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Autore Discussione: Polito. Di Maio e la selezione dei leader Test di maturità per i Cinque Stelle  (Letto 3983 volte)
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« inserito:: Settembre 11, 2015, 10:58:08 am »

Di Maio e la selezione dei leader
Test di maturità per i Cinque Stelle
Nel movimento più carismatico di tutti, scaturito da un’ondata di anti-politica senza paragoni, si affermerebbe un processo di selezione del leader squisitamente politico

Di Antonio Polito

Se fosse vera anche solo metà delle chiacchiere che si fanno su Luigi Di Maio, e che lo danno lanciato come candidato premier del Movimento Cinque Stelle alle prossime elezioni, ci troveremmo di fronte a un fatto nuovo della nostra vita democratica, a una sua maturazione. Nel movimento più carismatico di tutti, sorto come d’incanto intorno alla verve oratoria di un comico, nel pieno di un’ondata anti-politica senza paragoni in Europa, si affermerebbe infatti un processo di selezione e di formazione della classe dirigente squisitamente politico. E nel senso buono: basato cioè sulle competenze e sulla capacità di creare consenso, non sulla lotta tra correnti e i lunghi coltelli delle preferenze.

Di Maio ha l’aria di un bravo ragazzo, con i capelli più corti e gli occhi meno indemoniati di un Grillo o di un Casaleggio; eppure sembra al contempo capace di garantire anche l’elettorato tradizionale grillino, col sostegno del fondatore. Ma anche se a prevalere fosse un altro dei tre cavalli di razza del M5S, ci troveremmo ugualmente davanti a una svolta. P er chiunque di loro la promozione a leader e portabandiera sarebbe infatti un premio assegnato alla attività parlamentare: dunque un sigillo al processo di transizione da un movimento gravido di pulsioni anti-parlamentari, e perfino sfiorato da qualche tentazione extraparlamentare, a una forza politica certamente originale e anomala, ma pienamente inserita nel gioco della democrazia rappresentativa.

Non è cosa da poco, trattandosi di un polo che attrae tuttora un quarto degli elettori italiani, e che ha dimostrato nel tempo di non essere un fuoco di paglia, radicandosi in maniera perfino sorprendente nelle abitudini di voto degli italiani. Il che vuol dire che interpreta un’esigenza e riempie un vuoto non colmato anche nell’epoca di Renzi (e la leggina con cui i partiti si sono appena condonati i bilanci spiega bene di che natura sia). A livello del governo locale poi, dove non sono impacciati dal peso di proposte economiche ancora un po’ naïf, i grillini possono contare su una immagine di forza moralizzatrice, da guardian angels della cosa pubblica, che li rende elettoralmente competitivi anche a prescindere da Grillo (la ragione per cui non si vota subito a Roma, o in Sicilia, è proprio la concreta probabilità di vittoria dei Cinque Stelle).
Il Movimento ha insomma bisogno di compiere il salto di qualità di una leadership per così dire laica, e credibile. Ma non basta mettersi la cravatta e buttare le scie chimiche: perché funzioni questa operazione deve essere vera, sincera. Di Maio, o chi per lui verrà scelto per correre alle prossime elezioni, non può essere un puro prestanome, al quale è impedito in partenza di introdurre le necessarie innovazioni. La prima delle quali, condizione indispensabile per fare davvero politica, è la possibilità di stringere alleanze senza dannarsi l’anima, per strappare così risultati concreti. È questa infatti l’essenza stessa della democrazia parlamentare: nella quale uno vale uno, ma non vale niente finché non conquista una maggioranza.

11 settembre 2015 (modifica il 11 settembre 2015 | 07:15)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_11/test-maturita-cinque-stelle-f88da78c-5842-11e5-8460-7c6ee4ec1a13.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 09, 2017, 12:05:53 pm »

Partito democratico
La furbizia del buon politico

Di Antonio Polito

Tiziano Renzi e Luca Lotti non sono colpevoli. Lo dice la Costituzione all’articolo 27, che aggiunge: “Sino alla condanna definitiva”. Nel nostro caso il processo non è ancora nemmeno cominciato, e non è neanche sicuro che cominci mai contro i due politici indagati, perché prima ci vuole un rinvio a giudizio. È bene ricordarlo, come ha fatto su questo giornale l’avvocato Giuliano Pisapia, uno dei pochi in Italia che riesce a non dimenticare la legge anche nel pieno della mischia politica. Questa avvertenza vale come principio teorico, ma anche come fatto storico. Non sarebbe infatti la prima volta che dei politici finiscono in un’inchiesta su Romeo e ne escono puliti. Accadde a Napoli nel 2008: quattro assessori della giunta Iervolino furono arrestati e un altro, Giorgio Nugnes, si tolse la vita, perché accusati di aver favorito l’imprenditore nell’assegnazione di un appalto comunale. Le accuse caddero in parte nei due gradi di giudizio, e del tutto in Cassazione, che annullò la sentenza senza rinvio, parlando di “vuoto probatorio” e di “deduzioni generiche perché enunziate ma non dimostrate”. Tutto questo non per sminuire la portata dall’attuale inchiesta Consip e le ombre pesanti che proietta sul sistema degli appalti pubblici. Ma anzi per dire che non c’è davvero bisogno di aspettare che la giustizia faccia il suo corso per vedere quanto diffusa e ormai quasi accettata sia diventata la commistione tra affari e politica nel nostro paese, innanzitutto nel partito di governo, il Pd.

Si è negli anni indebolito l’argine morale e deontologico, e si è spesso oltrepassato il limite della decenza, nel nome di una presunta modernità. La furbizia e la spregiudicatezza sono diventati requisiti del buon politico, soprattutto se giovane e dunque dinamico, insofferente dei vecchi riti. Ma se le regole basilari di buona condotta non vengono più rispettate, un po’ alla volta si apre la strada, consapevolmente o perfino inconsapevolmente, alle degenerazioni. Facciamo un esempio. Se si chiede all’avvocato Alberto Bianchi di presiedere la fondazione che raccoglie fondi per Matteo Renzi, gli si deve anche chiedere di mettere fine ai suoi rapporti di lavoro (parcelle per 290mila euro in quattro anni) con un’azienda come Consip che assegna appalti pubblici, perché è esposto al sospetto di non essere neutrale nei confronti di chi gli ha versato dei contributi. Altrimenti si aggrava il rischio che qualche imprenditore ci provi, versando soldi e poi chiedendo favori in cambio. Magari all’amministratore delegato della Consip, nominato da quello stesso potere politico su base fiduciaria, il quale ha ammesso in un interrogatorio di aver subito pressioni e ricatti. Un altro esempio: se si inserisce surrettiziamente Verdini e il suo gruppo di fuoriusciti da Forza Italia nella maggioranza di governo, come fece il governo Renzi, con che autorità si può poi impedire a tanti politici locali di fare avanti e indietro tra centrodestra e Pd (due di loro, a Napoli e a Castellammare di Stabia, comprando tessere a pacchi, in contanti o con la carta Poste Pay)?

E se, sempre restando a Napoli, il consigliere comunale che dava un euro a testa agli elettori fuori dal seggio per far vincere il suo candidato alle primarie viene poi assolto dalla commissione di garanzia perché il suo comportamento «non era inappropriato», come si può pretendere che gli affaristi non affluiscano al Pd, riconoscendolo come un luogo dove si può scalare il potere per fare affari? Non deve trattarsi solo di Napoli, se è vero ciò che ha scritto Francesco Grignetti sulla Stampa, e cioè che al circolo Pd dei Renzi, a Rignano, vanno a iscriversi a frotte anche dai comuni vicini, come se fosse una Medjugorje del potere. Lo sdoganamento della furbizia non è solo un difetto di Renzi, riguarda anche i suoi oppositori. È stato notato di recente che in una sola intervista Michele Emiliano ha usato cinque volte il termine «fregare», volevano fregarmi, non mi faccio fregare, sarò io a fregare loro. Oggi, sempre più apertamente, la politica è astuzia e tornaconto personale. E stiamo parlando, nel caso di Emiliano, di un signore che pretende di diventare segretario del maggior partito italiano senza dimettersi dalla magistratura. Del resto faceva il pm a Bari ed era impegnato in delicate inchieste politiche quando fu candidato, con la benedizione di D’Alema, a sindaco della stessa città. La moralità politica non è solo non rubare. È anche rispettare e far rispettare le regole dimostrando la massima severità e intransigenza, evitando così che qualcun’altro pensi di poter farla franca violandole. Questo aspetto della rottamazione del malcostume italiano non è riuscito alla leadership di Renzi. Ne sta pagando il prezzo, forse anche al di là delle sue responsabilità personali.

6 marzo 2017 (modifica il 6 marzo 2017 | 21:06)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_marzo_07/furbizia-buon-politico-e2d59c7c-02a7-11e7-b9cd-27dc874c2067.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 07, 2017, 01:10:06 pm »

VALORI

Oltre Bobbio, oltre Ventotene

Nel saggio «Sinistra e popolo» (Longanesi), Luca Ricolfi sferza la sinistra, vittima della «superiorità morale» e dell’europeismo «giacobino», analizzandone la crisi

  Di ANTONIO POLITO
 
Luca Ricolfi torna sul luogo del delitto, dove dodici anni fa, con il suo pamphlet Perché siamo antipatici, constatò il decesso dell’antico rapporto tra sinistra e popolo. Però stavolta invece che una sola vittima, e cioè la sinistra italiana spocchiosa, con il «complesso del migliore» e ossessionata dall’anti- berlusconismo, si trova davanti un’ecatombe: ovunque in Occidente «il popolo non trova più nella sinistra la sua naturale espressione politica», e un’altra offerta, detta «populista», è diventata per così dire più popolare. Perché?
Luca Ricolfi, «Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi» (Longanesi, pp. 288, euro 6,90)
Nel suo nuovo saggio (Sinistra e popolo, Longanesi) Ricolfi analizza molti possibili cause, con l’acribia e il gusto per la statistica che ne fanno uno dei più originali analisti della nostra società. Ma su due punti in particolare introduce nuovi e convincenti spunti di riflessione. Il primo è, come si sarebbe detto un tempo, strutturale: la sinistra si è infatti dimostrata perfettamente a suo agio nel dopoguerra in un habitat economico e sociale che non solo non esiste più ma potrebbe non esistere mai più. Il che non ci può far escludere che quella attuale sia anche una crisi finale: perché prima ancora di non sapere dove andare, la sinistra oggi non sa più dove si trova.
«L’età dell’oro per le forze della sinistra sono stati i cosiddetti glorious thirty, i trent’anni di prosperità che vanno dalla fine della guerra alla grande recessione del 1974-1975». Anni di crescita rapida, più redditi, più consumi e più welfare. Fu un «miracolo», soprattutto nei Paesi usciti sconfitti dalla guerra come l’Italia. Quando però con la crisi petrolifera del ’73 e poi con l’avvio della competizione globale i rapporti tra Paesi sviluppati e Paesi emergenti cominciano a cambiare, esplode la crisi fiscale dello Stato, e inizia il lento ma inesorabile declino dell’Europa. Un po’ alla volta, soprattutto dopo l’ultima Grande Crisi, si diffonde tra la gente l’idea della «fine della crescita». Le nostre società un tempo opulente diventano «a somma zero», per dirla con Lester Thurow: «A fronte di qualcuno che vince c’è sempre qualcuno che perde, perché la torta da spartirsi è limitata e non aumenta nel tempo». Si fa strada la disperata convinzione che i figli avranno un futuro peggiore dei padri. Ma in un clima così, di «stagnazione secolare», può avere ancora un senso la sinistra? In un tempo in cui nessuno crede più che la crescita possa tornare a finanziare il welfare, la grande protezione sociale che la sinistra garantiva al popolo, che ruolo ancora può svolgere?
Si parlerà del libro a Tempo di libri sabato 22 aprile alle 15.30 (Sala Courier - Pad. 2), nell’incontro con lo stesso Luca Ricolfi, Giuliano Pisapia, Marco Damilano
Si parlerà del libro a Tempo di libri sabato 22 aprile alle 15.30 (Sala Courier - Pad. 2), nell’incontro con lo stesso Luca Ricolfi, Giuliano Pisapia, Marco Damilano
Anche perché il bisogno di «protezione» che avvertono i ceti popolari, lungi dall’affievolirsi, si è piuttosto indirizzato contro ogni forma di competizione che venga dall’esterno. E quindi chiede cose che la sinistra non può dare, perché la sua cultura nega alla radice proprio l’esistenza dei pericoli da cui quel bisogno nasce. Lasciamo la parola a Ricolfi: «La gente pensa che gli immigrati siano un pericolo? La sinistra le spiega che la diversità è un valore. La gente pensa che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una grande opportunità. La gente pensa che l’Unione Europea sia un problema? La sinistra le spiega che l’Europa non è il problema, ma la soluzione. La gente pensa che il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La sinistra le spiega che non si tratta di una guerra, che l’Islam non c’entra nulla, e che anzi gli attentati potrebbero essere una preziosa occasione per riprendere la costruzione dell’edificio europeo».
Ma perché la sinistra, letteralmente, non vede il problema? Perché in entrambi le accezioni, quella «riformista» e quella «radicale», non ascolta il popolo, come farebbe qualsiasi movimento appena un po’ pragmatico, e come fanno tutti i movimenti «populisti»? È la seconda domanda cruciale del libro. E qui si torna all’antico vizio del «complesso dei migliori», alla convinzione cioè di rappresentare la «parte migliore del Paese», oggi anche più benestante, che fa chiudere gli occhi di fronte a quella ritenuta peggiore, ma sicuramente più sofferente.
Per spiegarne le origini profonde, Ricolfi sferra un attacco frontale a due mostri sacri, che non mancherà di far discutere. Il primo è Norberto Bobbio, e il suo fortunatissimo Destra e sinistra. In quel libro, scrive l’autore, si fissa il paradigma della «superiorità morale», identificando la sinistra con l’uguaglianza e la destra con l’ineguaglianza (e di fatto nascondendo il prezzo che il mito dell’eguaglianza inevitabilmente paga alla libertà, ben spiegato invece da Friedrich von Hayek). Assegnando infatti alla sinistra un valore (l’uguaglianza) e alla destra un disvalore (la disuguaglianza) si costruiscono «le radici teoriche del disprezzo» verso chi non è di sinistra. Gli egualitaristi, scrive Kenneth Minogue, «vogliono far passare l’idea che chi non appoggia l’egualitarismo dev’essere per forza un sostenitore dell’anti-egualitarismo… così l’egualitarismo non è solo una dottrina: è anche un atteggiamento di autogratificazione».
Il secondo colpo è rivolto al celebratissimo Manifesto di Ventotene, scritto nei primi anni Quaranta da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, assurto a bibbia del federalismo europeo, di cui Ricolfi, in una velenosa coda in appendice al libro, denuncia il carattere datato e «giacobino», al punto da imputare i fallimenti dell’Europa non al fatto di aver abbandonato quell’utopia ma piuttosto di averla inseguita troppo.
Comunque la si pensi, ancora una volta Ricolfi riesce insomma a farci venire in mente idee che non condividiamo (citazione da Altan). Mette in crisi il truismo secondo il quale la sinistra è nei guai per l’ascesa del populismo, dimostrando invece che il populismo ha cominciato a crescere e la sinistra a declinare ben prima della crisi e per ragioni più profonde. E rafforza così in noi il sospetto che le cose siano piuttosto andate al contrario: è la crisi storica, e forse irrimediabile, della sinistra ad aver reso possibile e vincente la rivolta «populista» che oggi la travolge.

6 aprile 2017 (modifica il 6 aprile 2017 | 21:07)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/17_aprile_06/luca-ricolfi-sinistra-popolo-il-conflitto-politico-nell-era-dei-populismi-longanesi-48eded80-1ae9-11e7-953e-ab8f663f73c7.shtml
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