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Autore Discussione: Piero IGNAZI.  (Letto 59280 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Marzo 07, 2009, 12:28:54 am »

Piero Ignazi

Per un Pd credibile


Dario Franceschini può dare al partito una direzione netta, che indichi da che parte stare
Vi sono alcune trappole lungo il cammino del nuovo Pd di Dario Franceschini. Non ci riferiamo tanto a quelle che gli avversari interni piazzeranno continuamente per puro autolesionismo: ormai all'interno del Pd è diventato un moto riflesso quello di sparare addosso al leader di turno - anche perché, altrimenti, molti cosiddetti leader, che vivono solo di dichiarazionismo, cioè di parole dette e riportate dai media, non saprebbero come passare la giornata. Ci riferiamo piuttosto ai consigli che benevolmente ma con il ditino alzato vengono dai molti soloni dell'establishment cultural-mediatico. E massimamente all'invito a fare la faccia gentile e a collaborare con il governo e, in subordine con l'Udc, e a lasciar perdere la pericolosa compagnia della sinistra radicale, per non parlare poi di quell'impresentabile popolano di Di Pietro: 'Sapesse contessa.'.

Franceschini non ha bisogno di consigli perché ha già dimostrato nel corso della sua carriera politica di saper fare di testa sua, anche a dispetto della prudenza, virtù che i democristiani succhiavano con il latte materno; nel IV congresso del Ppi, indispettito per uno sgambetto fatto dai maggiorenti del partito, Franceschini si candidò alla segreteria sfidando a viso aperto i suoi supposti padrini. Perdendo, ovviamente, ma dimostrando una virtù disperatamente scarsa tra i dirigenti del Pd: il coraggio.

Il neo-segretario democrat ha le carte in regola per smarcarsi dalle insidie del nuovo politically correct. Anche perché dovrebbe essere ormai chiaro che in un sistema partitico polarizzato come quello italiano non si vince seguendo il vecchio modello della 'prossimità', vale a dire avvicinandosi il più possibile al centro dello spettro politico. Si vince seguendo il modello della 'direzione' che prescrive di scegliere chiaramente 'da che parte stare' nei vari temi in conflitto, tenendo una posizione forte, ed anche, udite udite, radicale. Solo presentando all'elettorato un programma dai contorni netti e marcati, proposte radicalmente alternative al mainstream politico, e iniziative conflittuali nei confronti degli avversari, l'elettorato di sinistra può essere mobilitato - e quello non fidelizzato dal berlusconismo conquistato. Questo significa che la politica del Pd deve aumentare esponenzialmente la sua capacità di porre al centro dell'agenda politica i propri temi e deve condurre una lotta senza quartiere al governo battendo sui suoi numerosi punti deboli: dalla distruzione della scuola di ogni ordine e grado ai 4 miliardi fatti pagare agli italiani per salvare Air One e regalare agli amici l'Alitalia, dall'assenza assoluta di iniziative anti-crisi al picconamento delle norme anti-evasione, dal bavaglio all'informazione alla militarizzazione e 'miliziazione' del territorio, dall'incitazione continua all'odio razziale al dilettantismo e al provincialismo da italietta d'antan in politica estera.


Se il Pd non si fosse dedicato alla contemplazione del proprio ombelico in questi lunghi mesi ma avesse fatto politica, si sarebbe accorto di quali e quante armi polemiche gli offre l'improntitudine del governo della destra. Quando si combatte un avversario che non esita ad usare calunnie e disinformazione in quantità sovietico-goebbelsiana (ci siamo dimenticati delle panzane propalate dal conte Igor e avallate dai megafoni della destra nella Commissione parlamentare truffa su Telekom Serbia, o il caso Scaramella in quella parallela sul dossier Mitrokin per incastrare Romano Prodi come agente del Kgb?) non ci si può opporre con la nobiltà della cavalleria, come fecero i polacchi di fronte ai panzer tedeschi. Si finisce massacrati. Suonano quindi falsi quegli inviti alla prudenza e al bon ton quando non si è levato nemmeno un sospiro di fronte alle palate di guano lanciate dall'altra sponda. E allora, visto l'animus pugnandi dell'avversario, bisogna attrezzarsi di conseguenza e incominciare col respingere al mittente l'insistente richiesta di 'liberarsi' di Di Pietro. Certo, il leader dell'Italia dei Valori non è elegante e fine come l'ex sindaco di Treviso Gentilini, né cristallino e probo come il sottosegretario all'Economia Cosentino; però dall'altra parte non si è esitato ad allearsi con formazioni dell'estrema destra come Forza Nuova. Qualche terzista ha mai alzato la voce per questo? Insomma, in un sistema partitico polarizzato vince chi occupa con determinazione e chiarezza lo spazio alternativo agli avversari, non chi ci si avvicina. Solo così si guadagna la credibilità perduta. Forse Franceschini l'ha capito meglio di altri.

(06 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 21, 2009, 11:27:40 pm »

Piero Ignazi


Con Dario si può fare


Che cosa è oggi il Pd? Non è un partito socialista, né confessionale o liberale. Ora occorre dare sostanza culturale al progetto  Dario FranceschiniIn un'altra era geologica, nel luglio del 1976, un accordo di vertice o un complotto, a seconda delle interpretazioni, portò alla segreteria del Psi un giovane 'fuori dai giochi', punto di equilibrio tra i maggiorenti del partito, destinato a essere una parentesi in attesa che i big, De Martino, Giolitti, Mancini, ecc., tornassero in pista. Quel giovane era Bettino Craxi, e tutto è stato fuor che una meteora. Nulla si ripresenta con la stessa fisionomia nella storia e tanto meno in politica. Eppure l'elezione di Dario Franceschini alla testa del Pd ricorda un po' quella vicenda.

Soprattutto simile è la situazione dei due partiti: entrambi precipitati in una profonda crisi 'esistenziale'. Esistenziale più che politica, perché come era accaduto allora al Psi anche nel Pd si è esaurita la spinta vitale, non si crede più in quello che si fa e si passa il tempo a lagnarsi dei propri problemi. Manca il cemento identitario, lo spirito di corpo, l'identificazione in un obiettivo.

Walter Veltroni aveva avuto il coraggio, l'ardire quasi, di indicarne uno ambiziosissimo che avrebbe potuto attivare energie e risorse assopite, rincantucciate nelle pieghe della società italiana: quello di creare un partito 'a vocazione maggioritaria', pessima espressione per indicare la costruzione del primo, grande soggetto riformista della storia italiana, libero dalle ideologie del passato, aperto, inclusivo, aggregante. Il risultato elettorale è stato buono (ripeto: buono, perché è andato oltre la somma dei due partiti fondatori, ed è su questi dati e non su altri parametri che si misurano i risultati elettorali). La gestione di tale risultato, al contrario, è stata disastrosa, per incapacità del segretario e per voglia di rivincita degli avversari interni.

Di conseguenza, invece di partire a testa bassa a fare opposizione come in qualsiasi paese con dinamiche politiche bipolari, proprie di una democrazia dell'alternanza, il Pd si è trastullato con polemiche intestine, finendo per perdere per strada una marea di consensi.


L'elezione di Franceschini ha arrestato la spirale autodistruttiva. Le prime uscite del neosegretario sono state chiare, precise, concrete . Un linguaggio semplice e diretto, espresso con un'aria da ragazzo della porta accanto, non da politico di lungo corso. Una modalità che lo ha immediatamente differenziato dai suoi blasonati colleghi di partito, rendendolo così più appetibile a quelle larghe platee che giudicano i politici (e qualsiasi persona pubblica) su basi pre-razionali, emotive, spesso indipendentemente dal contenuto.

Franceschini non può però sperare di contare sull'elemento novità e freschezza più di tanto. Questa fiammata di attenzione e simpatia si esaurisce presto se non è sostenuta da iniziative coerenti. E qui torna il problema del partito. Ancora una volta: che cosa è oggi il Pd? Non è socialista, ovviamente, non è confessionale, ovviamente, e non è, ancora più ovviamente, liberale. È allora qualcosa mai creato prima in politica? Per anni gli ulivisti doc hanno insistito proprio sulla 'novità' Pd, sul suo essere inconciliabile con ogni altra esperienza del passato ma, salvo pochissimi casi (Michele Salvati tra questi pochissimi), non hanno mai dato sostanza culturale al progetto: si sono limitati a slogan, buoni propositi e giaculatorie.

Franceschini non ha la bacchetta magica per sciogliere questi nodi, però deve avviarli a soluzione perché le elezioni europee si avvicinano e con esse una definizione della collocazione politica del Pd a Strasburgo. Con molta comprensione e buona volontà i socialisti europei hanno concesso agli eletti democrat uno status da 'osservatore' nel prossimo Parlamento europeo ma è una scelta transitoria, anche perché al di fuori dei grandi gruppi non si conta nulla a Strasburgo.

Il dilemma riguarda soprattutto la componente cattolica: se vuole essere alternativa al moderatismo confessionale delPartito popolare europeo, pronto ad accogliere a braccia aperte il Pdl di Berlusconi, non c'è altra opzione che il gruppo socialista del Pse (a meno che essa non scopra una anima verde o liberale.). In mezzo ci sono irrilevanza e velleità . Il segretario del Pd è meglio attrezzato di altri per mettere ordine tra le tentazioni neocentriste e clerical di molti suoi ex compagni di partito e il profilo 'progressista' del partito. Un compito che sarà agevolato se Franceschini insisterà nel promuovere azioni in difesa dei ceti sociali minacciati dalla crisi, che rischiano di essere rappresentati, unicum in Europa, soprattutto dalla destra.

(16 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 08, 2009, 04:50:04 pm »

Piero Ignazi


Apprendisti stregoni


Nei confronti del referendum sulla legge elettorale, Berlusconi si sta spostando verso il sì all'abrogazione. Il motivo: al Pdl in questa fase va benissimo una legge che assicuri al primo partito il bonus per arrivare al 55 per cento   Umberto BossiFreddo e scettico nei confronti del referendum sulla legge elettorale, Silvio Berlusconi si sta spostando con moto accelerato sul versante del sì all'abrogazione. La ragione è evidente: forte com'è ora nell'opinione pubblica, al Pdl va benissimo una legge-'mostre' che assicuri al primo partito un bonus per arrivare al 55 per cento dei seggi, qualunque sia la percentuale ottenuta.

Con questo ulteriore mostriciattolo elettorale - un unicum nel panorama delle democrazie consolidate, che ci porrebbe ai margini delle stesse democrazie per la distorsione clamorosa del principio di rappresentanza - il partito del presidente del Consiglio non avrebbe più bisogno di alleati. Potrebbe andare libero e tranquillo per la sua strada, senza il minimo condizionamento.

Anzi, magari prende corpo l'ipotesi di una crisi pilotata per arrivare allo scioglimento anticipato delle Camere e approfittare così del regalo fornito dalla nuova legge elettorale. Per Berlusconi sarebbe la blindatura definitiva del suo potere, vita natural durante. L'incubo di morire democristiani che tanto agitava i sonni della sinistra degli anni Ottanta, si traduce ora nella prospettiva di un lungo regime personalistico di tipo sultanistico - e non solo in senso politologico, alla Sartori, ma anche in senso colloquiale.

Al di là di ogni elucubrazione sull'esito e gli effetti del referendum, quello che è certo è lo stato di grazia in cui si muove il partito di maggioranza. Per intralciare la sua marcia trionfale verso le elezioni europee alcuni ingegni del Pd, con una improntitudine già dimostrata in precedenti occasioni, puntano su una supposta riottosità della Lega all'alleanza con il Pdl.

Immemori del patto d'acciaio siglato un decennio fa tra Bossi e Berlusconi, questa schiera di apprendisti stregoni sembra ignorare quanto il
Carroccio abbia incarnato sempre più convintamente posizioni di destra anti-immigrati e law-and-order. È evidente che con un profilo politico siffatto il partito di Bossi non può trovare sponda altro che nel Pdl.

Invece circola ancora quell'abbaglio sociologico che dipinge la Lega come una costola smarrita della sinistra per via del suo elettorato popolare, dimenticando le motivazioni, gli slogan, le parole d'ordine con i quali essa attira i propri elettori; richiami che sono del tutto simili a quelli degli altri partiti populisti e xenofobi europei, dal Front National di Jean-Marie Le Pen alla formazione di Jörg Haider, il leader austriaco recentemente scomparso, sempre ammirato dai leghisti.

E come quei partiti, anche la Lega attira le componenti meno acculturate e meno favorite, quelle più spaventate dalle trasformazioni delle nostre città e dal diffondersi del panico mediatico. Il dialogo sulle riforme avviato dal Pd con la Lega nell'illusione di alimentare attriti con il Pdl in realtà non fa altro che legittimare l'agenda politica del partito di Bossi (con i risultati che si vedranno alle europee e, soprattutto, alle amministrative).

Maggior grinta il Pd la esibisce nei confronti dell''alleato' Di Pietro. Il residuo snobismo ancora aleggiante tra i 'democrat' rende difficile la convivenza con l'irruente Tonino. Il tratto popolare, popolano anche (ma non populista), dell'ex magistrato mette in sofferenza la sindrome della rispettabilità e delle buone maniere che pervade da anni il centro-sinistra.

Mentre i dipietristi continuano a lanciar bordate contro il governo come ogni opposizione che si rispetti e non dimentica mai né il conflitto di interessi né le leggi ad personam né il dominio berlusconiano sui media, il Pd sorvola con eleganza lettiana su queste questioni. E sul declassamento dell'Italia da paese libero a paese semilibero da parte della Freedom House "per la concentrazione delle fonti d'informazione" appena un sospiro.

Eppure, il ceto medio riflessivo continua, seppure con crescente fatica, a indignarsi; c'è ancora una opinione pubblica che 'resiste' all'incensamento mediatico del Cavaliere faber, e ora anche pater premuroso della povera gente terremotata. Sono componenti che trovano maggior rispondenza alle loro preoccupazioni in un partito improbabile e raccogliticcio, ma vocale e battagliero, come l'Italia dei Valori.

Il Pd finisce per fare il donatore di sangue, sia a destra che a sinistra (senza parlare dei tormenti dei suoi cattolici). In sovrappiù, i probabili successi elettorali della Lega e dell'IdV avranno un impatto sistemico superiore al trionfo del Pdl: radicalizzeranno il conflitto politico consentendo al Pdl di porsi in una collocazione centrale, come espressione super partes, vero 'partito unico nazionale', spingendo il Pd ai margini della scena politica. Uno scenario da incubo.

(07 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 19, 2009, 05:09:37 pm »

La fattoria degli animali


di Piero Ignazi

Ogni sistema di potere non si regge senza una legittimazione e senza una sorta di 'mission', esplicita o implicita che sia. Il sistema di potere creato da Silvio Berlusconi a partire dal 1994 aveva - e ha tuttora - due finalità fondamentali: salvare l'impero Mediaset dal fallimento verso il quale stava precipitando in quegli anni, e salvare l'Italia dai comunisti. Il primo risultato è stato brillantemente raggiunto sia per scelte di uomini azzeccate al suo vertice (Franco Tatò, ad esempio); sia per normative favorevoli (emblematica la vicenda di Rete 4); sia per la non belligeranza del mondo politico ed economico.

La seconda finalità, all'inizio, faceva sorridere. Era finita la guerra fredda, il comunismo e il Pci non c'erano più da anni e questo resuscita un ritornello da anni Cinquanta.

Eppure quella vecchia melodia si era profondamente sedimentata nelle menti e nei cuori di tanti italiani. La Dc l'utilizzava solo nei momenti elettorali e poi la rimetteva nel cassetto, perseguendo politiche che necessitavano di un ampio consenso. Ma serviva mantenere viva l'esistenza di un nemico, forte e minaccioso - così come lo era, per la sinistra, il capitale e/o il fascismo, altrimenti detto 'la reazione' - perché forniva un facile e immediato senso di appartenenza: noi siamo di qua, contro 'gli altri'. Pur sotterrata da anni di bassa temperatura ideologica, la frattura, sotto traccia, era ancora scomposta. L'unico, autentico, colpo di genio del Cavaliere è stato quello di rivelarla, di riaprirla e di tenerla sempre attiva.

Ancora la scorsa settimana, non ha saputo far altro che gridare ai microfoni che era contestato da "gruppi di comunisti organizzati". Una frase non casuale perché unisce vari messaggi: l'organizzazione di un dissenso che altrimenti non ci sarebbe e quindi la malvagità di chi lo 'crea' artificiosamente; la connotazione di comunisti perché solo gli amici di Pol Pot possono concepire di contestarlo.

Questa insistenza fobica sul pericolo rosso ha ancora efficacia presso il suo elettorato. Come mai? Perché in questo quindicennio è stato costruito un 'nuovo elettorato' - il suo -, cioè un elettorato autenticamente e 'liberamente' di destra che prima non si esprimeva in quanto tale, tarpato com'era dall'ottundimento democristiano e l'impresentabilità neofascista. A questo elettorato, peraltro differenziato e disomogeneo, il Cavaliere ha proposto di identificarsi nella sua 'bio-storia' (corpo e anima), e di combattere il nemico che vuole rovinare l'Italia. Due identità deboli e forti allo stesso tempo: deboli in quanto l'una riassume tutto in una persona con tutti i rischi connessi, e l'altra è declinata al negativo; forti perché di facilissima identificazione: sono per/con Berlusconi, sono contro i comunisti e la sinistra.

Per mantenere questa impalcatura Silvio Berlusconi ha introdotto una dinamica populista di contrapposizione assoluta con il nemico, salvo tendergli la mano per fargli abbassare la guardia e colpirlo meglio, rafforzata dalla produzione di un sistema di credenze ad usum delphini. Su quest'ultimo aspetto siamo entrati in una dimensione puramente orwelliana. Un episodio su tutti: l'invenzione del fidanzamento di Noemi. Scaricato l'impresentabile Gino, prodotto autentico dell'ambiente dove vive e opera la famiglia Letizia, ecco arrivare dalle fucine del mondo Mediaset e dintorni un giovanotto aitante e belloccio, adatto a creare una immagine glamour della giovane illibata. Un fidanzamento creato a tavolino (all'usanza talebana), con incontri e foto relative concordati con i media del padrone, per fornire l'immagine della ragazza e della famiglia in questione (e siamo sempre curiosi di sapere a quale titolo il signor Letizia potesse parlare di candidature con il presidente del Consiglio...). In questo piccolo grande caso siamo di fronte a una spudorata 'creazione della realtà'. E chi non ci sta, come una delle ragazze di Bari, si trova, guarda caso, l'auto bruciata.

Non basta. Assistiamo anche alla invenzione di nuove norme etiche, per cui i giudici della Corte costituzionale nominati dal centrodestra rivendicano con orgoglio la loro fedeltà al benefattore, senza che gli passi per l'anticamera del cervello che un comportamento del genere, in paesi democratici, porterebbe alle immediate dimissioni; provino a chiedere ai loro colleghi europei e nordamericani cosa ne pensano: provino. Siamo ormai entrati a pieno titolo nella fattoria degli animali (e in via di uscita dalle democrazie normali).

(09 luglio 2009)

da epresso.repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 10, 2009, 10:59:09 am »

Passi falsi e gaffes

di Piero Ignazi


L'immagine dell'Italia nel mondo è al punto più basso dal dopoguerra. Con una politica estera velleitaria che rischia di emarginarci.

La politica estera italiana ha sempre oscillato tra l'acquiescenza a decisioni e indirizzi 'imposti' dall'esterno, e le velleità di autonomia e indipendenza d'azione. Solo negli anni Ottanta era maturata una certa consapevolezza del ruolo, dignitoso ma 'contenuto', consentito dall'ordine internazionale ad una media potenza come l'Italia. In quel periodo, agendo di concerto con gli alleati e muovendosi nel solco dei due binari tradizionali della politica estera post-bellica, atlantismo ed europeismo, il nostro paese ha potuto declinare qualche iniziativa originale e non velleitaria (benché non coronata dal successo) come l'avvio di una intensa attività di cooperazione internazionale verso i paesi in via di sviluppo, e la proposta di un forum di conciliazione al profilarsi della disgregazione della Jugoslavia. Per contro, si sono rivelati efficaci gli interventi sul piano europeo, dalla promozione dell'Atto unico al sostegno al trattato di Maastricht. La politica estera della seconda repubblica post-1994 ha invece un andamento oscillante, quasi schizofrenico, dovuto al diverso colore politico dei governi che si sono succeduti.

Il governo Berlusconi ha ulteriormente accentuato la divaricazione rispetto alle linee strategiche tradizionali di politica estera. Ma mentre nel passato era almeno chiara l'impostazione di fondo - adesione tanto entusiasta quanto supina all'amministrazione Bush e freddezza, se non aperta ostilità, verso l'Unione europea - l'attuale governo mostra invece una fragilità e una incoerenza inedite. L'aspetto più sorprendente viene proprio dalla Farnesina. Dal ritorno di Franco Frattini alla guida della nostra diplomazia dopo lunghi anni come commissario a Bruxelles ci si aspettava una azione coerente e ben definita. E invece i passi falsi e le gaffes si sono ripetuti a scadenza regolare: dall'infelice gestione balneare al sole delle isole tropicali della crisi georgiana dell'agosto scorso, agli interventi dalle stazioni sciistiche in tuta sportiva durante l'attacco israeliano a Gaza, per finire con la frettolosa retromarcia di una improvvisata visita a Teheran fuori da accordi con gli alleati. A queste debolezze ministeriali, di gestione, si aggiungono, ben più gravi, quelle di indirizzo politico. È qui che emergono le contraddizioni interne e l'assenza di un strategia da parte del governo. Il dossier russo è uno dei più preoccupanti per la lenta e continua degradazione delle condizioni democratiche interne a quel paese. A dispetto di tutte le cautele dei nostri alleati l'Italia continua a giocare una sua partita 'personale' potremmo dire visti i rapporti intimi, 'di letto', che legano Berlusconi e Putin. L'improvvisata del presidente del consiglio ad Istanbul alla firma dell'accordo tra Russia e Turchia per il gasdotto alternativo a quello sponsorizzato dall'Unione europea evidenzia che l'Itala, su un tema così centrale come la sicurezza energetica continua ad agire in solitaria, indifferente alle scelte adottate in sede europea ed atlantica.
 
Ma l'aspetto più inquietante viene dalla esplicita dissociazione della Lega dagli impegni militari all'estero. Il provincialismo del Carroccio si è manifestato appieno in questi giorni reclamando il tutti a casa dall'Afghanistan e dagli altri teatri di crisi. Il tutto senza uno straccio di motivazioni, contrariamente a quanto articolato dalle componenti pacifiste e antimilitariste della sinistra radicale che tanto hanno indignato per anni i corifei neocons.

Poiché la Lega è ben più influente dei Turigliatto del governo Prodi, e poiché le risposte del ministro degli Esteri, della Difesa e dello stesso premier sono state impercettibili, l'opposizione dovrebbe trascinare il governo alle Camere per riferire sulla politica estera e sulle missioni militari all'estero. Anche perché l'immagine internazionale dell'Italia è al punto più basso dal dopoguerra. Chiunque legga i quotidiani e i settimanali stranieri, ad eccezione di quelli russi, vede l'irrisione se non addirittura il disprezzo con cui è trattato il nostro capo del governo - e di conseguenza tutto il paese. Se a tutto ciò aggiungiamo anche una politica estera autarchica e disinvolta, e oltretutto priva del sostegno dell'amico Bush, l'Italia non può che scivolare verso l' irrilevanza nei rapporti internazionali. E non può uscirne con l'attuale assetto di governo.

(21 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Settembre 13, 2009, 10:00:20 pm »

Il futuro dei partiti

di Piero Ignazi


La loro forza non sta più nel numero degli iscritti ma nella loro capacità di aprirsi a simpatizzanti ed elettori. Ma con un rischio  Ségolène RoyalIn tutte le democrazie mature i partiti soffrono di una crisi di legittimità. I cittadini contestano con sempre maggiore durezza le loro manchevolezze sia in termini di efficienza e rispondenza - non sono più in grado di interpretare le domande della società civile e di offrire risposte convincenti e/o realizzabili - che di onestà e trasparenza - curano solo i loro interessi trincerandosi dietro paraventi impenetrabili. Queste accuse riflettono sentimenti esasperati di estraneità e di alienazione rispetto alla politica, eppure sono così diffuse da suscitare la preoccupazione dei politici e la riflessione degli studiosi.

Al congresso annuale dei politologi americani svoltosi a Toronto la scorsa settimana, la crisi dei partiti è stata affrontata nei suoi diversi aspetti. Al centro di molte relazioni che guardavano soprattutto all'esperienza europea vi era il rapporto leadership-iscritti-elettori. I partiti americani, dal canto loro, fanno eccezione perché non hanno la stessa concezione dell'iscritto e del suo ruolo come 'agente' del partito nel territorio. Quelli europei, invece, hanno fondato la loro legittimità e la loro ragion d'essere nell'inquadrare, e così rappresentare, ampi strati della popolazione. Seguendo il vecchio mito del partito di massa novecentesco, più numerosi erano gli iscritti, più legittimo e più forte era il partito. Tutto ciò aveva senso all'epoca della rivoluzione industriale quando il numero 'era' la forza. Ma nella società post-industriale e post-moderna questi parametri non valgono più. La forza dei partiti non sta più nelle loro quantità, bensì nelle risorse che riescono ad estrarre dallo Stato, sia direttamente in termini di finanziamenti, strutture e personale, sia indirettamente attraverso la lottizzazione. Senza alcun dubbio oggi i partiti sono più forti di un tempo perché dispongono di più risorse e controllano più direttamente le politiche pubbliche. Ma sono giganti dai piedi d'argilla perché, oltre ad aver perso iscritti, hanno perso credito.

Per recuperare la loro posizione i maggiori partiti europei hanno deciso di agire su due leve: da un lato delegare maggiori poteri agli iscritti e dall'altro aprirsi alla società civile, ai simpatizzanti e agli elettori. Anche i partiti britannici, tra i più potenti e pervasivi di tutte le democrazie occidentali, hanno riconosciuto la difficoltà a utilizzare solo il canale interno, quello che passa attraverso i militanti. Per connettersi direttamente con la cittadinanza hanno aperto canali di comunicazione come il 'Let's talk' dei laburisti, 'giurie dei cittadini' su temi scottanti, blog più o meno ufficiali, e reti di simpatizzanti come i 'Friends' dei conservatori e i 'Supporters' dei liberaldemocratici e dei laburisti. Ultimamente i conservatori sono andati anche oltre. Dopo aver rotto una tradizione secolare di imposizione vellutata delle candidature e aver coinvolto gli iscritti locali, da quest'anno hanno introdotto una sorta di primarie aperte per scegliere i propri candidati alle elezioni. La stessa procedura, dopo un lungo e infuocato dibattito, è stata riconfermata anche dal partito socialista francese proprio la scorsa settimana.

L'apertura alla società civile solleva però un altro problema: qual è il ruolo dell'iscritto? Se gli viene tolto il potere di selezione dei candidati e dei leader e anche le grandi scelte politiche vengono sottoposte al giudizio dei simpatizzanti attraverso blog e referendum elettronici, che senso ha iscriversi? In effetti il dilemma dei partiti contemporanei si concentra tutto qui. Per recuperare consenso e fiducia si aprono alla società, ma in tal modo sguarniscono ancora di più le loro fila, finendo quindi per essere di nuovo accusati di aver perso contatto con i cittadini, di non riscuotere più la loro fiducia e quindi, alla fine, di non vantare più alcuna legittimità. Una sorta di circolo vizioso, di trappola, nella quale rischiano di precipitare.

La soluzione che alcuni individuano consiste nell'affidare le sorti del partito a una leadership più o meno carismatica. Ma questo è un rimedio peggiore del male, in paesi a debole cultura liberal-democratica come il nostro. Un'altra via di uscita consiste nel bilanciamento tra una membership attiva e gratificata perché dotata di strumenti e poteri di intervento, e una leadership in grado di stimolare la partecipazione dell'opinione pubblica senza smobilitare i propri militanti. Una strategia che stimoli il rapporto diretto con i cittadini e il ruolo dell'iscritto riduce il rischio di ricacciare il partito nel girone infernale degli indesiderabili. Un rischio che invece il Pd sta correndo.

(10 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:12:52 am »

Le due destre al Governo

di Piero Ignazi

C'è quella movimentista di Brunetta, Sacconi e Gasparri e quella di regime di Tremonti e Letta
 

Renzo de Felice, il grande storico del fascismo, distingueva tra 'fascismo movimento ' e 'fascismo regime'. Quest'ultimo costituiva la normalizzazione delle tensioni rivoluzionarie, la riduzione corporativa dei conflitti sociali, l'armonizzazione - e clericalizzazione - della società, il suo imborghesimento 'panciafichista'. Il primo rappresenta, per de Felice, l'essenza vera, il filo rosso che segna tutta la storia del ventennio: è il fascismo delle origini e del crepuscolo, quello 'sociale' che punta al cambiamento, alla novità, alla 'rivoluzione', che si contrappone tanto alla borghesia quanto al proletariato, che diffida del vecchio establishment e che individua sempre nuovi nemici. Nerbo del fascismo-movimento furono, come dice lo storico, "i ceti medi emergenti (...) quei settori della piccola borghesia che aspiravano ad una propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, quei settori che non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie, né la capacità né la legittimità di governare. (...) Volevano affermare la loro funzione, la loro cultura e il loro potere politico contro la borghesia e il proletariato".

Mutatis mutandis queste categorie si possono oggi applicare alla destra berlusconiana. Sia ben chiaro: non si vuol dire che le idee, i valori, i programmi del berlusconismo siano assimilabili al fascismo storico. Sarebbe una sciocchezza. Tuttavia nel mondo politico che ruota attorno al Cavaliere, tanto nel PdL quanto nella Lega, serpeggiano due tendenze assimilabili alle categorie del 'movimento' e del 'regime'. Quella di movimento ha i suoi alfieri nei Brunetta e nei Gasparri, nei Sacconi e nella Gelmini, passando per i leghisti di complemento. Questi personaggi adottano tematiche e stili comunicativi aggressivi che mobilitano il proprio elettorato additando loro i 'nemici' del popolo che tramano contro gli interessi della nazione: l'opposizione, ovviamente, ma anche i 'poteri forti', i sindacati, e quel poco di stampa indipendente residua, nonché categorie specifiche come i magistrati, gli insegnanti e il pubblico impiego in genere, vale a dire le categorie che non votano a destra. Il loro linguaggio oscilla dall'irrisorio al protervo, salvo ripiegare sul vittimismo aggressivo se contrastati con durezza. Inoltre, la protezione assicurata dai media consente loro di sparare menzogne a raffica - si vedano i puntuali riscontri sul sito de lavoce.info - senza timori di smentite che, semmai, arrivano a pagina 40 in corpo 6, dopo qualche giorno.
Ma la protezione maggiore è assicurata dal grande capo. Il Click here to find out more!

Cavaliere in persona identifica il tipo ideale del movimentismo di destra: sempre all'attacco, rovesciando delegittimando a piè sospinto gli avversari che vogliono il male del paese, che coltivano la cultura della morte, che tifano per la crisi, piccona continuamente regole e prassi, garanzie ed equilibri tra i poteri, al fine di introdurre un regime personalistico-plebiscitario.

Dal movimentismo della destra promana un desiderio di rivalsa, di rivincita e di affermazione che ricorda da vicino le pulsioni dei ceti medi in ascesa descritti da de Felice. Ceti che si identificano oggi nel lavoro autonomo in tutte le sue mille varianti, dai micro-imprenditori ai consulenti di ogni tipo, dai commercianti agli artigiani.
Ceti esplosi vent'anni fa e che già allora chiedevano un riconoscimento e una 'loro' rappresentanza. Il crollo della Dc li ha portati naturaliter verso il nuovismo di destra il cui discorso arrivava diritto al cuore e al portafoglio di questi ceti. Ceti che detestano la borghesia per i suoi 'lombi opimi' e anche, più o meno palesemente, per la sua cultura (parola che fa metter mano alla pistola dalle parti del berlusconismo di movimento), e che disprezzano o temono a seconda delle circostanze il proletariato sindacalizzato, quello che ancora rivendica diritti e retribuzioni. Ceti che vogliono il loro posto a tavola e nella stanza dei bottoni per acquisire e/o mantenere la ricchezza accumulata in questi anni selvaggi spesso a scapito del lavoro salariato.

A questo berlusconismo di movimento, vera anima della destra italiana, se ne affianca uno, assai minoritario, di 'regime', più pacato e morbido. Il suo cantore è Giulio Tremonti e il suo mentore Gianni Letta. Come tutte le forze di stabilizzazione intende smussare ed ammansire. Non disdegna la faccia feroce all'occorrenza, ma riesce sempre a recuperare grazie ad un sapiente dosaggio di diplomazie e contatti.

In questo schema svaniscono molti ex An. Troppo 'tradizionali' e 'pro-stato' per seguire il movimentismo, troppo 'antagonisti' per seguire il clerical-tremontismo.
A loro non rimane che seguire un percorso altro, quello del consevatorismo moderno intrapreso da Gianfranco Fini e del tutto alieno ad entrambe le tendenze della destra berlusconiana. E vedremo chi avrà più filo da tessere.

(01 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 04, 2009, 11:16:22 am »

La pretesa impunità

di Piero Ignazi


La supremazia assoluta, senza contrappesi, della volontà popolare prefigura una distorsione in senso populista della nostra democrazia liberale 

Il berlusconismo-movimento, quella tendenza aggressiva e irruente della destra che punta al sovvertimento delle regole e delle prassi, si è dispiegato in tutta la sua potenza di fuoco nei giorni successivi alla sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano. Le argomentazioni con cui viene portato l'assalto ricalcano gli artifici retorici tipici del populismo contemporaneo, in particolare l'assolutizzazione del popolo e l'idolatria del leader che interpreta i suoi voleri (contro i quali ogni opposizione è, per definizione, illegittima).

Questa impostazione si riflette nella rivendicazione di una legittimità popolare 'diretta' del presidente del Consiglio, come fossimo in una democrazia presidenziale. Argomento inconsistente per una serie di motivi. Il primo è che siamo tuttora e a pieno titolo in una democrazia parlamentare, e quindi le modalità di formazione e dissoluzione del governo non sono cambiate di una virgola dal 1948 ad oggi. Ergo, il governo entra in carica quando viene votato dalla maggioranza dei parlamentari delle due camere: non quando lo grida il popolo a Pontida, lo indicano i sondaggi, o lo 'suggeriscono' gli elettori i quali, sia ben chiaro, votano una lista, non un candidato.

E invece i corifei del centro-destra e qualche distratto commentatore sostengono che la nuova legge elettorale, avendo affiancato alla lista di un partito anche il nome del candidato premier, garantisce a quest'ultimo una legittimità popolare che il parlamento non può disattendere. Ovviamente così non è. Innanzitutto perché si fa riferimento a una innovazione introdotta da una legge ordinaria - qual è la legge elettorale - come se questa potesse incidere sul testo costituzionale. Una contraddizione lampante che ricorda la favola di Esopo, del lupo e dell'agnello. Inoltre, essendo l'Italia una
Repubblica parlamentare, è il parlamento l'organo che legittima il governo, non altri. Tant'è che in democrazie parlamentari più solide della nostra, pur avendo anch'esse - informalmente in Gran Bretagna, e formalmente in Germania - una chiara indicazione del candidato premier, il parlamento ha mandato a casa più volte dei premier non graditi. E nessuno si è sognato di gridare al tradimento della volontà popolare. Solo la curvatura populista della politica italiana può consentire di far circolare impunemente simili corbellerie.

Il secondo tipo di argomentazione dei movimentisti berlusconiani riguarda l''impunità' assoluta del premier. Nessuno lo può giudicare, sembra di sentir cantare di nuovo. Anche qui si dimentica uno dei principi fondanti della democrazia liberale: nessuno è sopra legge. Mentre il maniscalco vessato dal re di Prussia gridava: "Ci sarà pure un giudice a Berlino" che mi renda giustizia, tant'era la sua fiducia nel valore universale delle norme, oggi in Italia nessuno può invocare un giudice per il Cavaliere, perché, in quanto unto dalla volontà popolare (sic!), solo il popolo può giudicarlo.

Infine, l'ultimo colpo di maglio per smantellare il sistema va assestato alla Corte Costituzionale. Già, a cosa servono quei vecchi parrucconi? Perché nel dopoguerra sono state introdotte in tutta Europa le corti costituzionali sul modello della Corte suprema americana? La risposta è semplice: per controllare e porre un freno al potere politico; per evitare che, forte della sua legittimazione popolare, esso debordi; per non ripetere l'esperienza dei fascismi europei arrivati al potere grazie al voto e al consenso popolare e poi terribilmente 'debordati'. In sostanza, per impedire la dittatura della maggioranza.

La supremazia assoluta, senza contrappesi e contropoteri, della volontà popolare issata sugli stendardi e gridata a piena voce dai forzaleghisti prefigura una distorsione in senso populista della nostra democrazia liberale. Questo non è uno scontro sulle 'politiche', sempre negoziabili; riguarda i principi fondamentali del sistema, che non sono negoziabili. Il loro snaturamento implica un cambio di 'regime politico'. È ora che tutti se ne rendano conto. E prendano partito. Perché questo è il vero discrimine che separa i liberaldemocratici dai populisti, come insegnava un maestro del pensiero liberale e del costituzionalismo moderno, Nicola Matteucci.

(22 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Novembre 13, 2009, 12:05:23 pm »

Una questione di potere

di Piero Ignazi

Il crocefisso nelle scuole è catalogato al pari della lavagna e dei gessetti.

Perché tra politica e fede la Chiesa ha scelto la politica
 

Principi e consuetudini a volte coincidono, a volte divergono. La sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo - che non ha nulla a che fare con l'Unione europea e la sua Corte di Giustizia - sulla presenza del crocefisso nelle sedi pubbliche li mette in rotta di collisione.

Quanto ai principi, non c'è quasi nessuno che non renda omaggio formale alla separazione tra Stato e Chiesa e non riconosca che lo Stato deve essere laico. Anche le gerarchie ecclesiastiche sembrano sostenere queste linee guida, ma le infiorettano di argomenti così capziosi e di specificazioni così peculiari da giungere poi a conclusioni paradossali: come quando venne sostenuto che l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche non ledeva alcun diritto o sensibilità religiosa perché era una espressione della laicità dello Stato. Un ragionamento degno delle dotte e finissime discussioni bizantine sul sesso degli angeli.

Di fronte alla virulenza delle polemiche sulla sentenza della Corte europea si rafforza il sospetto che laicità dello Stato e separazione tra Stato e Chiesa non vengano prese sul serio e che si tributi loro solo un riconoscimento superficiale. Se invece questi fondamenti dello Stato moderno venissero tenuti in conto per ciò che essi significano, il richiamo ad evitare la commistione tra spazio pubblico e simboli religiosi non susciterebbe alcuno scandalo. Sarebbe una semplice, tranquilla e serena deduzione logica.

Per quale motivo il simbolo di una specifica religione, benché di gran lunga maggioritaria, dovrebbe 'occupare' gli spazi pubblici che per definizione sono di tutti e che perciò non devono essere 'segnati' da alcun elemento che connoti una religione piuttosto che un'altra? Apparentemente non se ne vedono. A meno di negare i principi della laicità e della separazione. Ma così, per ora, non è. La Chiesa si limita a qualificare e delimitare lo spazio della laicità, non a negarla in toto. E si appiglia alle consuetudini derubricando il crocefisso a simbolo culturale. Non vi è dubbio alcuno che la presenza del crocefisso costituisca una 'abitudine', un elemento del paesaggio e dell'arredo. Tant'è che nelle scuole è catalogato come suppellettile al pari della lavagna e dei gessetti.

La consuetudine della sua presenza si scontra con l'affermazione di un principio.

Ma è un caso degno di una così corale levata di scudi? Perché questa astiosa mobilitazione contro la Corte europea dei Diritti dell'Uomo i cui giudici sono stati descritti, seguendo la moda lanciata da Silvio Berlusconi (tanto per non dimenticare quanto profondo sia il solco che il Cavaliere lascia nella cultura politica italiana), come degli incompetenti e degli ignoranti? Innanzitutto perché dei principi non ci si cura: come in tante altre sfere della vita pubblica nazionale, le norme generali diventano sempre à la carte quando premono forti interessi e forti gruppi di interesse.

La Chiesa italiana, gruppo d'interesse quant'altri forte, conduce da tempo una offensiva tambureggiante contro la laicità dello Stato e tenta di tappare la bocca ai suoi critici tacciandoli di 'laicismo', neologismo inventato ad hoc proprio per stigmatizzare. In questo caso la generale sensibilità affettiva per il crocefisso è servita per mettere ancora più nell'angolo laici e non credenti.

Tacitando anche quei cattolici che dei simboli - spesso abusati e sfregiati - non sanno che farsene per esprimere la loro fede.

Tra la politica e la fede, la Chiesa ha scelto la politica potendo contare su una autorità pubblica compiacente e servizievole. Grazie a tale appoggio la Chiesa potrà imporre la sua presenza anche alla minoranza di non credenti e di altri perché, come è stato scritto senza suscitare reazione alcuna, la sentenza della Corte europea esprime "una concezione estrema del rapporto tra i diritti dei pochi e la sensibilità dei molti". A seguire questo ragionamento ne discende che i diritti dei pochi devono essere 'affievoliti' o magari anche dimenticati se offendono la sensibilità della maggioranza.

Aspettiamo solo che ai laici rimasti ancora in circolazione - anzi, ai laicisti, ovviamente - sia appiccicata una bella stella gialla. Intanto, giusto per far capire come ci si deve comportare, i cattolicissimi e caritatevoli compagni di classe hanno già provveduto a riempire di botte il ragazzo in nome del quale è stato fatto il ricorso alla Corte europea. Dei Diritti dell'Uomo, apparentemente.

(12 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:45:23 pm »

Quelle inutili riforme

di Piero Ignazi


Mettere mano alla Costituzione non serve se non cambia la cultura politica del Paese  Umberto BossiLe modifiche alla Costituzione segnano sempre un passaggio epocale. Non per nulla sono rarissime nei sistemi democratici consolidati e, per lo più, riguardano elementi di contorno piuttosto che l'assetto dei poteri. Quando invece ridisegnano l'architettura istituzionale di un sistema, come nel caso della Francia del 1958, il cambiamento è tale da assurgere a vero e proprio passaggio di regime, dalla IV alla V Repubblica. Ma per effettuare cambiamenti di tale genere ci devono essere condizioni adeguate, e cioè una situazione di crisi: pressioni esterne destabilizzanti e/o minacce interne distruttive che generano una domanda ineludibile di cambiamento. Aveva senso mettere mano alla Costituzione dopo il 1994 in quanto 'il sistema di potere democristiano' (non la sola Dc) si era disintegrato ed erano apparsi nuovi, inediti, attori politici che necessitavano di una sorta di 'costituzionalizzazione'.

Ma ora, a 15 anni dal grande cambio, che senso ha parlare di riforme istituzionali? Eppure l'idea di una 'grande riforma' torna ad occupare la scena. Come se la soluzione della crisi politica stesse in una nuova Costituzione. No: al di là dei contenuti di qualsivoglia proposta, è illusorio pensare che buone istituzioni mutino significativamente la politica nazionale. Quello che deve cambiare per invertire la rotta di collisione - anzi, per limitare i danni della collisione, violenta, già in atto - è la cultura politica di questo Paese. Fintantoché domina uno spirito di fazione che ci conduce ad una guerra civile a bassa intensità, con ministri della Repubblica che urlano insulti a intere categorie sociali - Bondi nei confronti degli intellettuali, Gelmini nei confronti degli insegnanti , Alfano nei confronti dei magistrati, Brunetta urbi et orbi - per finire con un presidente del Consiglio che taccia di antinazionale l'opposizione e di golpisti gli altri poteri dello Stato, ogni innovazione istituzionale perde di senso. Perché mancano le basi culturali comuni per fondare regole condivise, perché c'è una parte del Paese, alimentata ed allo stesso tempo espressa dalla destra, che ha in dispetto i principi su cui dovrebbe fondarsi una democrazia civica e civile.

Ai descamisados del populismo berlusconiano non interessa nulla di rispetto delle competenze, di senso del limite, di equilibrio e separatezza di poteri. Vogliono tutto e subito. Godendo di un vantaggio competitivo rilevantissmo - il potere mediatico, e solo chi è in malafede non riconosce questo stato di fatto - pensano di approfittare della contingenza per ritagliare un sistema a loro immagine e somiglianza, cioè estendendo i poteri di decisione a scapito di quelli di controllo.

Se poi andiamo nel dettaglio delle proposte che circolano per quale ragione dovremmo, per esempio, attuare la trasformazione dello Stato da unitario in federale? Perché mai dovremmo accodarci ad un progetto che beneficia solo una piccola forza politica locale che a stento ha raccolto il 10 per cento dei voti? Una forza politica, tra l'altro, che colleziona disastri uno sull'altro: dalla Malpensa difesa come simbolo della forza trainante del Nord operoso e ormai abbandonata come un hangar dismesso, alle ronde presentate come una domanda corale del popolo indifeso poi risoltesi in un flop da Guinness dei primati, dal basta con le sanatorie e il lassismo delle sinistre alla ennesima sanatoria, peraltro fallita, per le badanti e le colf straniere. Eppure nonostante tutti questi fiaschi - e tacciamo per amor di patria le censure di tutti gli organismi internazionali sul trattamento degli immigrati e degli zingari - la Lega continua a dettare l'agenda delle riforme istituzionali mettendo al primo posto il federalismo.

E la sinistra che fa? Si adegua ovviamente, perché nelle raffinate menti dei suoi strateghi accodarsi alla Lega sul piano delle riforme porterebbe a chissà quali benefici politici. Ma non basta. Oggi il Pd si dice anche disposto a collaborare volenterosamente. Presenta bozze, progetti, documenti, organizza incontri pubblici e conciliaboli privati. Forse, se ritornasse al come e perché la Commissione Bicamerale naufragò, si ricorderebbe che è molto rischioso tentare accordi con chi è molto più bravo di te nell'arte della contrattazione. Ne consegue che occorre andare con piedi di piombo, idee chiare e condizioni irrinunciabili. Il segretario del PD ha posto come condizione pregiudiziale la rinuncia al processo breve. Messa così sembra un ostacolo insuperabile. Ma c'è da scommettere che si arriverà ad un compromesso che salverà la sostanza a Berlusconi - una qualche forma di impunità - e la faccia al PD. Cosa vale di più tra la sostanza e la faccia?

(04 dicembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 29, 2009, 03:33:49 pm »

Via i politici dalla TV

di Piero Ignazi


Sempre presenti in ogni trasmissione in cerca di visibilità e di vittoria sugli avversari, con urla, insulti, denigrazioni. E così allontanano i cittadini dalla politica
 
Sembra passato un secolo dallo strepitoso successo editoriale del libro 'La Casta' e dalle affollate manifestazioni organizzate da Beppe Grillo. Eppure era solo due anni fa, autunno 2007. Il clima è cambiato. La rabbia che sembrava montare contro tutta la classe politica, reclamando un rivoluzionamento in stile Tangentopoli, è stata abilmente incanalata, e sfruttata, dalla destra. Era il governo Prodi, era il centro-sinistra, erano tutti quei partiti e partitini i 'forchettoni' degli anni Duemila che succhiavano sangue dalle casse pubbliche alimentate dai soldi del povero ed onesto contribuente. Gli altri non avevano bisogno.

Come si poteva pensare che l'uomo più ricco d'Italia si avvalesse dei privilegi dei politici ordinari? E così, la sua immagine di Creso si stese come un manto protettivo su tutti gli intrallazzi e le ruberie della destra. Ragion per cui la casta venne identificata con la sinistra; e anche questo portò il suo contributo alla sconfitta del 2008.

Dopo le elezioni politiche non s'è più parlato di tagliare i privilegi della casta, quasi fosse scomparsa. Invece è sempre lì. Sempre presente, e in maniera ossessiva. In ogni tipo di programma televisivo e radiofonico, dal varietà all'approfondimento culturale, dall'intrattenimento allo sport, non manca mai un politico. A volte sono una truppa di cinque o sei, più i collegamenti audio e video per non far sentir soli i telespettatori.

L'invadenza è soffocante: sempre le stesse facce che piantonano il video più volte alla settimana, oltre a disporre di un microfono compiacente in tutti telegiornali pubblici e privati. Questa occupazione militare degli spazi radio-televisivi produce una serie di effetti negativi sulla fiducia dei cittadini nel sistema politico e sulla stessa lotta politica.

Innanzitutto l'overdose televisiva di politici, e di politica gridata, produce sia assuefazione che, strettamente correlati ad essa, disinteresse e disincanto: "Sono ancora quelli lì, dicono sempre le stesse cose.".

Conduttori e programmatori sanno bene che non c'è male peggiore della ripetitività, ma non possono sottrarsi al diktat della politica. Anche quelle trasmissioni che avevano bandito i politici - 'L'infedele' de La 7 e il Gr mattutino di Radiotre - alla fine hanno capitolato.

L'altro effetto negativo, ancora più grave, è la radicalizzazione del conflitto politico. Ad ogni trasmissione il politico deve cercare di 'bucare lo schermo' di dire - o fare - qualcosa che lo renda visibile, che lo distingua, e che, soprattutto, lo veda 'vincente' nei confronti del proprio avversario. Questi due obiettivi - visibilità e vittoria - portano ad una esasperazione di toni e ad una aggressività distruttiva: bisogna urlare più forte, spararla più grossa, schiacciare l'avversario. E quindi, la televisione diventa la ribalta per promuovere se stessi più che per comunicare idee e proposte; diventa un ring dove darsele di santa ragione più che una agorà di dibattito pubblico.

Infine, il veleno più sottile della sovraesposizione mediatica è la disinibizione assoluta. A forza di calcare le scene e di non avere mai dei freni, i politici si abbandonano ad ogni esternazione da bar, con l'idea di essere così più a contatto con il popolo, immaginandolo rozzo e volgare come loro.

Nemmeno un conduttore della qualità di Lamberto Sposini ha potuto arginare uno scatenato Ignazio La Russa che, in 'La vita in diretta' del 4 novembre 2009, arriva a gridare, lui ministro della Difesa, "possono morire, ma il crocefisso non lo toglieremo dalle scuole"; aggiungendo, elegantemente, "sono incazzatissimo".

La perdita dei freni inibitori e l'abbassamento del linguaggio facilita l'insulto, le urla, la denigrazione, e conduce ad una rissa continua. I guasti della invasione mediatica dei politici incidono a più livelli: favoriscono la disaffezione dei cittadini infastiditi per la loro onnipresenza e accentuano il distacco dalla politica e dal sistema; innescano un processo di maggiore radicalizzazione del conflitto politico; degradano il linguaggio e lo spirito pubblico fornendo pessimi modelli di comportamento. La rimozione massiccia dei politici dalla tv e il loro confinamento in precise riserve jacobelliane è la condizione sine-qua-non per ri-civilizzare la politica italiana.

(22 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:55:19 am »

Rosarno Burning

di Piero Ignazi

Il Ku Klux Klan con la coppola che va a caccia degli immigrati e uno Stato che tollera lavoro nero, caporalato e sfruttamento
 
Rosarno Burning? Come nelle piantagioni di cotone dell'Alabama e del Mississippi ai bei tempi del Ku Klux Klan, anche la piana degli aranci di Rosarno risuona degli spari dei bravi e onesti cittadini bianchi, decisi a far capire a questi negri qual è il loro ruolo: lavorare 12 ore per una miseria, sempre che se lo meritino altrimenti una bella legnata e via dalle scatole, nascondersi in tuguri ammassati come bestie, e portare sempre rispetto a chi gli dà lavoro. E se ti prendono a fucilate, zitto e mosca. Non ti azzardare a protestare perché altrimenti sono guai grossi.

Quello che è successo a Rosarno supera ogni peggiore fantasia. Ben peggio di quanto si verificò l'anno scorso in Campania quando a Castelvolturno spararono nel mucchio o per divertimento criminale o per mandare un preciso avvertimento. Allora, quasi nessuno si schierò coi malavitosi. A Rosarno, invece, abbiamo assistito a scene di caccia all'uomo da profondo Sud americano. Il Ku Klux Klan con la coppola è dilagato, indisturbato. Quelli dalla pelle nera sono diventati selvaggina da cacciare a piacimento: come i leprotti evocati del sindaco leghista di Treviso Giancarlo Gentilini, animali che si possono tranquillamente impallinare. In fondo, se lo ha detto un amatissimo sindaco di una civilissima città del Nord, i calabresi devono essere da meno?

L'odio versato a piene mani in questi anni dalla destra forzaleghista contro gli immigrati sta dando i suoi frutti. Gli immigrati sono diventati agli occhi di tanti dei 'non-uomini'. Lo hanno detto e ripetuto testualmente anche i cittadini di Rosarno: "Quelli sono bestie". E le bestie pericolose si abbattono. Come ci vuol poco a scendere lungo la scala della disumanità. Ma che 'uomini' sono quelli che sfruttano in maniera bestiale la fame degli immigrati, quelli che chiedono 50 euro per una stanza da dividere in dieci, quelli che ammazzano di botte uno che chiede di essere pagato? I reportage di
Fabrizio Gatti su 'L'espresso' tre anni fa avevano denunciato tutto questo, ma l'inerzia del centrosinistra, indignato quanto imbelle, e poi del centrodestra, menefreghista se non connivente, ha lasciato le cose come stavano.

Lo schiavismo alla pommarola continua a proliferare nelle campagne e nei cantieri di tutto il Sud. Un tempo, c'erano militanti di sinistra e sindacalisti coraggiosi, le cui tombe punteggiano tutta la Sicilia, a cercare di sottrarre la povera gente alle violenze dei 'caporali' e dei loro mandanti; oggi c'è il deserto. Per tante ragioni. Perché gli immigrati non votano, perché sono ancora meno mobilitabili contro l'ingiustizia dei cafoni di Carlo Levi, perché la criminalità organizzata si è estesa e rafforzata (anche se in Sicilia ha 'piegato il capo in attesa che passi la piena' seguendo il celebre detto mafioso), perché di uomini e partiti combattivi se n'è persa traccia. Eppoi perché i nostri valori di riferimento sono cambiati: l'egemonia culturale della destra - mentre c'è ancora chi rimesta la vecchia minestra dell'egemonia culturale della sinistra - ha spazzato via i principi fondanti della democrazia repubblicana: l'uguaglianza degli uomini, il riconoscimento di diritti naturali, la fraternità e la solidarietà.

Soprattutto, pietà l'è morta. Guai ai vinti. I vinti, oggi, sono gli ultimi della scala sociale, i poveri e gli immigrati. Per loro c'è carità pelosa (indigna ancora la social card tremontiana) o emarginazione totale. Comunque, non devono farsi né vedere né sentire. Se invece si arrabbiano arriva un ministro dell'Interno a dire che abbiamo tollerato troppo.

Ma cosa abbiamo tollerato, onorevole Maroni? Il caporalato, il lavoro nero, lo sfruttamento feroce, il controllo criminale del territorio, forse? Sì, tutto ciò è stato tollerato troppo a lungo: questo avrebbe dovuto dire, in un paese civile, un ministro della Repubblica.

L'illegalità diffusa e le condizioni inumane in cui è costretta questa nuova 'schiuma della terra' devono invece essere occultate, minimizzate, sopite. Tenute lontane dagli occhi dell'opinione pubblica. Non a caso, con solerzia illuminante, a tre giorni dagli incidenti già venivano demolite le baracche in cui avevano trovato una sistemazione (indecente) le centinaia di lavoratori immigrati. Così si è evitato il rischio che qualche televisione non omologata portasse nelle case immagini dissonanti rispetto alla propaganda governativa.

Il politicamente corretto della destra, la 'neoligua' orwelliana in cui siamo sempre più avvolti, recita che immigrato equivale a reato, diritto ad editto, e fraternità ad animosità.

(14 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:48:07 am »

Diverse candidature

di Piero Ignazi

Mentre il Pd, anche a rischio di divisioni, coinvolge gli elettori nel Pdl a decidere è solo Berlusconi
 

Le modalità con le quali si stanno definendo le candidature delle regionali oscillano tra due estremi: si va dalla nomina dall'alto - il vertice del partito decide e la base obbedisce - fino alla competizione aperta, alla base, tra candidati di uno stesso partito. Con una differenza sostanziale, però. Solo nel centrosinistra, per quanto non sempre e dovunque, si selezionano le candidature affidandosi alle decisioni degli iscritti e/o degli elettori delle regioni coinvolte. In particolare il Pd avrebbe nel suo statuto (art. 18,19, 20) l'obbligo di ricorrere alle primarie sia per il presidente della Regione che per le altre cariche.

Benché sia all'opera una commissione per le modifiche statutarie, il vincolo rimane tuttora valido. Quindi, ad eccezioni delle regioni in cui si ricandida il presidente uscente, come in Piemonte ed Emilia-Romagna (in questa circostanza per indire le primarie bisogna raccogliere un elevato numero di firme), il Pd avrebbe dovuto organizzare ovunque una consultazione tra i propri sostenitori. Invece, dopo esservi stato trascinato dall'abilità politica di Nichi Vendola in Puglia, ed esserne uscito maluccio, il Partito democratico preferisce seguire il metodo classico della ricerca del consenso interno attraverso consultazioni informali.

Questo raffreddamento degli entusiasmi 'primariali' non incontra forti opposizioni interne. Evidentemente è in atto una riflessione sia sul significato simbolico che sulle modalità pratiche di utilizzo di questo strumento. Le ragioni che hanno indotto ad additare le primarie rimangono valide: aprire i partiti, renderli più trasparenti e rispondenti all'opinione pubblica, fare piazza pulita di comportamenti oligarchici, e restituire la parola ai simpatizzanti e agli elettori. Una domanda, questa, che viene da lontano, che è diffusa in tutte le democrazie occidentali, e alla quale i grandi partiti europei hanno risposto coinvolgendo gli iscritti - ma solo in pochi casi anche gli elettori - nella scelta dei candidati alle cariche pubbliche, dei dirigenti del partito e delle politiche.

Al Pd conviene calibrare meglio l'adozione di questo strumento per evitare di smobilitare i propri iscritti e terremotare la propria organizzazione. Un rischio che ha raggiunto l'apice nella barocca procedura per l'elezione del segretario, quando il voto degli iscritti doveva essere confermato da quello degli elettori, come se i primi fossero figli di un Dio minore.

Se i crucci del Pd sono dovuti ad un eccesso di entusiasmo per il pan-partecipazionismo, il centrodestra soffre del male contrario. Nella massima tranquillità, tanto la Lega quanto il PdL, continuano ad esercitare metodi di nomina dall'alto con decisioni 'arbitrarie' da parte dei rispettivi leader. Mentre nella Lega sarebbe previsto un passaggio delle candidature in Consiglio federale, nel PdL, anche in base allo statuto, è il presidente, cioè Berlusconi, a decidere in assoluta autonomia e discrezionalità. Nessuno può presentarsi se non ottiene l'avallo del capo. L'ordine procede dall'alto al basso, e la base ubbidisce prontamente.

Questa assenza di democrazia all'interno dei partiti del centrodestra non sembra interessare né ai diretti interessati né agli opinion-maker. Abbiamo letto filippiche contro l'oligarchia del Pd, mentre è calato un silenzio assordante sull'autocrazia di Lega e PdL. E soprattutto all'interno di questi partiti vige una supina accettazione di questa modalità verticistica. Evidentemente il culto del capo ha permeato tutta la membership leghista e pidiellina, con la conseguenza di sminuire il valore della partecipazione interna e del dissenso.

Ai candidati del PdL non basta però mostrare una assoluta fedeltà e devozione al leader. In coerenza con un tratto ormai caratterizzante della cultura politica berlusconiana, i candidati del PdL devono avere una immagine appealing. Passata la buriana delle Noemi e delle escort, da quelle parti si ritorna a proporre soubrette e belle donne, e a cacciare dalle liste, con tanto di dileggio, chi non esibisca un fisico esteticamente pregevole. L'emarginazione di un candidato per le sue 'orecchie a sventola' (è il caso di Claudio Ricci, sindaco di Assisi ) è ancora più insultante delle candidature delle giovani avvenenti. Siamo alla stigmatizzazione delle caratteristiche fisiche: oggi le orecchie a sventola, domani magari il naso camuso o la pelle nera. Che questo proto-razzismo passi quasi inosservato o venga semplicemente citato come una curiosità, dimostra tutta la regressione del nostro vivere civile e politico.

(04 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Febbraio 27, 2010, 10:55:45 am »

Pdl in crisi d'identità

di Piero Ignazi

Il partito è in preda a una guerra per bande che sembra preludere a un crollo di regime
 

Dalle intercettazioni sulle attività della Protezione civile arroganza del potere e affarismo familistico debordano senza freni. Solo grazie alla diffusione di questi colloqui la realtà della vita politico-affaristica nazionale - uno spicchio appena, comunque - viene svelato a una opinione pubblica ignara. Ignara di tante bassezze ma da tempo sospettosa e insofferente. L'ondata antipolitica dell'autunno 2007, che travolse il governo Prodi e il centrosinistra perché, secondo una vulgata abilmente costruita, lì c'erano i politici di professione e quindi i reprobi, è pronta a montare di nuovo, e questa volta dirigendosi a destra.

Ciò che alimenta la disaffezione non è più l'indifferenza e il disinteresse come nel passato, bensì la rabbia e il disgusto. Sono spinte passionali, facili a prendere fuoco. Per questo il presidente del Consiglio e lo stesso Guido Bertolaso stanno correndo così affannosamente ai ripari. Addirittura con l'invocazione di norme anticorruzione più severe (ma chi le ha annacquate negli ultimi anni?) e con l'esclusione dei corrotti dalle liste elettorali. In un fiat il centrodestra passa dalla rivendicazione dell'autonomia e della superiorità della politica rispetto alla magistratura - un ritornello ossessivo degli ultimi anni - al 'codex dipietrianus' della immacolatezza penale dei candidati.

Un passaggio di 180 gradi troppo brusco per essere digerito dalla classe politica del Pdl. Dov'è finita la 'legittimazione popolare' che rendeva intoccabile il politico? E l'immunità parlamentare? E il giustizialismo della sinistra e dei pm? Tutte vecchie bubbole ormai, fatte scoppiare da Berlusconi per paura della marea montante dell'indignazione popolare (eh sì, proprio lei, 'l'indignazione', vilipesa e irrisa fino a ieri, come fosse una mania di quegli isterici della sinistra).

Le risate nella notte del terremoto rimarranno impresse indelebilmente nelle mente degli elettori: e saranno messe in conto al centrodestra. Ma invece di seguire il leader nella sua rincorsa a una riverniciatura etico-morale del partito buona parte dei dirigenti pidiellini preferiscono affilare i coltelli e prepararsi alla divisione delle spoglie.

La guerra per bande che si sta scatenando nel partitone di governo sembra preludere ad un crollo di regime. La leadership dispone ancora di risorse in abbondanza per tenere unito il partito; ma il clima è lontano mille miglia da quello trionfante di un anno fa. Il Popolo della libertà non registra solo una battuta d'arresto nel consenso popolare, una perdita di feeling con l'opinione pubblica: crisi fisiologiche che si possono superare tranquillamente. In realtà si trova sull'orlo di una crisi di identità. Rischia di smarrire le ragioni 'esistenziali' della sua costituzione. Al di là dell'identificazione assoluta in Silvio Berlusconi e dell'odio coriaceo verso tutto ciò che odori di sinistra, il Pdl è un magma indistinto dove non solo circolano ispirazioni e pulsioni diverse, ma sono tutte di un profilo sbiadito. Se si allenta il collante della leadership, il partito si sfilaccia: e questo a causa di una debole identità collettiva più che di uno scontro di forti identità contrapposte.

Cosa è il Popolo della liberà oggi? Un alfiere del libero mercato? Basterebbe la vicenda Alitalia per rispondere con un sonoro no; al resto ci pensa il colbertismo tremontiano, le cui opere mirabili sono picconate dalla corrosiva analisi di un gruppo di giovani economisti di stanza negli Usa: 'Tremonti. Istruzioni per il disuso' (edizioni Ancora del Mediterraneo).

Un difensore dei valori morali tradizionali e cristiani? Beh, l'estate delle escort e le sue appendici invernali hanno messo una pietra sopra a questa bizzarria, anche se le infinte prebende concesse alla Chiesa gli evitano interventi critici da parte delle gerarchie.

Un roccioso guardiano della legge e dell'ordine? Con il dilagare della corruzione tra i suoi politici e l'assenza di una qualsivoglia politica di integrazione degli immigrati - Rosarno e via Padova non sono che la punta di un iceberg - la sua faccia feroce si scompone in mille rughe.

Silvio Berlusconi ha dato corpo e rappresentanza a pulsioni vitalistiche e insofferenti di regole che premevano da tempo nella società e che cercavano qualcosa di nuovo rispetto alla politica tradizionale (a lungo identificata nella sinistra): ma non ha creato una identità politico-culturale che vada al di là della sua persona. La talpa finiana, dopo aver lavorato sottotraccia, alla fine, potrebbe riemergere come un'ancora di salvezza.

(25 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Marzo 19, 2010, 06:41:48 pm »

Il ministero dell'amore

di Piero Ignazi


Odio e Amore. Bene e Male. Berlusconi agisce su potenti leve pre-politiche per ottenere consenso
 

Nell'universo concentrazionario immaginato da George Orwell in '1984', vi era una istituzione che più di ogni altra 'incuteva un autentico terrore': il ministero dell'Amore. Era l'unico privo di finestre perché nulla doveva trapelare all'esterno. Ai contatti con il mondo provvedeva il ministero della Verità, dove si cancellava la memoria delle notizie sgradite e se ne confezionavano di verosimilmente false. Solo il partito poteva decretare quando il vero era falso, e il falso vero.

Tutto questo suona familiare nel paese di Berluscandia. Non è vero il ritardo degli apparatniki pidiellini nel presentare le liste, non è vera la mancanza di timbri e bolli, non è vera la nonviolenza dei radicali (anzi, ecco un 'vero' scoop: sono i radicali i violenti, non i nostalgici del manganello). La realtà non esiste in sé: si materializza solo quando filtra dagli alambicchi comunicativi di Palazzo Chigi.

Così nasce e si impone il 'benpensare': eliminando i fatti sgradevoli e diffondendo urbi et orbi la loro 'giusta' versione. L'allucinante conferenza stampa del presidente del Consiglio che ribaltava su giudici e avversari politici la responsabilità dei pasticci commessi dai dirigenti del suo partito si attaglia perfettamente allo schema orwelliano. D'un colpo, appena annunciato, il benpensare berlusconiano diventa norma e i più diligenti dei suoi fidi si precipitano in tv a propagarlo, esaltando nordcoreanamente la nuova verità offerta dal capo ai poveri di spirito. E chi aveva dubitato, raddoppia l'impeto e l'entusiasmo. Per riconfermare la propria fedeltà. Perché il capo non sbaglia mai.

Ma il Grande Fratello non solo è l'unica fonte di verità: è anche e soprattutto fonte inesauribile d'amore, anzi è l'amore in sé e per sé. Infatti, come grondano d'amore le parole sue - e dei suoi seguaci - quando si rivolge agli avversari! Con quanta soavità e gentilezza li tratta! Questa continua inversione della realtà, questa continua manomissione dei fatti, costruisce uno scenario tanto fittizio quanto plausibile agli occhi di molti.

Perché? Perché agisce su potenti leve pre-politiche. Affinché lo scenario imposto dal Grande Fratello diventi credibile, va scatenata una gigantesca energia emotiva che diriga affettivamente l'attenzione, e poi l'adesione, alle parole del capo. Ogni richiamo a dati di fatto empiricamente verificabili, ogni ragionamento logico-razionale, ogni analisi critica, vengono travolti dalla potenza evocativa dei riferimenti mitico-simbolici al bene e al male. Tutto viene ridotto alla divisione del mondo tra chi ama e chi odia. Cioè alla massima semplificazione possibile delle categorie interpretative del reale, quelle che ogni persona, anche la meno articolata, utilizza per orientarsi nel mondo.

Adottando categorie dotate di valenze affettive così forti, che trascendono quelle cognitive-razionali, nel momento in cui vengono traslate in politica creano identificazioni e fedeltà solidissime. Staccarsene produce un trauma affettivo oltre ad uno spaesamento: se non sono più nel bene, vuol dire che sprofondo nel male?

La degradazione della politica italiana passa anche da questo riduzionismo etico-politico. La incanala lungo una strada di odio ideologico che pensavamo di aver lasciato alle spalle alla fine degli anni Settanta, quando esistevano i nemici del popolo o i nemici della nazione a seconda degli orientamenti politici.

Ci sono voluti i lunghi anni di piombo per riconoscere che il Sistema imperialistico delle multinazionali dei brigatisti era una ridicola stupidaggine, e che le cospirazioni comuniste contro la parte sana della nazione erano deliri di fanatici nostalgici. C'è voluto quel buissimo periodo per ritornare ad una politica magari noiosa e piatta, ma decentemente rispettosa delle posizioni degli altri, una politica dove nessuno si impossessava più del bene contro il male, dove nessuno brandiva più la spada dell'arcangelo Gabriele per schiacciare il drago impuro e maligno.

Ora, il ministero dell'Amore torna ad imporsi sulla scena. Come il Winston Smith di '1984', anche noi che resistiamo al 'buonvolere' del Grande Fratello, alla fine, dopo innumerevoli lavaggi del cervello minzoliniani, saremo costretti ad arrenderci?

(18 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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