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Autore Discussione: Paolo Prodi - Settimo non rubare  (Letto 2436 volte)
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« inserito:: Ottobre 31, 2007, 12:24:25 am »

Settimo non rubare

Paolo Prodi


Negli ultimi anni quando ho chiesto agli studenti i dieci comandamenti ho avuto risposte sempre più negative. Capisco il non ricordarsi «non desiderare la donna d’altri», ma in realtà se uno non sa i 10 comandamenti del Decalogo non capisce nulla della storia dell’occidente. Questo, devo essere ben chiaro, è un ragionamento che non ha nulla a che vedere con la rivendicazione delle radici cristiane o ebraico-cristiane dell’Europa. Il problema più grave è che gli studenti si stupiscono pure della domanda. Vuol dire che la storia la insegniamo male, ma vuol dire anche che non possono capire nulla del pensiero e della letteratura occidentale da Dante a Shakespeare a Dostoevskij...

Vuol dire che anche le scuole inferiori ormai non forniscono più la cultura generale minima di base, ma vuol dire anche che nelle lezioni di religione nelle scuole e anche nelle scuole di catechismo delle parrocchie (che pure una minoranza continua a frequentare) non si parla quasi mai di Bibbia o di Scrittura, di Vecchio e Nuovo Testamento, ma di altre cose come i comportamenti sessuali e simili. Qui vogliamo parlare in modo storico del comandamento «Non rubare», il settimo nell’ordine tradizionale del Decalogo mosaico (dal libro dell’Esodo cap.20) e il quarto della seconda Tavola secondo la tradizione evangelico-luterana (che divide i primi tre comandamenti che riguardano Dio dai seguenti che riguardano il prossimo e la società). (...)

Il rapporto tra il sacro, la religione e il mercato è stato fatto oggetto di migliaia di studi, particolarmente dopo la provocatoria opera di Max Weber di circa un secolo fa sullo spirito protestante e le origini del capitalismo, tesi come è noto, ampliata poi dallo stesso Weber in modo molto esteso nel tempo e nello spazio ai temi della razionalizzazione e della de-magificazione del mondo. Non intendo entrare in queste intricate discussioni storiografiche (superate in gran parte dalle ricerche concrete di storia economica sul periodo pre-industriale) ma cercare di ripercorrere un’altra strada: non quella della storia delle idee - sulla concezione positiva della ricchezza come segno della predestinazione o del benvolere della divinità - ma quella della presenza di norme sui comportamenti economici. Un cammino che va dal pluralismo degli ordinamenti giuridici del medioevo (diritto naturale-divino, diritto positivo, canonico e civile) al rapporto della coscienza personale con il diritto statale dell’età moderna .

La tesi è quindi che tra l’XII e il XVII secolo il concetto e la prassi del “furto” è cambiata radicalmente in Occidente insieme ai concetti e alla realtà di "ricchezza" e di "povertà" e che questo mutamento ha costituito una componente importante sulla strada verso la modernità. Si è passati dalla concezione immobile basata sulla tradizione ebraica del VII comandamento della legge di Mosé («Non furtum facies», Esodo, 20,15 ) e sulla legge naturale («Suum cuique tribuere») ad una concezione dinamica del furto come infrazione delle concrete regole della comunità umana nel possesso e nell’uso dei beni di questa terra, come violazione fraudolenta di un patto contrattuale, sia formalmente stipulato tra due o più soggetti, sia implicitamente compreso nei patti di convivenza di una comunità. Rimane naturalmente anche il furto in senso "volgare" in una società ancora contadina nella sua quasi totalità, nella quale l’abigeato rimane il delitto più grave nella sua frequenza quotidiana, ma la sua importanza sembra marginale: la punizione viene lasciata facilmente alla legge positiva della comunità o del principe nella sua semplice crudeltà, testimoniata da innumerevoli e spietate sentenze, in proporzione alla gravità del furto stesso, al valore delle cose rubate.

È stato scritto che durante l’età moderna è avvenuta una profonda mutazione nell’immagine dell’uomo criminale: nel XVI secolo esso si identifica con l’immagine dell’eretico, nel XVII con quello della strega e nel XVIII con quella del vagabondo, bestia feroce che bisogna inseguire senza pietà. Vorrei allargare il concetto dicendo che criminale per eccellenza diviene sì il vagabondo ma in quanto persona che rifiuta la proprietà e il mercato e quindi è almeno potenzialmente ladro o eversivo del sistema. Su questo comportamento deviante si esercitano sia le Chiese che lo stato per mantenere la loro autorità: dalla sua parte il mercato approfitta di questa concorrenza per mantenere un suo potere autonomo, sempre condizionato ma mai dominato del tutto dalla sacralità o dalla politica.

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I peccati contro il mercato [/CITTA]

Il problema è che il mercato in quanto soggetto collettivo non può essere peccatore ma soltanto i singoli protagonisti del mercato in quanto tendano a violarne le regole. Naturalmente le regole possono essere manomesse, per deformare la vita del mercato, sia dall’interno, dai singoli attori, sia dall’esterno, da forze che possono anche sfuggire alla responsabilità del singolo mercante e che tendono a deformare l’andamento naturale delle contrattazioni.

La laesio enormis, l’unico strumento giuridico previsto dal diritto romano ( accanto alle categorie penali del dolo e della frode) per la risoluzione del contratto quando il prezzo di un bene è ritenuto superiore al doppio o inferiore alla metà del valore reale appare come un ferrovecchio, ripreso sempre dai giuristi, dai civilisti ed anche dai canonisti, ma in modo sempre più ripetitivo e marginale rispetto al nuovo bagaglio concettuale con il quale si affronta il problema delle regole del mercato. Rimane certo il detto romanistico, ripetuto anche da canonisti e teologi "res tantum valet quantum vendi potest", ogni cosa vale soltanto il prezzo a cui si riesce a venderla, ma in un contesto del tutto nuovo: chi determina il prezzo è il mercato ed è la violazione delle regole del mercato che è peccato. (...)

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Riflessioni non conclusive[/CITTA]

Il tema del furto ci aiuta a capire che anche per quanto riguarda il mercato stiamo uscendo da un’epoca: il dualismo nel quale il mercato occidentale si è sviluppato negli ultimi secoli nella dialettica tra i due piani di norme, quelle positive e quelle morali, tra potere politico e potere economico, tra il furto come peccato e il furto come reato sta finendo. Questo dualismo è ora messo in crisi (come la stessa democrazia) per la tendenza dell’economico ad inglobare in un nuovo monopolio del potere tutta la vita dell’uomo.

Non sono certo mancati nei secoli dell’età moderna i tentativi di ricostruire il monopolio del potere precedente alla nascita del mercato: gli Stati teocratici dell’età confessionale, lo stato imprenditore del Settecento, lo Stato-nazione imperiale dell’Ottocento e da ultimo le religioni secolarizzate, politico-imperiali, del comunismo e del nazi-fascismo. Ma in complesso si può affermare che il dualismo, come non coincidenza del potere politico con quello economico e come compresenza e concorrenza di norme etiche e di norme di diritto positivo all’interno del mercato, come l’abbiamo conosciuto noi uomini dell’Occidente, come fonte di libertà e di sviluppo dell’uomo, era stato sino ad ora mantenuto anche all’interno della società secolarizzata e ha permesso lo sviluppo delle nostre libertà e del welfare state.

Oggi siamo a rischio di uscire da questa nostra storia occidentale: non si tratta soltanto di globalizzazione in senso spaziale, anzi a mio avviso la discussione sulla globalizzazione può costituire un grande alibi. In realtà l’egemonia del potere economico planetario su un potere politico in crisi ( incapace di superare la forma dello Stato moderno) e sulle norme etiche minaccia direttamente la sopravvivenza stessa del mercato come noi l’abbiamo conosciuta nella sua dialettica secolare. Sembra evidente a qualsiasi osservatore della realtà economica attuale che il confine tra il rubare e il non rubare, tra il furto e il comportamento "onesto" diventa sempre più incerto di giorno in giorno come sempre più incerto appare il confine tra la proprietà privata e il bene comune. Gli scandali più grandi, le grandi truffe finanziarie (Enron, Parmalat, bonds argentini ecc.) sono noti a tutti ma dobbiamo essere ben coscienti che si tratta soltanto delle più alte vette di un sistema montuoso costituito da un’enorme catena di furti impuniti o quasi legalizzati.

Soprattutto, al di là degli scandali e dei casi di corruzione su cui si punta l’attenzione dell’opinione pubblica, siamo in presenza di patologie e trasformazioni ben più profonde e invasive. Pensiamo ai capitali “senza fissa dimora” ma anche ai mutamenti emersi proprio di recente: sembra che le cose stiano cambiando e che con lo sviluppo dei “sovereign wealth fund” o “fondi sovrani di investimento” i capitali si stiamo costruendo nuove case economico- politiche: si tratta di un trasferimento non soltanto semantico della “sovranità” dallo Stato moderno a nuove dimore che entro il prossimo 2011 potrebbero già superare per riserve valutarie le banche centrali di tutti gli Stati del pianeta.

Il prevalere dell’economia finanziaria sull’economia reale, lo sviluppo delle false privatizzazioni nelle quali la proprietà diviene privata ma di fatto rimane un monopolio o quasi monopolio; l’aumento incredibile delle rendite rispetto ai redditi di lavoro e la sperequazione all’interno stesso delle retribuzioni (che ha distrutto il concetto cardine del “giusto salario”) sono tutti fenomeni che hanno messo oggettivamente in crisi l’ordine e i valori tradizionali della proprietà, del mio e del tuo.

Si va verso la riscoperta, anche con l’aiuto delle nuove tecnologie informatiche, di una nuova “contractual society” o si cade nelle mani delle grandi corporazioni e dei possessori degli strumenti di comunicazione? Non lo sappiamo, ma certo siamo di fronte a grandi mutamenti. L’anno passato è stato discusso presso la Corte suprema degli Usa la legittimità dell’affissione nelle aule dei tribunali delle tavole del decalogo. Il volerle esporre nell’aula del tribunale rivela una tentazione fondamentalista, il tentativo di sacralizzare il diritto positivo. Ma il mercato (almeno quello che noi abbiamo conosciuto) deve ricevere dall’esterno le proprie regole e i propri scopi: deve misurarsi con il potere politico, con la democrazia e con l’etica della fiducia. Anche il decalogo da qualche parte, al di fuori dei tribunali e dentro le coscienze, ci deve essere.



Il testo è tratto dalla lezione magistrale che Paolo Prodi ha tenuto ieri all’Università di Bologna in occasione del suo 75esimo compleanno e che segna “l’ultima lezione” del professore, a lungo titolare della cattedra di Storia Moderna all’Alma Mater. La lezione di ieri, dal titolo «Non rubare: il VII comandamento nella storia occidentale», fa parte di una più ampia ricerca che Paolo Prodi sta svolgendo attualmente.


Pubblicato il: 30.10.07
Modificato il: 30.10.07 alle ore 11.35   
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