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Autore Discussione: CLAUDIO TITO.  (Letto 80875 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:22:29 pm »

Renzi: "Berlusconi rispetti i patti, prima l'Italicum poi il Colle. L'Ilva tornerà allo Stato, la salviamo e poi vendiamo"
"Voglio una sinistra moderna. La Cgil non ci fermerà, pensa solo al suo sciopero. Nel partito nuove regole sulla disciplina interna: ci sta chi ne ha voglia. Il nostro popolo al prossimo voto dovrà scegliere tra noi e Salvini". Il Pd ha rottamato Grillo

di CLAUDIO TITO

La Camusso? "Alza i toni in vista dello sciopero generale". Grillo? "Il Pd lo ha rottamato". L'articolo 18? "Bisognerebbe rileggere ciò che scrivevano sindacalisti come Luciano Lama". Prima il Quirinale e poi le riforme? "Non esiste e comunque il mio nome ora per il Colle resta solo Napolitano".

Prima di affrontare lo "show down" di dicembre che per il governo assomiglia a una corsa a tappe forzate tra l'Italicum, il Jobs act e la legge di Stabilità, Matteo Renzi traccia un bilancio di quel che il suo governo e il Pd hanno fatto nel 2014. Chiede al suo partito di abbandonare la vecchia abitudine degli "sgambetti" a Palazzo Chigi e di dar vita ad una "sinistra moderna" senza steccati ideologici.

Al punto di annunciare il ritorno all'intervento pubblico per risolvere una delle più gravi crisi industriali del Paese: quella dell'Ilva. "Poco fa -  è la sua premessa -  io ho detto che sono eroi gli imprenditori, gli artigiani, tutti i lavoratori. Chi fa il proprio mestiere. Perché le questioni vere sono queste: avere la possibilità di fare impresa e creare posti di lavoro. Questa è la sinistra moderna. Il resto è polemica inesistente".

Sarà pure inesistente ma il segretario della Cgil, Susanna Camusso, l'ha attaccata pesantemente.
"Il segretario della Cgil ha la necessità di tenere alta la tensione e i toni in vista dello sciopero generale. È legittimo e comprensibile. Ma la mia priorità è un'altra: tenere la discussione sul merito delle cose. Capisco la Cgil ma nel frattempo noi dobbiamo cambiare l'Italia e quindi non cado nella polemica".

Lei si pone l'obiettivo di cambiare l'Italia. Ma a volte sembra che voglia farlo contro il sindacato.
"No. Io lo faccio contro chi frena. Se il sindacato ha voglia di cambiare e dare una mano, ci siamo. Ma se pensano di bloccarci, si sbagliano di grosso. Il tema vero oggi è creare lavoro, non farci i convegni. Affrontare crisi industriali come quelle di Taranto, di Terni, quella dell'Irisbus. Dare nuove tutele a chi lavora e non la polemica ideologica. Questo è il governo che ha dato 80 euro a chi ne guadagna meno di 1500 al mese, che punta sui contratti a tempo indeterminato. È semplicemente quel che deve fare una sinistra moderna".

Anche l'abolizione dell'articolo 18 è un compito della sinistra moderna?
"La nuova norma servirà a sbloccare la paura. Molte aziende non assumono perché preoccupate di un eccesso di rigidità. Mancava certezza nelle regole. Noi stiamo rimuovendo gli ostacoli. È anche un elemento simbolico perché si dimostra che l'Italia può attirare gli investimenti".

Non tutti pensano che sia proprio una riforma di sinistra.
"Per molti è una coperta di Linus. Bisognerebbe rileggersi un intervento di Luciano Lama del '78, allora cambierebbero idea. Essere di sinistra è anche garantire agli imprenditori di fare impresa e creare posti di lavoro. Senza steccati ideologici".

In che senso?
"A Taranto, ad esempio, stiamo valutando se intervenire sull'Ilva con un soggetto pubblico. Rimettere in sesto quell'azienda per due o tre anni, difendere l'occupazione, tutelare l'ambiente e poi rilanciarla sul mercato. Non vivo di dogmi ideologici, non sono fautore di una ideologia neoliberista. Il dibattito sull'articolo 18, invece, è quanto di più ideologico. Il sindacato che non ha scioperato contro Monti e la Fornero, lo fa adesso contro il governo che ha fissato i tetti degli stipendi ai manager, ha dato gli 80 euro e ha tagliato i costi della politica. Noi stiamo sul merito, non sull'ideologia: sono sicuro che molti di loro cambieranno idea quando vedranno i decreti del Jobs act".

Facciamo un passo indietro. Che intende per intervento pubblico sull'Ilva?
"Ci sono tre ipotesi. L'acquisizione da parte di gruppi esteri, da parte di italiani e poi l'intervento pubblico. Non tutto ciò che è pubblico va escluso. Io sono perché l'acciaio sia gestito da privati. Ma se devo far saltare Taranto, preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo sul mercato ".

È la teoria sostenuta da molti economisti, a partire da Krugman, negli ultimi anni.
"La vera partita si gioca in Europa. Il Piano Juncker è un primo passo ma al di sotto delle mie aspettative. Glielo diremo al prossimo consiglio europeo. Il paradigma mondiale dovrebbe essere la crescita. Su questo sono d'accordo destra e sinistra: Obama e Cameron, Brasile e Cina. Al G20 in Australia molti di noi lo hanno sostenuto, ma non tutti".

Ce l'ha con la Merkel?
"Io non ce l'ho con nessuno. Ma il dibattito in Europa è molto più complicato rispetto a quanto accade a livello globale".

La flessibilità non può diventare una scusa per aumentare il deficit?
"Senza la flessibilità la politica è finita, morta, inutile. Se governare fosse solo un insieme di regole, potrebbero governare i robot. Se l'Europa non fosse stata flessibile, la prima a saltare sarebbe stata la Germania del post-muro di Berlino. Quanto al deficit, il nostro dato è uno dei migliori al mondo. Preoccupa casomai il debito. Ma in questo caso il problema è la crescita. Solo che la crescita non arriva senza un programma di investimenti pubblici e privati degni di questo nome. Fuori dalla tecnicalità: è un gatto che si morde la coda...".

Ma in questa fase serve o no più mano pubblica nell'economia?
"Dipende. Io ad esempio non sono per la presenza pubblica in così tante municipalizzate come accade da noi. Non vorrei passare da un eccesso all'altro. Bisogna valutare caso per caso".

Una cosa su cui è d'accordo con D'Alema.
"Può accadere persino questo. Ma se penso a come furono fatte certe privatizzazioni in passato non credo che l'accordo reggerebbe molto. Se penso al dossier Telecom, mi rendo conto che l'enorme debito della compagnia telefonica risale a come fu gestita la privatizzazione di quell'azienda. Diciamo che con D'Alema sono forse sono d'accordo sull'intervento pubblico, ma sono un po' meno d'accordo sull'intervento privato, diciamo".

In ogni caso lo scontro con una parte del suo partito sulla politica economica del governo e sul Jobs act pone a lei, in qualità di segretario del Pd, un problema. Come comporre le differenze in un partito che aspira a conquistare la maggioranza e che per forza di cose contiene al suo interno più anime.
"Dal punto di vista culturale la diversità aiuta e stimola il dibattito. Dal punto di vista organizzativo invece c'è un gruppo di lavoro guidato dal presidente Orfini. Quando poi ci sarà il premio alla lista servirà una gestione diversa dei processi decisionali. Come si vive la disciplina e la libertà di coscienza nel partito del ventunesimo secolo? Come tenere insieme l'idea veltroniana del partito a voca- zione maggioritaria con quello bersaniano che voleva un partito diverso dalla tradizione novecentesca ma più solido?".

E come si fa?
"Ne stiamo discutendo ma questa è la sfida interna del nuovo gruppo dirigente Pd".

Intanto c'è chi le chiede di anticipare il congresso.
"Chi usa strumentalmente questo tema dimentica che alle europee abbiamo preso il 40,8%, abbiamo recuperato 4 regioni su 4 e governiamo l'Italia cercando faticosamente di cambiare linea all'Europa. Il congresso è fissato per il 2017. Se Zoggia o D'Attorre pensano di fare meglio potranno dimostrarlo tra tre anni come prevede lo Statuto. Nel Pd c'è una gestione unitaria. Non è che possiamo fare il congresso perché loro si annoiano".

Veramente c'è chi minaccia anche la scissione.
"Nel Pd ci sta chi ne ha voglia. Chi minaccia la scissione un giorno sì e un giorno pure, deve chiarirsi solo le idee e capire se crede a un partito comunità. La regola dello sgambetto al governo non funziona più".

Lei però deve decidere se il Pd può avere al suo interno tutta la sinistra.
"Una parte di sinistra radicale ci sarà sempre. Ma quando si va a votare, proprio il popolo della sinistra che è già provato da quel che è accaduto in passato, ci penserà due volte a votare per la sinistra radicale rischiando di consegnare il paese a Matteo Salvini. Perché poi si sceglierà tra noi e la destra lepenista. Tra la nostra riforma del lavoro e quella della Troika".

Ha detto Salvini e non Grillo.
"Il Pd lo ha rottamato. Le europee hanno segnato la fine del grillismo. Loro usavano la rabbia, noi abbiamo risposto con un progetto. Ora si tratta di capire come si muoverà la diaspora Cinque stelle. Alcuni di loro sono molto seri, hanno voglia di fare".

Li sta reclutando?
"Non sono per fare campagne acquisti, ma sulla lotta alla burocrazia, la semplificazione fiscale, la scuola, secondo me ci sono i margini per fare qualcosa con una parte di loro. Dovranno decidere se buttare via i tre anni e mezzo che rimangono di legislatura o dare una mano al Paese".

Le ultime regionali hanno rottamato il M5S ma sono state un segnale anche per lei.
"Perché l'astensionismo alle regionali dovrebbe essere messo sul conto del governo? Anche l'idea che ci sarebbe stato lo spaesamento dei lavoratori cozza con la realtà. E allora perché non hanno votato per Sel? Avevano pure la scusa che stava nella coalizione con Bonaccini".

Sarà altrettanto duro con Berlusconi? Al Corriere ha detto che prima si concorda e si elegge il presidente della Repubblica e poi si approva l'Italicum.
"Non esiste. L'Italicum è in aula a dicembre. Lui si è impegnato con noi a dire sì al pacchetto con la riforma costituzionale entro gennaio. Io resto a quel patto".

Berlusconi spesso cambia idea.
"Io no".

Nel frattempo le ha fatto sapere che per il Quirinale vorrebbe Giuliano Amato.
"Io ho un unico nome: Giorgio Napolitano. Non apro una discussione finché il capo dello Stato è al suo posto. I nomi si fanno per sostenerli o per bruciarli. È sempre la stessa storia dal 1955. La corsa è più complicata del palio di Siena. E i cavalli non sono nemmeno entrati nel canapo".

Va bene, ma poiché il problema si aprirà, lei pensa di indicare almeno un metodo?
"È bene che il presidente della Repubblica si elegga con la maggioranza più ampia possibile. E dico "possibile". Ma non voglio discuterne adesso, sarebbe irriguardoso nei confronti di Napolitano e segno di scarsa serietà verso i cittadini".

© Riproduzione riservata 30 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/30/news/renzi_berlusconi_rispetti_i_patti_prima_l_italicum_poi_il_colle_l_ilva_torner_allo_stato_la_salviamo_e_poi_vendiamo-101750194/?ref=HREA-1
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« Risposta #121 inserito:: Gennaio 21, 2015, 06:54:34 pm »

I tre forni del premier per il Colle e la tentazione del colpo a sorpresa
Nell'incontro con Renzi Berlusconi ha proposto Amato o Casini. Le ipotesi di accordo: Bersani, Forza Italia o gli ex M5S

Di CLAUDIO TITO
21 gennaio 2015

MA ALLORA, al Quirinale chi vorresti? Si potrebbe fare Amato o Casini...". L'incontro tra Renzi e Berlusconi stava per finire. I due si stavano dando la mano proprio sulla soglia dell'ufficio del presidente del consiglio. Il commesso aveva già aperto le porte dell'ascensore di servizio che porta gli ospiti davanti allo scalone d'onore di Palazzo Chigi. E, proprio in quel momento, il leader di Forza Italia si è fermato un momento. Ha lanciato uno sguardo verso Gianni Letta, poi si è rivolto sorridendo al premier: "Chi vorresti al Quirinale? Amato o Casini?". Renzi non ha risposto. Ha continuato a camminare verso l'ascensore e ha tagliato corto: "Ne parliamo martedì" .

La "partita" è dunque ufficialmente aperta. Fino a ieri la corsa al Colle era solo uno spettro, anche se aleggiava su ogni incontro e discussione. Soprattutto incombeva su tutte le votazioni per l'Italicum e per la riforma costituzionale. Ma da ieri quel sottile diaframma dietro il quale il capo del governo si era difeso per rinviare il più possibile il negoziato sulla successione di Napolitano, si è improvvisamente infranto. Le candidature si sono moltiplicate la scorsa settimana e ora si riducono come in un imbuto che seleziona e screma. Se il Cavaliere avanza i nomi di Amato e Casini, nel centrosinistra si rincorrono quelli di Sergio Mattarella, Anna Finocchiaro e praticamente ti tutti gli ex segretari di partito da Veltroni a Bersani. Più qualche ministro come Padoan. E infine quello che i renziani definiscono il "colpo a sorpresa".

Nei prossimi quindici giorni, il leader Pd si gioca buona parte del suo futuro. Di certo buona parte delle chance di concludere la legislatura. La legge elettorale, l'abolizione del Senato e l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Se uno solo di questi tasselli si rompe nel delicato mosaico di Palazzo Chigi, tutto salta. Renzi lo sa bene. E prepara la sua strategia: quella del "triplo forno". Con un obiettivo: "Portare alla presidenza una persona civile".

La partita del Quirinale, però, è tutt'altro che semplice. I gruppi parlamentari sono sempre più "balcanizzati". Il Pd è strattonato dalle correnti e da una gran parte di eletti che rispondono alla vecchia segreteria, quella di Bersani, e non a quella attuale. L'aria che si respira tra i banchi democratici è quella del tutti contro tutti. Con in più la malattia contagiosa della sinistra: fare fuori il capo della corrente avversa. Renziani contro dalemiani, veltroniani contro ex popolari, bersaniani contro amatiani. Forza Italia poi è messa a soqquadro da un caos sistematico. E il M5S, paralizzato dalla diarchia Grillo-Casaleggio, deve fare i conti con un esodo continuo di dissidenti. Nel Transatlantico di Montecitorio e in quello di Palazzo Madama, il clima è sempre più teso. Le previsioni dettate dall'incertezza Il capo del governo sperava di arrivare a questo appuntamento avendo allentato la tensione con l'approvazione delle riforme. L'obiettivo è svanito nelle ultime ore. "Ma io non mollo ripete prima di partire per Davos - Io non sono uno che si tira indietro". Con i suoi fedelissimi allora sta mettendo a punto il suo piano. "Abbiamo tre forni cui rivolgerci - osserva -: il nostro partito con la minoranza in primo luogo. A Bersani l'ho detto: dobbiamo decidere insieme". Poi c'è il secondo fronte: quello dei "berlusconiani ". E infine i "dissidenti grillini". Il candidato, da ufficializzare al quarto scrutinio, sarà il risultato dell'accordo stretto con "uno o due" di questi forni. "Vedremo quale può essere la soluzione migliore in base a chi accetterà un'intesa ".

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© Riproduzione riservata 21 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/21/news/colle_i_tre_forni_del_premier_e_la_tentazione_del_colpo_a_sorpresa-105404054/?ref=HRER2-1
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« Risposta #122 inserito:: Febbraio 04, 2015, 07:59:27 am »

Renzi, il diario del Colle: "Così ho giocato la partita più difficile"
Durante lo spoglio il leader rievoca la trattativa: "Ora il Pd è l'infrastruttura del sistema repubblicano"


Di CLAUDIO TITO
01 febbraio 2015
   
"Ti ringrazio di averci creduto. Ora ti passo una persona... ". L'applauso in aula è appena scattato. Sergio Mattarella è il nuovo presidente della Repubblica. Lo spoglio delle ultime schede prosegue.

Nella sala del presidente del consiglio, di fianco all'emiciclo, però, Matteo Renzi non vuole aspettare. Lo chiama subito. Un saluto. Una battuta ("ora puoi anche non essere prudente") e poi gli auguri si trasformano in una sorta di conference call istituzionale. Il cellulare infatti va nelle mani di Giorgio Napolitano. Che idealmente gli passa il testimone.

Ecco, l'ultimo round della partita per il Quirinale è questo. Il match è stato lungo. Lo start risale a 16 giorni fa, alle dimissioni di Napolitano del 14 gennaio. E nella stanza al primo piano di Montecitorio il leader Pd ne rievoca i passaggi fondamentali. Quando la prima chiama ha inizio, con lui ci sono i vertici del partito: da Orfini, alla Boschi, da Speranza a Zanda, da Lotti a Guerini.

ERAVAMO INCARTATI
"Lunedì eravamo incartati. Quelli insistevano per Amato e Casini, noi non avevamo in campo solo Mattarella"

LA SVOLTA
"Martedì c’è stata la svolta ho detto a Pierluigi: su Sergio ritroviamo l’unità"

CON AMATO
"Incontro con Amato: Giuliano, non ci sono le condizioni. Per l’ex premier non è vero: ce la può fare secondo lui, ma gli amici non lo difendono"

SCIOGLIERE IL NODO
"Ho detto a Alfano che non poteva stare nel guado: devi sciogliere tu il nodo, decidere con chi stare, tanto non si vota"

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA O SU REPUBBLICA+


© Riproduzione riservata 01 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2015/2015/02/01/news/renzi_il_diario_del_colle_cos_ho_giocato_la_partita_pi_difficile-106262506/?ref=HRER3-1
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« Risposta #123 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:05:11 pm »

Il peccato originale e i doveri del Pd
La politica non può trincerarsi dietro le aule di giustizia.
Chi ha un ruolo non può tirarsi indietro

Di CLAUDIO TITO
06 giugno 2015

QUESTA seconda inchiesta su Mafia Capitale non è un fulmine a ciel sereno. I presupposti per capire che parte della politica romana è una sorta di fogna a cielo aperto erano chiari da tempo. Meravigliarsi adesso, non è possibile né giustificabile. In questa vicenda ci sono però due piani ben distinti. Uno è quello giudiziario, l'altro è quello politico. È evidente che le eventuali colpe processuali dovranno essere accertate secondo i tempi della giustizia e la presunzione di innocenza è un principio che ogni società civile deve rispettare. Ma la politica non può trincerarsi dietro le aule di giustizia. Chi ha un ruolo e una responsabilità istituzionale o di partito non può tirarsi indietro come se quella fogna non lo toccasse. Quel sistema di infima corruzione che ha inquinato la Capitale in questi anni ha affondato i suoi denti e li ha fatti marcire durante la gestione del centrodestra, in quei cinque anni guidati da Alemanno. È bene precisare che molto nasce e si perpetua in quel quinquennio. Quello schieramento sembra però incapace di fare i conti con il suo passato e con il suo presente. Travolto da una crisi che ormai va al di là di quel che è accaduto a Roma.

Le inchieste ora dimostrano che il malaffare ha sporcato anche un pezzo di centrosinistra. In un sistema di potere e corruzione che non faceva differenze. E che adesso tocca pure il governo nazionale. Per due aspetti. Il principale centro di corruttela faceva perno sulla gestione degli immigrati. La stazione appaltante era ed è il Viminale. Nell'inchiesta, poi, c'è finito anche un sottosegretario, Castiglione, dello stesso partito del ministro degli Interni Alfano. Anche per Castiglione vale la presunzione di innocenza, ovvio. Ma vale anche quello della intoccabilità politica? L'ex ministro Lupi pochi mesi fa è stato invitato a dimettersi pur non essendo indagato. Il presidente del Consiglio può usare una misura diversa per un sottosegretario che invece inquisito lo è? Davvero di fronte a determinate evidenze, ci si può limitare ad aspettare?

Il compito di chi esercita la guida politica è anche quello di prevenire la magistratura. La separazione dei poteri è davvero possibile se ognuno si assume le proprie responsabilità senza delegarle. Nessuno, inoltre, può nascondere che qualcosa non va nel Pd di Roma. Chi ha avuto a che fare con il Campidoglio negli ultimi sette anni e chi ha letto gli atti giudiziari, sa ad esempio che nei primi anni della sindacatura Alemanno non tutta l'opposizione era decisa nel contrastare l'azione della maggioranza di centrodestra. Chi frequenta i palazzi della politica capitolina, sa da tempo che le correnti Dem si muovevano come delle bande e non come dei circoli culturali. Che il nucleo dello scambio affaristico è costituito dalle preferenze. E che con l'elezione di Marino molti dei democratici coinvolti nelle indagini agivano lungo i binari di un contropotere rispetto al sindaco. Ma l'ex chirurgo ha dovuto aspettare due anni e l'intervento dei pm per capire che la battaglia non era ideale ma "monetaria". Non se ne può accorgere con così tanto ritardo. E questo riguarda anche dipendenti corrotti che lavorano nell'amministrazione del Comune.

La politica deve agire per tempo e non aspettare. Negli ultimi mesi dei passi sono stati compiuti, ma i fatti dimostrano che serve altro per riconquistare autorevolezza e credibilità. È vero: nel 2013 c'era un'altra gestione nel Partito democratico. Le liste elettorali sono state definite due anni fa da un gruppo dirigente che ora è stato sostituito. Il peccato originale ricade su quella stagione. Il nuovo Pd, però, se davvero vuole essere nuovo e guidare il Paese libero dai lacci del malaffare, deve essere implacabile su questo punto. Il segretario del Pd, oltre a fare il premier, deve fare pulizia senza alcuna incertezza e chiudere definitivamente con il passato. Non è più accettabile esporre la Capitale alla vergogna nazionale e al pubblico ludibrio internazionale. La cloaca massima deve tornare ad essere solo un reperto archeologico.

© Riproduzione riservata
06 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/06/news/il_peccato_originale_e_i_doveri_del_pd-116171462/?ref=HRER2-1
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« Risposta #124 inserito:: Ottobre 05, 2015, 06:15:02 pm »


Renzi: "Voglio un Pd unito. Nel 2017 possibile tagliare l'Ires"
Dalla Siria alla manovra il premier traccia la sua road map e boccia Prodi: "Non basta aiutare Assad per sconfiggere l'Is"

di CLAUDIO TITO

03 ottobre 2015

ROMA -  E' giusto che sulle riforme ci sia una maggioranza più ampia di quella di governo. E Denis Verdini "non è il mostro Lochness". "Io voglio il Pd unito" ma tra i dem "c'è ancora qualcuno che non ha elaborato il lutto della sconfitta al congresso". Matteo Renzi fa un primo bilancio di questo autunno. E annuncia nuove misure nella legge di Stabilità.

Romano Prodi su Repubblica ha chiesto di aiutare l'esercito del leader siriano Assad per sconfiggere lo stato islamico. E' d'accordo?
"Dubito delle ricette scodellate in modo semplicistico: non sarà semplicemente aiutando Assad che bloccheremo Is. Né considerandolo l'unico problema come fanno in modo altrettanto banale altri".

Si sta votando al Senato la riforma costituzionale. L'iter si è velocizzato dopo l'accordo con la minoranza del suo partito. Perché ha perso così tanto tempo?
"A dire il vero è il contrario. Abbiamo assistito a un prolungato confronto, ma quando siamo entrati nel merito della discussione non ci sono stati problemi: per noi era importante mantenere il principio che non si toccava la doppia conforme ricominciando daccapo".

Il Pd unito però ha dimostrato il driver della politica italiana.
"Io voglio il PD unito, sempre. E lavoro per questo".

Veramente è sembrato soprattutto che ci fosse una gara a non legittimarsi reciprocamente.
"Nel PD c'è ancora qualcuno che forse non ha ancora elaborato a pieno il lutto del congresso. Siamo quasi a metà della mia segreteria: tra breve chiunque potrà metterla in discussione e vincere il congresso".

Ma ha mai temuto che volessero fare cadere il suo governo?
"Mai. Non condivido alcune loro idee ma non dubito della loro lealtà".

Proprio per questo non è un problema avere i voti di Verdini?
"Verdini ormai è diventato il paravento per qualsiasi paura. Tutti lo evocano anche vedendolo dove non c'è: ormai è raffigurato come una sorta di mostro di Lochness nostrano".

Il mostro di Lochness, però, lo è almeno chi nell'aula del Senato insulta gli avversari con gesti volgarissimi.
"Ogni gesto volgare, in modo particolare verso le donne, va censurato senza se e senza ma".

E' vero che esiste un'intesa per cambiare l'Italicum?
"Mi sembra assurdo e fuori tempo aprire un dibattito quattro mesi dopo l'approvazione".

Ripeterebbe i giudizi dati sui talk?
"Altolà. Per me parlano i fatti. Non ho mai messo il naso, mai, nelle vicende interne della Rai".

Non sarebbe meglio stare lontano dai giudizi sui prodotti giornalistici?
"Ho detto e lo ripeto oggi domani e dopo domani che i talk show rischiano di diventare un pollaio senz'anima. È una critica che faccio innanzitutto alla politica, un'autocritica. Non è peraltro neanche un mio problema, forse di chi sul vostro giornale dice che io ho sguinzagliato i cani, insultando i parlamentari. Aggiungo: Siamo talmente ostili verso la Rai che martedì Andrea Guerra ha fatto un'intervista a Massimo Giannini, io sono stato intervistato da Bianca Berlinguer e domani andrò in diretta dalla Annunziata".

Tra pochi giorni il governo presenterà la Legge di Stabilità. Lei pensa davvero che l'Italia sia uscita dalla recessione? I segnali sono contrastanti.
"Questo lo dice lei. I segnali sono univoci. L'Italia è ripartita. Ma non lo dico io, lo dicono i numeri dell'Istat, del Fmi, dell'Inps. Tutto questo è frutto delle riforme".

Nel suo partito c'è chi contesta l'abolizione della Tasi per tutti.
"Toglierla sulla prima casa per tutti e per sempre è un fatto di giustizia sociale in un Paese in cui il 75% dei possessori di prima casa è un lavoratore dipendente".

Taglierete anche l'Ires?
"Nel 2017 senz'altro. Nel 2016 qualche altra sorpresa ci sarà e sarà positiva".

Però taglierete la Sanità.
"Falso. Sulla sanità l'aumento di fondi è costante".

Riuscirete

ad approvare entro il 2015 le Unioni civili?
"Dipende da quando finiremo queste riforme. Ma non molliamo. E' un impegno di civiltà".

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da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/03/news/matteo_renzi_dalla_siria_alla_manovra_il_premier_traccia_la_sua_road_map_e_boccia_prodi_si_pensa_solo_all_effetto_mediatic-124202215/?ref=HRER3-1
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« Risposta #125 inserito:: Novembre 09, 2015, 05:18:19 pm »

Il puzzle di Renzi per le amministrative.
Zingaretti in pole a Roma, a Bologna idea Gualmini
Il premier alle prese con la sfida dei candidati sindaci: "È una corsa in salita, ma io mi gioco l'osso del collo solo al referendum sulle riforme"

Di CLAUDIO TITO
09 novembre 2015
   
ROMA - "Io mi gioco tutto al referendum. Se lo perdo, vado a casa. Questo discorso non vale invece per le amministrative. So che è una partita in salita, ma non possiamo uscire sconfitti in tutte le città". Matteo Renzi non vuole commettere l’errore che quindici anni fa costrinse Massimo D’Alema alle dimissioni. Dopo il frastuono che ha accompagnato le dimissioni di Ignazio Marino a Roma, il premier cerca allora di circoscrivere il valore della prossima tornata amministrativa. Nessun significato politico, nessun test diretto sul governo o sulla segreteria del partito. Eppure si tratta di un passaggio importante: in primavera è chiamata al voto la “spina dorsale” municipale d’Italia. Le cinque principali città, da Nord a Sud. E l’incubo dei ballottaggi con il Movimento 5Stelle. "Ma l’osso del collo – ripete il segretario democratico ai suoi fedelissimi – io me lo posso rompere solo al referendum".

L’appuntamento con le comunali – probabilmente a giugno – resta un banco di prova. A Palazzo Chigi e a Largo del Nazareno lo sanno bene. Ovviamente l’attenzione è concentrata sulle sfide di Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli. Situazioni differenti, certo. Ma accomunate da un velo di incertezza più o meno corposo.

Solo due dei sindaci uscenti sono del Pd. Poi c’è Marino, ma si è già dimesso. Gli altri sono iscritti al campo del centrosinistra, ma non democratici. Un fattore che complica la “corsa”. Soprattutto nella scelta dei prossimi candidati. Basti pensare al rapporto ormai logorato con la sinistra radicale di Sel. "In effetti – ammette ad esempio il ministro dem dell’Agricoltura, Maurizio Martina – ad eccezione di Milano, dove Pisapia esercita ancora un ruolo di collante, ci saranno quasi ovunque candidati di Sinistra e Libertà". Un dato che indurrà il Pd ad affrontare “in solitaria” la circumnavigazione di questa prima tappa. Sapendo che i casi più spinosi spuntano almeno in quattro delle città: Roma, Milano, Bologna e Napoli.

La Capitale rappresenta per il Partito democratico la questione più intricata. "Lì – ragionano ai piano alti di Largo del Nazareno – partiamo battuti. Dobbiamo recuperare". Molto, ovviamente, dipenderà da chi sarà il candidato del Movimento 5Stelle. Ma alcuni punti fermi sono stati già piantati. Il primo: "Marchini non sarà mai il candidato del PD". L’idea lanciata nei giorni scorsi dal ministro della Sanità Lorenzin, dell’Ncd, è stata immediatamente scartata da Palazzo Chigi. "Chi scenderà in campo – è il ragionamento – deve essere romano, preferibilmente un nostro uomo e deve essere un politico". Ossia, niente esterni. Né Cantone, né Sabella. Né Gabrielli, né alcuno dei “tecnici” di cui si è parlato. A Largo del Nazareno, allora, iniziano a sgranare il rosario dei possibili candidati. C’è il ministro Madia. Ma non è considerata adatta al tipo di battaglia campale nella quale si trasformerà il Campidoglio. C’è il vicepresidente della Camera Giachetti. "Può arrivare al ballottaggio. Ma poi?".

Nella lista compare un nome che fino ad ora non era mai stato preso in considerazione. Si tratta del presidente della Camera, Laura Boldrini. Un identikit adeguato a fronteggiare i grillini e a ricompattare il fronte sinistro. Ma presenta delle controindicazioni: come spiegare agli elettori che la terza carica dello Stato si dimette per fare il sindaco? E poi: chi prenderebbe il suo posto a Montecitorio? L’attuale ministro delle riforme Maria Elena Boschi o quello dei Beni culturali Dario Franceschini? "Il migliore, in teoria sarebbe Delrio – spiegano ai vertici del Pd – ma non è romano. Il più convincente allora è Nicola Zingaretti". I riflettori stanno puntando proprio sul presidente della Regione Lazio. Il suo ruolo è una forza e nello stesso tempo una debolezza. Se si iscrivesse alla gara, infatti, si dovrebbe cercare un suo sostituto alla Pisana. Di certo, è la convinzione di Renzi, chi sarà candidato dovrà mettere a punto una sorta di "campagna elettorale all’americana: trasporti, nettezza urbana e periferie. Sulla periferia ci si deve impegnare più che sui quartieri centrali. È lì che si trovano i voti". La macchina dem si metterà in moto nei primi mesi del prossimo anno. Con un'idea, appunto "molto obamiana": volontari in tutte le zone della città a illustrare gli obiettivi dem.

Poi c’è Milano. Nel capoluogo lombardo la selezione è ancora in alto mare. Ieri Sala, l’Ad di Expo, ha confermato la sua "disponibilità a candidarsi". A Largo del Nazareno lo considerano un’ottima scelta. Ma non quella perfetta e soprattutto "ancora non definitiva". Insomma, qualche dubbio resta. Anche perché porrebbe plasticamente il problema delle primarie. Renzi ha già annunciato che in partenza non vuole rinunciarci. In partenza, però. In arrivo tutto può cambiare. "La soluzione ideale – ammette ancora Martina – sarebbe quella di arrivare ad un solo nome ovunque. E così evitare le primarie o farle per lanciare la candidatura". Sta di fatto che a Milano la decisione è ancora lontana e alternative concrete ancora non si sono formate.

Si arriva a Napoli. "Un buco nero", sintetizza il ministro dell’Agricoltura. Ma anche il segretario del Pd non è lontano da questa valutazione. "Cosa succede se si presenta Bassolino?". In Campania le primarie rischiano di confermarsi un caos per il Pd. Anche se le previsioni che vengono da Largo del Nazareno fanno quasi tutte riferimento ad un unico punto cardinale: Vincenzo De Luca. Tra i “big” democratici serpeggia infatti la convinzione che alla fine scenderà in campo lui con un suo “campione”. Un timore, ma anche una soluzione.

I dubbi sono anche il segno di Bologna. La città rossa rischia di sbiadirsi. Tutti i parlamentari emiliani sono netti: "Con Virginio Merola stavolta andiamo a sbattere". L’attuale sindaco ha rotto a sinistra e dentro il suo partito, il Pd, non convince più. Viene considerato un "sopportato", "debole". Il sostituto di cui si è parlato in queste settimane è l’attuale rettore dell’università, Dionigi. Ma la vera carta segreta su cui Palazzo Chigi vuole scommettere è un’altra: Elisabetta Gualmini, politologa con una certa esperienza amministrativa, è vicepresidente della regione Emilia Romagna e assessore alle Politiche sociali.

L’ultimo comune a piena guida dem è Torino. Piero Fassino verrà ricandidato. Ma i timori non mancano. Soprattutto se l’ex segretario Ds non dovesse spuntarla al primo turno. Al ballottaggio, con il M5S i rischi sono considerati altissimi. E la probabile candidata grillina, Chiara Appendino, è giudicata un avversario con tutte le carte in regola. "Io – spiega ancora Renzi – mi butterò comunque in questa campagna elettorale. Come si dice? Ci metterò la faccia, come ho fatto anche alle precedenti amministrative. Ma si deve sapere che il differenziale per il Pd tra le comunali e le politiche sono dieci punti. Se sulla lista c’è il mio nome o non c’è fa la differenza. Non andrà comunque male. E io resterò comunque al mio posto".
 
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09 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/09/news/il_puzzle_di_renzi_per_le_amministrative_ma_il_governo_non_rischia_zingaretti_in_pole_a_roma_a_bologna_idea_gualmini-126937851/?ref=nrct-4
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« Risposta #126 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:30:54 pm »

Banche e acciaio, è guerra tra l'Italia e l'Ue: bocciati gli aiuti all'Ilva
Formale apertura della procedura di infrazione. Pronti tre ricorsi alla Corte


Di CLAUDIO TITO
24 dicembre 2015

ROMA. Ormai lo scontro è totale. E non riguarda un solo settore. Lo spettro della conflittualità si è allargato a 360 gradi. Ma adesso ci sono tre fronti su cui ogni miccia è stata accesa. Si tratta delle banche, dell'Ilva e del deficit italiano. Sono le tre partite su cui si giocano i rapporti futuri tra il governo di Renzi e la commissione europea. Tra il premier e la Merkel. La linea rossa tra Bruxelles e Roma è dunque diventata improvvisamente incandescente. E negli ultimi giorni i rapporti sono addirittura peggiorati.

Ieri è arrivata la comunicazione ufficiale che la Ue ha bocciato il salvataggio di Banca Tercas, la banca di Teramo. Ma soprattutto pochi giorni fa è stata recapitata al governo italiano la lettera formale con cui si preannuncia l'apertura della "procedura di infrazione" per i finanziamenti forniti all'Ilva. Il documento è stato firmato dal commissario alla Concorrenza, Margrethe Vestager, e punta l'indice proprio sull'ultimo prestito da trecento milioni. Anche per il gruppo siderurgico italiano l'accusa non cambia: aiuti di Stato. In più, nell'ultimo mese, si è consumata anche la complicata e controversa dialettica tra il governo Renzi e la Commissione Juncker sul recente decreto salva-banche.

Si tratta dunque di uno scontro tra l'Italia e l'Unione europea senza precedenti. E stavolta è Roma all'offensiva. Mai si erano concentrati tanti elementi di conflittualità in uno spazio di tempo così breve. La tensione registrata la scorsa settimana al Consiglio europeo tra il presidente del consiglio e la Cancelliera tedesca Merkel assume adesso tutta un'altra luce. Tutto ha ormai preso la forma e la sostanza di un braccio di ferro che mira a cambiare non tanto - o almeno non ora - gli equilibri all'interno dell'Unione ma a modificare il perimetro dei tre negoziati cui i due contendenti saranno chiamati a discutere nel 2016. Non è un caso che l'Italia, dinanzi alle lettere spedite in questi giorni da Bruxelles, abbia iniziato a valutare tutte le contromisure. Compresa quella più radicale: il ricorso alla Corte di Giustizia.

Sul caso Ilva, infatti, il governo insiste nel richiamare l'attenzione sulla circostanza che non si tratta di un semplice "salvataggio" ma anche di un'operazione finalizzata al risanamento ambientale. E secondo l'esecutivo italiano, proprio la disciplina europea prevede l'intervento pubblico in questi casi e in modo particolare in riferimento all'intervento siderurgico. La procedura di infrazione, nella fattispecie, non è stata ancora completata. Ma se l'esito dovesse essere negativo, Palazzo Chigi è pronto ad attivare appunto il ricorso alla corte di Giustizia.

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA E REPUBBLICA+

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24 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/24/news/su_acciaio_e_banche_e_guerra_tra_l_italia_e_l_ue_bocciati_gli_aiuti_all_ilva_pronti_3_ricorsi_alla_corte-130083842/?ref=HREA-1
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« Risposta #127 inserito:: Gennaio 20, 2016, 04:13:00 pm »

Unioni civili, i dubbi del Quirinale.
Pronte le modifiche del governo
Il nodo non è la stepchild adoption.
Emendamenti dell'esecutivo punteranno invece a evitare equiparazioni col matrimonio vietate dalla Consulta

Di CLAUDIO TITO
18 gennaio 2016
   
ROMA - "I costituenti tennero presente la nozione di matrimonio che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso". Questa frase negli ultimi giorni sta rimbombando nelle sale di tutti i palazzi della politica. Da Palazzo Chigi al Quirinale, dalla Camera al Senato. E in una certa misura li sta scuotendo. Provocando allarmi e riflessioni.
 
In molti si stanno chiedendo quanto potrà incidere nell'esame della nuova legge sulle unioni civili. Il cosiddetto testo Cirinnà. Che a fine mese sarà all'esame dell'aula di Palazzo Madama. Dopo un travagliatissimo iter e quasi in contemporanea con la riedizione del "Family day" del prossimo 30 gennaio. Perché a pronunciare quella frase non è stato un oscuro senatore. Ma la Corte costituzionale, nella sentenza emessa nell'aprile del 2010.
 
Quella decisione presa dalla Consulta quasi sei anni fa, si sta trasformando in un vero e proprio paradigma di riferimento per il provvedimento che sta dividendo al loro interno sia la maggioranza, sia l'opposizione. Il cuore dei dubbi infatti non sono più le adozioni ma il rischio che queste unioni civili siano "troppo" equiparate al matrimonio.

E infatti proprio in queste ore i contatti informali tra il governo e il Quirinale sono stati intensi. Diversi membri dell'esecutivo hanno voluto chiedere una valutazione alla Presidenza della Repubblica. Per capire se nell'impianto del testo possano davvero emergere delle incoerenze di carattere costituzionale. Dal Colle la risposta è stata piuttosto precisa: il riferimento da prendere in considerazione è la sentenza 138 della Consulta. Mattarella si è tenuto ben lontano da giudizi o consigli nel merito del provvedimento. Il capo dello Stato, infatti, non intende assolutamente intervenire nei contenuti di una legge ancora in discussione in Parlamento. E pur essendo stato favorevole alla legge sui Dico - quella proposta nel 2007 dal governo Prodi - il Quirinale esprimerà le sue valutazioni solo quando la norma sarà approvata e solo sulla base della sua costituzionalità.
 
Ma proprio per questo il solo richiamo alla sentenza della Corte del 2010 (quando Mattarella peraltro non era ancora giudice costituzionale) ha fatto scattare l'allarme nel governo.
Il problema, dunque, non sono le adozioni. Le difficoltà non si concentrano nella stepchild adoption. Ma semmai negli articoli 2 e 3 del testo Cirinnà, quelli che rinviano alla disciplina del matrimonio. Anzi a Palazzo Chigi stanno proprio studiando una serie di emendamenti per limitare quei rischi. E per rendere la nuova legge pienamente compatibile con i paletti posti dalla Consulta.

Nel governo, del resto, sono stati sottolineati con la matita blu almeno altri due passaggi della sentenza. Tra i quali questo: "Si deve escludere che l'aspirazione al riconoscimento dei diritti e doveri della coppia omosessuale possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali". Nella sostanza le modifiche che verranno presentate a Palazzo Madama per conto dell'esecutivo mireranno - come dice ad esempio il capogruppo Pd Luigi Zanda - "a ridurre i rimandi agli articoli del codice civile sul matrimonio ". L'obiettivo è quello di dar vita ad un istituto giuridico autonomo con caratteristiche diverse e graduate rispetto al matrimonio stesso. Se l'istituto giuridico è diverso - sono i ragionamenti in corso - anche la qualità e la quantità dei diritti e dei doveri deve essere diversa. Uno degli emendamenti ad esempio riguarderà l'uso del cognome.

Nel governo sono dunque convinti che anche specificando meglio le differenze tra matrimonio e unioni civili sarà mantenuta la sostanza della legge. I diritti per le coppie omosessuali non saranno comunque intaccati.
 
Non è un caso che nel confronto di questi giorni non sia in discussione il tema delle adozioni. Il Quirinale non fatto alcun riferimento a quel nodo. I profili di costituzionalità non riguardano dunque la stepchild adoption.
 
E la linea di Renzi su questo aspetto ormai è definita. Non sarà presentata alcuna correzione su questa materia dall'esecutivo. Il testo non sarà toccato. Il ministro per i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ha ricevuto un mandato preciso. La linea del Pd resta favorevole alla nuova disciplina sulle adozioni. Se poi la maggioranza del Senato si schiererà per il no , la responsabilità non potrà essere riversata sui democratici.
 
La legge Cirinnà sarà sottoposta al voto dell'aula. Se verrà chiesto lo scrutinio segreto, ognuno dovrà assumersi la responsabilità di quella scelta. "Noi - dicono al Pd - voteremo per la stepchild adoption. E faremo di tutto per approvarla. Se non passerà, ne prenderemo atto. Ma il passo fondamentale è avere finalmente una legge sulle unioni civili".

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18 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/18/news/unioni_civili-131496309/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_18-01-2016
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« Risposta #128 inserito:: Febbraio 28, 2016, 11:52:37 pm »

G20, sì alla crescita. Il Tesoro studia il piano taglia-tasse
L'esecutivo italiano sta elaborando un progetto per ridurre le imposte a livello continentale già nel 2016, da presentare ai leader Pse il 12 marzo

Di CLAUDIO TITO
28 febbraio 2016

METTERE più soldi nelle tasche degli italiani e di tutti gli europei. Con una manovra concordata e non solitaria di taglio delle tasse. Il piano è ancora allo studio. È arrivato nei giorni scorsi sui tavoli tecnici. Nostrani e anche di Bruxelles. Un pacchetto di idee del governo italiano per provare a disegnare una via di fuga dalla crisi economica che ha avviluppato di nuovo il Vecchio Continente e quasi tutti i Paesi industrializzati. L’appuntamento è per il 12 marzo. A Parigi si riuniranno i leader del Pse. In quella sede, che precederà il Consiglio europeo del 17, Matteo Renzi metterà all’ordine del giorno la sua bozza di lavoro.

L'obiettivo è costruire un fronte progressista dei socialisti per tentare di dare una "spinta" al concetto di flessibilità nei conti pubblici già nel corso del 2016. Una "spinta" che riguardi appunto la politica fiscale e una riduzione tangibile delle imposte. Il presupposto ormai accettato da tutte le cancellerie dell'Ue riguarda la politica monetaria. Gli effetti della riduzione dei tassi di interesse e della scelta della Bce di immettere nel sistema denaro fresco, si sono ormai esauriti. Le agevolazioni derivanti da quelle decisioni - che rappresentano comunque una base imprescindibile - non sono in grado di dare ulteriore carburante al motore della crescita.

Anche perché - sono i ragionamenti di questi giorni - permane un effetto psicologico sui consumatori: tendono a non indebitarsi più e a mantenere una riserva di garanzia nei loro conti correnti. Si sentono ancora feriti da quello accaduto dal 2008 ad oggi. E non vogliono più correre rischi. Il secondo elemento, che costituisce la piattaforma "politica" su cui tutti i leader dell'Unione europea stano ragionando, è costituito dall'avanzare nei paesi occidentali dei fronti populisti e anti-austerity. E dal rischio "instabilità". L'ultimo esempio è stato offerto dall'Irlanda. Nelle elezioni di venerdì scorso - nonostante le recenti buone performance economiche di quel Paese il cui Pil cresce del 7% - la coalizione di governo non solo è uscita sconfitta, ma sono stati premiati proprio i partiti che più hanno attaccato i sacrifici imposti negli anni precedenti. Risultato: ingovernabilità. Una condizione temuta anche in Spagna dove il ritorno alle urne è ormai un'opzione concreta. In Francia, dove l'ultima tornata amministrativa ha messo in crisi lo storico sistema bipolare a favore della destra di Le Pen. In Gran Bretagna, dove il prossimo referendum sull'adesione all'Ue è un macigno pesantissimo. E nel nostro Paese dove le forze antisistema formano un blocco permanente che supera il 30 per cento degli elettori. Ma anche negli Usa dove il successo di Trump sta scuotendo il Partito Repubblicano. E forse non è un caso che la recente proposta "rigorista" del ministro tedesco della Finanze Schaeuble di imporre il tetto del 25 per cento ai bond detenuti dalle banche, sia stata rapidamente respinta.

La soluzione, allora, che l'Italia è intenzionata a prospettare prima ai leader del socialismo europeo e poi a tutti quelli dell'Unione, è proprio quella di intervenire sulle tasse. "Non è una questione che riguarda solo l'Italia - è il discorso che il capo del governo sta svolgendo in tutti i suoi colloqui internazionali, compreso quello di venerdì scorso con il presidente della Commissione Ue Juncker - perché noi ci siamo rimessi in moto. Ma tocca tutti e a cui tutti devono dare una risposta se non si vuole peggiorare la situazione". Nella road map di Renzi, allora, l'intervento sulle aliquote Irpef era previsto per la fine del 2017. Ma l'esito dei contatti avviati in queste settimane potrebbe cambiare quell'agenda. Non è un caso che lo stesso ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, al G20 di Shangai abbia usato due parole che rappresentano il cuore della trattativa: "Spazio fiscale".

Nelle bozze in esame, infatti, nessuno prende in considerazione l'ipotesi limite di scorporare dal calcolo del deficit i soldi stanziati per far scendere la pressione fiscale. L'idea, semmai, è quella di rendere ancora più cogente la regola della "flessibilità". Del resto, già nelle due ultime leggi di Stabilità l'Italia ha usato alcune clausole - come quella per le riforme - al fine sostanziale di provare a comprimere le imposte. Si tratta di un percorso, nel quale a Trattati invariati si incida su tutte le alternative che gli stessi Trattati già presentano. Secondo Palazzo Chigi, ad esempio, questo è stato il percorso seguito con la discussa misura sugli 80 euro. Ma altre strade sono percorribili nel pacchetto di normative europee. Con un solo obiettivo: tagliare le tasse e mantenere inalterati i simboli dei parametri europei.

In tutte le ipotesi esaminate, comunque, viene scartata la possibilità di finanziare il taglio delle tasse con la sola sforbiciata alla spesa pubblica. La spending review non può essere sufficiente. Anche perché il governo registra un effetto boomerang sul Pil: almeno un terzo della riduzione della spesa si riflette sulla mancata crescita. I dati offerti dall'Economia indicano per il 2016 la possibilità di incidere in negativo sul Prodotto interno lordo per lo 0,5 per cento. Ma la partita fiscale è solo all'inizio.

© Riproduzione riservata
28 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/economia/2016/02/28/news/_anticipare_il_taglio_delle_tasse_con_una_manovra_europea_ecco_la_mossa_del_governo-134400411/?ref=HREC1-1
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« Risposta #129 inserito:: Aprile 26, 2016, 09:14:29 am »

Renzi: "Basta con la politica subalterna ai magistrati.
Ora norme per accelerare i processi"
L'intervista. "Davigo? Faccia i nomi. Non mi interessa la discussione sulle intercettazioni"


Di CLAUDIO TITO
25 aprile 2016
   
"DAVIGO faccia nomi e cognomi " ma dire che "sono tutti colpevoli significa dire che nessuno è colpevole". Matteo Renzi non accetta l'equazione del neo presidente dell'Anm. Difende la "politica" e anzi avverte che è "ormai finito il tempo della subalternità". La stagione apertasi con Tangentopoli, insomma, si è chiusa. Quindi, ripete, non si sta riaprendo un nuovo scontro con la magistratura: "Noi facciamo le leggi, loro i processi". E nel giorno in cui l'Italia festeggia la Liberazione, ricorda quali siano i limiti fissati dalla nostra Costituzione. Il suo valore costitutivo è "l'antifascismo". Per il quale è ancora "giusto tenere alta la guardia".

Pochi anni fa il centrodestra proponeva di abolire questa Festa. E' una data che rappresenta il nucleo dei valori della Repubblica. Vede in pericolo quei valori?
"No. L'antifascismo è elemento costitutivo e irrinunciabile della nostra società. Giusto tenere alta la guardia".

La destra populista che a Roma si presenta con il volto della Meloni e della grillina Raggi non sono il segno che il senso più profondo della Liberazione rischia di essere travolto?
"No. Fossi romano voterei Giachetti, senza esitazioni. Candidato serio e competitivo. La destra e i cinque stelle sono alternativi al Pd nei progetti. Aggiungo che nei programmi concreti mi sembrano inconsistenti e superficiali. Ma tutti, nessuno escluso, ci riconosciamo nei valori della Costituzione. Sostenere il contrario significa dare spazio alla delegittimazione come arma della politica. Io invece rispetto i miei avversari. Voglio sconfiggerli nelle urne, ma ne rispetto la funzione democratica ".

Soprattutto nel suo partito, qualcuno ritiene che la riforma costituzionale sia una mina piazzata proprio sotto gli ideali della Costituzione nata sui principi del 25 aprile. La accusano d'aver avallato una deriva autoritaria.
"Ma per favore! Un po' di serietà. La deriva autoritaria è quella che ha portato il fascismo. Qui non cambiamo nemmeno i poteri del Governo. Si può essere d'accordo o meno con la riforma costituzionale, ma proprio il rispetto per la Guerra di Liberazione dovrebbe imporre di confrontarci nel merito".

Anche sul terreno della giustizia. Il presidente dell'Anm Davigo sostiene che tutti o quasi i politici siano dei ladri.
"I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Questo è il compito dei magistrati, cui auguriamo rispettosamente di cuore buon lavoro. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l'opposto di ciò che serve all'Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. E voglio vedere le sentenze".

Quelle parole sono un'invasione di campo?
"No. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano".

Il pm Di Matteo ieri su Repubblica accusa la classe politica addirittura di andare a braccetto con la mafia.
"Vale lo stesso principio. Nomi e cognomi, per favore. E sentenze".

Scusi, ma nelle regioni del nostro mezzogiorno, la sensazione di uno Stato poco presente c'è. Ed è la premessa per il proliferare della criminalità organizzata.
"Sono reduce da una giornata campana e dalla firma del primo patto per il Sud, dieci miliardi di euro per la Campania di Enzo De Luca, con impegni scritti e tempi certi. Una rivoluzione nel metodo e nel merito. Non ci tiriamo indietro e ci stiamo impegnando senza tregua".

Forse c'è bisogno di riformare anche la giustizia. Di dare più risorse. Pensa di intervenire sulle intercettazioni?
"Personalmente non sono interessato all'ennesima discussione sulle intercettazioni, che credo riguardi soprattutto la deontologia del giornalista e l'autoregolamentazione del magistrato. Sulle riforme abbiamo aumentato la pena per i corrotti, istituito l'Autorità Nazionale con Cantone, obbligato chi patteggia a restituire tutto il maltolto, inserito il reato ambientale. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia".

E quindi che fine fa la legge che allunga i tempi della prescrizione?
"Va bene allargare la prescrizione, ma dando tempi certi tra una fase processuale e l'altra. Non è umanamente giusto che si debbano attendere anni, talvolta decenni, per finire un processo".

Sembra comunque che riemerga un nuovo scontro tra magistratura e politica.
"Non mi pare. Invito tutti a fare il proprio lavoro nel rispetto della carta costituzionale. Noi facciamo le leggi, loro fanno i processi. Buon lavoro a tutti".
In questi mesi si è spesso discusso di un taglio delle tasse. E' possibile una manovra fiscale prima delle amministrative?
"No. Non abbiamo fatto in tempo ancora a festeggiare l'abolizione dell'Imu, studiare gli effetti del super-ammortamento per le aziende al 140%, valutare l'impatto dell'abolizione dell'Irap, ottenere riscontro dall'abolizione delle tasse sull'agricoltura, e dovremmo già fare un'altra manovra? Questo è il Governo che ha ridotto più tasse nella storia repubblicana, sfido chiunque a dire il contrario. La prossima riduzione fiscale sarà con la Stabilità 2017".

In quell'occasione si possono abbassare le aliquote Irpef?
"Vedremo in Stabilità. Calma e gesso. L'unica cosa di cui i cittadini possono essere tranquilli è che le tasse continueranno a scendere".

Ogni obiettivo, però, va misurato con i dati reali. Lei ha previsto una crescita quest'anno dell'1,2%. Molti istituti come l'Fmi hanno stime inferiori. La Germania arriverà all'1,7. Da noi qualcosa non va.
"Anche lo scorso anno il Fondo ha sottostimato la nostra crescita allo 0,5 ed è stata di 0,8. Quanto alla differenza con gli altri Paesi europei, non partiamo di rincorsa: avendo avuto tre anni di recessione è più difficile rimetterci in pari. Ma ci stiamo vicini, finalmente".

Ed è sicuro che le sue ricette siano compatibili con i parametri europei? Siamo sempre sotto osservazione.
"Tutti i Paesi sono sempre sotto osservazione. Ma adesso la musica mi sembra cambiata: non siamo più il problema, non siamo più nell'occhio del ciclone. Anzi, mi faccia fare i complimenti a Padoan per l'ottimo lavoro a livello europeo. E con lui a tutto il team, da Calenda a Gualtieri. Come ha riconosciuto sul suo giornale ieri il fondatore Scalfari siamo passati dalla fase delle sole critiche alle proposte. Ma noi continueremo a insistere per parlare più di crescita che di austerity".

A proposito, Draghi ha fatto bene a rispondere alle pressioni tedesche sui tassi?
"Assolutamente sì. La maggioranza dei Paesi lo sostiene con vigore, non solo noi".

Con l'estate l'Italia torna sotto pressione dal punto di vista delle migrazioni. Che fine fa il Migration Compact che avete proposto a Bruxelles?
"I numeri non sono così drammatici come qualcuno vorrebbe far credere: siamo in linea con gli ultimi due anni. Ma diciamo la verità: dopo mesi finalmente si riconosce che la cosa veramente necessaria è cambiare approccio a livello europeo, impostando una diversa relazione con l'Africa. Lo dicevamo solo noi, un anno fa. Adesso lo dicono tutti. La scommessa è passare dalle parole ai fatti: io ci credo".
I numeri non saranno drammatici, ma i cittadini europei non la pensano così. Ha visto cosa è successo in Austria?
"Certo, è un campanello d'allarme. Rispetto le scelte del popolo austriaco, ma sono convinto che loro rispetteranno le decisioni prese dall'Ue".

Veramente stanno per chiudere il Brennero.
"Sarebbe un problema per l'Europa. Un passo indietro per i valori del trattato di Schengen. Un danno enorme per gli ideali europei e per l'economia dei nostri due Paesi".

La strada per affrontare l'emergenza immigrati passa per la Libia. Un governo adesso si è formato. Interverrete militarmente?
"No. Interverremo solo se il Governo Serraj chiederà a noi e al resto della comunità internazionale un sostegno. E solo insieme alla comunità internazionale. Pronti a un ruolo forte, ma niente avventure".

Tornando alle vicende domestiche. A giugno si vota nelle cinque città più importanti. Teme un voto contro di lei? Qual è il risultato minimo accettabile per il Pd?
"Il voto amministrativo è un voto sui sindaci. Sulle persone. Non è un voto di partito. Impossibile dunque fare previsioni o azzardare risultati minimi: si vota per il primo cittadino, non per il primo ministro".

Il referendum costituzionale, però, un voto su di lei lo sarà.
"Sono pronto a discutere nel merito con chiunque. Ma questa riforma è un fatto storico. Sarà il popolo a dire sì o no, con buona pace di chi parla di vulnus democratico. Io, da parte mia, farò campagna elettorale in tutte le regioni, nelle piazze e nei teatri, per spiegare le ragioni dell'Italia che dice sì. Dell'Italia che non vuole solo contestare".

Un'ultima domanda in qualità di tifoso di calcio.
Dai diritti tv alla gestione del sistema di quello sport nel suo insieme, si susseguono scandali. Sta pensando ad una riforma del settore?
"Si, ci sta lavorando in modo costante il sottosegretario Lotti. Questione di qualche settimana e presenteremo il nostro progetto ".

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25 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/25/news/matteo_renzi_basta_con_la_politica_subalterna_ai_magistrati_ora_norme_per_accelerare_i_processi_-138394583/?ref=HRER1-1
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« Risposta #130 inserito:: Agosto 23, 2016, 11:24:36 pm »


Tagli alle tasse, cambia la manovra.
Proposta alla UE per i fondi alla cultura
L'idea di Renzi per il vertice di Ventotene con Merkel e Hollande.
Nelle linee guida della legge di Stabilità anche aiuti ai pensionati

Di CLAUDIO TITO
21 agosto 2016

ROMA - Un taglio alla pressione fiscale e un progetto allo studio sulle pensioni minime. La legge di Stabilità 2017 si muoverà lungo questi due binari. Con un ammontare che si avvicinerà ai 25 miliardi. Ma il presidente del Consiglio Matteo Renzi spera di avere a disposizione per l'anno prossimo anche altre risorse: la proposta italiana al vertice di Ventotene di domani con Angela Merkel e François Hollande sarà infatti il varo di un piano Juncker straordinario per la cultura. Investimenti fuori dai vincoli del patto per restaurare e valorizzare luoghi simbolo dell'identità europea.

La manovra che il governo dovrà presentare a settembre è nelle sue grandi linee sostanzialmente pronta. L'unico punto interrogativo riguarda il tasso di crescita per l'anno in corso che nell'esecutivo sono ancora convinti di poter fissare all'1 per cento (un ottimismo derivante dal buon andamento dei consumi nel periodo estivo sebbene si tratti comunque di un dato in discesa rispetto alle previsioni dell'ultimo Def). Una soglia che, secondo i calcoli governativi, consentirebbe di evitare una correzione dei conti. Sperando poi per il prossimo anno in un incremento dell'1,3%.

Nel pacchetto in corso di definizione negli uffici di Palazzo Chigi e del Tesoro, allora, alcune misure sono considerate sostanzialmente sicure e puntano in primo luogo a limare il peso delle tasse. L'idea di fondo si basa sulla necessità di liberare il massimo delle risorse possibili per dare una spinta alla ripresa. Gli effetti della riduzione dei tassi seguita ormai da tempo dalla Bce non sono più sufficienti a stimolare una crescita costante e a incoraggiare investimenti e consumi. È quindi confermata la riduzione dell'Ires al 24 per cento. La misura era stata già disposta nella scorsa legge di Stabilità e viene considerata un tassello fondamentale per provare a rilanciare il Pil che nel 2016 non ha segnato l'incremento sperato. Soprattutto se lo si confronta con buona parte dei paesi europei.

Il secondo elemento dato ormai per certo dai tecnici dell'esecutivo riguarda la proroga del cosiddetto superammortamento del 140 per cento per chi investe. Anzi, proprio nel tentativo di dare un nuovo impulso all'economia, i benefici fiscali potrebbero essere estesi: non solo quindi per i beni strumentali. Il terzo provvedimento concerne ancora una misura già in vigore quest'anno: la detassazione dei premi di produttività. L'idea del governo è però quella di estendere lo sgravio da 2500 euro a 4 mila alzando il tetto di reddito massimo per usufruirne: da 50 mila a 75 mila. La parte fiscale della manovra si dovrebbe chiudere con la previsione di alcuni vantaggi per le partite Iva (in particolare per chi gode del cosiddetto regime forfettario con aliquota fissa al 15%). Un quadro che porta dunque a escludere nella legge di Stabilità 2017 il taglio delle aliquote Irpef che sarà rinviato almeno al 2018.

Per le pensioni, invece, a Palazzo Chigi considerano ancora prioritario dare un segnale alle "minime". Il totale di questi interventi deve essere ancora precisato: dipende dalla platea prescelta. Per ora le stime di spesa sfiorano i cinque miliardi. Un esborso su cui l'Economia sta ancora effettuando tutte le valutazioni. Anche perché alle "coperture" ne vanno aggiunti almeno altri 15 per disinnescare le clausole di salvaguardia che farebbero, in caso contrario, salire tutte le aliquote dell'Iva. E poi ci sono le spese che riguardano l'ordinaria amministrazione, i fondi di emergenza e probabilmente una quota di risorse per il rinnovo di alcuni contratti pubblici e una forma di prolungamento degli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato.

Non è un caso che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, abbia già avviato la trattativa con la Ue e in particolare con alcuni leader europei per conquistare per il prossimo anno un'ulteriore quota di flessibilità. L'Italia si era infatti impegnata a tenere il rapporto deficit/Pil sotto l'1,8 per cento nel 2017. Ma già allo stato, con la crescita che non ha compiuto il balzo sperato, si sfiorerebbe il 2% senza considerare i nuovi incentivi. L'obiettivo quindi è di strappare un benefit che possa portare il deficit almeno alla stessa quota dell'anno in corso: 2,3%. Facendo ricorso alle clausole per le riforme, per gli investimenti e per il ciclo economico eccezionale determinato dalla Brexit. Un argomento che domani inevitabilmente sfiorerà il vertice del premier italiano con Merkel e Hollande, nel quale il premier formalizzerà la proposta sugli investimenti in cultura, considerati strategici non solo per allentare le politiche di rigore ma anche in un'ottica di battaglia identitaria: la difesa concreta di quel patrimonio ideale comune sotto attacco del terrorismo. Tesoro e Palazzo Chigi non sono intenzionati a superare quella soglia anche per mantenere l'obiettivo di stabilizzare il debito ancora in crescita. Ma per coprire tutte queste spese hanno già messo nel conto una nuova razione di spending review. Forse un po' più incisiva di quella degli anni scorsi.

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21 agosto 2016

DA - http://www.repubblica.it/economia/2016/08/21/news/manovra_tasse-146352553/?ref=HREA-1
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« Risposta #131 inserito:: Febbraio 17, 2017, 12:22:48 am »


Direzione Pd, nella gabbia dell'estinzione

Di CLAUDIO TITO

QUANDO la politica diventa solo ed esclusivamente rapporti di forza, si inaridisce. Fino all'estinzione. Ma il Pd sembra non accorgersene. I dirigenti di quel partito - tutti i dirigenti - si mostrano ormai imprigionati in uno schema ripetitivo. In una gabbia che ha come unica via d'uscita l'esplosione o la paralisi. La direzione democratica è stata infatti un'ennesima occasione mancata. È ormai evidente che la sinistra non riesce a imparare dai suoi errori. Renziani e minoranza non sanno correggere il loro canovaccio più tradizionale. Sono due fronti capaci di coltivare una istintiva incompatibilità rinunciando del tutto alla razionalità della convivenza.

I toni della discussione sono stati forse più pacati rispetto al recente passato. Un confronto abbassato forse solo di qualche decibel. Ma non c'è stata sostanza. Non c'è stata politica. Un po' di tattica e zero strategia. Un partito fermo, nelle migliori delle ipotesi, al 5 dicembre. Ossia alla sconfitta referendaria. Un gruppo dirigente ripiegato su se stesso. Preoccupato di vincere la resa dei conti più che affrontare le nuove sfide. Come se dietro l'angolo non ci fosse anche per il nostro Paese il pericolo di una nuova destra che si affaccia davanti agli elettori con il volto di un populismo vincente. Che può vantare nel suo album le figurine di Trump, della Brexit inglese e della impressionante cavalcata di Le Pen in Francia. Una sinistra e un centrosinistra moderno dovrebbero sforzarsi di costruire una risposta politica a quel volto. E invece si rifugiano in una sorta di ring autogestito e autoreferenziale in cui il trofeo in palio è solo, appunto, la definizione dei rapporti di forza.

La maggioranza e la minoranza del Pd si muovono lungo il crinale di un suicidio vivendo una specie di dissociazione che impedisce a tutti di capire le ragioni delle sconfitte subite. Questa potrebbe essere l'occasione per definire un nuovo progetto e per riconquistare una nuova credibilità. Ma tutto questo è possibile solo se la politica torna ad essere il vero nucleo del confronto. Un leader allora deve essere in grado di farsi carico delle differenze, deve essere il baricentro di un organismo complesso. E la minoranza interna non dovrebbe liberarsi del complesso renziano evitando di approcciare l'attuale segretario con rancore e solo con l'obiettivo di fargli perdere il controllo della "ditta". Non c'è dubbio allora che dopo la botta che Renzi ha preso a dicembre e dopo le dimissioni dalla presidenza del Consiglio, il successivo passo non possa che essere il congresso. Negarlo è pretestuoso. Va convocato per scegliere il segretario, certo. Ma anche per costruire le "armi" ideali da usare contro la nuova destra. Evitando la tentazione di legittimarla - come alcuni esponenti della minoranza dem hanno fatto con il M5S - o di sottovalutarla come ha fatto la sinistra agli albori del berlusconismo. Questo dovrebbe essere l'obiettivo di un moderno partito democratico. Senza l'incubo di scissioni o di improvvisi ritorni alle elezioni. Perché entrambi gli scenari, in questo momento, sono agitati dai due contendenti con una sola finalità: regolare i conti interni.

Ne è la prova lo sterile dibattito sulla legge elettorale. I democratici a forza di non riconoscersi reciprocamente hanno completamente perso di vista la ragione sociale che li ha tenuti insieme: la vocazione maggioritaria. Il ritorno alla proporzionale rappresenta un infarto al cuore del Pd. E forse non è un caso che già nella direzione di ieri si siano materializzati i fantasmi di due ex partiti: i Ds e il Ppi. La direzione per un momento è sembrata un virtuale congresso diessino con Bersani, Speranza e Orlando. O un resuscitato Consiglio nazionale della Dc al tramonto con tutti i suoi silenzi e le lotte di potere. Ma quando la politica si trasforma solo in rapporti di forza, l'antipolitica diventa una forza.

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14 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/14/news/nella_gabbia_dell_estinzione-158258406/?ref=HRER3-1
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« Risposta #132 inserito:: Marzo 03, 2017, 04:21:39 pm »

Il piano giudiziario e quello politico
L’ex presidente del consiglio ha il dovere di spiegare o almeno di sottoporre ai suoi elettori e ai militanti del Pd un chiarimento sull'inchiesta Consip

Di CLAUDIO TITO
03 marzo 2017
 
IN TUTTE le inchieste che riguardano o toccano esponenti politici, esistono sempre due piani di valutazione diversi: quello giudiziario e quello politico. Piani diversi ma non per forza distinti. Le indagini, gli interrogatori, le prove e le controprove. Le responsabilità di tutti gli indagati devono essere stabilite dai giudici.

Si tratta di un percorso che si conclude con il processo. Dovranno essere solo e soltanto i magistrati a stabilire — con la massima rapidità possibile — se l’imprenditore Romeo o Tiziano Renzi, il padre di Matteo, sono colpevoli di qualche reato. La giustizia farà autonomamente il suo corso come è giusto che sia. Questa è la fisiologia di ogni Stato di diritto.

Ma poi c’è il secondo livello. Che individua il suo nucleo su una osservazione: la rilevanza penale non sempre coincide con l’incidenza politica. Questo secondo piano di valutazione ha un carattere che non è determinato, bensì è definito dalle inchieste. Nessuno può far finta di niente quando un ministro della Repubblica e il genitore del principale leader politico del Paese vengono inseriti nei registri di una procura. In quel preciso istante prende corpo la necessità di rispondere al Paese proprio in virtù dei voti ricevuti e richiesti agli italiani, e di quelli ottenuti in Parlamento. L’ex segretario del Pd, allora, dinanzi a documenti ufficiali dei pm che descrivono un contesto opaco in cui si sarebbero mossi parenti e amici — al di là del fatto se quella opacità si configurerà o meno come reato — non può limitarsi a dire di avere fiducia nella magistratura. È scontato che chi ha avuto l’onore di guidare il governo del Paese abbia fiducia nel potere giudiziario. In gioco non c’è solo una sorte processuale. C’è qualcosa di più. L’ex presidente del consiglio ha il dovere di spiegare o almeno di sottoporre ai suoi elettori e ai militanti del Pd un chiarimento.

Per un semplice motivo: in questi mesi il più grande partito della sinistra italiana e anche d’Europa si gioca larga parte del suo destino. Deve affrontare un congresso dopo un’ennesima scissione. Poi deve rendere conto agli elettori con le elezioni politiche. Arriva a questi due appuntamenti con una evidente fragilità. Gli effetti del referendum del 4 dicembre assomigliano ad una eco che si abbatte all’infinito sul Pd. Il governo Gentiloni non gode di una forma migliore. Del resto è l’esito di una sconfitta e viene ancora adesso percepito come una navicella di salvataggio che deve condurre l’Italia e una sinistra ferita verso la prossima tornata elettorale. L’insieme di questi fattori indebolisce ulteriormente il sistema-Paese. E infatti in questo contesto anche a livello internazionale la nostra immagine si appanna sempre più.

Per di più, come in un quadro che sembra disegnato ad arte per spianare la strada ai nuovi populismi della destra nostrana, i Democratici si ritrovano sballottati dai venti di una specie di tempesta perfetta: le inchieste, lo scontro sui vitalizi dei parlamentari, le polemiche sul tesseramento “comprato” e la condanna dell’ex alleato Denis Verdini. Sono tutte tessere di un mosaico che imprigiona il centrosinistra in una sorta di paralisi che la inibisce trasferendo vigore ai demagoghi di turno.

Ma proprio per questo l’inchiesta Consip non può essere affrontata solo come un caso giudiziario. Matteo Renzi è chiamato politicamente a darne conto. A spiegare che non ha nulla a che vedere con quel grumo di affari e tangenti al centro dei sospetti dei magistrati. Che se mai il suo nome è stato utilizzato, è avvenuto a sua insaputa e comunque senza alcuna conseguenza concreta sugli appalti assegnati dalla Consip. Che il padre di un presidente del consiglio non può permettersi il lusso di incontrare e frequentare chiunque.

Perché, appunto, non è in discussione l’esito di un processo che non lo riguarda personalmente. Ma la posta è perfino superiore. Quella di non assestare un ulteriore colpo a un Paese sempre più esposto ai tifoni del populismo. Il dovere dell’ex segretario democratico, dunque, è di chiarire e non di restare in silenzio.

© Riproduzione riservata 03 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/03/news/il_piano_giudiziario_e_quello_politico-159632410/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S2.2-T1
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« Risposta #133 inserito:: Marzo 05, 2017, 11:21:51 pm »

Il piano giudiziario e quello politico
L’ex presidente del consiglio ha il dovere di spiegare o almeno di sottoporre ai suoi elettori e ai militanti del Pd un chiarimento sull'inchiesta Consip

Di CLAUDIO TITO
03 marzo 2017
 
IN TUTTE le inchieste che riguardano o toccano esponenti politici, esistono sempre due piani di valutazione diversi: quello giudiziario e quello politico. Piani diversi ma non per forza distinti. Le indagini, gli interrogatori, le prove e le controprove. Le responsabilità di tutti gli indagati devono essere stabilite dai giudici.

Si tratta di un percorso che si conclude con il processo. Dovranno essere solo e soltanto i magistrati a stabilire — con la massima rapidità possibile — se l’imprenditore Romeo o Tiziano Renzi, il padre di Matteo, sono colpevoli di qualche reato. La giustizia farà autonomamente il suo corso come è giusto che sia. Questa è la fisiologia di ogni Stato di diritto.

Ma poi c’è il secondo livello. Che individua il suo nucleo su una osservazione: la rilevanza penale non sempre coincide con l’incidenza politica. Questo secondo piano di valutazione ha un carattere che non è determinato, bensì è definito dalle inchieste. Nessuno può far finta di niente quando un ministro della Repubblica e il genitore del principale leader politico del Paese vengono inseriti nei registri di una procura. In quel preciso istante prende corpo la necessità di rispondere al Paese proprio in virtù dei voti ricevuti e richiesti agli italiani, e di quelli ottenuti in Parlamento. L’ex segretario del Pd, allora, dinanzi a documenti ufficiali dei pm che descrivono un contesto opaco in cui si sarebbero mossi parenti e amici — al di là del fatto se quella opacità si configurerà o meno come reato — non può limitarsi a dire di avere fiducia nella magistratura. È scontato che chi ha avuto l’onore di guidare il governo del Paese abbia fiducia nel potere giudiziario. In gioco non c’è solo una sorte processuale. C’è qualcosa di più. L’ex presidente del consiglio ha il dovere di spiegare o almeno di sottoporre ai suoi elettori e ai militanti del Pd un chiarimento.

Per un semplice motivo: in questi mesi il più grande partito della sinistra italiana e anche d’Europa si gioca larga parte del suo destino. Deve affrontare un congresso dopo un’ennesima scissione. Poi deve rendere conto agli elettori con le elezioni politiche. Arriva a questi due appuntamenti con una evidente fragilità. Gli effetti del referendum del 4 dicembre assomigliano ad una eco che si abbatte all’infinito sul Pd. Il governo Gentiloni non gode di una forma migliore. Del resto è l’esito di una sconfitta e viene ancora adesso percepito come una navicella di salvataggio che deve condurre l’Italia e una sinistra ferita verso la prossima tornata elettorale. L’insieme di questi fattori indebolisce ulteriormente il sistema-Paese. E infatti in questo contesto anche a livello internazionale la nostra immagine si appanna sempre più.

Per di più, come in un quadro che sembra disegnato ad arte per spianare la strada ai nuovi populismi della destra nostrana, i Democratici si ritrovano sballottati dai venti di una specie di tempesta perfetta: le inchieste, lo scontro sui vitalizi dei parlamentari, le polemiche sul tesseramento “comprato” e la condanna dell’ex alleato Denis Verdini. Sono tutte tessere di un mosaico che imprigiona il centrosinistra in una sorta di paralisi che la inibisce trasferendo vigore ai demagoghi di turno.

Ma proprio per questo l’inchiesta Consip non può essere affrontata solo come un caso giudiziario. Matteo Renzi è chiamato politicamente a darne conto. A spiegare che non ha nulla a che vedere con quel grumo di affari e tangenti al centro dei sospetti dei magistrati. Che se mai il suo nome è stato utilizzato, è avvenuto a sua insaputa e comunque senza alcuna conseguenza concreta sugli appalti assegnati dalla Consip. Che il padre di un presidente del consiglio non può permettersi il lusso di incontrare e frequentare chiunque.

Perché, appunto, non è in discussione l’esito di un processo che non lo riguarda personalmente. Ma la posta è perfino superiore. Quella di non assestare un ulteriore colpo a un Paese sempre più esposto ai tifoni del populismo. Il dovere dell’ex segretario democratico, dunque, è di chiarire e non di restare in silenzio.

© Riproduzione riservata 03 marzo 2017

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« Risposta #134 inserito:: Maggio 30, 2017, 11:04:14 am »

I partiti senza idee e il ritorno alla palude.
Sembra che i partiti si sentano dispensati dall'obbligo di comunicare agli elettori i loro programmi e abbiano deciso di regredire in una sorta di immaturità permanente

Di CLAUDIO TITO
30 maggio 2017

Nel confronto di queste settimane sulla riforma elettorale e sulla data del voto, manca sempre qualcosa. Il dibattito si presenta amputato. Privato di quel nucleo essenziale che dovrebbe dare anima e sostanza a tutte le forze politiche. Quali sono gli obiettivi? Cosa intendono fare dopo le urne? Semplicemente qual è il loro programma? Non c'è nulla di tutto questo. Sembra quasi che nel tempo della transizione i partiti si sentano dispensati dall'obbligo di comunicare agli elettori i loro propositi e abbiano deciso di regredire in una sorta di immaturità permanente.

Non si spiega altrimenti quel che sta accadendo in Parlamento. I quattro principali partiti - Pd, M5s, Forza Italia e Lega - si stanno mettendo d'accordo per approvare una legge che ricalca il modello proporzionale tedesco. È doveroso che una democrazia abbia un sistema elettorale degno di questo nome. E l'Italia non ce l'ha. Ma non è solo questo in discussione. Il vero nodo si concentra nel motivo per cui queste quattro forze politiche lo scelgono: l'impotenza. Negli ultimi ventitré anni, uno schema sostanzialmente maggioritario ha costretto tutti a misurarsi con le richieste dei cittadini e a presentare loro le idee, le linee di un futuro governo. A esporre la loro natura. Adesso succede il contrario. In una sorta di ritorno al "pentapartito" della Prima Repubblica, tutto si rinvia a dopo. In un enorme bacino dell'indistinto. Il cui pericolo più concreto prende la forma di una nuova palude in cui ogni mossa sarà frenata dalla melma. Del resto ignorare che il sistema politico italiano non è quello di Berlino non può che portare a queste conclusioni. In Germania ci sono due grandi partiti, una leader riconosciuta, Angela Merkel, e il fronte populista non supera mai la soglia del 10%. In Italia la vera guida è la frammentazione e la protesta populista nei sondaggi arriva al 40%.

Basta allora osservare la traiettoria assunta dal Pd di Renzi. Un partito nato sulla vocazione maggioritaria, appare preoccupato soprattutto di ritornare al voto per dimostrare a se stesso che la sconfitta del 4 dicembre (la principale causa delle attuali distorsioni) è stata solo un incidente di percorso. Ma il leader democratico non chiarisce quali siano le sue finalità. Come intende governare il Paese. Non riesce a delineare i confini ideali del suo partito. Non può farlo. Non può presentare il suo programma reale. Perché sa che nel migliore dei casi - dopo il voto - dovrà allearsi con il partito di Silvio Berlusconi. Con il partito che il Pd ha combattuto per 20 anni e con il quale non dovrebbe condividere nulla dal punto di vista dei contenuti. Il Partito democratico avrebbe l'obbligo di rilanciare almeno un istintivo riformismo, ma è paralizzato nell'impossibilità di aggiornare il suo profilo. Anzi il ritorno alla proporzionale lo sta inconsapevolmente modificando.
E questa mutazione riguarda anche gli "scissionisti" del Pd, appagati dalla speranza della sconfitta renziana.

Lo stesso riguarda Forza Italia. Berlusconi però si crogiola nella speranza di recuperare centralità senza avere più i consensi di un tempo. E senza nemmeno rinverdire gli onirici proclami mai realizzati.

Il paradosso si raggiunge con i grillini e i leghisti. Il Movimento5Stelle si sta rintanando in una posizione meramente speculativa. La paura di governare - esplosa con i disastri della giunta Raggi a Roma - spinge l'ex comico ad accettare il bottino di parlamentari che conquisterà in autunno (se davvero si voterà in autunno). Si rintana nella sua identità primordiale: quella del vaffa. Sapendo - o sperando - che se nascerà il governissimo Renzi-Berlusconi potrà ricominciare a sparare contro tutto e tutti. Senza bisogno di spiegare agli italiani cosa vogliano davvero fare per il Paese. Come può cambiare. Come affrontare la crisi dell'Unione europea e il rapporto con Trump. Come rimettere in ordine i conti dello Stato o abbassare il tasso di disoccupazione. Solo slogan inattuabili. In perfetto spirito populista. Seguito a ruota dalla Lega di Salvini già pronta a denunciare gli "inciuci". Non si tratta quindi di un novello patto del Nazareno, ma di un'intesa per la sopravvivenza che coinvolge tutti e quattro. Assecondando così il sentimento provato da molti elettori e che Zygmunt Bauman spiegava in questi termini: "Per una grande maggioranza di cittadini l'idea di contribuire a indirizzare il corso degli eventi raramente è considerata credibile".

Il ritorno alla Prima Repubblica e il tempo della immaturità portano dunque tutti questi "doni". Le classi dirigenti di questo Paese, a cominciare dai partiti che sostengono con distrazione il governo Gentiloni, dovrebbero allora riflettere prima di fare un passo indietro. Utilizzino il tempo rimanente per tentare ancora una legge elettorale che stabilisca maggioranze certe e omogenee. E soprattutto facciano ora quello che poi non si potrà più fare. Oggi su Repubblica Liana Milella e Lavinia Rivara spiegano bene quanti provvedimenti fondamentali e civili siano ancora all'esame del Parlamento. Impieghino le loro energie per approvarli. E si concentrino sulla prossima legge di Stabilità senza escogitare barocchi artifici. E soprattutto evitando di esporci al baratro dell'esercizio provvisorio e della speculazione finanziaria.

© Riproduzione riservata 30 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/30/news/i_partiti_senza_idee_e_il_ritorno_alla_palude-166758727/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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