sarebbe del tutto adeguato a questo scopo. Basterebbe uno sforzo di ragionevolezza di qualche settimana e l’obiettivo sarebbe a portata. Poi la parola agli elettori, comunque.


Pubblicato il: 01.02.08
Modificato il: 01.02.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 09, 2008, 11:47:04 am »

GRANDI INTESE E CONTENUTI

Le riforme scomode

di Francesco Giavazzi


Da più parti si auspica una grande coalizione: un governo fra Forza Italia e Pd, o almeno un accordo bipartisan per realizzare riforme che, si ritiene, né il centrodestra, né il centrosinistra da soli sarebbero in grado di varare. Mario Monti ( Corriere, 3 febbraio) propone che un simile accordo venga stipulato prima delle elezioni, in modo che diventi vincolante qualunque sia la coalizione che le vincerà. Persino Silvio Berlusconi fa capire di non essere pregiudizialmente contrario.

Dopo quindici anni in cui la politica ha navigato a vista, forse è venuto anche il momento delle grandi coalizioni. Ma la domanda da porsi è se una coalizione fra Forza Italia e Pd renda più probabili le riforme. Non è detto. Un esempio: un'alleanza fra avvocati e notai — categorie ben rappresentate da Forza Italia — e i sindacati, rappresentati dal Pd, probabilmente garantirebbe stabilità al governo, ma certo non consentirebbe né la riforma delle professioni né quella del mercato del lavoro.

Romano Prodi ha fallito, ma la sua strategia era sottile. Partiva dall'osservazione che in Italia non esiste una maggioranza in grado di fare le riforme da sola. I riformisti devono quindi trovare degli alleati. Prodi li aveva identificati nella sinistra radicale, alla quale aveva offerto un patto chiaro: riforme in cambio di redistribuzione. La sinistra accettava i provvedimenti Bersani, non chiedeva che venisse abolita la legge Biagi; in cambio avrebbe ottenuto una forte redistribuzione del reddito a favore del lavoro dipendente e delle famiglie più in difficoltà.

All'inizio l'accordo ha retto: non è certo la sinistra che ha ostacolato Bersani, né ha strillato quando il governo ha confermato la legge Biagi. Chi non è stato ai patti sono piuttosto i riformisti: di redistribuzione in questi due anni se ne è vista molto poca. È interessante chiedersi perché.

Prodi si è illuso che per mantenere l'impegno alla redistribuzione fosse sufficiente negoziare ogni legge con i sindacati, che certo non rappresentano i ricchi, ma neppure i poveri. (Errore tipico di una sinistra che ancora pensa che non si possa far nulla senza l'accordo dei sindacati). Un caso emblematico è il modo in cui nell'estate scorsa sono stati distribuiti i fondi stanziati per aumentare le pensioni minime. La quota maggiore non è andata alle famiglie più povere, bensì alle fasce di reddito più presenti fra gli iscritti ai sindacati. Lo stesso è accaduto quando il governo ha deciso di abbassare l'età minima della pensione, un provvedimento che ha favorito i lavoratori anziani, spesso iscritti ai sindacati, e che è stato pagato per una metà tassando i giovani precari, raramente iscritti a un sindacato.

Per la verità accade anche in Francia. Sarkozy ha delegato la riforma del mercato del lavoro a sindacati e imprenditori. Non sorprendentemente l'accordo che hanno siglato (si legga Francis Kramarz, sul sito telos-eu.com) non cambia sostanzialmente nulla, in particolare non fa nulla per aiutare i giovani.
Per giudicare se un accordo politico sia auspicabile occorre innanzitutto chiedersi se esso renda più facile attuare alcune riforme.

Anziché dagli schieramenti meglio quindi partire dai contenuti, da un'analisi dei problemi che il governo, qualunque esso sia, dovrà affrontare dopo le elezioni.


09 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 03, 2008, 12:02:08 pm »

GOVERNO ED ECONOMIA

Il primo test della libertà


di Francesco Giavazzi



Il governo ha annunciato che «attorno al 20 giugno, insieme a un decreto per anticipare la Finanziaria 2009, adotterà un piano triennale per la stabilizzazione della finanza pubblica e lo sviluppo economico». Il piano comprenderà provvedimenti su privatizzazioni, delegificazioni e semplificazioni, a partire da quelle necessarie per facilitare l'avvio delle attività di impresa. La parola «liberalizzazioni » non compare, ma il ministero dell'Economia osserva che «sta prendendo forma in maniera non virtuale ma sostanziale un vero e proprio piano Attali », ricordando la commissione incaricata dal presidente francese Sarkozy di individuare i provvedimenti di liberalizzazione dei mercati necessari per modernizzare l'economia.

I primissimi passi del governo Berlusconi in economia sono stati di segno alterno. La scorsa settimana il commissario europeo Peter Mandelson è arrivato a Roma preparato ad ascoltare richieste protezioniste. Invece Adolfo Urso, sottosegretario al Commercio internazionale, lo ha sorpreso affermando che le attuali trattative sul Doha Round (il negoziato internazionale per la liberalizzazione degli scambi) sono «una bozza senza ambizioni, molto deludente per chi crede nell'apertura dei mercati» e chiedendo che l'Europa «accetti alcuni sacrifici in cambio di una reciprocità che porti all'apertura dei mercati dei Paesi emergenti».

Il ministro Brunetta ha affrontato la riforma della pubblica amministrazione con determinazione, presentando norme che consentirebbero di premiare il merito: «Per quanto riguarda i premi ci sarà lo zero e il massimo, perché l'incentivo uguale per tutti non è un incentivo. I minimi devono essere molto minimi e i massimi molto massimi ». Ascoltato il progetto del ministro, la Cigl se ne è subito andata, dicendo che con quelle idee non si cominciava neppure a parlare. Ma due giorni dopo ci ha ripensato. Per Brunetta un primo successo.

Più variegati i primi passi del ministro dell'Economia. Il progetto di procedere con la privatizzazione di Fincantieri è un passo importante, considerando che da anni l'unico ostacolo a quella vendita è l'opposizione dei sindacati. Ma nel piano per lo sviluppo ritorna il progetto di creare una Banca del Sud. Ne abbiamo già sperimentate due, il Banco di Sicilia e quello di Napoli: prima di spendere altro denaro pubblico occorrerebbe almeno chiedersi (come si è chiesto sabato il Governatore della Banca d'Italia) che vantaggi ne siano venuti per il Mezzogiorno e quanto siano costati ai contribuenti i fallimenti di quelle due banche (uno per cento del Pil solo Napoli).

La scelta di Intesa-Sanpaolo come consulente del governo per l'ennesimo tentativo di privatizzare Alitalia è davvero sorprendente. Fino a pochi mesi fa quella banca partecipava alle trattative per acquistare Alitalia dal lato dei possibili acquirenti. Inoltre, per procedere alla scelta di un consulente senza una gara, il governo ha dovuto adottare un decreto legge che dispone una «deroga alla legge 474/94 sulle modalità di dismissione delle partecipazioni del Tesoro», una norma che ci era stata imposta da Bruxelles e la cui soppressione scopre il fianco a una contestazione che rischierebbe di far saltare la nuova procedura di vendita e perdere altri mesi. Sarebbe quindi opportuno che il ministro Tremonti ci ripensasse.

L'accordo con le banche sulla possibilità per i clienti di trasformare i mutui a tasso variabile in mutui a tasso fisso con la rata bloccata al 2006 dimostra assai poca fiducia nella concorrenza. La legge già consente ai cittadini di spostare il loro contratto da una banca all'altra se altrove vengono loro proposte condizioni migliori (si legga a questo proposito Angelo Baglioni su www.lavoce.info).

Se le banche ostacolano la «portabilità dei mutui» occorre far rispettare la legge. E' solo la concorrenza fra le banche che farà scendere il costo dei mutui, non gli accordi negoziati dal ministro con l'Associazione bancaria — il cui entusiasmo per il nuovo patto è per lo meno sospetto.

La scelta di ridurre le tasse partendo dall'eliminazione dell'Ici sulla prima casa va in direzione opposta al federalismo fiscale. Solo riducendo la distanza che separa i cittadini dagli amministratori pubblici è possibile qualche forma di controllo sull'efficacia della spesa. Se tutte le tasse finiscono a Roma come può un cittadino valutare il modo in cui vengono spesi i suoi soldi? E infatti i sindaci hanno già cominciato a dire che se paesi e città non funzionano è solo colpa di Roma. Ma c'è un rischio ben più grave. L'unica risorsa propria che ora rimane al sindaco sono gli oneri di urbanizzazione che il comune incassa se trasforma un terreno da zona verde o agricola in area edificabile. E' certamente più facile cementificare e distruggere coste, parchi e ambiente — come abbiano già abbondantemente fatto — che tagliare qualche spesa superflua. Che ne pensa Stefania Prestigiacomo, ministro per l'Ambiente e la tutela del territorio? E Sandro Bondi, ministro per i Beni culturali, che è stato così sollecito nell'impegnarsi a difendere il paesaggio di Monticchiello? (Occorre dare atto al ministro Matteoli di aver lanciato l'allarme, in un'intervista ieri alla Stampa, per gli effetti che la cementificazione ha sul territorio).

Un anno fa Giulio Tremonti aveva criticato le liberalizzazioni di Bersani affermando che in molte materie, in primis le professioni, la riforma della Costituzione assegna le competenze alle Regioni: Bersani legiferava su materie che non erano più di sua competenza, quindi perdeva solo tempo. Il 21 dicembre scorso la sentenza n. 443 della Corte costituzionale ha bocciato i ricorsi della Sicilia e del Veneto che sostenevano quanto affermato dal ministro dell'Economia. Scrive la Corte: «La tutela della concorrenza è riservata alla competenza esclusiva dello Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera e) della Costituzione».

La responsabilità di ulteriori passi avanti nella liberalizzazione delle professioni è quindi tutta del governo. Così anche per i servizi pubblici locali.

Il governo non può obbligare Comuni e Province a vendere autostrade, società elettriche e del gas, né a ridurre posti e compensi nei consigli di amministrazione di queste società, moltiplicati da che si è inventata la «governance duale». Ma può annunciare che prima vendono le loro quote e solo dopo possono chiedere soldi allo Stato. Niente denari per la quarta linea del metro a Milano finché il Comune deterrà quote di A2A, l'azienda elettrica lombarda. Né denari alla Provincia finché non venderà la sua quota nell'autostrada Milano-Serravalle.



03 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:40:32 pm »

LA FINANZIARIA DI TREMONTI

Una svolta a metà


di Francesco Giavazzi


I provvedimenti economici approvati ieri dal Governo affrontano problemi di metodo e di sostanza. Sul metodo Giulio Tremonti realizza ciò che ogni ministro del Tesoro ha sognato, ma nessuno è mai riuscito a realizzare. Se i decreti e i disegni di legge varati ieri saranno effettivamente approvati dal Parlamento entro la fine di luglio — come dovrebbe avvenire essendo documenti collegati al Dpef che deve essere approvato entro il 30 luglio — la legge finanziaria che il Governo presenterà alle Camere il 27 settembre potrà essere votata entro il 20 ottobre, con tempi simili a quelli del Parlamento di Londra. Camera e Senato guadagneranno due mesi di attività legislativa, da ottobre a Natale, in passato perduti nell'estenuante discussione di migliaia di emendamenti alla legge di bilancio e ai suoi «collegati ».


La sostanza dei provvedimenti è invece di qualità alterna. Giulio Tremonti ha abbandonato le sue battaglie europee contro il Patto di stabilità e mantiene l'impegno di Prodi a raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2011, anche in un momento di forte rallentamento dell'economia. Dal precedente governo eredita il disegno di legge Lanzillotta per la liberalizzazione e l'apertura ai privati dei servizi pubblici locali. Ottime anche l'eliminazione del trattamento fiscale preferenziale per le stock options, le misure sui dipendenti pubblici predisposte dal ministro Brunetta (alcune introdotte per decreto, altre attraverso una legge delega), la trasformazione delle università in fondazioni (speriamo a questo punto libere di stabilire il livello delle tasse universitarie), l'eliminazione dei vincoli di legge che impedivano la privatizzazione di Tirrenia (speriamo che questo impegno valga anche per Fincantieri la cui privatizzazione è bloccata dal veto dei sindacati), la chiusura dell'inutile fondazione Iri e il trasferimento del suo patrimonio all'Istituto Italiano di Tecnologia.


Ma dopo settimane di propaganda sulla cosiddetta Robin Hood Tax, l'innalzamento dal 27 al 33 per cento dell'aliquota sui profitti delle società petrolifere (pur accompagnata dalla patrimoniale imposta tramite una diversa regola per la contabilizzazione delle scorte di petrolio) non mi sembra meritasse tanto clamore. Rimane lo sconsiderato progetto di creare una Banca del Sud: si dice che sarà privata ma la si crea tramite un decreto ministeriale e con una dote di 5 milioni di denaro pubblico. I privati che vogliono creare una banca di solito si rivolgono alla Banca d'Italia per ottenerne l'autorizzazione, non al Governo per ottenere fondi pubblici.
Ma soprattutto si fa fatica a intravedere in questi provvedimenti una strategia a lungo periodo. Durante il precedente Governo Berlusconi la spesa pubblica aumentò, rispetto al Pil, di due punti. Prodi coprì quelle spese aumentando di due punti la pressione fiscale. Il nuovo piano triennale sulle spese non crea spazi per una riduzione delle imposte e prevede che la pressione fiscale rimanga sostanzialmente invariata, a un livello che è oggi tra i più elevati d'Europa. Il taglio delle tasse è rimandato ai provvedimenti sul federalismo annunciati per l'autunno, ma come vi si farà fronte? A meno che Tremonti non pensi di accogliere il suggerimento implicito del governatore della Banca d'Italia di ridurre in modo radicale i trasferimenti alle regioni del Mezzogiorno che oggi valgono circa tre punti di Pil.


20 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 30, 2008, 09:27:40 am »

MEDIOBANCA E GOVERNANCE

Contraddizioni del «duale»


di Francesco Giavazzi


Quando, nel 1970, l'Avvocato Agnelli acquistò la Lancia da Carlo Pesenti, non sdoppiò il consiglio di amministrazione della Fiat per consentire all'industriale bergamasco di continuare a fregiarsi del titolo di presidente. Pagò il prezzo convenuto e basta. Luxottica, una delle nostre aziende di maggior successo, è cresciuta attraverso le acquisizioni: Oakley, Ray-Ban, Sunglass- Hut. A Leonardo Del Vecchio non è mai venuto in mente di creare in Luxottica, oltre al cda, un consiglio di sorveglianza per sistemare presidenti e amministratori delle società che via via comprava. Né a Franco Buzzi quando acquisì Unicem, in una delle fusioni di maggior successo degli ultimi anni.

La « governance duale» è nata quando si sono aggregate imprese pubbliche: banche di proprietà delle fondazioni (soggetti cui è estranea la logica del profitto), aziende elettriche e del gas di proprietà di Comuni e Province. Quando gli azionisti non sono interessati al prezzo ma a potere e poltrone. Quando per ottenere il loro consenso non si tratta sul valore della società, ma sui posti da spartire (Iride, la ex azienda municipale di Torino e Genova, ed Hera, di Bologna, hanno deliberato il passaggio al duale per fondersi senza perdere neppure un posto). Poco importa se alla prova dei fatti la governance duale si dimostra inadatta a una gestione efficiente: consente due presidenti e un numero doppio di consiglieri, questa è la sola cosa che conta.

Si è detto che il sistema duale sarebbe stato un fatto transitorio, un prezzo in fondo modesto per consentire aggregazioni altrimenti impossibili. La verità è che quando si accetta che l'interesse delle aziende si pieghi alle richieste di singole persone, poi si paga il conto.

Mediobanca adottò il modello duale per consentire la fusione fra Unicredit e Capitalia, ma allora nessuno ebbe il coraggio di ammetterlo. I manager della banca hanno spiegato agli investitori che le poltrone e le persone non c'entravano: la governance duale era l'assetto più efficiente per guidare Mediobanca. Oggi gli azionisti pare si siano pentiti e vorrebbero tornare indietro. Che cosa deve pensare un investitore internazionale? Io penso si aspetti di conoscere il pensiero dei manager cui è stata affidata la gestione. Hanno anch'essi cambiato opinione?

In realtà se c'è un'istituzione in cui sarebbe necessario un filtro fra azionisti e manager è proprio Mediobanca perché la maggioranza dei suoi grandi azionisti sono banche che fanno lo stesso mestiere e quindi si trovano in un evidente conflitto di interessi. Ma anziché
governance barocche basterebbe sciogliere il consiglio di sorveglianza e trasformare l'attuale consiglio di gestione in un normale consiglio d'amministrazione, lasciando gli azionisti nel luogo che loro compete: l'assemblea della società.

Che cosa c'entra con tutto questo la politica? Probabilmente nulla. Tranne se da domani la nuova Mediobanca cominciasse a partecipare a operazioni giustificate da un supposto «interesse nazionale», come il salvataggio di Alitalia, anziché dall'interesse dei suoi azionisti, in primis dei risparmiatori che hanno investito nella banca.


30 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 27, 2008, 02:43:33 pm »

Francesco Giavazzi


Alitalia, le insidie di un percorso


di Francesco Giavazzi


Ci sono quattro buoni motiviper cui il piano per Alitalia predisposto da Banca Intesa desta dubbi e perplessità, inducendo, pare, anche qualche membro del governo a suggerire che venga riconsiderata l’offerta di Air France sdegnosamente rifiutata quattro mesi fa. 1) Il piano rischia di costare ai contribuenti oltre un miliardo di euro, un terzo dei tagli alla scuola previsti dalla Finanziaria; 2) Gli imprenditori che dovrebbero acquisire il controllo della Nuova Alitalia corrono rischi seri: sono stati a lungo minimizzati, ma venuti al dunque non è più possibile nasconderli. Vogliamo davvero rischiare di trasferire su alcune nostre imprese, oltre che sui contribuenti, il costo del disastro di Alitalia? 3) Il piano verrebbe immediatamente impugnato dalla Ue e da quel contenzioso temo usciremmo perdenti; 4) Il piano richiede che vengano sospese le regole anti-trust, creando un precedente pericoloso per la politica della concorrenza.

La Nuova Alitalia che è nata ieri sarà un’azienda senza debiti e con molti dipendenti in meno. Gli imprenditori privati che ne sono i nuovi azionisti apportando un miliardo di euro di capitale fresco apparentemente non corrono rischi: non ereditano debiti né dipendenti in eccesso, e soprattutto hanno la quasi certezza — questa infatti è la condizione necessaria, che essi hanno giustamente preteso—di rivendere fra un anno o poco più l’azienda a Lufthansa o a un’altra compagnia internazionale, recuperando così il miliardo speso oggi, magari con qualche profitto. Quest’operazione così ben congeniata nasconde però un’insidia a mio parere non valutata in modo adeguato dai nuovi azionisti. La Nuova Alitalia acquisterà aerei, slot e altri contratti dalla vecchia azienda della Magliana che domani il Consiglio dei ministri porrà in liquidazione. I prezzi ai quali la Nuova Alitalia acquisterà queste attività determineranno se la Vecchia Alitalia sarà in condizione di far fronte ai debiti che le rimarranno. Ad esempio, due anni fa gli aerei valevano 2,2 miliardi di euro: se i nuovi azionisti accettassero di acquistarli a quel prezzo, la Vecchia Alitalia potrebbe agevolmente pagare i propri debiti e poi chiudere.

Ma dubito che i nuovi azionisti siano disposti a pagare tanto: gli aerei sono vecchi e più sale il prezzo del petrolio meno valgono. Le valutazioni internazionali suggeriscono oggi ragionevolmente un miliardo. Se così fosse la Vecchia Alitalia non avrebbe fondi sufficienti per pagare i propri debiti. I nuovi azionisti hanno richiesto una norma che li protegga dal rischio di revocatorie da parte dei creditori della Vecchia Alitalia, prova del fatto che non sono disposti a pagare molto. Che cosa accadrebbe se la Vecchia Alitalia non fosse in grado di far fronte ai propri debiti verso fornitori, banche e investitori che detengono obbligazioni della società? Una possibilità è non pagare. Due mesi fa, quando fu convertito in legge il decreto (DL 23.4.2008, n. 80) che evitò il fallimento concedendo ad Alitalia un prestito ponte di 300 milioni, il governo disse in Parlamento: «Con la presente norma si tende a salvaguardare per i prossimi dodici mesi la continuità aziendale di Alitalia... escludendo in tale lasso temporale, ogni ricorso ad ipotesi di liquidazione o di applicazione di procedure concorsuali ».

Quindi i creditori di Alitalia hanno diritto ad essere rimborsati in quanto sono protetti da una legge che escludeva esplicitamente la liquidazione o anche solo lo scorporo della società— che invece avviene oggi prima della decorrenza di dodici mesi dall’approvazione del decreto. Che lo Stato debba pagare i debiti della Vecchia Alitalia è quindi certo. Nel momento stesso in cui paga, il governo viola le norme europee sugli aiuti di Stato. Consentire la sopravvivenza di un’azienda decotta trasferendone i debiti allo Stato è un classico caso di aiuto. Una condanna di Bruxelles obbligherebbe la Nuova Alitalia a rimborsare l’aiuto impropriamente ricevuto, cioè ad accollarsi quei debiti (questo è esattamente ciò che avvenne vent’anni fa quando Alfa Romeo fu ceduta alla Fiat senza debiti —di cui si fece carico l’Iri, cioè lo Stato. Dopo la condanna di Bruxelles quei debiti tornarono in capo alla Fiat). Sono consci i nuovi azionisti del rischio in cui incorrono e dal quale evidentemente lo Stato non li può manlevare? Ma non basta. Il decreto legge n. 80 prevede: «La somma erogata ad Alitalia è rimborsata il trentesimo giorno successivo a quello della cessione o della perdita del controllo effettivo da parte del Ministero dell’economia e delle finanze». Questo comma fu inserito nel decreto proprio per evitare che il prestito ponte fosse considerato un aiuto.

Il governo ha poi trasformato il prestito in capitale, ma con una formula ambigua che ne consente la restituzione all’azionista qualora Bruxelles lo richieda. Quindi se la Vecchia Alitalia non avrà fondi sufficienti, sarebbe la Nuova Alitalia a dover rimborsare allo Stato i 300 milioni del prestito (che in cassa non ci sono più perché sono serviti a coprire le perdite dei primi mesi dell’anno). Altrimenti la controversia con Bruxelles si aggraverebbe ulteriormente. Vi è poi il problema Air One. I nuovi azionisti non vogliono la fusione fra Nuova Alitalia e Air One perché questa porterebbe nella Nuova Alitalia debiti e dipendenti di Air One. Essi vogliono semplicemente acquistare da Air One gli aerei, tutti gli slot (grazie a una sospensione delle regole anti-trust) e i contratti stipulati per la consegna di nuovi velivoli. Air One rimarrà quindi una scatola vuota, ma con molti dipendenti e 450 milioni circa di debiti: basterà la vendita di slot e aerei a far fronte ai debiti e al costo degli esuberi? Quanti debiti di Air One finiranno essi pure a carico dello Stato? Anche qui c’è un problema europeo: nel 2004, quando lo Stato rifinanziò Alitalia, Bruxelles acconsentì a patto che i nuovi fondi non fossero usati per allargare la quota di mercato: esattamente quello che oggi Alitalia fa acquisendo le attività di Air One. L’offerta di Air France non apriva problemi con Bruxelles e non costava nulla, tranne le indennità per un numero di esuberi comunque inferiore: anzi portava qualche spicciolo nelle casse dello Stato perché i francesi avrebbero pagato, seppur poco, le azioni di Alitalia.

27 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 20, 2008, 10:56:43 am »

COME SI ESCE DALLA CRISI

Il mercato e la finanza


di Francesco Giavazzi


Nei momenti di crisi lo smarrimento, la difficoltà di capire ciò che succede, favoriscono la popolarità di un certo numero di sciocchezze. A diffonderle spesso sono i politici: essi avvertono il disorientamento dei cittadini, vogliono dare l'impressione di avere le idee chiare, ma hanno poco tempo per riflettere e spesso elaborano sciocchezze. Il guaio è quando queste si trasformano in azioni di governo. Accadde durante la peste, a Milano nel Seicento, e negli anni Venti del secolo scorso negli Stati Uniti, quando gli errori del presidente Hoover trasformarono una grave crisi finanziaria in una depressione in cui un americano su tre perse il lavoro.

Prima sciocchezza: la crisi dimostra che gli strumenti finanziari che consentono di diversificare il rischio sono il cancro del capitalismo. Non è vero: diversificare il rischio protegge i deboli perché sono i poveri i più esposti alle fluttuazioni dell'economia. Chi soffrirebbe meno se venissero aboliti i mercati finanziari sono i ricchi: un grande proprietario agricolo può usare la sua ricchezza per far fronte ad una cattiva stagione, ma un piccolo coltivatore quando il raccolto va male, può solo tirare la cinghia. Altro che uno strumento per arricchire ancor più i ricchi: i mercati finanziari sono innanzitutto un'opportunità per i poveri. Basta chiedere ad un agricoltore indiano che cosa significa per lui poter vendere il suo prodotto su un mercato a termine e così assicurarsi contro fluttuazioni nel prezzo. Certo, questi strumenti debbono essere regolati e comunque non sostituiranno mai le assicurazioni pubbliche (ad esempio contro la disoccupazione). Ma appunto: regolati, non vietati.

La crisi dimostrerebbe la superiorità dell'industria sui servizi, dei sistemi finanziari fondati sulle vecchie banche commerciali anziché sulle banche di investimento. Non e' vero. Ci sono paesi come la Germania che hanno successo con molta «vecchia» industria, altri come il Regno Unito che hanno scelto la strada dei servizi finanziari e per un decennio sono cresciuti più della media europea. Lo sviluppo di un' economia dipende dalla capacità delle sue aziende di innovare, quindi dalla qualità delle sue scuole, dalla capacità di trasformare idee e brevetti in imprese, da una finanza pronta a sostenere imprenditori nuovi, anziché far credito solo a chi possiede un immobile da dare in garanzia. Non esistono ricette buone per tutti, sebbene l'evidenza suggerisca che nei paesi in cui ci sono più banche di investimento nasce un maggior numero di imprese nuove.

«Vincono i Paesi che difendono le proprie aziende e bloccano gli investitori stranieri». Non mi sembra: basta confrontare Alitalia, un'azienda che vogliamo testardamente mantenere italiana, con il Nuovo Pignone che quindici anni fa vendemmo alla General Electric. Poiché poche aziende al mondo sanno costruire turbine e compressori come il Pignone, Ge concentrò le produzioni a Firenze. Oggi quello stabilimento è un centro di eccellenza per la fabbricazione di macchine che un tempo si costruivano in vari stabilimenti della Ge in giro per il mondo ed oggi solo a Firenze.

Come si uscirà dalla crisi? Il Congresso di Washington sembra voler ripercorrere la strada seguita all'inizio degli anni '80, al tempo della crisi dell'America Latina, e più tardi dopo il fallimento di molte casse di risparmio: togliere dai bilanci delle banche i titoli che sono all' origine della crisi e sostituirli, sia pure a condizioni penalizzanti, con carta dello Stato, liquida ed affidabile. (Osservo, per chi pensa che gli economisti siano inutili, in particolare quelli italiani, che questa è la proposta che avanzò Luigi Spaventa in un articolo sul Financial Times
il 10 aprile scorso).

Può darsi che a questo punto ciò sia inevitabile. Ma non si uscirà dalla crisi finché al sistema finanziario non affluirà una gran quantità di nuovo capitale privato. Dubito che ciò accadrebbe in un mondo in cui la politica diffondesse sfiducia verso il mercato e imponesse regole volte a impedirne il funzionamento. Chi oggi rivendica il diritto della politica di scrivere nuove regole per i mercati finanziari dovrebbe ricordare che fino a poche settimane prima della crisi i politici ritenevano che la maggior area di rischio nei mercati fossero i fondi hedge,
una delle istituzioni che ha meglio retto alla crisi.


20 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 28, 2008, 07:46:12 pm »

L’UNIVERSITà E IL GOVERNO

La fabbrica dei docenti


di Francesco Giavazzi


La situazione nelle nostre università è paradossale. Studenti e professori protestano contro una riforma che non esiste; il ministro, preoccupato dalle proteste, non si decide a spiegare quel che intende fare per riformare l'università. L'unica certezza è che nei prossimi mesi si svolgeranno nuovi concorsi per 2.000 posti di ricercatore e 4.000 posti di professore ordinario e associato, ai quali seguiranno, entro breve, altri 1.000 posti di ricercatore. In tutto 7.000 posti, più del dieci per cento dei docenti oggi di ruolo.

I 4.000 posti di professore saranno semplicemente promozioni di persone che sono dentro l'università. Le promozioni avverranno secondo le vecchie regole, cioè con concorsi finti. E' assolutamente inutile che un giovane ricercatore che consegue il dottorato a Chicago o a Heidelberg faccia domanda: di ciascun concorso già si conosce il vincitore. I 3.000 concorsi per ricercatore assicureranno un posto a vita ad altrettanti dottorandi che lamentano la loro condizione di precari. In tutte le università del mondo ad un certo punto si ottiene un posto a vita, ma ciò avviene solo dopo aver dimostrato ripetutamente di saper conseguire risultati nella ricerca.

Qui invece si chiede la stabilizzazione per decreto senza neppure che sia necessario aver conseguito il dottorato. Il ministro ha ereditato questi concorsi dal suo predecessore e non pare aver la forza per cambiarli e assegnare i posti secondo criteri di merito piuttosto che di fedeltà. Gli studenti ignorano tutto ciò e sembrano non capire l'importanza di meccanismi di selezione rigorosi, in assenza dei quali le università che frequentano vendono favole. In quanto ai professori, buoni, buoni, zitti, zitti. Se questi concorsi andranno in porto ogni discussione sulla riforma dell'università sarà d'ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l'emigrazione.

La legge finanziaria dispone un taglio ai fondi all'università che è significativo, ma non drammatico: in media il 3% l'anno (1,4 miliardi in 5 anni su una spesa complessiva di circa 10 miliardi l'anno). Si parte da tagli quasi nulli nel 2009, mentre poi le riduzioni diverranno via via crescenti per raggiungere la media del 3% nell' arco di un quinquennio. Il taglio non è terribile, anche considerando che la stessa Conferenza dei rettori ammette che in Italia la spesa per studente è più alta che in Francia e in Gran Bretagna. Comunque reperire risorse è sempre possibile: ad esempio, si potrebbero cancellare le regole sull' età di pensionamento approvate dal governo Prodi, ritornare alla legge Maroni e investire i denari così risparmiati nella ricerca e nell'università. Né mi parrebbe osceno far pagare tasse universitarie più elevate alle famiglie ricche e usare il ricavo in parte per compensare i tagli, in parte per finanziare borse di studio per i più poveri.

Come spiega Roberto Perotti in un libro che chiunque si occupa dell'università dovrebbe leggere («L'università truccata», Einaudi, 2008) tasse uguali per tutti sono un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. I dati dell'indagine sulle famiglie della Banca d'Italia, citati da Perotti, mostrano che il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie; solo l'8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Il ministro Gelmini afferma che il suo modello è Barack Obama: forse il ministro non sa quanto costa a una famiglia americana mandare il figlio in una buona università. In una delle migliori, il Massachusetts Institute of Technology, la frequenza costa 50.100 dollari l'anno (40.000 euro), ma il 64% degli studenti che frequentano il primo livello di laurea riceve una borsa di studio.

28 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 12, 2008, 10:05:16 am »

Editoriali          UNIVERSITA’ E DOCENTI

Chi ha paura del sorteggio

di Francesco Giavazzi


Gli studenti di Trieste hanno avuto un’idea brillante. Tutto è nato sul loro blog dove uno si è chiesto perché in tante università rettori e professori partecipino alle manifestazioni contro i «tagli del governo»: «Può essere che utilizzino il nostro movimento non per il bene dell’università, ma per proteggere qualche loro interesse, magari per impedire che si modifichi il sistema con cui vengono reclutati i professori?».

E così sono andati sui siti dove vengono riportate le pubblicazioni scientifiche dei loro docenti e quanto ciascuna è citata in altri lavori. Ad esempio «Publish or perish» che usa i dati di Google Scholar ed è disponibile sul sito www.harzing.com o semplicemente i dati delle valutazioni del Civr disponibili sul sito del ministero dell’Università. Racconta Maddalena Rebecca sul Piccolo che da quel giorno si vedono pochi professori alle assemblee degli studenti triestini. Alcune «anime belle» criticano il decreto del ministro Gelmini che prevede una nuova modalità per la scelta dei commissari nei concorsi universitari: elezione di un numero pari a tre volte i commissari necessari e poi sorteggio. «In Gran Bretagna, dove l’università funziona, i dipartimenti scelgono i professori senza bisogno di un concorso ».

Lo so bene, ma lì il titolo di studio non ha valore legale e i fondi pubblici vengono assegnati alle università non a seconda del numero degli studenti iscritti, ma in funzione della qualità della ricerca: ricerca che nessuno cita, niente fondi e il dipartimento chiude. Se i critici vogliono essere coerenti dicano che sono pronti a cancellare il valore legale del titolo di studio (come ha fatto ieri sul Corriere Giovanni Sartori) e ad accettare che vengano chiusi i dipartimenti scadenti. E dicano anche che preferirebbero che i concorsi banditi venissero tutti rimandati in attesa di una riforma dell’università. In realtà temo che le critiche tradiscano la rabbia per un decreto che ha fatto saltare gli accordi con i quali i professori si erano divisi i 6.000 posti a concorso prima ancora che si svolgessero le elezioni per la scelta dei commissari.

Ne è un segno il tentativo (fortunatamente fallito) di modificare in extremis il testo del decreto per consentire ai professori associati di partecipare alle commissioni. Un vecchio trucco: gli associati devono ancora essere giudicati (per diventare ordinari) quindi sono facilmente ricattabili. E infatti a premere per estendere l’eleggibilità ai più giovani erano gli anziani non gli stessi associati. Vorrei avanzare una modesta proposta. Fra poco più di un mese in tutte le università si voterà secondo le nuove modalità, cioè per costituire un pool di candidati fra i quali poi avverrà il sorteggio. Affinché si possa votare con sufficiente informazione, le diverse discipline dovrebbero prendere esempio dagli studenti triestini e pubblicare un elenco dei professori eleggibili e della loro produttività scientifica.

Poiché esistono diversi criteri (l’impact factor e altri) si potrebbero pubblicare indici diversi. Io mi impegno a farlo per le materie economiche e statistiche e sono certo altri lo faranno per altre discipline, soprattutto quelle meno abituate a standard internazionali. Poi si vedrà, sia quali discipline non avranno ritenuto utile dare questa informazione sia quelle che, pur avendo stilato gli elenchi, voteranno per candidati non particolarmente brillanti.


11 novembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 16, 2008, 10:03:04 am »

RECESSIONE E RIMEDI

Meno tasse sul lavoro

di Francesco Giavazzi


La crisi è (forse) entrata in una seconda fase. Superato il momento più acuto, i mercati finanziari ricominciano lentamente a funzionare, le banche riescono di nuovo (seppure ancora a fatica) a reperire liquidità, la caduta libera delle Borse si è arrestata. La crisi finanziaria si sta ora spostando verso i Paesi della periferia: l’Fmi è già intervenuto in Ungheria e Ucraina, la Federal Reserve ha aperto linee di credito a favore di Messico e Brasile. Negli Stati Uniti e in Europa la seconda fase della crisi ora colpisce l’economia reale. Il dubbio non è più se vi sarà una recessione, ma quanto durerà e quale livello raggiungerà il tasso di disoccupazione prima di cominciare a scendere. Che fare? La Bce è finora stata più timorosa della Fed e della Bank of England: il livello dei tassi d’interesse europei è tre volte quello degli Stati Uniti, rimane ampio spazio per ridurli.

Ma un taglio dei tassi, sebbene certamente utile, non avrà grandi effetti sull’economia, almeno finché i mercati finanziari non riprenderanno a funzionare normalmente, e ci vorranno molti mesi. Lo strumento da usare è quindi la politica fiscale: tasse e spesa pubblica. Ce lo possiamo permettere con un debito pubblico che rimane il più alto in Europa? E se sì, meglio ridurre le tasse o accelerare gli investimenti pubblici? La risposta alla prima domanda è sì, purché lo strumento che usiamo aumenti rapidamente i consumi e sia limitato nel tempo. Per «rapidamente» intendo già con le tredicesime di dicembre, non la prossima primavera. Se riuscisse davvero ad attenuare la recessione, gli effetti sul rapporto debito-Pil di un intervento fiscale temporaneo potrebbero essere relativamente modesti. Accelerare gli investimenti pubblici in questo momento servirebbe a poco. Tra permessi e preparazione dei cantieri un’opera pubblica impiega mesi, se non anni a partire.

Il primo strumento da usare è un taglio deciso delle tasse sul lavoro. Per due motivi: innanzitutto perché, diversamente dalle spese per investimenti, agisce al tempo stesso sulla domanda (perché aumenta il potere d’acquisto dei salari) e sul costo del lavoro, quindi sull’offerta, se vengono ridotte pro quota sia le tasse pagate dal lavoratore sia gli oneri a carico dell’impresa. In secondo luogo perché immediato, soprattutto se il taglio è inversamente proporzionale al livello dei salari. Ad esempio si dovrebbe azzerare il cuneo fiscale (cioè la differenza fra costo del lavoro per l’impresa e salario netto per il dipendente) per tutti i salari al di sotto di un certo livello, cioè per le famiglie che oggi sono più in difficoltà quindi è più probabile che spendano il maggior reddito di cui disporrebbero.

Per avere maggiore effetto sui consumi, il taglio delle tasse sul lavoro dovrebbe essere permanente. Temo non possiamo permettercelo. Un taglio limitato nel tempo avrebbe il vantaggio di indurre lavoratori e imprese a sfruttare il momento particolarmente favorevole attenuando la riduzione delle ore lavorate. Altrettanto rapidi sarebbero gli effetti di un provvedimento che estendesse i sussidi di disoccupazione a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro contratto, a tempo determinato o indeterminato. A differenza di un taglio delle tasse sul lavoro, l’estensione dei sussidi non agisce sull’offerta ma solo sulla domanda, ma almeno agisce rapidamente.

16 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 08, 2008, 06:06:27 pm »

Editoriali

L’ITALIA E LA RECESSIONE


Trovare il coraggio


di Francesco Giavazzi


L’Ocse stima che fra un anno la disoccupazione in Italia raggiungerà l’8%, quasi due punti in più rispetto all’anno scorso. Questo significa che il numero di persone in cerca di lavoro aumenterà di circa mezzo milione: da 1,7 a 2,2 milioni. Ma quando trovare un posto di lavoro diventa difficile, molti lavoratori, soprattutto donne e giovani, si scoraggiano e smettono di cercare, quindi non risultano disoccupati. Nel 2009 si potrebbero perdere ben più di mezzo milione di posti. D’altronde entro la fine di questo mese scadono 305.000 contratti a tempo determinato; da gennaio il numero di contratti in scadenza sarà di circa 200.000 al mese.

Poiché la durata media di questi contratti non è superiore all’anno, entro dicembre 2009 dovranno essere rinnovati quasi tutti, cioè 2,6 milioni. Se due su cinque non venissero rinnovati — un’ipotesi, temo, ottimistica dato che alle imprese non rinnovare un contratto in scadenza non costa nulla, mentre mettere in cassa integrazione un lavoratore con contratto a tempo indeterminato costa — i posti di lavoro persi sarebbero circa un milione: mezzo milione di disoccupati ufficiali emezzo milione di scoraggiati che non rientrano nelle statistiche della disoccupazione ma che comunque non lavorano più. La maggior parte di questi lavoratori oggi non ha alcuna rete di protezione. E questo non vale solo per i lavoratori para-subordinati, che sono considerati autonomi dal punto di vista previdenziale e dunque senza diritto alle prestazioni di disoccupazione. Come mostrano Berton, Richiardi e Sacchi su www.lavoce.info, i lavoratori a tempo determinato che non hanno diritto ad alcun sussidio sono la metà circa, 1,3 milioni.

L’articolo 19 del decreto anticrisi approvato il 28 novembre stanzia, per «il potenziamento ed estensione degli strumenti di tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro o di disoccupazione» 289 milioni di euro. Se venissero tutti dedicati a lavoratori con contratti «precari» (e non lo sono perché i fondi dell’articolo 19 devono servire anche per estendere l’accesso alla cassa integrazione) si tratterebbe di 24 euro al mese per ciascun lavoratore che perde il posto di lavoro. Con il decreto del 28 novembre il governo ha messo a disposizione delle famiglie 4,7 miliardi di euro, lo 0,2% del pil. Questa cifra, seppur ben spesa perché concentrata sui più bisognosi, non basterà per attenuare gli effetti della crisi; tanto meno riuscirà a sostenere i consumi, e quindi gli investimenti delle imprese, che se prevedono di non vendere non investono. Fra cinque o sei mesi, quando la recessione entrerà nella sua fase più acuta, il governo avrà di fronte a sé due vie. Non deflettere dalla linea di rigore indicata oggi e resistere alla pressione sociale, oppure intervenire allora per sostenere il reddito dei disoccupati e i consumi delle famiglie.

La prima scelta richiederà molto coraggio: è bene che il governo si prepari sin d'ora. La seconda è suicida: più tardi si interviene, più cadono i consumi, più crescono i disoccupati e più costano gli interventi. Il ministro dell'Economia ha scelto di non cambiare la legge finanziaria— e quindi implicitamente la prima opzione— adducendo due motivi: (1) i mercati ce la farebbero pagare con un aumento del costo di finanziamento del debito; (2) d'altronde neppure la signora Angela Merkel pare disposta ad allentare la politica di bilancio tedesca. Sono argomenti sbagliati. I mercati sono giustamente preoccupati del livello del debito pubblico italiano, ma sono anche abbastanza avveduti da comprendere che ciò che conta per la sostenibilità del nostro debito non è il deficit di un anno ma le prospettive di medio periodo.

Per abbassare gli spread sui nostri titoli pubblici occorre lasciar crescere il deficit del 2009 —per attenuare la recessione ed evitare che il rapporto debito-pil si impenni per effetto di un crollo del pil — ma al tempo stesso intervenire, in primis sulle pensioni, in modo da garantire la sostenibilità nel medio periodo (in una lettera inviata al Corriere il 22 luglio 2007 Giulio Tremonti e Roberto Maroni rivendicavano con comprensibile orgoglio la riforma pensionistica che reca il nome dell’attualeministro degli Interni e che il governo Prodi cancellò: perché ora la disconoscono?). La strategia che ha scelto, «rigore oggi e incertezza domani», a cominciare dalla possibilità che la linea venga modificata tra sei mesi, questa sì ha l'effetto, come si sta vedendo in questi giorni, di allargare gli spread.

Quanto alla Germania, innanzitutto va detto che essa dispone di un sistema di ammortizzatori sociali infinitamente più efficiente del nostro. Il governo di Berlino aiuterà le famiglie senza bisogno di adottare nuove leggi. E poi la Signora Merkel, non è infallibile. Più che la congiuntura politica (elezioni a settembre) la posizione del cancelliere mi pare riflettere la convinzione, diffusa in Germania, che l'economia tedesca possa crescere solo se trascinata dalle esportazioni (e infatti uno dei pochi interventi decisi dal governo di Berlino è volto a ridurre il costo del lavoro per accrescere la competitività delle aziende).

In passato questa strategia ha spesso funzionato, ma dall'altra parte c'era sempre il consumatore americano. E' stato così negli anni '50 e 60 e poi ancora negli anni '80. L'unico momento in cui la Germania è cresciuta grazie alla propria domanda interna è stato negli anni immediatamente successivi alla riunificazione. Anche il Giappone e oggi la Cina condividono questa visione. Il mondo però è cambiato. Nei prossimi anni gli Stati Uniti ridurranno gradualmente il proprio enorme disavanzo con l'estero, cioè taglieranno le importazioni: pensare di riprendere a crescere esportando in America è un'illusione. Prima la Signora Merkel, e con lei giapponesi e cinesi, se ne rendono conto, meglio è per tutti.

08 dicembre 2008


da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 09, 2008, 03:27:27 pm »

L’ITALIA E LA RECESSIONE

Trovare il coraggio


di Francesco Giavazzi


L’Ocse stima che fra un anno la disoccupazione in Italia raggiungerà l’8%, quasi due punti in più rispetto all’anno scorso. Questo significa che il numero di persone in cerca di lavoro aumenterà di circa mezzo milione: da 1,7 a 2,2 milioni. Ma quando trovare un posto di lavoro diventa difficile, molti lavoratori, soprattutto donne e giovani, si scoraggiano e smettono di cercare, quindi non risultano disoccupati. Nel 2009 si potrebbero perdere ben più di mezzo milione di posti. D’altronde entro la fine di questo mese scadono 305.000 contratti a tempo determinato; da gennaio il numero di contratti in scadenza sarà di circa 200.000 al mese.

Poiché la durata media di questi contratti non è superiore all’anno, entro dicembre 2009 dovranno essere rinnovati quasi tutti, cioè 2,6 milioni. Se due su cinque non venissero rinnovati — un’ipotesi, temo, ottimistica dato che alle imprese non rinnovare un contratto in scadenza non costa nulla, mentre mettere in cassa integrazione un lavoratore con contratto a tempo indeterminato costa — i posti di lavoro persi sarebbero circa un milione: mezzo milione di disoccupati ufficiali emezzo milione di scoraggiati che non rientrano nelle statistiche della disoccupazione ma che comunque non lavorano più. La maggior parte di questi lavoratori oggi non ha alcuna rete di protezione. E questo non vale solo per i lavoratori para-subordinati, che sono considerati autonomi dal punto di vista previdenziale e dunque senza diritto alle prestazioni di disoccupazione. Come mostrano Berton, Richiardi e Sacchi su www.lavoce.info, i lavoratori a tempo determinato che non hanno diritto ad alcun sussidio sono la metà circa, 1,3 milioni.

L’articolo 19 del decreto anticrisi approvato il 28 novembre stanzia, per «il potenziamento ed estensione degli strumenti di tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro o di disoccupazione» 289 milioni di euro. Se venissero tutti dedicati a lavoratori con contratti «precari» (e non lo sono perché i fondi dell’articolo 19 devono servire anche per estendere l’accesso alla cassa integrazione) si tratterebbe di 24 euro al mese per ciascun lavoratore che perde il posto di lavoro. Con il decreto del 28 novembre il governo ha messo a disposizione delle famiglie 4,7 miliardi di euro, lo 0,2% del pil. Questa cifra, seppur ben spesa perché concentrata sui più bisognosi, non basterà per attenuare gli effetti della crisi; tanto meno riuscirà a sostenere i consumi, e quindi gli investimenti delle imprese, che se prevedono di non vendere non investono. Fra cinque o sei mesi, quando la recessione entrerà nella sua fase più acuta, il governo avrà di fronte a sé due vie. Non deflettere dalla linea di rigore indicata oggi e resistere alla pressione sociale, oppure intervenire allora per sostenere il reddito dei disoccupati e i consumi delle famiglie.

La prima scelta richiederà molto coraggio: è bene che il governo si prepari sin d'ora. La seconda è suicida: più tardi si interviene, più cadono i consumi, più crescono i disoccupati e più costano gli interventi. Il ministro dell'Economia ha scelto di non cambiare la legge finanziaria— e quindi implicitamente la prima opzione— adducendo due motivi: (1) i mercati ce la farebbero pagare con un aumento del costo di finanziamento del debito; (2) d'altronde neppure la signora Angela Merkel pare disposta ad allentare la politica di bilancio tedesca. Sono argomenti sbagliati. I mercati sono giustamente preoccupati del livello del debito pubblico italiano, ma sono anche abbastanza avveduti da comprendere che ciò che conta per la sostenibilità del nostro debito non è il deficit di un anno ma le prospettive di medio periodo.

Per abbassare gli spread sui nostri titoli pubblici occorre lasciar crescere il deficit del 2009 —per attenuare la recessione ed evitare che il rapporto debito-pil si impenni per effetto di un crollo del pil — ma al tempo stesso intervenire, in primis sulle pensioni, in modo da garantire la sostenibilità nel medio periodo (in una lettera inviata al Corriere il 22 luglio 2007 Giulio Tremonti e Roberto Maroni rivendicavano con comprensibile orgoglio la riforma pensionistica che reca il nome dell’attualeministro degli Interni e che il governo Prodi cancellò: perché ora la disconoscono?). La strategia che ha scelto, «rigore oggi e incertezza domani», a cominciare dalla possibilità che la linea venga modificata tra sei mesi, questa sì ha l'effetto, come si sta vedendo in questi giorni, di allargare gli spread.

Quanto alla Germania, innanzitutto va detto che essa dispone di un sistema di ammortizzatori sociali infinitamente più efficiente del nostro. Il governo di Berlino aiuterà le famiglie senza bisogno di adottare nuove leggi. E poi la Signora Merkel, non è infallibile. Più che la congiuntura politica (elezioni a settembre) la posizione del cancelliere mi pare riflettere la convinzione, diffusa in Germania, che l'economia tedesca possa crescere solo se trascinata dalle esportazioni (e infatti uno dei pochi interventi decisi dal governo di Berlino è volto a ridurre il costo del lavoro per accrescere la competitività delle aziende).

In passato questa strategia ha spesso funzionato, ma dall'altra parte c'era sempre il consumatore americano. E' stato così negli anni '50 e 60 e poi ancora negli anni '80. L'unico momento in cui la Germania è cresciuta grazie alla propria domanda interna è stato negli anni immediatamente successivi alla riunificazione. Anche il Giappone e oggi la Cina condividono questa visione. Il mondo però è cambiato. Nei prossimi anni gli Stati Uniti ridurranno gradualmente il proprio enorme disavanzo con l'estero, cioè taglieranno le importazioni: pensare di riprendere a crescere esportando in America è un'illusione. Prima la Signora Merkel, e con lei giapponesi e cinesi, se ne rendono conto, meglio è per tutti.

08 dicembre 2008(modificato il: 09 dicembre 2008)

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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 23, 2008, 11:23:11 am »

IL GOVERNO E DRAGHI

Cancellare le ombre


di Francesco Giavazzi


Nel tentativo di calmare le acque e dissolvere l'effetto delle critiche rivolte dal ministro dell'Economia al Governatore della Banca d'Italia, Silvio Berlusconi ha detto che si tratta semplicemente di una divergenza di opinioni. Non basta. Il governo ha appena deciso di destinare una quantità ingente di fondi pubblici alla ricapitalizzazione delle banche: i cittadini non possono avere dubbi sul fatto che i loro denari siano ben spesi, cioè che verranno impiegati per mantenere aperto il credito a famiglie e imprese. Sulle banche vigila la Banca d'Italia: prima di proiettare ombre su questa istituzione è bene pensarci due volte.

I cittadini vogliono anche sapere che cosa pensa Berlusconi del lavoro di Mario Draghi nella sua veste di presidente del Financial stability forum (Fsf), principale oggetto delle critiche del ministro (critiche curiose dato che i suoi funzionari partecipano da anni ai lavori del Forum). Il G20 di Washington cui Berlusconi prese parte, non solo approvò il lavoro dell’Fsf, ma gli affidò anche il compito di ridisegnare le regole del sistema finanziario internazionale. Se il presidente del Consiglio condividesse l'opinione del suo ministro («E' demenziale prendere lezioni da chi non ha capito nulla e se ha capito ha sbagliato») avrebbe dovuto chiedere al G20 di sollevare l’Fsf, o almeno il suo presidente, dalle responsabilità loro assegnate.

Il ministro dell’Economia ha evidentemente il diritto di esprimere il suo parere, ma l'opinione che l’Fsf non avesse capito nulla è contraddetta dai fatti. I documenti via via inviati dall’Fsf ai ministri delle Finanze del G7, già nel 2001 individuavano molti degli aspetti che si sono poi rivelati determinanti nella crisi: la possibilità che la liquidità svanisse più rapidamente che in passato; la fragilità del trasferimento di rischio da un’istituzione all’altra; il fatto che alcuni strumenti finanziari non fossero mai stati testati in condizioni di elevata volatilità, quando avrebbero potuto dar luogo ad eccessive concentrazioni di rischio ed erodere all’improvviso il capitale delle banche; i pericoli che nascono quando le banche negoziano titoli in proprio. Concludeva l’Fsf: «Le autorità dovrebbero affrontare queste situazioni ».

Nel 2001 Tremonti cominciava la sua prima esperienza come ministro dell'Economia: non può dire di non essere stato avvertito. L’Fsf non è un regolatore, non ha poteri di vigilanza, solo di proposta. Il ministro dell’Economia invece, nella sua veste di presidente del Cicr, definisce le norme preposte alla difesa del risparmio e può chiedere conto in ogni momento ai regolatori del loro operato (lo fece proprio nel 2001 per i bond Parmalat). Se allora non ritenne di dar seguito alle preoccupazioni dell’Fsf è perché, nonostante fossero gravi e circostanziate, evidentemente non pensava che rappresentassero un reale pericolo.

Infine c'è Goldman Sachs. Il ministro dell’Economia allude spesso alla passata esperienza del Governatore che fu un alto dirigente di quella banca. Poiché né Tremonti né alcun altro ha mai messo in dubbio la trasparenza di Draghi, il problema è se aver lavorato nei mercati aiuti quando si devono riscriverne le regole e vigilarli. Io penso che un’esperienza diretta nei mercati aiuti, perché controllare ciò che si capisce è più facile (così come la sua passata esperienza di imprenditore ha spesso aiutato il Berlusconi primo ministro). Alla luce della gravità della crisi ci saremmo aspettati che Tremonti, come gli suggeriva ieri Angelo De Mattia, su Il Riformista, si preoccupasse piuttosto di come rendere più incisivi i provvedimenti che ha adottato.

22 dicembre 2008

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