Israele, le chiavi della pace
Silvano Andriani
Ora che la Conferenza di pace sul Medioriente, promossa per novembre dagli Usa, si approssima si può provare ad immaginare quali possono essere gli esiti della linea intrapresa, per decisione di Israele e degli Usa, dopo la vittoria di Hamas alle elezioni politiche palestinesi del 2005. Quelle elezioni portarono all’inopinata vittoria della componente radicale e gli occidentali, che le avevano fortemente volute, si rifiutarono di riconoscerne il risultato e sostennero Israele nell’infliggere all’Autorità palestinese diretta da Hamas una sorta di stato di assedio facendole mancare tutte le risorse che le erano dovute in base agli accordi precedenti.
Quello stato di assedio continuò anche dopo l’intervento dell’Arabia Saudita con una mediazione che favorì la costituzione di un governo di unità nazionale tra Hamas e Fatah, che comportò il riconoscimento, da parte di Hamas, di tutti gli accordi sottoscritti precedentemente da Fatah, il che costituiva un indiretto riconoscimento di Israele da parte di Hamas. In una conferenza successiva di tutti i paesi arabi l’Arabia Saudita ottenne la disponibilità di tutti a riconoscere la legittimità di Israele. Tale riconoscimento fu prospettato non certo come accettazione di una condizione di Israele per iniziare la trattativa con l’Autorità palestinese, ma come eventuale suggello di un esito positivo di quella trattativa che comportasse la nascita effettiva di uno stato palestinese. È difficile trovare qualcuno che accetti di cedere la principale concessione che si può fare in una trattativa prima ancora che essa cominci.
L’assedio è continuato, nonostante che l’incaricato dell’Onu per il medioriente Alvaro de Soto in un rapporto del maggio scorso sosteneva di ritenere che i conti con Hamas non si potessero fare «con la pressione e l’isolamento soltanto, che Hamas era già evoluta e poteva evolvere ancora di più, che se noi dobbiamo incoraggiare tale evoluzione qualche canale di dialogo sarebbe necessario». Nel rapporto de Soto sottolineava che il Quartetto incaricato di mediare la pace in medioriente, e del quale l’Onu fa parte, per iniziare la trattativa con l’Autorità palestinese non aveva mai deciso di considerare «non violenza, riconoscimento di Israele, accettazione degli accordi e degli impegni precedenti come "condizioni"». Tali adempimenti erano stati imposti come condizioni solo da Usa ed Israele. Per questo motivo de Soto riteneva che il Quartetto di fatto finisse col configurarsi «...più come un gruppo di amici degli Usa che altro».
Il risultato della linea dura è stato esattamente quello previsto nel succitato rapporto: Abu Mazen è stato indotto, dal protrarsi dell’assedio ed anche dalla scarsa volontà di Fatah di cedere il potere a chi aveva vinto le elezioni, ad estromettere dal governo Hamas che, a sua volta, ha estromesso dal potere a Gaza gli uomini di Fatah, il tutto passando da un inizio di guerra civile e determinando una frattura della realtà palestinese, con Gaza controllata da Hamas e la Cisgiordania controllata da Fatah, che, di per sé, rende più difficile la costituzione di uno Stato palestinese. In questi frangenti è possibile immaginare un paio di scenari come possibile evoluzione della situazione anche attraverso la Conferenza di Novembre. Nel primo scenario fa premio il forte desiderio dei principali attori di questa vicenda di arrivare ad un accordo. Il governo statunitense ha un disperato bisogno di un successo in politica estera dopo i gravi insuccessi patiti in medioriente. In caso di accordo Bush potrebbe uscire di scena, non tanto come colui che con l’invasione dell’Iraq ed il suo unilateralismo ha provocato il deterioramento dell’intera situazione mediorientale, rafforzato il radicalismo islamico ed il terrorismo, ma come colui che ha avviato a soluzione un conflitto storico ponendo la condizione per un miglioramento della situazione nell’intera area.
Anche Abu Mazen ha un disperato bisogno di un accordo che consenta l’effettiva nascita dello Stato palestinese. La sua legittimazione è scarsa in quanto rappresenta per ora solo una parte dei palestinesi. Un accordo positivo dimostrerebbe la validità della sua linea di moderazione e gli darebbe la possibilità di prevalere politicamente su Hamas. Anche il governo israeliano può avere un grande interesse ad un accordo. Con esso dimostrerebbe che la linea dura ha pagato; porrebbe le condizioni per una vittoria politica della componente moderata palestinese, che rafforzerebbe la sua sicurezza; aprirebbe le porte ad una positiva evoluzione dei suoi rapporti con l’intero mondo arabo rafforzando all’interno di esso la posizione della componente sunnita rispetto all’Iran. Risultati importanti se vi è la percezione di quelli che Kissinger chiama i «quattro nuovi pericoli emergenti per Israele»: la nascita di gruppi terroristici incontrollati, la sfida demografica, la sfida iraniana ed il crescente isolamento nel quale Israele sta venendo a trovarsi anche negli Usa, in quanto ritenuta responsabile, per la sua rigidità, della perdita di prestigio degli Usa in Medioriente. Affinché un tale scenario si avveri è necessario che Israele sia disposta a fare importanti concessioni, tali da consentire davvero la nascita di uno Stato palestinese e che gli Usa smettano di aderire totalmente alla linea israeliana e tentino di recuperare, magari con l’ausilio della Lega Araba, quel ruolo di honest brocker che con Bush hanno perduto. Ed in vista della conferenza, sarebbe bene rendersi conto che, come sostiene sul Financial Times del 19 ottobre Moshe Aviral, che collaborò col premier israeliano Barak alle trattative di Camp David «...noi non possiamo separare il conflitto israeliano-palesinese dal conflitto fra Israele e l’intero mondo arabo». Da questo punto di vista la presenza della Siria alla Conferenza di pace sarebbe di fondamentale importanza, ma l’elenco dei partecipanti non è ancora noto.
L’altro scenario è meno ottimista. Israele, considerando la situazione di relativa sicurezza realizzata con la costruzione del muro, con l’ascesa al potere di Abu Mazen e la divisione dei palestinesi e quindi l’indebolimento e la scarsa rappresentatività del suo interlocutore, che essa stessa ha provocato, tenta di concludere un accordo al ribasso, di realizzare un disegno che è stato certamente immaginato da una parte del gruppo dirigente del paese, quello di chiamare Stato palestinese la costituzione di due entità palestinesi separate, di fatto due province autonome di Israele. Soluzione che niente avrebbe a che vedere con gli accordi di Oslo. Un tale atteggiamento confermerebbe la valutazione contenuta in un rapporto del 12 gennaio elaborato su richiesta di Chirac, allora Presidente, da Regis Debray che considera la pratica di Israele di realizzare situazioni di fatto diverse dagli impegni assunti «un metodo ed una tradizione che risale ai primi tempi del movimento sionista». È molto difficile che Autorità palestinese possa accettare un tale accordo, in ogni caso, che lo accetti o no, la sua legittimazione sarebbe ulteriormente indebolita. È probabile che un tale esito acutizzi lo scontro tra i palestinesi e che nel breve periodo rafforzi ulteriormente Israele, ma nel medio lungo periodo porrebbe le condizioni per un rafforzamento politico delle componenti radicali e farebbe aumentare i «quattro nuovi pericoli».
Il che significa che dovremmo prepararci ad ancora molti anni di conflitto mediorientale e di instabilità nella regione. Forse dalla Conferenza capiremo quale dei due scenari si sta aprendo: quello che è certo è che le chiavi di entrambi sono nelle mani di Israele.
www.silvanoandriani.itPubblicato il: 28.10.07
Modificato il: 28.10.07 alle ore 12.20
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