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Autore Discussione: Piero IGNAZI.  (Letto 59120 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Dicembre 28, 2013, 11:44:15 pm »

Piero Ignazi

Potere&Poteri
Grillo non ci ha salvato dai forconi

La protesta credeva di aver trovato uno sbocco nel voto al Movimento 5 Stelle. Che però ha tradito le attese rivelandosi incapace di tradurre i suoi slogan in iniziative politiche. E così sono arrivate le manifestazioni di piazza. Ma il Pd non ha da consolarsi
   
La protesta è arrivata. Anni di riduzione dei redditi, di limatura dei patrimoni, di disoccupazione e inoccupazione hanno eroso la pace sociale. La pace politica era tramontata nel febbraio di quest’anno con il voto al Movimento 5 Stelle. In quella occasione la rabbia nei confronti di una politica imbelle e di politici forchettoni era stata raccolta da Beppe Grillo. Grazie a lui e al suo movimento la protesta si è incanalata, volente o nolente, in un alveo istituzionale. Va ancora una volta riconosciuto, come già venne fatto in queste pagine ben prima che lo sostenesse lo stesso Grillo, che il voto al M5S ha offerto una valvola di sfogo pacifica agli arrabbiati. Solo che, dopo il voto, è venuto il nulla. L’attività parlamentare dei grillini è stata, ed è, incommensurabilmente inferiore alle attese. L’unica iniziativa di spessore, l’abolizione del reato di clandestinità, che per una volta aveva raccolto il consenso del Pd e di altri partiti, venne subito sconfessata dai dioscuri genovesi. Per il resto, si segnalano solo strepiti e radicalismi.

La mancanza di uno straccio di risultato indebolisce l’appeal del M5S nei confronti delle frange più esasperate e anti-sistemiche. Se anche Grillo viene ricoperto di “vaffa” non ci sono più argini. E infatti, esaurita la carta politica, consumata la speranza (e l’illusione) che nuovi e puliti rappresentati portassero la rivoluzione in Parlamento, non rimane che la piazza. In questi ultimi giorni la protesta è esplosa come un classico movimento sociale, privo di una vera leadership e di interpreti autorizzati, magmatico e confuso, ribellistico e barricadiero. Si presenta allo stato embrionale, ancora limitato a pochi partecipanti. Può esaurirsi in pochi giorni con qualche altra fiammata o può ingrossarsi fino a coinvolgere altre categorie sociali. Finché il sindacato rimane alla finestra e la sua base non dà segni di irrequietezza è probabile che la protesta si esaurisca e i forconi rientrino a casa. Tutt’altro scenario nel caso in cui si incrinasse la pace sindacale. Ma è un’ipotesi remota perché chi protesta oggi lo fa proprio perché non ha rappresentanza. Sono padroncini e partite Iva, commercianti e artigiani. Mentre rimangono ancora di riserva quei lavoratori un tempo definiti atipici e oggi più semplicemente - e drasticamente – precari. Il sindacato non è riuscito negli ultimi anni a dare voce alle categorie del lavoro precario. Lo smantellamento del lavoro salariato, avviato “scientemente” dai neoliberisti e sostanzialmente accettato per pura dabbenaggine anche dalla sinistra, non solo ha rinsecchito l’area dei dipendenti a tempo indeterminato ma ha creato mille figure professionali diverse, spezzando così ogni ipotesi di solidarietà collettiva e ogni capacità di rappresentanza. E ora i sindacati hanno perso i contatti con i segmenti più periferici e marginali della società da un lato, e con quell’enorme serbatoio di lavoro parcellizzato, temporaneo e precario dall’altro. Questa apnea sindacale rispetto al mondo che c’è fuori delle residue fabbriche rende possibile il montare di un movimento sociale anti istituzionale. Qualunque sia l’esito della mobilitazione dei forconi, è evidente che la protesta ha abbandonato la via dell’espressione politica e si è trasferita nelle piazze.

Ma se Grillo ha sostanzialmente fallito e Berlusconi è patetico a pensare di potere cavalcare questo movimento, spetta alla nuova leadership del Pd e al governo de-berlusconizzato trovare una strada per rispondere alla mobilitazione di questa massa indistinta di spaesati dalla crisi. Perché quando una società entra in tensione, lo stato di stress che ne deriva da qualche parte “deve” trovare sbocco. E per quanto Pd e governo parlino da tempo della priorità del lavoro non è ancora stato presentato quel progetto che possa riaccendere la speranza. Il balletto indecente sull’Imu, le timidezza sulla detassazione e sul cuneo fiscale, la non-riforma del mercato del lavoro impediscono a questa maggioranza di offrirsi come interpreti del malessere. Con il rischio che i meno garantiti non guardino più ai partiti di sinistra ma alle formazioni populiste, un tempo incarnate dal forza-leghismo, oggi dal grillismo.

27 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2013/12/18/news/grillo-non-ci-ha-salvato-dai-forconi-1.146560
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« Risposta #91 inserito:: Gennaio 24, 2014, 05:51:05 pm »

Piero Ignazi
Potere&Poteri

Alfano decida cosa fare da grande
Le scissioni in Italia hanno poco successo. Eppure il Nuovo centro democratico una possibilità ce l’ha: presentarsi agli elettori come una destra moderata, fedele agli ideali del Ppe. Prima però deve fare i conti con il berlusconismo
   
Poche scissioni hanno avuto fortuna nella storia dei partiti italiani. La più celebre, fortunata elettoralmente ma famigerata politicamente, fu quella comunista, nel 1921, durane il congresso del Partito socialista italiano. Nel dopoguerra furono ancora i socialisti al centro di devastanti conflitti interni: i socialdemocratici di Saragat abbandonarono il Psi di Nenni nel 1947 (e poi, dopo la riunificazione, se ne andarono di nuovo nel 1969) e nel 1964 fu la volta dei massimalisti del Psiup, contrari al centro-sinistra. Infine toccò al Pci, quando si trasformò in Pds dopo la caduta del Muro, subire la fuoriuscita dei nostalgici di Rifondazione comunista. Anche negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a spaccature a divisioni: nessuna di queste ha resistito a lungo. Futuro e Libertà, creatura di Gianfranco Fini, aveva le caratteristiche per potersi radicare: un leader riconosciuto e di prima grandezza, un retroterra organizzativo, una cultura politica ben distinta dalla casa madre. Ma gli errori tattici e strategici lo hanno perduto.

Ultimo arrivato è il Nuovo centro destra (Ncd) di Angelino Alfano. Per la formazione nata da una scissione del Pdl il futuro si presenta incerto. Al Ncd mancano un leader di provata esperienza politica (Alfano non ha il curriculum di Fini), una classe dirigente legata a lui da antiche fedeltà e, soprattutto, una visione politico-ideologica ben definita, riconoscibile e alternativa rispetto alla formazione di origine. In compenso il Ncd asserisce, in un sito peraltro drammaticamente povero di contenuti, di aver raccolto l’adesione di 2.500 amministratori locali (molti, in effetti) e ha organizzato un meeting di fondazione con molti partecipanti, naturalmente entusiasti. Al di là di tutto ciò, il suo asset consiste nella collocazione strategica: è indispensabile per la sopravvivenza del governo. Per Letta, una garanzia. Se il Ncd si stacca crolla tutto e non si ritorna certo indietro: le larghe intese sono morte e sepolte (e si spera sia così anche in futuro). Di rapporti civili con Grillo non ce n’è nemmeno l’ombra e quindi l’unica alternativa sono nuove elezioni. Letta e Alfano sono legati come fratelli siamesi. Se vogliono proseguire devono accettare di buon grado una netta curvatura “democrat” dell’azione di governo.

Finora il Pd è rimasto paralizzato in un’inevitabile anoressia politica post-bersaniana. Non sapeva cosa dire e cosa fare e si era rifugiato dietro Letta e Napolitano per limitare i danni. Ora il partito ha una nuova e scalpitante leadership che intende imprimere il proprio marchio al dibattito politico e di conseguenza all’attività dell’esecutivo. L’iniziativa di Renzi per una legge elettorale (per quanto siano molto discutibili i progetti presentati) dimostra che vuole avere a disposizione un’arma letale con cui condizionare la coalizione governativa. A questo punto il Ncd deve decidere cosa fare, indipendentemente dal sostegno al governo: darsi una prospettiva di lungo periodo con una definizione politico-culturale più precisa che accolga i valori del Partito popolare europeo e apra una riflessione critica sul berlusconismo; oppure chiudere la parentesi governativa e rientrare nell’orbita berlusconiana come la frangia più presentabile di una galassia che continua a ruotare intorno al Cavaliere, comunque sempre disposto ad accogliere le pecorelle smarrite...

La scelta di Alfano e soci aveva una motivazione “strumentale”: mantenere in vita l’esecutivo. Lecitissima, ma con questo solo appiglio non si riscuotono molti consensi nell’elettorato: va sostenuto da un progetto, da valori e giudizi distinti rispetto all’esperienza passata. Forse i legami personali e politici con il mondo berlusconiano e col Cavaliere in prima persona non sono stati recisi o chiaramente definiti. Ma questo è il momento delle scelte. Il Ncd ha l’opportunità di presentarsi come un’alternativa moderata, di destra, libera dall’imprinting berlusconiano. Se non la coglie, rischia l’estinzione. In fondo persino nel partito gollista si fanno i conti in maniera critica con la presidenza di Nicolas Sarkozy. Cosa trattiene dal farlo con il berlusconismo?

15 gennaio 2014 © Riproduzione riservatA

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/01/08/news/alfano-decida-cosa-vuol-fare-da-grande-1.148107
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« Risposta #92 inserito:: Febbraio 11, 2014, 05:27:23 pm »

Piero Ignazi
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Pd, ossia partito democristiano
È in corso una mutazione genetica dei democratici.
Matteo Renzi vira al centro e l’incontro con Silvio Berlusconi è tattico: disarmare l’avversario per conquistare le sue truppe. Come fece Togliatti con il qualunquista Giannini
   

È in corso una mutazione genetica nel Pd? Forse sì. Partiamo dalle poltrone. I duellanti del Pd, Matteo Renzi ed Enrico Letta provengono dalla tradizione democristiana e il reclutamento della classe dirigente nazionale e locale installa in posti chiave ex boy scout di fede para-democristiana sia per discendenza diretta, sia per linea acquisita attraverso la filiera Lusi-Rutelli. Giusto l’evangelico proposito di uccidere il vitello grasso quando i figliol prodighi ritornano all’ovile. Ma analoga attenzione andrebbe riservata ad altre tradizioni politiche. Invece, lo sgarbo riservato da Renzi al congresso di Sel rifiutando l’invito rivoltogli indica abbastanza chiaramente qual è il “verso” del segretario Pd: barra al centro. Del resto, i delegati renziani al Congresso di dicembre si collocano in maggioranza proprio al centro dello schieramento politico, ben lontani dall’orientamento più di sinistra degli elettori delle primarie, come risulta dall’inchiesta condotta da Paolo Natale, pubblicata sul sito web de Il Mulino. Il problema è che fare le alleanze per le giunte locali (si voterà in 39 comuni, questa primavera) sarà un bel rebus se va avanti così. Con chi stringerà accordi il partito democratico: con Dudù? - per riprendere l’espressione del segretario Renzi. Finora il Pd governa nella maggioranza delle città grandi e medie grazie ad ampie coalizioni aperte a sinistra.

Forse ora la nuova segreteria pensa di poter vincere sempre e comunque da sola. Non sarà facile nemmeno con la legge elettorale cucinata nelle trattorie fiorentine perché dovrà contrastare un centro-destra ampio, che da Forza Italia si estende ai Fratelli d’Italia in via di rinforzo con tutte le anime sparse nostalgiche, alla Lega che al momento buono scende sempre a miti consigli, e persino al Ncd di Alfano che difficilmente potrà allearsi con il Pd visti gli schiaffoni che sta prendendo da Renzi e l’ostilità alla sinistra della sua potenziale base elettorale. Eppure l’attivismo renziano sembra escludere intese o alleanze di antico conio. Allora la strategia è proprio quella di tentare il colpo grosso: rimettere in sella il partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria. Certo, il Pd ha ancora un serbatoio di iscritti e un potenziale di mobilitazione inarrivabile agli altri partiti; ma non basta perché non è detto che queste risorse si mantengano inalterate. A forza di primarie aperte, perché mai uno deve iscriversi se poi non ha nemmeno il potere di scegliere i propri dirigenti e candidati? A meno di non voler fare dell’iscritto un semplice donatore di fondi come per una qualsiasi Onlus, è necessario offrirgli qualche incentivo in più. Quali non è dato sapere.

Ammettiamo però che fiutando l’odore della vittoria - la ragione principale per cui è stato plebiscitato Renzi alle primarie - il partito non si squagli. Come attrarre allora tanti nuovi elettori?

Risposta: puntando al centro, per fare del Pd la nuova Dc della terza repubblica. L’incontro con Berlusconi può essere visto in questa ottica. Mentre sotto un profilo etico-politico è stato inopportuno e soprattutto sguaiato per l’enfasi accordatagli (tutt’altra cosa se lo avesse convocato ufficialmente e pubblicamente come tutti gli altri, invece di riservargli una corsia preferenziale), sotto un profilo tattico l’intento potrebbe essere quello di “disarmare” l’avversario per conquistare le sue truppe. Così come Palmiro Togliatti incontrò Guglielmo Giannini, il leader dei qualunquisti del primo dopoguerra, e andando nella tana del leone dimostrò che aveva denti di carta, altrettanto tenta di fare Renzi con Berlusconi, benché i denti del caimano siano ben più affilati. In questo progetto il partito democratico non può che andare incontro ad una mutazione genetica: piazzato al centro, con un partito fluido e una nuova classe dirigente, interessato a rinverdire i fasti fanfaniani e demitiani di subordinazione dell’economia pubblica alla politica visto l’interessamento di Renzi per prossime nomine, il partito da “democratico” è in via di trasformazione in “democristiano”.

04 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/01/29/news/pd-ossia-partito-democristiano-1.150418
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« Risposta #93 inserito:: Marzo 15, 2014, 07:49:59 am »

Piero Ignazi
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Se Alfano diventa Ghino di Tacco
Il Nuovo centro destra può giocare, come il Psi di Craxi, su due tavoli: stare al governo e usare l’arma di ricatto del ritorno con Berlusconi. Un atteggiamento che porta benefici solo nel breve ma non costruisce una politica di respiro
   
Se Renzi ha avuto in questi giorni la sua grande occasione non è da meno quella che si offre ad Alfano. L’oggetto misterioso Nuovo Centro Destra, composto tutto di transfughi berlusconiani. per lo più di orientamento cattolico-ciellino, entra nel gioco politico per la prima volta in piena autonomia. Con Letta fungeva da stampella, e doveva reggere l’onta della sua nascita “poltronista”, per mera convenienza ministeriale. Ora, invece, il Ncd si presenta come formazione autonoma capace di trattare e contrattare con il presidente designato su ogni punto, dal programma ai ministeri (e forse oltre, pensando alla pioggia di nomine nei vari enti pubblici da definire). A ben vedere la posizione di Alfano e soci è molto confortevole.

Benché non godano di buona stampa e dalle file berlusconiane gli insulti siano all’ordine del giorno, oggi hanno guadagnato una posizione centrale nello scacchiere politico. Un loro spostamento a destra o al centro altera in maniera determinante gli equilibri politici. Lo strabismo moderato di Renzi ne ha fatto degli interlocutori fondamentali visto che il segretario del Pd di Sel non si cura affatto. E questo nonostante che il partito di Vendola fosse alleato del Partito Democratico in campagna elettorale. Detto en passant: presentarsi alle elezioni con un partner per ottenere il premio di maggioranza e poi scaricarlo, questo è il vero vulnus democratico, altro che il cambio di leader in corsa, perfettamente legittimo (e praticato) nei regimi parlamentari.

Accettando di sostituire Letta alla guida del governo dall’oggi al domani, Renzi non può che confermare la precedente maggioranza. Non ha altri spazi di manovra. L’unica alternativa ad un fallimento del suo tentativo sarebbero le elezioni. Ma, per quanto possa rigettare su altri la responsabilità del precipitare della crisi, per il leader del Pd lo smacco sarebbe enorme. E Alfano potrebbe tornare tranquillamente a casa Berlusconi che fa la voce grossa contro i reprobi che lo abbandonano, ma è pronto ad allargare le braccia sorridendo a 32 denti se le pecorelle smarrite ritornano all’ovile. Casini docet. Il Ncd può alzare il prezzo e tenere Renzi sulla corda riesumando Ghino di Tacco - l’auto raffigurazione del Psi craxiano pronto ad intervenire in maniera corsara contro i propri alleati. Questo atteggiamento porta benefici a breve termine, ma non costruisce una politica di respiro. Per avere una vita autonoma e un futuro politico il partito di Alfano deve caratterizzarsi come quel partito moderato che Berlusconi non è mai riuscito ad incarnare, così come, peraltro, i residuati centristi di ogni tipo (che ne è infatti delle celebrate convention cattoliche di Todi, foriere di una aurea rinascita democristiana?) .

I segnali di un percorso in questa direzione non sono chiari. L’opposizione feroce ai provvedimenti di “civiltà” sui nuovi assetti familiari come le unioni omosessuali, che in tutta Europa anche i partiti conservatori promuovono, indica un radicamento del Ncd in territori molto conservatori e forse addirittura più arretrati di quanto potrebbe emergere in Forza Italia. Ovviamente la connotazione confessionale della classe dirigente alfaniana spinge in quella direzione. Ma se poi aggiungiamo anche l’opposizione allo ius soli per i nuovi migranti e una chiusura sulla depenalizzazione della cannabis, il quadro ipermoderato del Nuovo centro destra prende forma. A questo punto la partnership con il Pd può giustificarsi solo sul piano dell’emergenza, della necessità di assicurare al Paese un governo dell’economia che, in un’ottica ben più filoeuropea rispetto a Forza Italia, rimetta in sesto il Paese. È questo il terreno necessitato della rinnovata alleanza di governo. Il Ncd sembra quindi voler marcare la propria diversità tradizionalista-confessionale verso sinistra, e la propria diversità responsabile, moderata ed europeista verso destra. Questa potrebbe essere una strategia vincente nel medio periodo per il partito di Alfano e per il governo Renzi. In attesa, però, che il Ncd decida da che parte stare.

27 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/02/19/news/se-alfano-diventa-ghino-di-tacco-1.153948
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« Risposta #94 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:33:22 pm »

Piero Ignazi
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Per convincere gli alleati a Bruxelles non serve alzare la voce o mostrare i muscoli. Il ricordo dei tentativi falliti di Berlusconi e Tremonti è ancora fresco. L’unica strada possibile per Matteo è mostrarsi davvero affidabile
   
Nei rapporti internazionali più del peso economico o, come si sarebbe detto un tempo, della potenza militare, vale una risorsa immateriale: la reputazione. Lo storico handicap italiano è proprio quello di una reputazione claudicante dovuta ad una scarsa affidabilità.

Dai giri di valzer all’8 settembre, le oscillazioni dei nostri governanti in tema di alleanze e di mantenimento degli accordi hanno impresso sull’Italia lo stigma di un paese che considera gli impegni presi “à la carte”: variabili e mutevoli a seconda delle circostanze. Se a questo aggiungiamo i frequenti cambi di governo, e quindi le diverse personalità che hanno incarnato la nostra politica estera, il problema di identificare un interlocutore affidabile da parte degli altri paesi aumenta esponenzialmente.

Sul piano internazionale la fine della guerra fredda non ha modificato le nostre linee guida di politica estera e quindi atlantismo ed europeismo sono rimaste le stelle polari anche se con enfasi diverse, calibrate sul colore politico delle coalizioni di governo che si sono succedute negli ultimi vent’anni. A un centro-sinistra fortemente impegnato nel progetto europeo e fedele all’alleanza atlantica si è alternato un centro-destra sbilanciato sulla sponda atlantica per compensare lo scarso feeling in sede Ue. Tuttavia, anche il latente euroscetticismo della coppia Berlusconi-Bossi nulla ha potuto di fronte ai vincoli dei trattati e delle norme adottate in sede comunitaria. Per fortuna, ovviamente. Senza quei vincoli il peronismo mediterraneo di stampo berlusconiano ci avrebbe condotto su una china argentina, come già alcuni analisti, nel gennaio 2011, al meeting annuale di Davos, preconizzavano.

Però la virtuosità imposta ai nostri conti pubblici (sfasciati) ha un costo, riassumibile in minor risorse da investire. Questo crea tensioni e impazienze. La disinvoltura finanziaria del centro-destra giustamente ne soffriva, ma altrettanto ne soffrono i tentativi di rilancio dell’economia attraverso investimenti e spese prefigurati dall’attuale governo. L’unica strada per poter rimodulare in altra forma alcune voci di spesa è quella di trovare un consensus generalizzato tra i partner europei. Si tratta cioè di creare una coalizione di interessi che faccia pressione, nelle sedi proprie, su quei governi che rimangono scettici sulla capacità di conciliare rigore e crescita nei paesi in maggiore difficoltà. E, per convincere gli altri, la reputazione di nazione “seria e affidabile” è fondamentale.

Per sua fortuna Matteo Renzi arriva dopo Mario Monti ed Enrico Letta, due leader tra i più stimati in Europa e soprattutto nelle istituzioni comunitarie. Il terreno è stato quindi ben preparato, ma il ricordo delle uscite improvvide di Berlusconi e Tremonti è ancora ben vivo nelle memorie delle cancellerie europee. Quelle posture assertive e protonazionaliste esibite dal nostro presidente del Consiglio nei primi incontri europei rischiano di richiamare le posizioni di quella coppia infausta e non la serietà dei suoi immediati predecessori. Le sue dichiarazioni burbanzose sull’Europa che deve cambiare sono controproducenti a Bruxelles, dove è meglio lasciar lavorare la diplomazia. E lo sono, anche e soprattutto, sul piano interno. Perché inevitabilmente sollecitano il sentimento di diffidenza e distacco verso l’Europa.

Di fronte ad un arco di forze euroscettiche quanto mai ampio, che va da Grillo a Berlusconi passando per la Lega e altri gruppi minori, il Pd e il governo devono innalzare senza remore gli ideali europeisti. Una politica lamentosa o rivendicativa nei confronti dell’Ue porta acqua al mulino degli avversari, oltre a far di nuovo inarcare sopraccigli a Bruxelles. Il Pd rischia un tonfo alle prossime elezioni europee se non si smarca dal coro antieuropeo. Non è seguendo la corrente euroscettica grillina che si sottraggono voti al M5S, tutt’altro: così facendo si dimostra che la loro posizione era corretta. Grinta e coraggio non mancano alla leadership di Renzi: li dimostri andando contro la corrente. Come mostrano le elezioni locali in Francia, le forze populiste sono in crescita. Vanno contrastate, non blandite.
03 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/03/26/news/renzi-in-europa-ma-non-per-lamentarsi-1.158572
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« Risposta #95 inserito:: Aprile 25, 2014, 05:49:27 pm »

Piero Ignazi
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Toh, è tornata la lotta di classe
Poveri contro ricchi. Esclusi contro inclusi. Sono le fratture sociali più gravi, a giudizio degli italiani. La retorica populista ha saputo sfruttarle. Ora sono al centro dello scontro fra Grillo e Renzi. Che però ha un vantaggio...

Esistono fratture profonde che attraversano e dividono la società italiana in gruppi sociali contrapposti? Se pensiamo alla nostra storia e ci ricordiamo che siamo il popolo dei guelfi e ghibellini, dei Capuleti e Montecchi e dei mille campanili è probabile che la risposta sia positiva. In effetti, la politica italiana degli ultimi vent’anni porta il segno della conflittualità estrema e della divisività. E, detto en passant, è grave la responsabilità di quei leader politici che hanno fatto di tutto per approfondire i solchi tra i partiti, delegittimando costantemente gli avversari.

Un sondaggio condotto dall’Swg su questo tema offre un quadro illuminante delle divisioni che i cittadini ritengono più intense. A fronte di una serie di gruppi sociali posti in contrapposizione - ad esempio, operai/imprenditori, laici/cattolici, giovani/vecchi - gli intervistati dovevano indicare quanto forte fosse, a loro giudizio, il confitto tra ciascuna di queste coppie, in una scala da un minimo di 1 a un massimo di 10. Le contrapposizioni più nette rivelano la resistenza dei vecchi conflitti e l’emergere prepotente dei nuovi. Infatti, in cima a tutto troviamo, a pari merito, sia la storica frattura di classe (vista in termini tradizionali, operai/imprenditori, e in termini più generici, poveri/ricchi), sia la nuova frattura che attraversa l’Europa e l’Italia da almeno due decenni, quella populista, rappresentata dalle dicotomie popolo/élite ed esclusi/inclusi. Lotta di classe e conflitto socio-economico da un lato, contrapposizione populista tra chi sta in alto e chi sta in basso dall’altro, focalizzano l’attenzione e definiscono lo “spazio” dove si concentra la lotta politica.

La difesa degli interessi di classe è sempre stata, e in parte lo è ancora, la bandiera dei partiti socialisti.
Negli ultimi anni si è affievolito il richiamo di classe dei partiti di sinistra i quali hanno subìto l’offensiva neoconservatrice e liberista senza essere in grado di reagire efficacemente. Eppure, questo conflitto è ancora al centro della sensibilità dei cittadini. Certo, viene declinato anche in termini meno “politicamente corretti” come antagonismo tra ricchi e poveri, ma la questione del divario, abissale, delle condizioni economiche nelle società contemporanee viene tuttora considerata la più importante di tutte.
A questa visione dei contrasti più laceranti che attraversano il Paese si affianca, con una intensità simile, un antagonismo di taglio diverso, tra popolo ed élite, rinforzato da quello tra inclusi ed esclusi. La retorica populista, in Italia veicolata dal forza-leghismo, altrove da partiti estremisti come il Fronte nazionale di Marine Le Pen, ha fatto breccia: è diventata un criterio interpretativo delle società, semplificatorio ma di grande efficacia.

Chi riesce quindi a interpretare queste due coppie di conflitti, sul versante di classe e su quello populista, ha in mano le chiavi del successo elettorale. Silvio Berlusconi, insieme a Umberto Bossi, ha dominato la scena per lungo tempo perché rappresentava larga parte di chi “stava in basso” e dell’uomo qualunque, contrapposti all’establishment. Ora che il richiamo forzaleghista si è esaurito, è Beppe Grillo che dà voce, - ed è una voce ancor più potente - a questa divisione. Dall’altra parte dello schieramento politico Matteo Renzi tenta una operazione ambiziosa: colmare il fossato tra una rappresentanza tradizionale della sinistra - vedasi il feeling con la Fiom di Maurizio Landini e gli 80 euro in busta paga a operai e piccola borghesia - e la platea degli esclusi dando loro in pasto nemici vari, dagli alti burocrati ai professoroni, dai manager pubblici milionari agli stessi politici appollaiati sui loro scranni nelle Province o nel Senato. Il confronto tra Grillo e Renzi riflette proprio le più acute priorità e sensibilità dell’opinione pubblica. Entrambi combattono su toni populisti, con diverso grado di sguaiataggine, ovviamente; ma Renzi gode di un vantaggio competitivo, se lo sa giocare: quello della tradizione socialista.

21 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/04/16/news/toh-e-tornata-la-lotta-di-classe-1.161351
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« Risposta #96 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:44:44 pm »

Piero Ignazi: “Chi sono i populisti? Lega e Forza Italia. M5s difende le regole”
Il professore di Politica Comparata dell’Università di Bologna: "Nel Movimento 5 Stelle manca l'elemento fondamentale del populismo, cioè il disprezzo della democrazia rappresentativa.
Non è così per il partito di Salvini e per gran parte di Fi"

di F. Q. | 30 agosto 2015

In una lettera inviata al Fatto Quotidiano, Beppe Grillo scrive che il populismo è “un atteggiamento sostenibile in politica soltanto se l’attore è al governo”. Aggiunge che la “Lega è populista”, mentre definisce M5s “difficilmente catalogabile” come tale. Abbiamo sentito cosa ne pensano Elisabetta Gualmini, politologa e vicepresidente della Regione Emilia Romagna e Piero Ignazi, professore di Politica comparata dell’Università di Bologna.

Che cos’è davvero il populismo? Per Piero Ignazi, accademico e politologo, è qualcosa di molto diverso dalla definizione comune. Lo stesso Grillo, nel definirlo, lo ha confuso con la demagogia che, si sa, “è una costante dei governi”.

Professor Ignazi, che differenza c’è tra demagogia e populismo?
Demagogia è ciò che, con un termine poco comune, si può definire “politica delle sovrapromesse”: promettere tutto, anche quello che non ci si può permettere, e cercare facili benefici nel breve periodo che però non abbiano alcun impatto sul lungo periodo. È il comportamento delle opposizioni che annunciano “quando saremo al governo faremo grandi cose” o quello di chi cerca di farsi eleggere promettendo ciò che sa già non potrà mantenere.

Il populismo?
È un atteggiamento basato su una mentalità che tende a dividere il mondo in due componenti: i buoni da un lato, i cattivi dall’altro. Con una forte componente moralista secondo cui i cattivi sono corrotti, prepotenti, d’élite mentre tra i buoni c’è il popolo disingannato, maltrattato dall’establishment, dall’élite culturale e mediatica. E l’unico modo per risolvere questa divisione è affidarsi alle virtù taumaturgiche di un capo che interpreta i bisogni della gente comune e sconfigge le pratiche della minoranza che opprime per i suoi interessi. Quindi c’è un leader salvifico e c’è una visione manichea, tra puri e impuri, corrotti e onesti.

A cosa conduce questa visione della realtà?
Al disconoscimento della democrazia rappresentativa, alla nascita di un rapporto diretto tra leader e popolo. Per questo il termine oggi ha un’accezione negativa che indica la democrazia rappresentativa e le leggi come qualcosa di fastidioso. Non contano le norme, non contano le regole nè le istituzioni: solo il volere del popolo, interpretato dal leader. Ma anche la demagogia è un elemento negativo, non virtuoso. Poi c’è il problema di come definire il Movimento 5 stelle. Ho un’opinione molto diversa dalla maggioranza. Non ritengo il Movimento 5 stelle sia populista.

Perché?
Il movimento di Grillo rende omaggio alle regole e alle norme, non pensa di trascenderle. Le vuole cambiare, le vuole modificare, migliorare magari, ma non vuole alterarle o cancellarle nè irriderle. Ne tiene conto. Ha una cultura politica legalistica atipica per i movimenti populisti che, di solito, sono molto più barricadieri. Resta, forse, la visione manichea, quella che nel giudicare atteggiamenti, opinioni, situazioni formula giudizi secondo un’opposizione radicale di vero e falso, bene e male, senza offrire alternative né ammettere sfumature. Però manca nel movimento di Grillo un elemento fondamentale del populismo

Quale?
Il disprezzo della democrazia rappresentativa. Inoltre, è un sostenitore della non violenza e contempla diversi obiettivi, non solo immigrazione e tasse. La Lega, ad esempio è populista, così come lo è stato gran parte di Forza Italia.

E allora perché ci si ostina a definirlo un movimento populista?
Perché è solo un’etichetta facile da applicare.

Di Virginia Della Sala

Da Il Fatto Quotidiano del 29 agosto 2015

Aggiornato da Redazione Web il 30 agosto 2015 alle ore 13.18
di F. Q. | 30 agosto 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/08/30/piero-ignazi-chi-sono-i-populisti-lega-e-forza-italia-m5s-difende-le-regole/1993649
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« Risposta #97 inserito:: Febbraio 22, 2018, 05:50:43 pm »

Un nuovo sistema elettorale per rilegittimare la politica e i partiti
Anche le prossime elezioni probabilmente non vedranno alcuno schieramento ottenere la maggioranza dei seggi.
Un modo per risolvere il problema potrebbe essere quello di adottare il sistema elettorale francese, il maggioritario a doppio turno con ballottaggio

Di PIERO IGNAZI *
22 febbraio 2018

Questo è un articolo dell'Atlante elettorale della Società Italiana di Studi Elettorali (Sise) che - in collaborazione con Repubblica - offre ai lettori una serie di uscite settimanali in vista delle elezioni politiche del 2018. La Sise promuove dal 1980 la ricerca nel campo delle elezioni, delle scelte di voto e del funzionamento dei sistemi elettorali. L'Associazione si avvale del contributo di giuristi, sociologi, storici e scienziati della politica, con l'obiettivo di favorire la discussione attraverso l'organizzazione di convegni di taglio accademico aperti anche al contributo di politici e commentatori.

È molto probabile che dopo le elezioni ci troveremo di fronte ad un impasse, in quanto nessuno schieramento avrà ottenuto la maggioranza dei seggi. A meno che non si registri, ancora una volta, qualche transumanza da uno schieramento all'altro nelle aule parlamentari.

Del resto, la pratica del cambio di casacca si è così radicata nel nostro parlamento da non suscitare più il minimo scandalo. Chi voleva partiti destrutturati e centrati sugli elettori ha avuto ciò che ha predicato anche se, forse, non si aspettava un esito così 'devastante'; ma con uno sguardo lungo, alla Carlo Tullio Altan, si poteva ben vedere quali sono le costanti del far politica in Italia. In fondo, i partiti organizzati sono stati una parentesi. Ed hanno resistito a lungo nel dopoguerra grazie - mi si permetta il paradosso - all'esperienza del totalitarismo fascista. Ma oggi, nell'era della fluidità e della liquidità, tutto ritorna, e così il notabilato d'antan si attaglia bene a strutture partitiche sempre più permeabili alle risorse individuali che ciascun dirigente può portare in dote. Come se ne esce per rilegittimare la politica e i partiti?

I punti su cui agire sono molti, da una più pervasiva intrusione della legge nell'attività dei partiti stessi a modalità di finanziamento premiali e non punitive (come invece è stato fatto con l'attuale norma: un cedimento al peggior populismo), da criteri vincolanti per la selezione della classe dirigente a meccanismi che rendano effettiva la responsabilità degli eletti. E l'elenco potrebbe continuare.

Qui mi limito a suggerire un intervento sul sistema elettorale riproponendo un'ipotesi che Luciano Bardi, Oreste Massari e il sottoscritto, sotto l'egida di Giovanni Sartori, presentammo all'attenzione dei politologi (con una ampia ricezione) e dei parlamentari (con qualche gentile attenzione, ma senza alcuna implementazione) alla fine del 2014. Si tratta della introduzione del sistema elettorale francese, il maggioritario a doppio turno con ballottaggio. Perché cambiare ancora? E perché rivolgersi proprio Oltralpe?

In primo luogo perché l'attuale sistema elettorale è del tutto screditato: viene disconosciuto anche dai suoi padri e si dimostrerà del tutto inadatto a garantire la rappresentatività e a favorire la governabilità. Tutti convengono che vada modificato.

In secondo luogo perché il sistema maggioritario a doppio turno, oltre ad aver dato buona prova di sé in Francia, presenta alcuno almeno quattro vantaggi:
- riduce la frammentazione partitica;
- favorisce la costruzione di maggioranze alternative;
- legittima l'eletto con una ampia percentuale di votanti;
- facilita un rapporto diretto e potenzialmente più "fiduciario" tra cittadini e rappresentanti.
 
Se vogliamo entrare più in dettaglio, il sistema francese:
- non deprime la competizione, perché nessuno parte necessariamente sconfitto: al primo turno un brillante candidato di un piccolo partito può superare la soglia di sbarramento, e poi se la "giocherà";
- pur consentendo una competizione equa anche ai partiti minori non favorisce la frammentazione, in quanto la soglia di sbarramento punisce le liste velleitarie; ovviamente la soglia di sbarramento deve essere elevata, pari almeno al 15% dei votanti;
- facilita le aggregazioni tra i partiti al fine di presentare un candidato comune tanto al primo turno (per superare lo sbarramento) quanto e soprattutto al secondo turno (per vincere);
- porta alla luce del sole e definisce prima del voto tali alleanze, prefigurando in tal modo le future coalizioni governative;
- rinsalda, con il voto a un candidato nel collegio uninominale, il rapporto tra elettori e rappresentanti;
- fornisce maggiore legittimazione ai parlamentari in quanto essi sono eletti, nei loro collegi, con una quota di consensi elevata e, come insegna il caso francese, spesso a maggioranza assoluta.
 
Il sistema maggioritario a doppio turno appare quindi il più adatto a contenere la frammentazione, a rafforzare i rapporti fiduciari con gli eletti, a favorire la formazione di coalizioni e a scegliere una coalizione per il governo, consentendo una competizione bipolare e una democrazia dell'alternanza. Tutte caratteristiche che molti elettori e molti politici dicono di perseguire. Eppure solo il Pd, come in precedenza il Pds e i Ds, si è schierato a favore di questo sistema. Mentre a destra, Lega e Forza Italia - ma non Alleanza Nazionale che sostenne nel 1999 il referendum per l'abolizione della parte proporzionale del Mattarellum - si sono sempre opposti perché venivano penalizzati negli scontri uninominali. Di qui lo stallo. Ora però c'è un altro attore, il Movimento 5 Stelle. Che tuttavia predilige un sistema proporzionale. Una predilezione incomprensibile visto che, come è stato detto, i 5 Stelle sono una "macchina da ballottaggio". Ma proprio per questo, forse, possono cambiare orientamento.
 
* Piero Ignazi è professore di Scienza Politica presso l'Università di Bologna

© Riproduzione riservata 22 febbraio 2018

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni2018/2018/02/22/news/un_nuovo_sistema_elettorale-189366797/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S2.5-T2
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