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Autore Discussione: Una manovra priva di dinamismo  (Letto 3546 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Ottobre 17, 2015, 05:24:17 pm »

Una manovra priva di dinamismo
Pubblicato: 15/10/2015 20:32 CEST Aggiornato: 15/10/2015 20:32 CEST

Una manovra economica priva di dinamismo. Una manovra difensiva, che manca di una spinta propulsiva e anche un po' di anima. Con poco o niente per imprese e lavoratori ma con un occhio non marginale alle prossime scadenze elettorali. Una manovra che purtroppo rivela l'inconfessabile: soldi non ci sono, l'Italia è un paese ancora in crisi o che al massimo sta appena mettendo la testa fuori dall'acqua e quindi più di questo non si può fare, almeno per ora. Lapidario e illuminante a questo proposito il commento tutt'altro che entusiasta di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: "Il massimo attualmente possibile".

Va indubbiamente riconosciuto come Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan abbiano avuto il grande merito di non alzare le tasse e anzi tagliarle. Tuttavia nella Legge di Stabilità c'è poco o niente a favore di aziende e lavoratori. In altri termini, non c'è nessuno stimolo reale che possa aiutare il nostro paese ad avere quello scatto di reni fondamentale per duplicare il tasso di crescita l'anno prossimo e quelli a venire. Manca un po' quella scossa che invece nei primi 18 mesi di governo Renzi era riuscito a dare e chi scrive gli ha ampiamente riconosciuto (vedi alle voci 80 euro, taglio dell'Irap, sgravi per le assunzioni e Jobs Act). "Il taglio della tassa sulla casa stimolerà i consumi", ci potrebbe rispondere il Presidente del Consiglio. Purtroppo non è proprio così, visto che Bankitalia, Ocse e tanti altri istituzioni economiche ripetono da tempo come non ci sia nessuna evidenza di un automatismo fra i due fenomeni e anzi in realtà bisognerebbe sempre privilegiare la tassazione sugli immobili rispetto a quella sul lavoro. Dalle parti di Bruxelles ce lo ricordano a ogni piè sospinto, ma Roma preferisce seguire la stella polare delle prossime Amministrative di primavera.

Se si vanno a prendere le singole misure, viene fuori che quasi tutta la manovra da 27 miliardi consiste nell'evitare l'aumento delle clausole di salvaguardia ovvero l'aumento automatico di Iva e accise in copertura a spese fatte in passato (17 miliardi) e abolire la tassa sulla casa e l'Imu agricola (circa 5 miliardi). Per il resto ci sono tante piccole misure da poche centinaia di milioni di euro e quindi dalla dubbia efficacia per stimolare la crescita o per l'equità sociale. Qualche esempio? I 600 milioni per la povertà, i 300 milioni per il rinnovo dei contratti pubblici, i 400 milioni per il sociale e così via. Pochi spicci nel bilancio statale. Una serie di micro-misure spot più adatte per riempire di tweet la conferenza stampa post-manovra che per avere un reale effetto sul pil.

E poi c'è la grande assente: sua signora Spending Review. Croce senza delizia di tutti i premier che l'hanno annunciato senza mai attuarla, anche Renzi purtroppo ha dimostrato una certa impotenza nel combattere la sempre affamata bestia della macchina pubblica. Dei tanto sbandierati 10 miliardi di tagli, alla fine sì e no si riuscirà ad arrivare alla metà. E lo si farà con quei meccanismi ben noti a tutti i governi precedenti, sia che a via Venti settembre fosse seduto Giulio Tremonti che Fabrizio Saccomanni: tagli lineari o semilineari ai ministeri e mannaia sulla spesa sanitaria - e quindi in ultima analisi alle Regioni. Non a caso il professore Roberto Perotti - incaricato di buttare giù una lista di interventi assieme al fedelissimo renziano Yoram Gutgeld - ha lasciato la cabina di regia di palazzo Chigi in modo tutt'altro che pacifico. Per non parlare poi delle altri fonti di copertura della manovra, tutt'altro che strutturali: 13 miliardi in deficit grazie alla "benevolenza" europea, 2 dal rimpatrio dei capitali esteri e uno dalla tassazione sui giochi. E 6 miliardi ancora ballerini, visto che né Renzi né Padoan hanno chiarito da dove verranno.

Insomma, una manovra senz'anima, che non apre nel migliore dei modi quella che dovrebbe essere la fase due del governo Renzi, fase partita l'istante dopo che il premier ha incassato con larga maggioranza le riforme costituzionali. Invece per far ripartire davvero l'Italia ci sarebbe bisogno di una vera campagna a favore di imprese e lavoratori, altro che Tasi. Non resta allora che sperare già nella Finanziaria 2017.

Da - http://www.huffingtonpost.it/gianni-del-vecchio/manovra-priva_b_8305726.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 17, 2015, 05:31:55 pm »

Spending review, Roberto Perotti lascia Palazzo Chigi e torna alla Bocconi.
I tagli si fermano a 6 miliardi, a metà dell'opera

Andrea Carugati, L'Huffington Post
Pubblicato: 14/10/2015 18:50 CEST Aggiornato: 3 ore fa

La scena si consuma una settimana fa a palazzo Chigi. Roberto Perotti, 54 anni, ordinario di Economia politica alla Bocconi, da un anno consulente economico di palazzo Chigi e commissario alla spending review, ha appena finito di leggere le ultime bozze della legge di Stabilità. E non è per nulla soddisfatto. Del suo lavoro sulla spending, un lavoro certosino e pronto all’uso, non c’è praticamente nulla. Soprattutto mancano i tagli più qualificanti: ai ministeri, alle partecipate, agli stipendi dei dirigenti dell’apparato centrale e locale. Dopo un anno di lavoro gratuito a fianco di Renzi, è il momento di mettere la parola fine. Il premier si sforza di convincerlo a restare, raccontano fonti di palazzo Chigi. Promette che i tagli si faranno al più presto. Ma il prof è irremovibile. E decide di lasciare la “war room” di palazzo Chigi, senza però dimissioni formali alla vigilia della manovra. I due si lasciano con un punto interrogativo. “Dobbiamo riparlarne”. Da quel momento Perotti smette di seguire la manovra in prima persona. Si fa da parte. Potrebbe rientrare- spiegano fonti di palazzo –solo davanti alla prova di una “reale volontà politica” del governo di mettere mano ai tagli. Quella volontà che finora è mancata. L’occasione potrebbe essere l’anticipo di alcuni dei decreti attuativi della riforma della Pa targata Madia.

Del lavoro sui tagli alla spesa iniziato nel settembre 2014, a fianco del deputato dem Yoram Gutgeld è rimasto poco: solo 6 i miliardi di tagli che saranno effettivamente realizzati a fronte dei 10 più volte annunciati dal governo. Di questi, 2 miliardi saranno di mancato aumento al Fondo sanitario. Con un risultato che rischia di assomigliare pericolosamente alle finanziarie fatte di tagli lineari.

La separazione tra Perotti e Renzi, raccontano le fonti di palazzo, non è stata polemica. Il premier ha cercato di trattenere il professore, il quale però è rimasto sulla sua posizione. Della serie: per restare serve una chiara inversione di rotta, altrimenti è tempo sprecato. Del resto, dopo un anno di “servizio civile” (la definizione l’ha coniata Renzi per un altro consulente, Andrea Guerra), è plausibile che Perotti abbia deciso di tornare al suo lavoro. E tuttavia colpisce il fatto che in questo primo semestre il professore non debba tenere lezione alla Bocconi. Inizierà solo nei primi mesi del 2016. E il suo incarico al governo non aveva una data di scadenza, ma era legato alla durata dell’esecutivo. E dunque, al netto dei rapporti cordiali col premier, sembra prevalere la maledizione dei commissari, che prima aveva colpito altri professionisti del calibro di Enrico Bondi e Carlo Cottarelli: la difficoltà nell’infilare il bisturi dentro la carne viva degli sprechi italici, senza tagliare i servizi. “Il mio lavoro è finito, ora la palla passa al governo e al Parlamento”, ha detto Perotti a chi lo ha contattato nelle ultime ore. Il premier, del resto, avrebbe voluto che la notizia delle dimissioni uscisse solo dopo il sì alla manovra, ma è filtrata prima.

Del lavoro fatto in un anno insieme a Gutgeld, resta praticamente solo il mega accorpamento delle centrali di acquisto, da 32mila a 35, a cui ha lavorato il deputato renziano. Niente invece sui delicati capitoli delle partecipate, dei tagli non lineari ai ministeri, della rivisitazione delle agevolazioni fiscali e dei sussidi alle imprese. Niente sul taglio degli stipendi ai dirigenti delle regioni e dei ministeri, nel delicatissimo fronte dei costi della politica.

A palazzo Chigi il timore è che la notizia delle dimissioni di Perotti (che il premier ha in qualche modo congelato fino a dopo la sessione di bilancio, con l’avallo del professore) venga letta come un modo per non mettere la firma sulla manovra che verrà partorita giovedì dal Consiglio dei ministri di giovedì. Una preoccupazione fondata, salvo sorprese della ultima ora. I numeri, del resto, parlano chiaro: dei 6 miliardi di tagli, 2 sono di mancato aumento del fondo sanitario; altri 1,5 miliardi derivano dall’accorpamento delle centrali di acquisto, e 1,5 dai tagli ai ministeri. Nel totale, è previsto un altro miliardo da altre voci ancora non dettagliate. I tagli ai ministeri non sono quelli previsti da Perotti, ma col vecchio meccanismo semi-lineare, con una media del 3% che però maschera i minori tagli ai comparti della Difesa, Sviluppo, Agricoltura e Ambiente. Stop al taglio delle agevolazioni fiscali e dei sussidi alle imprese, e anche al progetto di calare la scure su almeno un migliaio delle 8mila partecipate. La stessa Nota di aggiornamento del Def, che parla di una maggiore “gradualità” della spending, ricorda i ritardi accumulati da Regioni, enti locali e università nella predisposizione del piano sulle partecipate.

In zona Cesarini, il governo potrebbe decidere di anticipare alcuni decreti attuativi della riforma Madia della Pa. Ma in ogni caso i risparmi previsti per il 2016 resterebbero sotto il miliardo. E così, di quei 6 miliardi di tagli per il 2016, poco o nulla può essere definito seriamente come una spending review. Per coprire una manovra da 27 miliardi, il governo sta pensando, oltre ai margini di flessibilità europei (13 miliardi di richiesta a Bruxelles di cui 6,5 già certi) e al rientro dei capitali dall’estero (già 2 miliardi incassati a fine settembre) ad alcune “una tantum”, da agganciare ad altre clausole di salvaguardia. Con il rischio di scaricare una parte cospicua della manovra 2016 sull’anno successivo. Un menu assai diverso dagli auspici del ministro Padoan. E assai lontano dal lavoro certosino di tagli predisposto dal professore della Bocconi. In queste ore tra palazzo Chigi e via Venti settembre il lavoro sui testi e sui numeri è incessante. Renzi preme per aggiustare in corsa la direzione di una manovra che rischia di deludere molte aspettative da lui stesso suscitate. Ma, dopo il successo in Senato, non è detto che stavolta riesca a centrare l’obiettivo.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/10/14/spending-review-perotti-lascia-palazzo-chigi_n_8295436.html?1444841435&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 17, 2015, 05:36:13 pm »

DOMENICO GALLO - Le controriforme di Renzi e la profezia nera di Cossiga

Sono troppi anni che in Italia è stata imposta nel dibattito pubblico un’accesa discussione sull’esigenza di profonde riforme costituzionali ed istituzionali, al punto che ormai è penetrato nel senso comune lo stereotipo che la Costituzione del 1948 sarebbe un ferrovecchio di cui bisogna sbarazzarsi in nome della democrazia per far “crescere” il nostro paese. Pochi ricordano che questa discussione è partita dal vertice del potere politico, ha una ben precisa data di inizio ed un suo profeta: Francesco Cossiga.

Fu il Presidente della Repubblica dell'epoca che, il 26 giugno del 1991, mandò un formale messaggio alle Camere istigando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema dell’indipendenza della magistratura e ad abbandonare il sistema elettorale proporzionale a favore di un sistema maggioritario. Con questo messaggio Cossiga dichiarava obsoleto il modello di democrazia costituzionale prefigurato dai Costituenti, in quanto frutto della guerra fredda che avrebbe indotto i Costituenti stessi ad organizzare un potere “debole” custodito da garanzie “forti”, anziché un potere forte e stabile, svincolato da garanzie forti.

Quella che contestava Cossiga, in realtà, era l'impostazione antitotalitaria che aveva guidato le scelte dei Costituenti, determinati ad evitare che in Italia si potesse verificare un'eccessiva concentrazione di potere nelle mani dei capi politici, a scapito dello Stato di diritto e dei diritti dei cittadini, come era avvenuto con l'esperienza del fascismo.

L’esigenza delineata da Cossiga nel suo “profetico” messaggio alle Camere è quella di dare più potere al potere, di ridimensionare il sistema di pesi e contrappesi che fa sì che il potere di ogni organo trovi un limite nel potere di altri organi e che l’esercizio di ogni funzione di governo sia vigilata da robuste istituzioni di garanzia, capaci di assicurarne la conformità al diritto e di tutelare i diritti inviolabili dei cittadini. L’aspirazione è sempre stata quella di ricreare nuovamente un governo forte, se non addirittura un uomo forte, capace di realizzare la sua missione di governo, senza essere ostacolato dalle istituzioni rappresentative e da quelle di garanzia.

Dare più potere al potere è stato il leitmotiv che ha guidato il ventennio appena trascorso e le riforme che sono state praticate sia in tema di leggi elettorali che di modifiche formali alla Costituzione. Lungo i binari posti da Cossiga hanno viaggiato tutti i tentativi di riforma della democrazia costituzionale italiana, praticati nel tempo, con esiti vari, sia attraverso le riforme elettorali, sia attraverso le riforme della Costituzione del 48.

Il problema è che adesso questo lungo viaggio sta per terminare. Quando andranno a regime la riforma elettorale (Italicum), la riforma del Senato, la riforma della pubblica amministrazione (che demolisce il principio costituzionale dell'imparzialità e del buon andamento), la riforma della scuola (che assoggetta l'istruzione pubblica ad una logica aziendale), le varie riforme del mercato del lavoro (che riconducono il lavoro a merce), allora si sarà completato un processo di vera e propria sostituzione del modello di democrazia, del modello di Stato e del modello economico sociale delineati nella Costituzione della Repubblica italiana.

Tutte queste riforme sono convergenti verso la creazione di un nuovo quadro istituzionale che si realizza con la figura dell’uomo solo al comando e con la sterilizzazione, se non l’abiura dei principi e dei valori che la Costituzione a posto a base della vita della Repubblica.

In questo contesto bisogna valutare l'ultima battaglia che si sta combattendo in questi giorni al Senato, intorno alla riforma/cancellazione del Senato ed al ridimensionamento dei poteri della Camera dei Deputati. In questo contesto risalta l'assurdità del compromesso sulla semi-elezione popolare dei senatori che ha fatto alzare bandiera bianca alla minoranza PD. Si tratta di compromesso che non restituisce ai cittadini il potere di elezione diretta dei senatori e lascia irrisolti tutti gli altri nodi.

In particolare: la sottrazione alle Regioni di ogni possibilità di governo del territorio; la sostanziale attribuzione al Governo del controllo dell’agenda dei lavori della Camera dei Deputati, già mortificata e sottoposta alla supremazia dell’esecutivo in virtù della legge elettorale voluta dal governo Renzi che garantisce al partito vincitore un premio di maggioranza sproporzionato come e peggio che nel "porcellum", l’eliminazione della garanzia della doppia lettura per le leggi che riguardano i diritti fondamentali dei cittadini; la sproporzione numerica fra senatori (100) ed i Deputati (630) che rende irrilevante il ruolo del Senato nell’elezione del Presidente della Repubblica.

La riforma costituzionale è un po' la linea del Piave sulla quale si può arrestare la controrivoluzione in atto. Riusciremo ad impedire che si realizzi la profezia nera di Cossiga?

Domenico Gallo, da Adista
(6 ottobre 2015)

Da - http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/10/06/domenico-gallo-le-controriforme-di-renzi-e-la-profezia-nera-di-cossiga/
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