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Autore Discussione: Siegmund Ginzberg - Donne di ferro e di seta  (Letto 3138 volte)
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« inserito:: Ottobre 31, 2007, 12:32:33 am »

Quando si ammala un leader

Siegmund Ginzberg


Il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, 62 anni, ha pubblicamente rivelato di avere un cancro alla prostata, e che si appresta a sottoporsi alle cure del caso. La cosa ha suscitato sorpresa. Non era tenuto a informare tutti delle proprie condizioni di salute. Ma ha fatto bene. Intanto, perché è giusto che gli israeliani sappiano in che mani stanno o si accingono a mettersi. Poi anche per un’altra ragione, come dire, scaramantica. Darsi malati, e dichiararlo in pubblico può portare fortuna ai leader politici. Dagli Stati Uniti viene a sorpresa la notizia che il front runner nella corsa alla candidatura nel campo repubblicano per la successione a George W. Bush è un sopravvissuto al cancro alla prostata: Rudy Giuliani.

Era sindaco di New York quando nel 2000 annunciò che per questo rinunciava, in piena campagna elettorale, proprio in mezzo al guado, alla corsa a senatore. Fu la sua fortuna. Sarebbe stato probabilmente eletto. Ma non sarebbe stato a dar prova di leadership, da sindaco di New York, l’11 settembre dell’anno successivo. «Riguardando indietro, quella decisione di affrontare subito la diagnosi e il trattamento, non solo mi salvarono la vita, ma fecero sì che fossi in grado di essere al servizio della mia città nel momento in cui questa più ne aveva bisogno», riconosce lo stesso Giuliani. Ne racconta nel bestseller che ha scritto alla vigilia della campagna presidenziale in cui è ora proiettato, grazie anche al modo in cui da sindaco reagì alla tragedia delle Torri gemelle. Il libro si intitola Leadership, appunto. Il cancro Rudy l’ha sconfitto, è stata un po’ più dura coi due divorzi, e questi gli peseranno più che a Nicholas Sarkozy, perché gli Stati uniti non sono la Francia.

Uno dei presidenti francesi che più hanno lasciato il segno sul loro Paese, François Mitterrand, sapeva già di essere malato di cancro alla prostata quando si candidò per il secondo mandato all’Eliseo. Ma non ne disse niente e si venne a sapere solo a secondo mandato inoltrato. E comunque riuscì a portarlo stoicamente a termine. Fu a lungo un segreto di Stato quasi meglio tenuto dei suoi amori e della figlia clandestina Mazarine. Le avventure extra-coniugali i francesi gliele avrebbero forse perdonate, in fin dei conti gli americani, molto più retro su queste cose, gliel’hanno perdonata persino a Bill Clinton. Si sa che agli elettori in genere non piacciono i leader malati. Ma altre volte può essere addirittura un atout. L’America in guerra stravedeva per Franklin Delano Roosevelt costretto in carrozzella, le ironie di Mussolini e Hitler a proposito gli si ritorsero contro. Sapere che Boris Eltsin era moribondo fu forse una delle ragioni che impedirono una sollevazione negli anni in cui il rublo affondava, imperversavano gli “oligarchi” e i russi morivano più che nel terzo mondo. Anche lui superò abbondantemente la fine del suo mandato. E comunque tutto è relativo: non è detto che un presidente malato e ubriacone non possa essere rimpianto rispetto ad uno che scoppia di salute e di muscoli come il suo successore Vladimir Putin. Molto del carisma di papa Wojtyla veniva dall’immagine di malattia e sofferenza, dall’ostinazione a non mollare.

L’età in genere non c’entra. Il più giovane dei presidenti americani, John F. Kennedy, era parecchio malato, soffriva di qualcosa di più che acciacchi passeggeri. Ci sono voluti quasi quarant’anni dall’assassinio a Dallas per venire a sapere che in gioventù aveva sofferto del morbo di Addison, una disfunzione per cui le ghiandole non producono più adrenalina. Per sopravvivere era stato a lungo costretto a dolorosissime iniezioni di corticosteroidi, più volte al giorno, finché a 37 anni, nel 1955, passò alla storia della medicina Usa come il primo malato di morbo di Addison che fosse riuscito a sopravvivere ad un intervento chirurgico. I suoi leggendari mal di schiena erano causati da una dolorosissima osteoporosi, altro che incidente di football o ferite in guerra. Ma il pubblico americano di tutto questo non ne era mai venuto a sapere nulla, se non molti decenni dopo la morte. Un tempo la curiosità del pubblico sulle cartelle cliniche dei propri leader era meno aggressiva, teneva di più il riserbo, o funzionava meglio la censura. Ronald Reagan era finito sotto tiro perché aveva quasi settant’anni quando fu eletto presidente la prima volta, e poi ebbe diversi guai, compreso un attentato in cui quasi perse la vita. Ma, checché se ne dicesse, non era poi così rimbambito, e non era già presidente da un pezzo quando fu lui stesso ad annunciare che gli era stato diagnosticato l’Alzheimer.

C’è poi da considerare che un leader malato è in genere meglio di un leader inesistente. Ed è questa probabilmente la ragione per cui, da tempo immemorabile, capita che vengano tenuti in vita anche artificiosamente. Al cadavere del primo imperatore Qin, quello che unificò la Cina, fu fatto fare un lungo viaggio verso la capitale, con accanto un carro carico di pesce marcio, perché lo si credesse ancora in vita, pratica corrente anche nei millenni successivi, fino a Mao e Deng Xiaoping. Succede quando non ci sono regole per la successione. Nel caso della democrazia israeliana, è invece già chiaro, per legge, che durante l’operazione cui sarà sottoposto Olmert, la responsabilità passerà al suo vice e ministro degli Esteri signora Tzipi Livni, così come dopo il malore di Sharon, la responsabilità era passata immediatamente al suo vice Olmert. Ci può essere però causa di brivido anche quando la successione è chiaramente stabilita. Per fare un esempio, succedesse qualcosa a Bush, a succedergli alla presidenza sarebbe uno molto più malato di lui, il suo vice Dick Cheney (quattro infarti e quattro bypass). Non vi sembra ragione sufficiente per augurare ottima salute al presidente Bush?


Pubblicato il: 30.10.07
Modificato il: 30.10.07 alle ore 11.34   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 11, 2007, 03:58:42 pm »

Donne di ferro e di seta

Siegmund Ginzberg


Due signore dall’aspetto gentile e fragile sono diventate in questo momento il simbolo dell’opposizione ai brutali regimi militari, la speranza democratica nei rispettivi Paesi. Entrambe hanno voluto per forza tornare da un comodo esilio per impegolarsi in politica, mentre avrebbero potuto evitare molti guai tenendosene lontane. Ma, noblesse oblige, dovevano in qualche modo questo impegno ai genitori famosi, l’uno e l’altro assassinati dall’aguzzino in divisa di turno. Entrambe le signore non cercano lo scontro per lo scontro, non perseguono vendette.

Entrambe non aizzano i seguaci alla violenza, anzi propongono il dialogo, compromessi, con i loro rispettivi persecutori. E c’è chi per questo le critica. Loro tirano dritto, imperturbabili. Gentili, ma durissime, ladies di ferro in sembianze di morbida seta o cachemire, verrebbe da dire. Benazir Bhutto ieri era stata messa praticamente agli arresti domiciliari a Islamabad, dopo che aveva chiesto ai suoi sostenitori di protestare contro le nuova legge marziale promulgata dal generale Parvez Musharraf. Poi è stato annunciato che il provvedimento veniva revocato. Era tornata dall’esilio perché il generale gliel’aveva permesso. L’ipotesi era che lei, popolarissima in metà del Paese della “purezza islamica”, invisa a un’altra metà, e il generale che lo ha tenuto insieme in questi anni con le baionette, si spartissero il potere da ufficiale gentiluomo e gentildonna, secondo un magnifico copione scritto a Washington. Solo che, come ultimamente molti altri copioni degli stessi autori, pare che non funzioni. Ma siccome tutte le altre soluzioni appaiono ancora più catastrofiche, rischiano di portare caos nell’unico (sinora) Paese islamico che ha anche l’atomica, non resta da sperare che la signora e il generale trovino un modus vivendi senza spargimento di sangue. Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari c’è stata ormai per almeno 12 dei 18 anni da quando è tornata in Birmania. I generali che tengono in ostaggio lei e il suo Paese, sono ancora più attaccati al potere e più brutali dei loro colleghi pakistani. Non temessero le reazioni l’avrebbero già fatta assassinare. Hanno represso in modo spietato ogni manifestazione di dissenso, anche le più pacifiche, come quelle dei monaci in zafferano e delle monache in rosa. In Birmania non si parla nemmeno di elezioni, a differenza che in Pakistan, dove Musharraf ha messo in galera giudici e avvocati perché la Corte suprema si apprestava a sentenziare che non si può ripresentare alle elezioni mantenendo il controllo assoluto delle forze armate. Eppure, la signora Aung non chiama a rovesciare con la violenza il regime, ma continua a proporre un’intesa, un minimo di accomodamento, su pochi punti fermi, anche con il capo dei carnefici, il generale Than Swe. «Nell’interesse della nazione», si è appena dichiarata pronta a «cooperare con il governo», a dialogare con il potere «per la riconciliazione nazionale».

Le due signore non cercano lo scontro frontale, non sono per il tanto peggio tanto meglio. Hanno un forte senso della responsabilità che incombe su di loro, proprio perché adorate dai rispettivi seguaci, nonché per il prestigio internazionale. Nell’interesse del proprio Paese, sono pronte a scendere a patti di pacifica convivenza anche col diavolo. E a giocare su questo anche la fiducia dei loro sostenitori. Nessuno può garantire che funzioni. Ma il tentativo merita tutto il rispetto, anche perché le due signore lo fanno sulla propria pelle.

Specialmente in Asia c’è una tradizione di transizioni democratiche “garantite” da signore con un passato politico in famiglia. Corazon Aquino, moglie di un oppositore assassinato, aveva garantito il dopo dittatura di Ferdinand Marcos nelle Filippine. Megawati Sukarnoputri, figlia del presidente Sukarno aveva “garantito” il ritorno alla democrazia del più popoloso Paese islamico al mondo, l’Indonesia. Donne eredi di importanti tradizioni politiche sono succedute ai padri in India, Sri Lanka, Bangladesh. Va bene: forse perché erano “figlie di”, prima che perché erano donne. Ma perché non dovrebbe essere possibile in Pakistan e in Birmania?

A Rangoon Aung San Suu Kyi viene chiamata semplicemente “la Signora”, Daw Suu, talvolta anche affettuosamente “la zia”, dai suoi sostenitori. Spregiativamente “la straniera” dai portavoce della giunta militare. Anche a Benazir Bhutto danno rispettosamente della “signora”, ma c’è anche chi la chiama “la Sultana”, o l’“Ereditiera”.

La signora di Rangoon aveva due anni quando suo padre, il generale Aung San, fu assassinato da un ufficiale rivale nel 1947, appena pochi mesi prima della dichiarazione di indipendenza della Birmania. A soli 32 anni era già uno dei più rispettati eroi dell’indipendenza, uno dei “trenta compagni” esiliati dai britannici e rientrati in Birmania al seguito dell’invasione giapponese, per poi allearsi ai britannici per scacciare gli occupanti giapponesi. Da ragazza di buona famiglia, la giovane Suu Kyi era stata mandata a studiare in Inghilterra. Pare che lei avrebbe preferito studiare letteratura o botanica, ma fu ammessa ai corsi di filosofia, politica ed economia al St. Hugh’s college a Oxford. Dopo il dottorato alla Scuola di Studi orientali e africani, da Londra si era trasferita a New York, a lavorare all’Onu, e poi in Giappone. Aveva sposato un inglese, Michael Aris, studioso di cultura tibetana all’Università di Durham. Era rientrata in Birmania quasi per caso, ma poi aveva dovuto rinunciare persino ad accorrere al capezzale del marito morente a Londra, per evitare che la giunta militare le impedisse di tornare in Birmania se lasciava il Paese. La signora di Islamabad ne aveva 26 quando suo padre, Zulfikar Ali Bhutto, uno dei pochi a diventare primo ministro del Pakistan dopo delle elezioni e non con un colpo di Stato militare, fu impiccato in seguito al golpe del generale Zia Ul-haq. Anche lei aveva studiato a Oxford e a Harvard. Anche lei era stata allevata come una principessa. Anche lei era rientrata una prima volta dall’esilio nel 1986, accolta come la speranza per il futuro del Pakistan, osannata e coperta di petali di rose da un milione di persone. Non con un attentato e un bagno di sangue, come per questo suo secondo rientro dell’esilio quest’anno. Due anni dopo, Benazir era diventata la prima donna eletta alla testa di un paese islamico. Affascinando il mondo intero con il suo portamento nobile e austero, e la bellezza del viso incorniciato dall’inseparabile foulard di seta bianco. Una differenza tra le due signore è però che Aung San Suu Kyi non ha mai governato, e non si è mai esposta alla minima accusa di malgoverno o malversazioni, mentre Benazir Bhutto ha governato il Pakistan per due riprese, e per due volte è stata cacciata da ondate di malcontento popolare, accompagnate da infamanti accuse di corruzione. Aveva sposato l’elegante Asif Ali Zardari, un figlio di papà ricchissimo, con fama da playboy, e l’aveva nominato ministro nel suo governo. Lo chiamavano “Mister 10 per cento”, secondo le stime del Wall Street Journal la coppia avrebbe accumulato in quegli anni da 100 milioni a un miliardo e mezzo di dollari in conti svizzeri. Lui fu processato, lei ha sempre detto che erano calunnie messe in giro dagli avversari politici, e - cosa che le fa onore - ha rifiutato di divorziare dal marito per rifarsi una verginità politica. Significativo che torni ad essere la speranza del Pakistan, malgrado questa fama. Evidentemente le alternative vengono considerate molto peggiori.

Pubblicato il: 10.11.07
Modificato il: 10.11.07 alle ore 8.22   
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