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Autore Discussione: Paolo Valentino Oggi Obama schiera la squadra  (Letto 18226 volte)
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« inserito:: Ottobre 31, 2007, 11:16:48 am »

ESTERI

Il candidato sorpreso a ritoccare il suo passato dal giornale schierato con la rivale Hillay

Una parabola corretta per descrivere come lui abbia saputo resistere alla tentazione della carriera

"Obama, ecco tutte le bugie"

Il Nyt smaschera l'epopea di Barack

DAL nostro inviato VITTORIO ZUCCONI

 
WASHINGTON - Più che un attacco politico frontale, è un calcio negli stinchi, un fallo da dietro, quello che il New York Times ha sferrato a Barack Obama, pizzicato a massaggiare la propria biografia. Reinventare sé stessi è una virtù cardinale americana, in una società che cambia ogni giorno. Ma inventarsi una vita immaginaria, una "second life" di comodo, è un rischio e Barack Obama, il solo avversario vero di Hillary per la "nomination" democratica, lo ha corso.

Se il New York Times, i blog e i vecchi amici di giovinezza hanno ragione, ci è caduto e si è fatto male. La sua autobiografia, "In the Long Run", "sui tempi lunghi", che è all'ottavo posto nella classifica dei libri non di fiction più venduti e vorrebbe raccontare la storia della sua maratona personale di ragazzo di colore verso traguardi a lungo termine, sarebbe una sorta di Vangelo autoapocrifo. Una parabola riveduta e corretta per descrivere come lui abbia saputo resistere alla tentazione della carriera nel mondo delle grandi corporation, per diventare invece il campione della gente qualsiasi, e soprattutto della sua gente.

Che sia stato il New York Times, schierato con la senatrice dello stato di New York, Hillary Clinton, a parte la più brillantemente dispeptica delle sue columnist, Maureen Dowd, che la sbrana con l'intensità che soltanto una donna può permettersi contro un'altra donna, a smascherare le licenze poetiche di Barack Hussein Obama, è naturale. Non soltanto per simpatie politiche, ma per la evidente ingenuità commessa da Obama, o da chi gli ha scritto il libro, nel reinventare una giovinezza a New York, nel cortile di casa del giornale. Il senatore afroamericano ha appena 46 anni, ha studiato alla Columbia University a Manhattan, ha trovato il primo lavoro nella stessa città e coetanei, colleghi, amici abbondano. Dunque trovare testimoni pronti a smentirlo è facile.

"Appena uscito dall'università fui assunto in una finanziaria, per occuparmi di investimenti e fui sbalordito dal vedermi subito assegnata una segretaria, un ufficio, un ottimo stipendio. Mi guardavo allo specchio, nel mio completo scuro con camicia e cravatta e mi chiedevo: ma sono io, quello riflesso?". Certamente no, risponde dal proprio blog. Analyzethis. net, un analista finanziario che lavorava con lui, nella scrivania accanto e ricorda una storia molto diversa.

"Non aveva nessun ufficio e nessuna segretaria", "era pagato malissimo come tutti noi" e il lavoro consisteva nel "tagliare e incollare rapporti economici fatti da altri per presentarli in una cartellina ai superiori". Un umile redattore da newsletter, che pare si tenesse anche alla larga dagli altri afroamericani in quell'ufficio, padre e figlio che lavoravano nell'ufficio posta, l'ultimo gradino. Per non dire della sua militanza nella Black Student Organization, fortemente derubricata da chi allora la guidava. O di dettagli epici, e oggi dubbi, sulla prima notte alla Columbia quando dovette dormire per strada con i barboni per lavarsi all'indomani con l'acqua di un idrante.

Ma perché mai Barack Obama, onestissimo in altre pagine nell'ammettere di avere fumato marijuana senza ricorrere al leggendario "ma non ho mai aspirato" di Bill Clinton, dovrebbe aver mentito su un dettaglio così banale? La risposta è cattivella. Lo fa per raccontare "la Tentazione di Obama", per narrare la parabola di un messia tentato, ma non sedotto, dalle lusinghe del successo privato e del danaro, prima di scoprire la propria vocazione di attivista civile e di avvocato dei senza avvocati a Chicago. Ma in compenso è caduto nella tentazione della memoria agiografica.

I libri, e le autobiografie, dei candidati importanti sono, notoriamente, propaganda. Quasi mai scritti da loro, come alle fine, e dopo querele e premi Pulitzer, risultò anche per il famoso "Profili del coraggio" firmato da John F. Kennedy ma scritto soprattutto da Theodore Soerensen, raramente vengono presi sul serio. Se il New York Times è andato a studiarlo con il microscopio, pizzicandolo su peccati in fondo assai veniali e su una sua oscura riluttanza a rendere pubblico il curriculum accademico alla Columbia (come Bush ha fatto sigillare il proprio curriculum di liceale) la vera ragione è politica.

Il senatore figlio di un'americana del Kansas e di un kenyota, Barack sr., che lei aveva conosciuto alle Hawaii, cominciava a passare dalla interessante curiosità giornalistica che i media avevano coccolato nella noia di una campagna presidenziale troppo lunga, a una possibile minaccia reale per la regina già incoronata, per Hillary. Nei due stati chiave che apriranno le fase dei voti alle primarie, nel bianchissimo Iowa e nel sempre imprevedibile New Hampshire a gennaio, i sondaggi indicano che ormai il "nero" ha mosso e ha quasi raggiunto la "bianca". Se i voti destinati alla debole terza ruotina del triciclo democratico, John Edwards, tornassero in libertà, potrebbero riversarsi su Obama, non sulla sempre più formidabile e sempre meno amata signora Rodham in Clinton.

La "Clinton Machine", che sta per raggiungere i 100 milioni di dollari di fondi elettorali ma vede Obama crescere e tallonarla con oltre 70 milioni, teme i suoi attacchi, soprattutto sul fronte della machiavellica ambiguità di Hillary sulle guerre passate e su quelle future, da lei votate e da lei disapprovate. Pudicamente, non essendo riuscita l'autrice dell'articolo ad ottenere rivelazioni sui "peccati" importanti di Obama, il New York Times ha relegato questo calcetto negli stinchi del senatore nella cronaca locale, ma il segnale è chiaro. Il duello degli scheletri negli armadi è cominciato e nessuno resisterà alla vera tentazione di ogni campagna, che è quella di scavare nei sepolcri degli altri. La prima regola delle elezioni americane rimane quella definita proprio da colui che salvò Billary, Bill e Hillary, dai guai, e ora li odia, il consulente Dick Morris: "Se tu non riesci a definire te stesso in positivo, saranno i tuoi nemici a definirti in negativo".

(31 ottobre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 18, 2007, 06:20:51 pm »

Washington, afroamericani in marcia per i diritti civili


Quarant´anni dopo le marce di Martin Luther King per i propri diritti civili, migliaia di afroamericani sono scesi ancora in piazza a Washington per manifestare per il loro riconoscimento, sostenendo che la giustizia americana usa due pesi e due misure: da un lato manifesta una fermezza considerata eccessiva nei confronti delle persone di colore colpevoli di reati, dall'altro non condanna con analoga fermezza i reati a sfondo razzista commessi dai bianchi.

Leader dei diritti civili come Al Sharpton e Martin Luther King III sono sfilati davanti al Dipartimento di Giustizia americano. Come riporta l'emittente televisiva Cnn, la protesta arriva in un momento in cui la tensione razziale negli Stati Uniti è a livelli preoccupanti. Nell'ultimo anno e mezzo sono stati rilevati numerosi episodi motivati da sentimenti di odio razziale. In particolare ne sono una testimonianza i cappi - un simbolo legato alle violenze del Ku-Klux Klan - trovati appesi in scuole, università e altri luoghi pubblici in tutto il paese. Due mesi fa ha destato scalpore un cappio appeso fuori dall´ufficio di una professoressa della Columbia University a New York, uno dei tempi sacri della tolleranza e dell'antirazzismo in America.

L´episodio più frustrante è avvenuto lo scorso anno, quando tre ragazzi appesero cappi ad un albero del cortile di una scuola superiore a Jena, in Louisiana e le autorità non intrapresero azioni legali contro i responsabili dell'accaduto. Il gesto scatenò una serie di tensioni nella piccola città del sud degli Stati Uniti, sfociata nel pestaggio di un ragazzo bianco da parte di sei coetanei di colore. Seguirono poi proteste e altre marce per il modo in cui le autorità trattarono il fatto - le incriminazioni per tentato omicidio a uno dei ragazzi neri, Mychal Bell, sembrarono eccessive e discriminatorie.

«Siamo qui per dire che il governo federale ha una responsabilità», ha detto il reverendo Al Sharpton - una delle figure pubbliche più carismatiche della comunità afroamericana. «Ci sono Jena dappertutto», ha proseguito Sharpton «Ed è per questo che siamo in migliaia qui oggi». Nel commentare la manifestazione, Lisa Krigsten, consigliere del Ministro della Giustizia per i diritti civili, ha detto che «il Dipartimento di Giustizia si sta impegnando seriamente per affrontare questi episodi di minacce e violenza a sfondo razziale».

Pubblicato il: 17.11.07
Modificato il: 17.11.07 alle ore 12.44   
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 30, 2007, 12:28:28 pm »

29/12/2007 -

Da destra e sinistra i candidati ne approfittano per rubare spazio sui media al Presidente 
 
Bin Laden alle primarie
 
L’attentato irrompe nella campagna per le presidenziali americane Bush cerca un Piano B per il ritorno della democrazia a Islamabad 
 
 
George W. Bush lavora a un difficile «piano B» per la democrazia in Pakistan, mentre l’assassinio di Benazir Bhutto irrompe nella campagna presidenziale Usa spingendo tutti i maggiori candidati a schierarsi per dimostrare di essere all’altezza della situazione.

Il «piano B» è stato all’ordine del giorno nella riunione tenuta ieri mattina dal presidente americano con il Consiglio per la sicurezza nazionale. Al termine il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha rinnovato l’impegno «per la democrazia in Pakistan» ma non è chiaro in quale direzione Bush voglia procedere dopo la morte di Benazir, il cui ritorno in patria era stato sostenuto dagli Usa che scommettevano su una sua vittoria alle elezioni di gennaio. A complicare la definizione del «piano B» vi sono le molte indiscrezioni che imbarazzano il governo: Hussan Haqqani, docente a Boston ed ex collaboratore di Benazir, accusa Washington di non averla protetta come avrebbe dovuto mentre Mark Siegel, amico di vecchia data della Bhutto, ha rivelato l’esistenza di una email mandatagli di recente da Benazir, nella quale affermava che in caso di morte il colpevole sarebbe stato Musharraf. E il «Washington Post» chiama in causa la Rice, imputandole di aver spinto Benazir a tornare in Pakistan andando incontro alla morte. Sul fronte dell’intelligence vi sono frizioni con Islamabad: i servizi Usa confermano che l’Emiro del Waziristan del Sud, Baithullah Mashud, è il principale indiziato ma non escludono complicità dentro gli apparati delle forze di sicurezza.

Con la Casa Bianca in evidente difficoltà nella gestione del dopo-Bhutto, sono i candidati presidenti a rubare la scena a Bush con una raffica di dichiarazioni tese a provare agli elettori di saper rispondere alla sfida del terrorismo evidenziata dalla crisi pakistana. I primi a reagire sono stati Rudolph Giuliani e Hillary Clinton. L’ex sindaco repubblicano di New York ha invaso i network tv con dichiarazioni che hanno anticipato i verbatim dei portavoce della stessa Casa Bianca: «Il terrorismo islamico è in guerra contro le democrazie, bisogna assicurare i responsabili alla giustizia e restare all’offensiva».

Giuliani ha lanciato un nuovo spot tv, in cui si paragona la generazione di americani che ha risposto alla sfida degli attacchi dell’11 settembre 2001 con quella che vinse la Seconda Guerra Mondiale. Se l’offensiva mediatica dell’ex sindaco punta a presentarsi agli elettori come l’uomo giusto per fronteggiare il terrorismo del XXI secolo, sul fronte opposto Hillary Clinton ha affidato agli schermi delle tv una proposta da presidente in carica: «Musharraf non garantisce più nulla, deve accettare una commissione di inchiesta indipendente e internazionale, simile a quella condotta dall’Onu sulla morte dell’ex premier libanese Rafik Hariri».

L’ex First Lady ricorda di aver conosciuto Bhutto «15 anni fa» e parla con disinvoltura di «accelerare democrazia e libere elezioni in Pakistan». «Siamo a pochi giorni di distanza dal voto in Iowa, su entrambi i fronti l’esito è incerto - commenta Bill Schneider, politologo della Cnn -. L’effetto-Benazir potrebbe giovare a chi ha maggiore esperienza internazionale». Questo è il motivo per cui i rivali di Giuliani e Hillary non vogliono cedere terreno sul fronte pakistano. In casa repubblicana John McCain assicura di «conoscere Musharraf e il Pakistan» meglio di Giuliani «che in Iraq non è mai stato», mentre Mitt Romney consegna ai media del New Hampshire un’improvvisata arringa contro «l’islam radicale e la jihad globale che minacciano tutti noi».
Mike Huckabee, in testa nei sondaggi in Iowa, di politica estera sa poco e scivola su una incredibile gaffe: «Faccio le scuse al popolo pakistano per l’attentato».

Fra i candidati democratici il più aggressivo è Bill Richardson, il governatore del New Mexico che fu l'ambasciatore all’Onu di Bill Clinton e oggi attacca «gli errori commessi dalla Casa Bianca» chiedendo a Bush di «bloccare gli aiuti a Musharraf perché è un dittatore ed è responsabile di quanto avvenuto». Barack Obama reagisce più lentamente e con minore efficacia, rispolverando l’opposizione alla guerra all’Iraq per ribadire che «il conflitto ha dilapidato risorse che avrebbero dovuto essere adoperate contro il terrorismo in Afghanistan e Pakistan». La tesi di John Kerry nel 2004.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 12, 2008, 03:02:46 pm »

12/1/2008 (8:32) - LA RIVOLUZIONE COMINCIATA DALL'IOWA

"Ecco perchè vincerà Obama"
 
Il candidato alla presidenza Usa Barack Obama

Vargas Llosa: con la sua proposta di cambiamento ha già sconvolto la politica degli Stati Uniti

MARIO VARGAS LLOSA


Ho trascorso molte ore davanti alla tv seguendo le primarie che si sono tenute in Iowa e nel New Hampshire per designare i candidati democratico e repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti e sono convinto che, a prescindere da come finirà, il fenomeno centrale di questo processo che avrà il suo culmine a novembre, sia la presenza del senatore Barack Obama che ha messo completamente a soqquadro lo status quo politico statunitense. A differenza di quanto accadde in Francia o in America Latina le rivoluzioni, negli Stati Uniti, sono pacifiche; non si fanno sulle barricate, ma nelle urne, non con bombe o spari, ma con voti e parole (beh, spesso, si tratta di slogan). All’interno delle coordinate politiche degli Usa, Obama ha determinato - in un momento difficile d’incertezza economica, di divisioni e di odio politico interni e, per quanto riguarda l’estero, di disamore verso questo paese a causa della guerra in Iraq - un movimento di grande entusiasmo e di speranza, in particolare tra gli elettori indipendenti e i giovani, nel quale, curiosamente, si mescolano reminiscenze di ciò che fu la mobilitazione in difesa dei diritti umani e dell’integrazione razziale guidata da Martin Luther King e l’impatto determinato nella vita politica dall’irruzione di John Kennedy e del suo messaggio di riformismo idealista.

Obama ha ottenuto una squillante vittoria in Iowa e perduto per poche migliaia di voti in New Hampshire nei confronti di Hillary Clinton e, con ciò, ha frenato (se non sepolto) la nomination, che pareva inarrestabile, della senatrice alla candidatura democratica cui ella lavorava da anni grazie anche all’apporto di astronomiche risorse e all’attivo impegno dell’apparato del partito. Ma nei caucuses dello Iowa si è visto, in modo inequivocabile, che l’ostilità suscitata dalla signora Clinton tra gli stessi democratici è, probabilmente, forte quanto quella che suscita tra i repubblicani: i votanti per i candidati democratici che non hanno raggiunto il 15% minimo fissato dalle norme nelle assemblee, hanno preferito appoggiare Obama invece di Hillary in una percentuale di 3 a 1.

Nel New Hampshire i guru dell’immagine hanno inventato una messa in scena per dimostrare che la senatrice Clinton non è l’essere freddo e avido di potere che sembra e l’hanno fatta sciogliere in lacrime davanti alle telecamere in una caffetteria mentre balbettava che il futuro degli Usa era, per lei, «qualcosa di profondo e di personale». E queste lacrime e questo mento tremolante le hanno fruttato, a quanto si è visto, i 3-4 mila voti femminili con cui si è salvata dalla disfatta. Ma chiunque abbia seguito attentamente tutto lo svolgimento di queste primarie non può sbagliare: a uscire consacrato come forza dominante in questa prima tappa di elezioni, è Barack Obama, una candidatura improvvisata pochi mesi fa alla periferia del partito che è riuscita a radicarsi in ambito nazionale con grande efficacia grazie alla mobilitazione di massa di giovani studenti e indipendenti d’ogni razza, d’ogni credo e d’ogni tradizione, affratellati dal carisma personale e dal messaggio idealista e unificante del senatore.

Appena concluse le primarie del New Hampshire, uno dei sindacati più influenti che fa riferimento alle lavanderie e ai lavoratori di alberghi e casinò degli Usa - the Unit Here, mezzo milione di iscritti - ha dato il proprio appoggio alla sua candidatura. Il discorso di Obama, tenuto alla mezzanotte dell’8 gennaio per ringraziare chi l’aveva sostenuto nel New Hampshire, ha toccato anche lo scottante tema - motivo di divisioni - della guerra in Iraq e riaffermato che le truppe dovrebbero tornare a casa quanto prima. Ma ha rappresentato, soprattutto, una nuova chiamata all’unità, al di là delle differenze partitiche, etniche o religiose, per dare battaglia alla povertà, alla crisi economica, al terrorismo, per instaurare un’assicurazione sanitaria estesa a tutti e per difendere l’ambiente.

Obama rifugge dai cliché e dai luoghi comuni del linguaggio politico, trasmette convinzione, freschezza, sentimenti e quell’ingenuità che è, a volte, bersaglio dello scherno di quanti sono convinti che il «sogno americano» sia proprio come le lacrime e il mento tremolante della signora Clinton: solo un’invenzione dei creativi della pubblicità. Non lo è. Esiste un «sogno americano» che vive nelle origini stesse degli Stati Uniti come terra di libertà, di lavoro, di sovranità individuale e non di caste, in cui legge e morale si confondono al fine di garantire il bene comune all’interno della convivenza nella diversità e il continuo stimolo all’iniziativa e alla fantasia del cittadino. Questo sogno ha avuto stagioni di recessione e traumi, ma è sempre tornato.

E’ quello che sta dietro i grandi episodi della storia americana, il prodigioso sviluppo industriale e scientifico, l’accettazione e l’integrazione di decine di milioni di immigrati d’ogni tradizione e cultura, il riformismo liberale che ha profonde radici nella società, la campagna in favore dei diritti civili, la lotta contro il fascismo e il nazismo nelle due guerre mondiali e la difesa del mondo occidentale dal totalitarismo negli anni della guerra fredda. Qualcosa di tutto ciò s’affaccia nella figura di questo figlio d’un africano e d’una bianca del Kansas d’origine nordica che, grazie al proprio talento, ha studiato nella migliore università degli Stati Uniti, Harvard, (proprio come Michelle, sua moglie) e, dopo aver conseguito un’eccellente formazione, invece di andare a farsi ricco in un grande studio di avvocati a New York o tra gli executive d’una multinazionale, ha preferito seppellirsi per dieci anni nei quartieri più miserabili di Chicago, lavorando per gli emarginati e i senzalavoro con l’intento d’offrire loro le risorse politiche e culturali per farli uscire dalla povertà.

Il senatore Obama è il primo dirigente di colore degli Usa che ha toccato, contemporaneamente, il cuore dei bianchi, dei neri e degli ispanici con un linguaggio che non si richiama mai alla propria condizione razziale. Nelle sue interviste brillano per la loro assenza sia il vittimismo, sia il razzismo ed è costante il richiamo a superare le barriere artificiali alzate dalle ideologie, dal razzialismo (da non confondere con il razzismo benché sia da esso contaminato) dal femminismo e dall’ecologismo, appoggiandosi ai valori superiori di libertà, giustizia, legalità e opportunità, educazione e sicurezza per tutti, senza eccezioni. Si tratta, indubbiamente, di idee semplici, generali, ma che hanno fatto vibrare milioni di nordamericani, ricordando loro, di colpo, che la politica può essere qualcosa di più generoso e di più sincero rispetto alla versione che di essa danno i politici di professione.

D’altro lato, l’immenso appeal che egli suscita è determinato dall’insensata sincerità con cui ha messo a nudo la propria vita nella sua autobiografia e nella sua campagna elettorale. La scorsa notte i commentatori della Cnn dicevano che il clan Clinton aveva già pronta una devastante guerra sporca contro Obama. Ma di quali peccatucci veniali o mortali potrebbero accusarlo che lui non abbia già riconosciuto, avvantaggiandosi, così, sui propri detrattori? I nordamericani sanno perfettamente chi è Obama: da dove viene, che cosa ha fatto, sino ad ora, della sua vita, gli errori che ha commesso - le droghe che hanno segnato la sua generazione, per esempio - e hanno tratto la conclusione che in questo bilancio prevalgano gli aspetti positivi. Per questo si sono mobilitati trasformando in realtà qualcosa che solo pochi mesi or sono era impossibile. Dopo quanto è successo in Iowa e nel New Hampshire, a meno d’una tragedia imponderabile - un attentato terrorista, per esempio - la possibilità che Barack Obama sia il primo presidente nero degli Usa non è una chimera, ma una possibilità molto realistica.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 25, 2008, 11:20:32 pm »

ESTERI IL COMMENTO

L'Europa sedotta da Barack Obama

DI ANDREA BONANNI



COME capita a certe zitelle un po' inacidite, questa Europa che ha paura di cambiare e di sognare in proprio si è perdutamente innamorata di Barack Obama. Si è invaghita della sua capacità visionaria, della sua leadership, della sua giovinezza, della sua voglia di novità. Di tutto ciò che, in fondo, manca così dolorosamente a noi europei. Il discorso di ieri a Tiergarten, di fronte a una marea di berlinesi entusiasti, suggella un amore che era nell'aria da tempo. Può darsi che Obama diventi il nuovo Kennedy americano: di certo, da ieri, è il nuovo Kennedy europeo.

Neppure Bill Clinton, che all'Europa ha dato molto guidandola con mano ferma nel labirinto delle guerre balcaniche, era riuscito a suscitare tanto entusiasmo. Neppure Reagan e Bush padre, che avevano reso possibile la riunificazione delle due Europa. Qualche settimana fa gli osservatori atlantici notavano con sorpresa che se gli europei potessero votare alle elezioni USA, Obama avrebbe già comodamente in tasca la vittoria. Si potrebbe aggiungere che, se gli europei potessero eleggere un proprio presidente, probabilmente il candidato americano straccerebbe tutti i rivali europei.

L'ultimo sondaggio Gallup condotto in Europa rivela che il sessanta per cento degli inglesi, il sessantaquattro per cento dei francesi e il sessantadue per cento dei tedeschi sperano che Obama vinca le elezioni. Il povero McCain è surclassato: lo vogliono solo il quindici per cento dei britannici, il quattro per cento dei francesi e il dieci per cento dei tedeschi. Oltre alla straripante popolarità di Barak, queste cifre confermano che l'opinione pubblica europea è ormai di gran lunga più omogenea e coesa di quella americana. Anche se il momento in cui potremo eleggerci un presidente appare ancora lontano.

Ma l'innamoramento degli europei non è senza motivo. Non si tratta solo dell'infatuazione per un candidato bello, giovane e visionario. Se indubbiamente pre-esisteva un fattore immagine, ieri Obama lo ha riempito di sostanza, con una abilità e una sottigliezza che sembrano smentire quanti gli rimproverano mancanza di esperienza e ingenuità nelle questioni internazionali.

Innanzitutto, dalla tribuna berlinese, Obama non ha parlato ai tedeschi, come avrebbe fatto qualsiasi altro presidente americano (e come in parte fece lo stesso Kennedy nel suo famoso "ich bin ein Berliner"), ma ha parlato agli europei. Tutti i messaggi che ha lanciato, dalla necessità di abbattere i muri a quella di ricostruire una vera solidarietà atlantica, dalla richiesta di aiuto in Afghanistan all'apertura verso la Russia, dalla costruzione di una società aperta e globale all'impegno per combattere il riscaldamento del Pianeta, avevano come interlocutori l'America e l'Europa, intesa in modo quasi naturale come quell'"unicum" che vorrebbe essere, e che non è.

Il secondo regalo che Obama presenta agli europei, è un atto di umiltà assortito al riconoscimento esplicito degli "errori" di George W. Bush. E' vero che l'uomo dell'Illinois parlava da candidato, e non ancora da presidente. Ed è ovvio che certe ammissioni sono più facili in questa veste. Ma ci vuole comunque coraggio sul fronte interno, e un notevole carisma, per permettersi in piena campagna elettorale di andare all'estero a dire: "So che il mio Paese non è perfetto. Ci sono state occasioni in cui abbiamo dovuto lottare per i nostri diritti. Abbiamo fatto degli errori", e per ammettere che l'invasione dell'Iraq è stata "ingiusta".

Il terzo gesto di seduzione di Obama verso gli europei è certamente nel riconoscimento che la lotta al cambiamento climatico deve essere una priorità condivisa anche dagli Stati Uniti. L'inizio del divorzio tra Bush e l'Europa avvenne con il rifiuto americano di ratificare il protocollo di Kyoto. Un gesto che a molti parve l'atto di tracotanza di una iper-potenza che non vuole pagare il conto dei danni che produce, proprio mentre gli europei si sobbarcavano l'onere gravoso di tagliare le emissioni e di intraprendere in solitudine la strada in salita della terza rivoluzione industriale. Il discorso di ieri sembra promettere la ricomposizione di una ferita strategica che non è stata meno dolorosa dei quella irachena.

Obama seduce. L'Europa è sedotta. Non resta che rispondere all'eterna e banale domanda: ma sarà poi vero amore? Da parte europea, ci sono tutte le premesse per rispondere di sì. Da parte americana, ammesso che Obama vinca davvero le elezioni, probabilmente la risposta è più complessa e legata a molti fattori: una crisi economica che naturalmente alzerà il tasso di protezionismo e di egoismo nazionale, una "costituency" democratica che tradizionalmente è più sensibile alle spinte isolazioniste; la difficoltà di creare un legame privilegiato con la vecchia Europa a scapito delle nuove e rampanti potenze orientali; la oggettiva divergenza di interessi su temi cruciali, non ultimo il rapporto euro-dollaro. Di certo, se c'è un uomo che promette di saper volare alto, sopra l'orizzonte accidentato di tante contingenze avverse per affermare una visione comune, quello è Barak Obama. E in fondo è proprio perciò che gli europei, non potendo votarlo, lo sognano.


(25 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 21, 2008, 08:46:10 am »

Il percorso dell'ex Segretario di Stato dai repubblicani al sostegno ad Obama

Il dolore più forte l'aver dovuto mostrare all'Onu le false prove sulle armi in Iraq

Il "tradimento" del vecchio soldato deluso da troppe scelte sbagliate


di VITTORIO ZUCCONI


Il vecchio generale torna in guerra, per salvare il soldato Obama. Colin Powell, il più grande e rispettato ufficiale e statista afroamericano della storia Usa, muove contro un reduce del Vietnam come lui, John McCain. Lo fa da ufficiale e gentiluomo, con dignità, con autorevolezza, quasi con dolore, con i sentimenti e gli atteggiamenti che mancano alla sempre più sguaiata campagna elettorale repubblicana.

Una scelta venuta dopo settimane di dilemmi tormentosi per un vecchio soldato leale, per aiutare un candidato che promette all'America ciò di cui ha disperatamente bisogno dopo 8 anni di Bush: il cambiamento di generazione.

Deve essergli costato, questo tradimento, nato dal disgusto per come il suo vecchio commilitone e coetaneo sta conducendo una campagna elettorale nel peggior stile bushista del "terrorizza e vinci". Powell va in guerra contro "Joe the Plumber", Beppe lo Stagnino, la macchietta spaventapasseri dell'"americano della strada" furioso con Obama, inventata dai repubblicani. Scende in trincea contro il razzismo sempre più esplicito, gridato ormai dalla folla nei comizi della graziosa nullità dell'Alaska a colpi di "tornatene in Africa, terrorista rosso", e sussurrato nei robocall, le telefonate registrate che stanno bombardando gli elettori per insinuare che il senatore nero sia "complice di terroristi". Lo fa per salvare la candidatura del figlio di un emigrato nero come lui. Quel Barack Obama improvvisamente a rischio di rimonta sotto le spallate di una propaganda calunniosa, ma, come tutte le calunnie, efficace.

È una guerra fratricida, questa fra i due vecchi soldati, combattuta all'interno della stessa generazione di "figli del Vietnam", fra il 71enne Powell e il 72enne McCain, uniti dalla storia personale e politica e ora separati dalla lama di una scelte che proprio il loro atteggiamento rivela in tutta la sua potenza tagliente. Powell vuole che finalmente sia una nuova leva di americani ad assumere la responsabilità della nazione, gente con "idee nuove", capace di "ispirare e di motivare", dotata di quello che a Bush tragicamente mancava e che sta alla radice del suo fiasco come leader, la "curiosità intellettuale", dunque voglia di capire, di conoscere, di imparare, come ha detto ieri. E ha l'autorità per giudicare e consigliare, più dei pappagalli da talk show pagati dalle campagne, dalle star di Hollywood, o dei commentatori seduti davanti al loro computer.

Powell, figlio di un tagliatore di "zafra", di canna da zucchero giamaicano emigrato a New York, è l'ufficiale che volontariamente combatté due volte in Vietnam, che guidò la strategia americana da Washington nella Tempesta sul Deserto agli ordini di George Bush il Vecchio nel �90-'91, che per quattro anni fu segretario di Stato per George il Giovane fra il 2001 e il 2005 e molti avrebbero voluto come presidente o vice presidente per il partito repubblicano. Da quando ricevette la prima barretta da sottotenente nel 1958, è l'incarnazione del fedele e leale soldato, con o senza l'uniforme. La sua defezione, la sua spietata critica di McCain e soprattutto di quella offensiva nullità che ha scelto come vice presidente sperando di attirare le donne, la reginetta di bellezza Sarah Palin, sono il segno di una ribellione morale e intellettuale alle menzogne e alle tattiche di una campagna condotta da un McCain che si proclama "il non Bush", ma poi adotta i metodi peggiori, e i personaggi più sinistri, che fecero Bush.

L'effetto che l'investitura offerta da Powell a Obama avrà sugli indecisi non sarà necessariamente rivoluzionario, perché raramente questi endorsement, queste benedizioni elettorali di celebrità e di personalità, smuovono grandi numeri elettorali. McCain può vantare la sua brava pattuglia di ex segretari di Stato come Kissinger, Haig, Eagleburger, nel proprio campo, ma nessuno di questi tre, neppure Kissinger, ha la statura umana, la storia personale, il carisma di Colin Powell. Comunque vada la conta finale dei voti il 4 novembre il tradimento del vecchio generale divenuto statista è uno schiaffo personale bruciante per McCain, forse più di quanto sia una spinta a Obama.

Powell è, e resta, un repubblicano, un moderato, un uomo della destra storica e pensante. Fu il consigliere per la sicurezza nazionale con Ronald Reagan. Fu capo degli stati maggiori riuniti, la massima carica militare, sotto Bush Primo. Divenne segretario di Stato con Bush Secondo. E fu l'autore di quella che sembrava essere divenuta la dottrina finale, e razionale, per l'impiego della forza armata, fondata sul principio che gli eserciti debbano muoversi soltanto se la missione è chiara, l'appoggio popolare forte e la vittoria ben definibile. Esattamente il contrario di quanto è stato fatto in Iraq e in Afghanistan.

Il senso politico del suo annuncio è molto più profondo del mezzo punto percentuale che potrebbe smuovere. Powell ha ripudiato la degenerazione del grande partito di Lincoln, di Eisenhower, di Reagan, di Bush il vecchio, quella follia che lo portò al "giorno più umiliante della mia vita", disse lui, quella tragica mattina del marzo 2001 nella quale il generale segretario di Stato dovette recitare davanti alle Nazioni Unite la sequenza di invenzioni e propaganda spacciata come casus belli contro l'Iraq. Con 21 decorazioni e medaglie, con una storia personale inappuntabile, né pacifista né interventista, Powell vuol dare agli elettori la garanzia che il rischio, il prossimo 4 novembre, non è il giovane senatore dell'Illinois, ma il vecchio e confuso senatore dell'Arizona che sta disonorando sé stesso, e la generazione che si sacrificò in Indocina, con una campagna elettorale ignobile. Aveva torto il generalissimo MacArthur quando disse che "i vecchi soldati non muoiono, ma lentamente si dissolvono". A volte ritornano, per un'ultima carica.


(20 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:41:40 am »

REPUBBLICANI E POPULISMO

Il fattore Powell


di Massimo Gaggi


Chi pensava che la scelta di Sarah Palin come vicepresidente si sarebbe rivelata un boomerang per John McCain, oggi gongola. Annunciando il suo appoggio a Barack Obama, Colin Powell fa molto di più che allargare il fronte multietnico che già sostiene il candidato democratico: con la sua reputazione di patriota e di repubblicano moderato che ha servito il Paese con Reagan (consigliere per la Sicurezza nazionale), Bush padre (capo degli Stati Maggiori al Pentagono) e Bush figlio (ministro degli Esteri), Powell smonta l'ultima disperata offensiva — quella del discredito — messa in piedi dagli strateghi elettorali del senatore dell'Arizona. Obama amico di terroristi, Obama sospettato di essere un musulmano «nascosto». Insinuazioni pesanti affidate a qualche «spot» in tv o buttate là nei comizi arrembanti della Palin. «Ma siamo matti? Avvelenare la campagna con pure falsità in un momento così drammatico per l'America?», è sbottato alla fine il vecchio generale a quattro stelle, un «figlio del Vietnam» come Mc- Cain, un suo coetaneo, ma, soprattutto, un suo sostenitore.

Powell, infatti, aveva appoggiato McCain (proprio contro l'attuale presidente) nelle primarie repubblicane del 2000 e lo aveva consigliato anche durante questa campagna elettorale. Tanto che il senatore dell'Arizona ne parlava come di un possibile capo della politica estera Usa. Tutto è cambiato quando la campagna è divenuta (anche) scambio di colpi bassi e con l'entrata in scena della Palin. Scelta geniale, coraggiosa ma anche molto rischiosa, si era detto subito. La governatrice dell'ultimo Stato-frontiera d'America come incarnazione di un popolo che vorrebbe tornare allo spirito dei pionieri; il resto, in termini d'immagine, lo avevano fatto la sua freschezza e la «narrativa» cresciuta intorno alla hockey mom d'Alaska capace di trasformarsi in statista. Col fallimento della banca Lehman che ha fatto precipitare una crisi finanziaria rapidamente divenuta anche cataclisma economico e sociale, gli americani hanno, però, perso interesse per le suggestioni, mentre sono tornate in primo piano le banalità quotidiane: la competenza, l'esperienza in campo economico, i rapporti internazionali.

È qui che è arrivato il boomerang Powell: «Mi dispiace deludere il mio amico McCain, ma Obama ha un'agenda politica più convincente ed è un personaggio maggiormente in grado, col suo team, di avviare le trasformazioni di cui il Paese ha bisogno; di superare steccati etnici, razziali, generazionali». Parole che, più che allargare il già vasto consenso di Obama nelle minoranze etniche, spuntano le armi di McCain nella battaglia per la conquista dei moderati. Lo smottamento, in casa repubblicana, rischia di andare anche oltre l'orizzonte delle elezioni del 4 novembre. Parliamo della deriva populista che può dilagare, non più arginata dal pensiero di intellettuali come William Buckley, padre del moderno conservatorismo americano, scomparso pochi mesi fa, e con i portabandiera del pensiero liberista ammutoliti davanti al «neostatalismo» di Bush. McCain si sta servendo del populismo, ma non è un populista. Se il 4 novembre verrà sconfitto, uscirà di scena. La Palin e i populisti no. Mentre prima Bloomberg e poi Powell, due possibili riformatori del partito, hanno scelto altri lidi.

21 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 05, 2008, 06:52:46 am »

2008-11-05 06:13

OBAMA: OGGI PROVA CHE NULLA IN AMERICA E' IMPOSSIBILE



 NEW YORK - "Se qualcuno pensa che in America ci sia qualcosa di impossibile, questa notte è la risposta". Lo ha detto il presidente eletto Barack Obama sul palco del Grant Park di Chicago dove la folla in delirio lo ha accolto con una pioggia di applausi.

IL CAMBIAMENTO E' ARRIVATO IN AMERICA
"Con questa elezione il cambiamento è arrivato in America". Lo ha detto il presidente eletto Barack Obama nel discorso della vittoria a Chicago.

SIAMO E SAREMO STATI UNITI D'AMERICA
"Siamo e saremo gli Stati Uniti d'America, e abbiamo dimostrato al mondo intero che non siamo semplicemente una collezione di individui di tutti i tipi". Lo ha detto il presidente eletto degli Usa Barack Obama prendendo la parola davanti ai suoi sostenitori a Chicago, dopo avere citato tutte le minoranza del paese, dalle donne ai gay, dai bianchi ai neri.


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BARACK OBAMA 44° PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI
di Giampiero Gramaglia

ROMA - Barack Obama e' divenuto questa notte il 44.o presidente degli Stati Uniti, e' il primo nero a conquistare la Casa Bianca: un risultato storico. L'affluenza record ha allungato le code ai seggi nell'Unione e ha reso piu' lento lo spoglio dei suffragi, ritardando l'annuncio della vittoria del candidato democratico.

La certezza, non matematica, ma politica, e' stata acquisita quando il candidato democratico s'e' aggiudicato l'Ohio, uno Stato chiave, lo Stato che tutti i candidati repubblicani divenuti presidenti hanno vinto.

L'America e' andata al voto nel pieno d'una crisi finanziaria che le toglie fiducia e che deve ancora fare sentire l'impatto sull'economia reale, mentre le difficolta' militari e politiche in Iraq e in Afghanistan incrinano le certezze e le sicurezze della Super-Potenza unica. In un momento difficile, con un esercizio di democrazia che la conferma fucina di coraggio per l'Occidente, l'America ha scelto e ha scelto il cambiamento: un presidente giovane, nero e relativamente inesperto, ma che e' un simbolo di speranza e che impersona il sogno americano. All'Est e al Sud, Obama s'e' imposto in alcuni Stati Chiave di questa competizione: ha fatto suo il New England, ed era scontato, i Grandi Laghi, ma soprattutto ha confermato il potere democratico in Pennsylvania e ha strappato ai repubblicani l'Ohio e lo Iowa, oltre ad altri Stati contesi.

I risultati dell'Ohio e dello Iowa sono stati il segnale della disfatta per il candidato repubblicano John McCain, arrivato all'Election Day in forte ritardo in tutti i sondaggi. E che neppure i suoi sostenitori ci credessero lo diceva la differenza di immagini tra l'attesa della festa per Obama a Chicago, dove c'erano decine di migliaia di persone entusiaste, e l'attesa a Phoenix, dove i sostenitori di McCain erano pochi e disorientati.

Per McCain, non e' stato un tracollo. Per Obama, non e' stata una vera e propria valanga, specie in termini di voto popolare - ma il computo esatto dei suffragi non e' ancora definitivo -. Ma dalle urne esce un'America nuova, che Barack Obama dovra' guidare dal 20 gennaio, quando s'insediera', fuori dalla crisi, ridandole fiducia in se stessa e restituendole la simpatia del Mondo.


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VOTO CALIFORNIA DA' CERTEZZA VITTORIA A OBAMA

NEW YORK - Il candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, ha vinto le elezioni presidenziali in California (55 voti), diventando matematicamente presidente degli Usa con 275 voti elettorali. 


da ansa.it
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 05, 2008, 08:12:11 am »

5/11/2008
 
Obama: "Questa vittoria dimostra che negli Stati Uniti tutto è possibile"
 
 
Il discorso del nuovo presidente americano
 
 CHICAGO


La giornata di oggi dimostra che «gli Stati Uniti sono il posto dove tutto è possibile» ha esordito dalla piazza di Chicago Barack Obama nel suo discorso subito dopo la vittoria elettorale.

«Il cambiamento per gli Stati Uniti è arrivato». Obama ribadisce la parola chiave dalla sua campagna elettorale, "we need change" (abbiamo bisogno del cambiamento) e parlando di fronte a decine di migliaia di persone nel parco di Grant Park, a Chicago, annuncia che il cambiamento è finalmente arrivato.

L’America può, perché è un paese unito; l’America può, perché sa sognare. «Ho pensato stanotte a una donna che ha votato a Atlanta» ha detto Obama. «Somiglia molto ai milioni di persone che si sono messe in fila per far sentire la loro voce in questa elezione, salvo un dettaglio: Ann Nixon Cooper ha 106 anni».

È stato un discorso pieno di accenni alla lunga storia dei diritti civili che ha condotto all’elezione del primo presidente nero, incluso un accenno a Martin Luther King, il «predicatore di Atlanta che disse ’we shall overcome».

Obama ha ringraziato per il loro amore e il loro sostegno la moglie Michelle («la prossima first lady degli Usa»), le figlie Sasha e Malia e la nonna materna, scomparsa proprio il giorno prima del voto.  La moglie e le figlie lo hanno accompagnato sul palco, vestite di rosso e nero, poi, dopo un bacio, lo hanno lasciato solo per il suo primo discorso da presidente eletto degli Usa.

Dal palco della vittoria Obama ha promesso alle figliolette il cane che tanto desiderano: «Vi voglio tanto bene» ha detto Obama  «Vi siete meritate il nuovo cagnolino che verrà con noi alla Casa Bianca».  Malia, 10 anni, e Sasha, 7, sono poi tornate sul palco con la mamma. Nessun dettaglio per ora sulla razza o sul nome di questo cagnetto che seguirà le orme dei cani Bush, gli Scottish Terrier Barney e Miss Beazley.

Poi Obama ha ringraziato il suo staff e i volontari che lo hanno sostenuto. “Questa vittoria appartiene a voi – continua - La nostra campagna è partita dal basso grazie a giovani e volontari, al loro coraggio. Questa è la vostra vittoria. Anche se stanotte festeggiamo, sappiamo le sfide che ci attendono domani. Sappiamo che siamo nel mezzo di una grande crisi economica, che ci sono soldati che continuano a morire in Iraq, che ci sono nuove scuole da costruire. Forse non in un anno, ma vinceremo queste sfide, ve lo prometto". 

«Il cammino davanti a noi sarà duro» e per questo ci «sarà bisogno di stare uniti» contro le avversità. La giornata di oggi dimostra che «gli Stati Uniti sono il posto dove tutto è possibile».  E dopo otto anni di un presidente come che non ha ascoltato nessuno, il suo successore ha promesso agli americani una Casa Bianca aperta, che saprà ascoltare la gente: «Sarò sempre onesto con voi - ha detto, nel discorso della vittoria alla folla di Grant Park, a Chicago - vi ascolterò, anche se la penseremo diversamente».
 
E conclude:  "Il credo americano è Yes, we can (si, possiamo)".
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 05, 2008, 11:46:29 am »

ESTERI - ELEZIONI USA 2008

Dal piccolo villaggio di Kogelo all'Africa intera: "Un sogno si è avverato"

E nel Paese dov'è parte della sua famiglia proclamata la festa nazionale

Kenya, inizia la grande festa dall'alba tutti in strada a ballare

dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO



NAIROBI - L'urlo squarcia il silenzio dell'alba. Arriva dalle case, dai bar, dalle strade che inziano a riempirsi. E' ancora buio, ma le tv e le radio annunciano la vittoria di Barack Obama. La gente esulta, riparete la musica, apre le porte, si incontra sui pianerottoli. Così com'è: in pigiama, i capelli arruffati, gli sguardi stanchi, stravolti, segnati da una notte insonne. Ma felici, raggianti.
L'impossibile è accaduto. Il sogno si è realizzato. Le prime parole del 44 presidente Usa, il primo presidente nero, si sentono in diretta da Chicago.
Gli occhi della gente, che entra ed esce dalle case, che festeggia nei vicoli e nelle piazze del piccolo villaggio di Kogelo, a Kisumu e poi via via nel resto del paese, adesso sono lucidi, pieni di orgoglio, con le lacrime che iniziano a scendere, a rigare i visi. L'Africa intera è impazzita, stretta attorno ad un presidente che considera anche il suo. Barack Omana alla Casa Bianca qui significa più eguaglianza, più diritti, più certezze, più rispetto.

E' un uomo di colore, è un afroamericano, ha quella sensibilità che centinaia di milioni di persone cercavano da tempo. Barack vuole dire speranza per nuovo lavoro, rilancio economico per lo sviluppo, impegni per nuovi rapportio internazionali. Chi è povero spera in un futuro più dignitoso; chi è ricco di continuare ad esserlo.
Barack non fa paura, è il simbolo di un riscatto tanto atteso. E' il figlio dell'Africa e l'Africa oggi sente di contare di più. Di aver fornito l'uomo ora alla guida della più potente e influente nazione del mondo.

La festa è esplosa subito a Kogelo, il piccolo villaggio dell'ovest del Kenya dove il nuovo presidente ha parte della sua famiglia. Lo spoglio delle schede è stato seguito per tutta la notte. Migliaia, forse decine di miglaiaia di persone, si sono radunate nella piazza principale e attraverso un mega schermo hanno visto le immagini che arrivavano dall'altra parte dell'Atlantico. Quando è stato annunciata ufficialmente la vittoria, quando è stato raggiunto il quorum, la folla ha iniziato ad abbracciarsi, a ballare, a muoversi in lungo in largo in danze, passi, ritmi che hanno finito per contagiare tutti.
Il presidente del Kenya, Mwai Kibaki si è subito congratulato con Barack Obama con una telefonata fatta pochi minuti dopo la vittoria. Si è rivolto al popolo kenyota e ha annunciato che domani, venerdì, in tutto il paese ci sarà festa nazionale. Non si lavorerà, gli uffici resteranno chiusi, la gente avrà modo di festeggiare un elezione che Kibaki ha definito "storica". "Il presidente Obama", ha detto Kibaki, "è il nostro presidente. Dio ha risposto alle nostre preghiere. Questa vittoria ci fa del bene. Ne siamo orgogliosi. Obama ha qui parte delle sue radici, qui ha trovato parte del suo spirito, anche da qui ha ottenuto quella forza che lo ha portato verso un obiettivo che credevamo impossibile".

Nel resto del Kenya, ma sappiamo anche in tanti altri paesi africani, la gente è come frastornata, fatica a credere quanto sia avvenuto. Sogna, pensa, immagina, si proietta in un futuro con nuove speranze, nuovi desideri, nuovi obiettivi. La vita scorre, uomini e donne vanno a lavorare, i ragazzi a scuola, gli albulanti nei mercati, gli impiegati nei ministeri, gli operai nelle fabbriche. Ma oggi è diverso. Si coglie negli sguardi sorridenti, bianchissimi, stampati sui visi neri, raggianti. Alzano le due dita in segno di vittoria, salutano, si muovono quasi ballando.
Sorge il sole, la musica torna a rimepire strade e piazze. Barack Obama è salito sul podio più alto. Da stasera si festeggia davvero. Per due giorni consecutivi.


(5 novembre 2008)


da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 05, 2008, 11:50:39 am »

Le reazioni del mondo: da Napolitano a Sarkozy


Il democratico Barack Obama ha vinto la storica sfida contro il repubblicano John McCain dopo due anni di campagna elettorale, diventando il primo presidente nero degli Stati Uniti. E subito sono giunte le reazioni del resto del mondo. «Per noi italiani che ci sentiamo intimamente legati sul piano storico e politico, culturale e umano, al popolo americano e agli Stati Uniti d'America, questo è un grande giorno - è il messaggio che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano -: traiamo dalla sua vittoria e dallo spirito di unità che l'accompagna nuovi motivi di speranza e di fiducia per la causa della libertà, della pace, di un più sicuro e giusto ordine mondiale». «Le giungano le più calorose felicitazioni mie personali e del popolo italiano - scrive Napolitano ad Obama - siamo profondamente impressionati della ineguagliabile prova di forza e di vitalità che la democrazia americana ci ha dato, grazie a una partecipazione senza precedenti alla campagna elettorale e al voto, e grazie alla larghissima adesione a un programma ricco di idealità e di impegni di rinnovamento».

«Con il mondo in tumulto e nel dubbio, il popolo americano, fedele ai valori che hanno sempre definito l'identità americana, ha espresso con forza la sua fiducia nel progresso e nel futuro», ha detto il presidente francese Nicolas Sarkozy. «In un momento in cui dobbiamo fronteggiare difficili sfide insieme, le vostre elezioni hanno suscitato enorme speranza in Francia, in Europa e altrove. La Francia e l'Europa ... troveranno nuova energia per lavorare insieme all'America per preservare la pace e la prosperità nel mondo».

«Spero di incontrare presto il presidente eletto per poter continuare a rafforzare il legame speciale che esiste tra il Canada e gli Stati Uniti», ha detto il primo ministro canadese Stephen Harper. «Nelle settimane e nei mesi che verranno funzionari e diplomatici canadesi lavoreranno a stretto contatto con membri del team di transizione del presidente eletto Obama. I ministri del nostro governo vogliono costruire forti relazioni di lavoro con le controparti nella nuova amministrazione di Obama».

«Il governo neozelandese desidera caldamente lavorare con la nuova amministrazione di Obama», ha detto il primo ministro neozelandese Helen Clark. «Il senatore Obama assumerà l'incarico in un momento critico. Ci sono molte difficili sfide che la comunità internazionale deve fronteggiare, inclusa la crisi finanziaria globale e il riscaldamento globale. Noi vogliamo lavorare a stretto contatto con il presidente eletto Obama e la sua squadra su queste sfide».

Hamas crede che l'elezione di Obama possa offrire agli Stati Uniti l’«occasione per un cambiamento, dopo che il suo predecessore George Bush ha distrutto i rapporti con il mondo esterno». Restando in Medio Oriente, il premier israeliano Olmert si è congratulato per la «vittoria eclatante e storica» del candidato democratico, auspicando il «rafforzamento» delle relazioni bilaterali e dei progressi nel processo di pace sotto il nuovo mandato.

In Russia la notizia del nuovo presidente non sembra scatenare particolare entusiasmo: il vicepremier Igor Sechin spiega che Mosca è pronta «a cooperare con qualsiasi presidente legittimamente eletto di un paese».

Si augura che la vittoria di Obama promuova «la pace e la stabilità nella regione» il primo ministro pachistano, Yousuf Raza Gilani. Mentre in Afghanistan, il presidente Amid Karzai si è augurato che le elezioni negli Stati Uniti possano «portare pace in Afghanistan, prosperità per il popolo afghano e per il resto del mondo» e si è complimentato con «il popolo americano per il coraggio e la grande moralità che ha mostrato».

Pubblicato il: 05.11.08
Modificato il: 05.11.08 alle ore 10.13   
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 06, 2008, 08:55:04 am »

ESTERI - ELEZIONI USA 2008

Il neo eletto presidente Usa entrerà in carica fra 76 giorni ma vuole far presto

Molto delicata, a causa della crisi economica, la successione di Paulson al Tesoro

Obama subito al lavoro per il team

Nominato il capo di gabinetto

Il deputato di Chicago Rahm Emanuel ha accettato il posto di chief of staff

Alle porte anche la riunione del 15 novembre del G20 per analizzare la crisi

 

WASHINGTON - Niente riposo per Barack Obama. Dopo il trionfo elettorale, il neo presidente Usa deve affrontare la prima sfida, formare la squadra che per i prossimi quattro anni guiderà insieme a lui gli Stati Uniti. Alcuni nomi stanno già arrivando.

Il deputato di Chicago Rahm Emanuel ha accettato il posto di chief of staff (capo di gabinetto) nella nuova amministrazione. E' la prima nomina del nuovo presidente eletto. Lo ha annunciato la rete tv Cnbc. Emanuel, attualmente, è capogruppo democratico alla Camera, con ambizioni di diventarne presidente.

E' il primo passo della transizione verso una nuova amministrazione democratica che prende le mosse dalla sfida più imponente che attende il presidente eletto: la peggior crisi dell'economia dai tempi della Grande Depressione. E, ovviamente, gli occhi sono puntati sul successore di Henry Paulson al Tesoro.

Obama entrerà in carica tra 76 giorni (il giuramento avverrà il 28 gennaio) ma non vuole ripetere l'errore commesso da Clinton che nel '92 nominò il suo staff solo a pochi giorni dall'insediamento. Anche se per ora non figura nessun appuntamento sull'agenda del senatore dell'Illinois, che domani probabilmente volerà alle Hawaii per partecipare ai funerali della nonna, la macchina è già in movimento.

La guida della squadra di governo sarà probabilmente affidata a John Podesta, ex capo del gabinetto Clinton. E a stretto giro potrebbe essere designato anche il segretario al Tesoro, anche in vista del primo test ufficiale: il G20 straordinario di Washington sulla crisi finanziaria. L'appuntamento, fissato per il prossimo 15 novembre, è cruciale e si pone come obiettivo quello di esaminare i progressi per fronteggiare l'attuale crisi finanziaria, approfondire una comprensione comune delle cause e concordare una serie di misure per una riforma dei regimi regolatori e istituzionali dei settori finanziari mondiali. La squadra che guiderà il Tesoro - secondo indiscrezioni - potrebbe essere già resa nota entro la settimana.

Fra i nomi più accreditati a ricoprire l'importante ruolo di segretario figurano: Lawrence Summers (già ex segretario al Tesoro sotto Bill Clinton), Paul Volcker (ex presidente della Fed), Timothy Geithner (presidente della Fed di New York, il braccio operativo della banca centrale americana) e Rahm Emanuel. Secondo il network Abc, Obama avrebbe già offerto la poltrona a Emanuel che, però, non avrebbe ancora sciolto le riserve. Nei giorni scorsi erano circolate voci su una possibile candidatura del finanziere Warren Buffett.

Nella lista dei 'papabili' per la successione a Condoleeza Rice, come segretario di Stato, risultano invece il democratico John Kerry, l'ex diplomatico Richard Holbrooke, il repubblicano uscente Chuck Hagel e l'ex senatore democratico Sam Nunn.

All'incontro di Washington non è ancora stato reso noto se Obama parteciperà o meno, o se incontrerà qualche leader europeo, magari nella cena in programma che potrebbe rappresentare una buona occasione informale per avviare i primi contatti. Intervenendo sul risultato elettorale, comunque, Bush ha cercato di rassicurare, promettendo "una cooperazione completa" nel corso della transizione. Uscendo dal silenzio che ha caratterizzato gli ultimi giorni della campagna elettorale, Bush ha dichiarato di aver invitato Obama ad andare alla Casa Bianca "il prima possibile" durante una conversazione "calorosa" seguita all'annuncio della vittoria del senatore dell'Illinois alle presidenziali 2008. "Ho detto al presidente eletto che può contare su una cooperazione completa della mia amministrazione nel corso della transizione verso la Casa Bianca".


(5 novembre 2008) 

da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Novembre 06, 2008, 11:54:25 am »

«La crisi? Subito un asse anti-petrolio con la Cina»

Paul Berman: la guerra cambierà solo di nome.

L'America resterà il buon-cattivo poliziotto


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE


NEW YORK — «Obama ha una tale stoffa da trascinante oratore che, volendo, potrebbe essere un pericoloso demagogo. Nel suo discorso della vittoria, martedì sera, il neoeletto presidente ha dimostrato, al contrario, di voler volare alto». Paul Berman, il saggista, docente universitario e autore di "Terrore e Liberalismo" e "Sessantotto" giudica «perfetto» l'esordio di Obama.
«La sua arringa a Chicago era deliberatamente strutturata per eccitare con moderazione, mantenendo un tono sobrio, intelligente e profondo. Insomma: ha iniziato sulla nota giusta. Geniale anche il suo citare Abramo Lincoln, il senatore dell'Illinois come lui, che guidò il Paese durante la Guerra Civile del 1861, emancipando gli schiavi».

Qual è il significato di questa vittoria?
«È un evento di portata monumentale che può essere compreso solo in rapporto alle altre pietre miliari della nostra storia: la rivoluzione americana, la nascita della costituzione americana, la Guerra Civile».

Cosa intende dire?
«Che l'America è stata fondata su gigantesche e tragiche contraddizioni. Nasce come la prima grande democrazia e rifugio per uomini liberi al mondo mentre, sin dagli albori, è maledetta dalla schiavitù e dal razzismo».

A cosa possiamo paragonare queste elezioni?
«Alla vittoria di Andrew Jackson, che nel 1828 fu il primo plebeo a insediarsi alla Casa Bianca, inaugurando la democrazia delle masse. Tutti i suoi predecessori furono aristocratici con una posizione privilegiata nella società e infatti la sua effige decora la banconota da 20 dollari».

Alcuni tracciano il parallelo con l'elezione di JFK.
«Eleggere il primo cattolico è stata una tappa importante ma nessun gruppo, tranne forse i Nativi Americani, sono stati oppressi quanto i neri».

È sorpreso che non vi sia mai stato un presidente ebreo?
«Gli ebrei non hanno sofferto poi così tanto in America e la loro esperienza di persecuzione nel nuovo Continente non è certo paragonabile a quella dei neri. E comunque nel 2000 l'America aveva eletto un ebreo nelle presidenziali rubate da Bush: Joe Lieberman, il vice di Al Gore».

È vero che l'America tornerà ad essere amata nel mondo?
«Gli europei occidentali commettono spesso l'errore di pensare che le loro opinioni sono condivise dall'intero pianeta, dimenticando che George W. Bush è ammirato in Africa e Est Europa. Per quanto riguarda Obama penso che cambierà soprattutto l'immagine che l'America ha di sé stessa, perché ha dimostrato che i valori americani di opportunità e giustizia sono vivi e veri».

Quali saranno per Obama le sfide future più pressanti?
«Il suo talento oratorio del tutto assente in Bush l'aiuterà ad essere enormemente popolare all'estero. Ma dopo la luna di miele bisognerà vedere cosa farà in concreto per risolvere la crisi finanziaria che, alla fine, l'ha aiutato a diventare presidente».

Che consigli gli darebbe?
«Per risolvere la crisi finanziaria dovrà spostare l'asse dell'economia americana dalla dipendenza al petrolio verso forme energetiche alternative. Ciò gli consentirà anche di affrontare l'emergenza della Sicurezza Nazionale che emana dai paesi produttori di petrolio. La politica estera e quella economica saranno indistinguibili».

Le sue previsioni per le guerre in Iraq e Afghanistan?
«Purtroppo non finiranno con Obama che, come molti presidenti, non potrà mantenere le promesse elettorali. Retoricamente si dirà che la guerra è finita ma di fatto le truppe Usa resteranno nella regione».

Quali altre promesse elettorali non potrà mantenere?
«Dubito che la crisi gli permetterà di realizzare gli ambiziosi programmi sociali, educativi e sanitari. Tassare i ricchi? Neppure lui sa bene cosa e come fare con quella promessa elettorale».

Assisteremo ad una nuova fase di rapporti con l'Iran?
«Lo sforzo per ristabilire contatti diplomatici fallirà subito, finendo per essere solo un escamotage retorico da parte di Obama. Che dovrà fare qualcosa di drammatico per fermare la proliferazione nucleare di Ahmadinejad».

E i rapporti con la Cina?
«La vera sfida sarà coinvolgere il gigante asiatico nell'imminente rivoluzione anti-petrolio, costruendo nuove autorità regolatorie mondiali che includano la Cina invece di escluderla. Il pericolo è che Pechino costruisca un sistema economico rivale e alternativo basato sul petrolio che porterebbe a tensioni molto pericolose».

Obama potrebbe far cadere l'embargo contro Cuba?
«Obama deve solo gestire l'attuale transizione, dalla dittatura dei fratelli Castro a ciò che verrà dopo. Il tutto nell'ambito di una strategia più ampia che deve includere Hugo Chavez, riallacciandosi alla nuova politica energetica che riduca il potere dei paesi produttori di petrolio: Iran, Arabia Saudita, Russia e Venezuela».

E il futuro dei rapporti bilaterali Italia- Usa?
«Miglioreranno perché Obama sarà molto più capace di farsi ascoltare e rispettare dagli italiani. Purtroppo anche lui, come Bush, non ha viaggiato molto e non porta grande esperienza in politica estera alla Casa Bianca».

Si farà aiutare da Joe Biden?
«La diplomazia di Obama sarà quella del "buon poliziotto-cattivo poliziotto". Lui sarà il leader amato e popolare nel mondo che di fronte alle gatte da pelare spedirà Biden. Un mastino così difficile e ostico che le capitali estere concederanno qualsiasi cosa ad Obama pur di non dover trattare direttamente col suo vice».


Alessandra Farkas
06 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Novembre 06, 2008, 11:55:34 am »

La rivoluzione della sobrietà e il presidente in stile Humphrey Bogart

DAL NOSTRO INVIATO CHICAGO


Smaltita l'eccitazione di una notte che ha cambiato la sua storia, l'America si è svegliata stamani in una nuova era: quella della Grande Sobrietà obamiana. Sobrio nel vestire, nel mangiare, nello stile di vita familiare, nella mimica, nel modo di porsi coi suoi interlocutori, Barack Obama passa per un freddo calcolatore che si è imposto un livello estremo di autocontrollo come precondizione della sua corsa alla vetta della politica nazionale. Uno strumento che ha imparato a maneggiare con perizia e che ora gli servirà per rimettere ordine nel suo caotico partito, nei rapporti col Congresso, nel dialogo con la minoranza repubblicana. Ma anche uno stile personale che, forte del suo carisma, cercherà di trasferire nel comportamento quotidiano degli americani: sobrietà sarà il presupposto, se non la parola d'ordine, della sua politica di risparmio energetico e di sviluppo di fonti alternative.

Ma sarà anche l'atteggiamento suggerito a un popolo che, reduce da anni di sbornia consumistica e di indebitamento elevatissimo, sta cominciando a vivere il clima angoscioso della recessione. Un esperimento non privo di rischi, quello del nuovo presidente: anche gli eccessi, gli sprechi, nella mentalità di molti americani — non necessariamente conservatori — sono libertà che meritano di essere difese. A un italiano viene naturale il paragone con l'austerità berlingueriana. Ma se oggi il mondo deve fronteggiare crisi economiche ed energetiche esattamente come negli anni '70 di Berlinguer, va però tenuto presente che la sobrietà obamiana non ha connotati ideologici e nasce in tutt'altro contesto. Ed è un atteggiamento considerato «cool» dai giovani: può fare tendenza. A Barack non piace essere avvicinato, come fanno molti suoi ammiratori, all'immagine di George Clooney o del Sidney Poitier di «Indovina chi viene a cena?». I suoi eroi al cinema sono Spencer Tracy e Humphrey Bogart, interpreti di personaggi leali, diretti, magari tenebrosi, che non alzano mai la voce. La sobrietà obamiana parte da un assunto di base: l'americano medio non è ostile al nero in quanto tale.

Non lo spaventa il colore della pelle, ma è infastidito dalla «fisicità» degli afroamericani: il loro gesticolare, l'abbigliamento spesso esagerato, le catene d'oro, il parlare a voce alta, una diffusa tendenza all'indisciplina nella vita familiare (altissimo livello di abbandono del tetto coniugale da parte dei maschi) come in quella sociale. Nell'interpretare un personaggio speculare allo stereotipo del nero chiassoso c'è sicuramente del calcolo, ma Obama non può avere studiato a tavolino l'autodisciplina, il senso della misura che sono da decenni il suo stile di vita. Per lui la sobrietà è stata dapprima — come racconta un giornalista di Nairobi che lo ha conosciuto e che è stato amico del padre — la reazione a un genitore (lontano ma che aleggiava nella vita del giovane Barack) pirotecnico, eccessivo, dotato di un'umanità travolgente, ma anche arrogante. Obama è tutt'altro. Cerebrale, calcolatore, dapprima ha capito che la sua naturale sobrietà, che rischia di renderlo noioso nella vita privata, poteva essergli molto utile nella costruzione di un'immagine pubblica diversa da quella di tanti leader abituati a usare il potere in modo sguaiato. Ed ha anche costruito la squadra elettorale a sua immagine e somiglianza: la «forza tranquilla» dello stratega David Axelrod, perennemente immerso in pulloveroni sbrindellati, David Plouffe, il manager campagna che ha governato una macchina estremamente complessa senza mai alzare la voce: una formazione compatta, con un forte senso di cameratismo, a differenza dei team rissosi, pieni di «primedonne» (e, quindi, andati inevitabilmente in frantumi) messi in piedi da Hillary Clinton, o quattro anni fa, da John Kerry.

Un minimalismo austero ma che piace, quello del leader democratico: l'eleganza di un pantalone scuro, una camicia candida, un mocassino liscio. Nessun «accessorio» ad eccezione del braccialetto di plastica donato dalla madre di un soldato ucciso in Iraq (usato solo dopo che McCain aveva cominciato a mostrare nei comizi quello avuto dalla madre di Mattew Stanley, un altro caduto). A tavola molti broccoli e spinaci, pochi fritti, niente mayonnaise. Poche bibite gassate: meglio l'acqua. "Unamerican" direbbe Sarah Palin. Invece ha funzionato: forse perché col suo garbo e un atteggiamento "inclusivo", Obama non ha mai demonizzato il colesterolo degli hamburger. La sobrietà è anche nemica di ogni integralismo: i suoi sentimenti in materia di ambiente non impediscono, ad esempio, a Obama di girare il Paese a bordo di grossi "suv" neri blindati, che «risparmiosi» certo non sono. Anche i discorsi pubblici del leader nero sono diventati più asciutti, essenziali. Nei dibattiti televisivi con McCain, più che sobrio, è stato attento a non cadere in trappola: anche a costo di apparire un po' rinunciatario, nessuna replica dura agli attacchi di un avversario che, indietro nei sondaggi, cercava di spingerlo a una reazione da "nero attaccabrighe". Anche l'altra notte, nel prato del Grant Park, assediato da un'intera metropoli in festa, Obama non si è fatto prendere la mano dal trionfalismo: c'era il lutto per la scomparsa della nonna, certo, ma le sue parole asciutte, la faccia sofferta, scavata dalla durissima campagna, la commozione senza sorrisi, erano già un richiamo alla situazione difficile che l'America e il suo nuovo presidente dovranno fronteggiare: «Stasera abbiamo conquistato solo il diritto a tentare di realizzare il cambiamento che sognamo».

Massimo Gaggi
06 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 06, 2008, 11:56:42 am »

Il padre poligamo venuto dal Kenya che rivide il figlio una volta sola

La madre Ann, spirito libero e giramondo, dalle Hawaii all'Indonesia

DAL NOSTRO INVIATO


CHICAGO — La frase è già parte integrante della mistica del presidente-eletto: «Un padre dal Kenya, una madre dal Kansas, una Storia che sarebbe stata possibile soltanto negli Stati Uniti d'America». La sintesi meticcia che Barack Obama fa delle sue origini è uno squarcio sui percorsi di due persone e due famiglie, che il destino ha voluto incrociare, cambiando per sempre il cammino della Storia. Non solo. Le improbabili biografie dei suoi genitori si dipanano, subendone l'influenza, nel solco di passaggi cruciali del Dopoguerra: la decolonizzazione, l'era kennedyana, la battaglia per i diritti civili. Rafforzando così il simbolismo e il senso di predestinazione, che accompagnano l'ascesa del primo afro-americano al vertice della prima potenza mondiale. Fu anche la generosità dei Kennedy, oltre a quella di personaggi come Harry Belafonte e Sidney Poitier, alla fine degli Anni Cinquanta, che consentì a Tom Mboya, leader nazionalista kenyano deciso a formare una nuova classe dirigente per l'Africa uscita dal colonialismo, a finanziare le prime 81 borse di studio nei college americani.

A Barack Hussein Obama senior, della tribù dei Luo, toccò quella della University of Hawaii. Aveva 24 anni, grande talento e infinita ambizione. Uno dei suoi compagni di studio, Philip Ochieng, che sarebbe diventato celebre giornalista kenyano, lo ricorda «affascinante, generoso, straordinariamente bravo», ma anche «imperioso, crudele e sempre pronto a vantare la sua intelligenza e la sua ricchezza ». Poligamo impunito, come il padre e patriarca della famiglia, Hussein Onyango Obama, Barack senior si era lasciato dietro una moglie, Kezia (la prima di quattro), e due figli, i primi di otto. Fu nel clima dello Stato più multiculturale e integrato d'America, che il giovane africano conobbe a un corso di russo Ann Dunham, figlia trasognata di Stanley e Madeleyn, emigrati dal Kansas eternamente all'inseguimento del sogno americano e della prossima frontiera. Lei aveva 18 anni, era ingenua, idealista, stregata dall'eloquenza e dal carisma di quell'uomo dalle opinioni forti e dai modi seducenti. Lo sposò, come si sposa un sogno proibito, tra i dubbi dei genitori e le minacce del vecchio Onyango, che dall'Africa mandò una lettera, deciso a impedire che «il sangue degli Obama fosse sporcato da quello di una donna bianca». E nacque Barack. Ci vollero solo due anni perché Obama senior prendesse il volo. Lasciò Ann col bambino e andò ad Harvard, ancora una borsa di studio.

Lei divorziò un anno dopo. Senza polemiche: gli scrisse sempre del piccolo Barack. Lui conobbe un'altra donna, Ruth Nidesand, sposò anche questa e la portò in Kenya. Ma anche con Ruth non visse a lungo, anche se prima le fece fare due figli. Fu lei a lasciarlo, stanca di essere picchiata. Nel Kenya delle illusioni perdute, Obama senior visse un triste autunno: lavorò con Mboya, il suo vecchio mentore, fin quando questi venne assassinato. Il suo carattere, gli antichi odii tribali e l'alcol fecero il resto. Morì in un incidente stradale, nel 1982. E anche se era diventato ateo, la famiglia volle un funerale musulmano. Barack Obama aveva rivisto suo padre una volta sola, quando aveva 10 anni, alle Hawaii. Un incontro ormai trasfigurato nella memoria. Cos'è stata la sua educazione sentimentale, se non la caccia a quest'ombra per esorcizzarla? Cos'altro sono i Dreams from my father se non il percorso a ritroso sulle orme del padre che non c'era, in Africa, ad Harvard, alla scoperta dell'identità nera, in parte nascosta dall'adolescenza coi nonni del Kansas? Neanche di Ann Dunham, il presidente- eletto può dire di aver condiviso molto tempo.

Ma quello speso insieme ha creato un rapporto fortissimo con la madre giramondo. A 6 anni, si era portata il piccolo Barack in Indonesia, seguendo il secondo marito, Lolo Soetoro. Era lei, nelle umide albe di Giakarta, a svegliarlo alle 4 del mattino per approfondire il poco inglese della scuola locale. O a raccontargli le storie dell'America, la rivoluzione delle colonie e la Guerra Civile. Ma Ann era anche uno spirito libero: «Sentiva che avventurandosi su territori sconosciuti, possiamo imbatterci in qualcosa che ci riveli chi siamo dentro veramente», ha raccontato Maya, figlia di Lolo e sorellastra di Barack. Anche per questo, era tornata in Indonesia a lavorare con la cooperazione, pioniera dei micro-finanziamenti per l'imprenditoria povera. Barack non l'aveva seguita, fermandosi alle Hawaii. Le veci di Ann le avrebbe fatte sua madre «Toot», la nonna che lo ha cresciuto e come in un dramma shakespiriano è morta alla vigilia del trionfo di Barack Obama. Nel 1992, tre anni prima di morire di cancro, Ann Dunham aveva completato il suo dottorato di ricerca, con una tesi sui contadini indonesiani. L'aveva dedicata a Barack e Maya, «che non si sono mai lamentati, se la loro mamma era spesso in missione». Oggi sarebbe stata fiera. Gli ha dato tanto esempio e poco tempo. Ma anche da solo, Barack Obama è arrivato sul tetto del mondo.

Paolo Valentino
06 novembre 2008

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