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Autore Discussione: Antonio PREITI. Lo Stato che sceglie per noi: perchè una rivoluzione liberale...  (Letto 4127 volte)
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« inserito:: Ottobre 08, 2015, 12:06:27 pm »

Lo Stato che sceglie per noi: perchè una rivoluzione liberale pop è quello che ci serve

Pubblicato: 28/09/2015 11:30 CEST Aggiornato: 28/09/2015 11:37 CEST

Antonio PREITI
Economista, Sociometrica, Censis

Chi ha bisogno delle cure mediche vorrebbe poter scegliere il medico, ma non può: avrà quello che il servizio pubblico sceglierà per lui. Ogni genitore vorrebbe l'insegnante perfetto per suo figlio, vorrebbe poter scegliere a chi affidarlo: ma non può, avrà quello che l'alchimia di graduatorie e circolari sceglieranno al suo posto. Ognuno vorrebbe, decidendo di andare alle Eolie o in Sardegna, avere tre/quattro servizi alternativi fra cui scegliere, ma non può, perché ne trova uno solo con orari, prezzi e frequenze che il titolare della concessione avrà deciso. Tutte situazioni in cui qualcuno sceglie per noi, e su cose fondamentali, essenziali e personali.

Queste domande sarebbero superflue se solo pensassimo che, magicamente, tutti i medici fossero bravi allo stesso modo, tutti gli insegnanti bravi allo stesso modo, tutti i gestori dei trasporti efficienti allo stesso modo. È evidente che non sia così: quanti racconti sul medico che sbaglia; sull'insegnante che nessuno vorrebbe avere per suo figlio; quanti clienti costretti a usare un servizio pubblico senza qualità. D'altronde è normale che sia così: non tutti gli avvocati sono bravi, non tutti gli architetti sono bravi, non tutti i commercianti sono bravi e così per ogni categoria. È piuttosto difficile pensare che con l'intermediazione dello Stato, tutti diventino uguali: sappiamo che non è così.

Perché in questi servizi, che potrebbero essere conclusi nella relazione tra famiglie e insegnanti nella scuola; tra medico e paziente nella sanità; tra clienti e società di gestione nei trasporti, c'è un terzo soggetto, appunto lo Stato, che è il vero sovrano di queste relazioni? La conseguenza è che il medico risponde certamente, secondo deontologia, al paziente, ma non sarà il giudizio del paziente a decidere la sua carriera, ma le dinamiche delle aziende sanitarie, cioè il soggetto pubblico; l'insegnante certamente dialoga con le famiglie, ma non saranno le famiglie a definire la sua carriera (anzi, in questo caso non c'è neppure una carriera possibile, e solo la legge sulla buona scuola ha introdotto finalmente dei premi); l'azienda che gestisce i trasporti, una volta ottenuto il monopolio dal concessionario, si occupa fondamentalmente di negoziare, sempre con il soggetto pubblico, i termini della concessione, al cliente non resta che l'unico potere di acquistare o meno il biglietto, ma se c'è un monopolio sarà costretto a farlo anche contro la propria volontà.

Allora si arriva a chiedere allo Stato di controllare: deve controllare i medici, deve controllare gli insegnanti, deve controllare le aziende che gestiscono i servizi pubblici. Ma è forse lo Stato capace di controllare la scuola meglio delle famiglie che la vivono ogni giorno o meglio del paziente che mette la sua vita (alle volte) alla prova dell'efficienza dei servizi sanitari?

Ogni servizio è perciò dominato dallo Stato che spesso stabilisce le regole (il che è naturale), qualche volta gestisce direttamente, naturalmente in monopolio, un servizio (il che è meno naturale) e spesso controlla la bontà del servizio stesso. Naturalmente si riserva anche il potere sanzionatorio, perciò svolge tutte le parti in commedia e al cliente/fruitore/utente rimane solo un potere residuale. O meglio, ha un potere generico e onnicomprensivo, indiretto, che si esprime solo nel momento del voto, quando sceglie da chi farsi governare.

Questo crea un peso enorme dei poteri pubblici, che gestiscono direttamente la metà della ricchezza nazionale prodotta, ed esercitano un'influenza su tutto il resto. Lo Stato è monopolista per definizione, gli è stato affidato il monopolio della violenza, della giustizia, della difesa nazionale, ma ha assunto altri ruoli, che per natura tende a rendere monopoli o a sostituire al monopolio pubblico quello privato, che per i cittadini cambia poco, e talvolta in peggio.

Per alcune imprese e per alcune categorie economiche la probabilità del successo non si gioca sul piano del mercato (conquistare i clienti per la qualità dei propri servizi e prodotti) ma nella conquista di un monopolio, o nell'avvicinarsi il più possibile. Esempio: ottengo una concessione pubblica per il monopolio dei trasporti per un'isola. A quel punto il gioco è fatto: nessuno può mettersi in competizione e il vero punto d'impegno è negoziare con il concessionario pubblico le tariffe e le condizioni di esercizio. I clienti sono sagome senza volto e senza potere.

Altro esempio: sono un medico sportivo, non c'è bisogno che io conquisti il mio mercato con le qualità del mio servizio, basta rendere obbligatorio per legge un certificato per le attività sportive, che può essere firmato solo da coloro che sono iscritti all'albo dei medici sportivi e il gioco è fatto. Con una norma di legge si limita così il mercato. Anche in questo caso i clienti sono sagome senza volto e con un potere di scelta limitato a un piccolo sottoinsieme di quanti teoricamente potrebbero offrire lo stesso servizio. C'è persino una legge che obbliga i ristoratori a presentare l'olio non in un'oliera, come l'eleganza suggerirebbe, ma in bottiglia e con un beccuccio che impedisca il riversamento. La lobby dei produttori di olio sostiene che così s'impedisce al ristoratore di sostituire l'olio certificato. Insomma, lo Stato subentra al giudizio dei consumatori e s'inventa una funzione di difesa (velleitaria) d'un interesse particolare. Gli esempi sono innumerevoli: ognuno può cercare i suoi.

A questo punto ogni impresa, persino ogni persona, se potesse, vorrebbe farsi Stato, vorrebbe una norma "ad hoc" che favorisca i suoi interessi.

È talmente ubiquo e molecolare il modello statuale, che persino i privati, talvolta, ne mutuano l'atteggiamento. Ma lo Stato è un cattivo maestro, perché pensa alle procedure, non ai risultati; è plasmato dalla cultura giuridica, non da quella economica; è abituato a esercitare le sue funzioni in maniera prescrittiva per i cittadini. Ecco il punto centrale: nelle funzioni pubbliche parte dell'esercizio è potere e parte è servizio. La proporzione cambia da situazione a situazione, ma c'è una tendenza naturale a preferire il primo aspetto. Perciò lo Stato è un cattivo maestro per definizione, perché non ha nessuna necessità di conquistare il consenso dei suoi utenti.

La vera rivoluzione del paese, quella che ne può cambiare radicalmente i destini è proprio nel ribaltamento di questa concezione statalista, monopolista, in cui si vince non rendendo felice (per quanto possibile) chi paga i servizi, ma per la capacità di ottenere rendite di posizione nell'ambito dello Stato, e delle sue leggi. Il riformismo ha la sua anima più significativa, più emozionale, più vera, proprio nell'abbracciare l'idea di consentire più potere alla società civile, a ciascuno nel ruolo di consumatore, di cittadino, di utente.

La rivoluzione consiste nella diffusione di un antidoto uguale e opposto: consentire che, dovunque sia possibile, ci sia concorrenza, anche fra pubblico e pubblico; ribaltare, dove possibile, il regime delle concessioni, in cui è il cittadino che comunica al potere pubblico l'avvio di un'attività e il pubblico si riserva il potere di controllo; permettere che i fruitori di un servizio pubblico (i pazienti, le famiglie, gli utenti) possano avere strumenti per giudicare la qualità del servizio, ogni volta che è possibile. È su questo che si gioca sia la modernizzazione del paese (nessuno è mai cresciuto sui monopoli, neppure in Cina) sia la possibilità che l'istanza liberale nel nostro paese possa diventare di massa, e non sia semplicemente l'ideologia di chi ha più talento o più potere.

Da - http://www.huffingtonpost.it/antonio-preiti/lo-stato-che-sceglie-per-noi-rivoluzione-liberale_b_8199682.html?utm_hp_ref=italy
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