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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 138251 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 27, 2008, 06:55:50 pm »

DEMOCRAZIE

Se lo Stato fallisce


di Angelo Panebianco


Che cos’hanno in comune i due temi caldi di questi giorni, il braccio di ferro fra il governo e le comunità locali campane sulle discariche e il dibattito sulla necessità o meno di introdurre il reato di clandestinità? Pur essendo questioni diversissime esse condividono il fatto di sollecitare risposte a una domanda decisiva: quale «livello di statualità », quale grado di controllo territoriale da parte dello Stato, riteniamo compatibile con la forma di governo democratica? In linea di principio, le democrazie possono distinguersi fra loro per il fatto di essere associate a Stati «forti» (effettivo monopolio della forza, effettivo controllo sul territorio) oppure a Stati «deboli».

Nella realtà, naturalmente, è sempre una questione di grado: non esistono Stati così forti da esercitare un controllo totale sul territorio (caso francese: rivolta della banlieue) e, inoltre, esistono, sul versante opposto, vari gradi possibili di debolezza dello Stato. E' però un fatto che quando la debolezza supera una certa soglia lo Stato debole si trasforma in uno «Stato fallito». Se mai quella soglia venisse superata in un Paese occidentale anche la democrazia (che non può vivere in assenza di Stato) vi morirebbe immediatamente. La democrazia italiana ha sempre convissuto con uno Stato relativamente debole. Non foss'altro per la sua incapacità di stabilire un effettivo monopolio della forza nei territori storicamente controllati dalla criminalità organizzata.

La novità di questi anni è l’esplosiva miscela fatta di cambiamenti culturali (ampie fasce di cittadini sempre meno disponibili ad accettare il comando statale), inefficiente funzionamento della macchina amministrativa (apparati repressivi inclusi) e trasformazioni sociali (l'immigrazione ne è un aspetto). Tutto ciò ha ulteriormente indebolito il «grado di statualità», in termini di controllo delle risorse coercitive, della forza e di controllo territoriale, avvicinando così il Paese pericolosamente a quella zona rossa superata la quale ci sono solo lo «Stato fallito» e la conseguente anarchia. Poiché abbiamo una tradizione di Stato debole molti credono che l'ulteriore indebolimento che esso ha subito in questi anni (testimoniato, ad esempio, dai continui successi ottenuti fino a oggi dalle comunità locali in rivolta contro decisioni governative in materia di opere di pubblica utilità) non comprometterebbe la democrazia. Sbagliano clamorosamente.

Una democrazia si differenzia da un regime autoritario perché distingue in modo sufficientemente chiaro, sulla base di leggi e procedure codificate, ciò che è negoziabile e ciò che non lo è. E ciò che non è negoziabile (le decisioni assunte da organi democraticamente eletti) viene imposto. Anche con la forza, quando occorre. A patto naturalmente che lo Stato non sia ridotto a una finzione, non sia diventato così debole da non poterselo più permettere. Chi plaude come «democratica» la rivolta antidiscariche, forse non lo sa ma il «modello di Stato» che sta proponendo a tutti noi è il Libano. Anche la discussione sul reato di clandestinità ha molto a che fare con il livello di statualità ritenuto accettabile, opportuno, nonché compatibile con la democrazia. Il reato di clandestinità, com’è noto, è vigente in altre democrazie occidentali.

Da noi alcuni vi si oppongono solo per ragioni pragmatiche: sono quelli che dicono che a causa dell’inefficienza del nostro sistema giudiziario, l'introduzione di questo reato renderebbe impossibile espellere i clandestini. Forse hanno ragione. Però costoro hanno anche il dovere di proporre misure per ridurre quell'inefficienza (magari anche a costo di far strillare un po' l'Associazione nazionale magistrati e altre strutture sindacali). A occhio, però, direi che i «pragmatici » non sono in maggioranza fra coloro che si oppongono al reato di clandestinità. La maggioranza mi pare composta da quelli che difendono l'attuale basso livello di statualità, che vogliono che i confini nazionali restino porosi non solo di fatto ma anche di diritto. Sono persone (fra esse ci sono anche alcuni uomini di Chiesa) che ritengono un maggior controllo statale sul territorio incompatibile con la democrazia.

La storia, le tradizioni, pesano. Poiché la nostra è una tradizione di Stato debole molti pensano che solo uno Stato debole possa sposarsi con la democrazia. Costoro temono eventuali rafforzamenti del livello di statualità perché li interpretano tout court come manifestazioni di tendenze autoritarie in atto. Per la stessa ragione, essi ignorano o sottovalutano i segnali, accumulatisi negli ultimi anni, di «cedimento strutturale» del nostro sistema statuale. Talvolta, un eccesso di statualità può effettivamente innescare tendenze autoritarie e uccidere la democrazia. L'anarchia, però, è sempre in grado di produrre lo stesso risultato.

27 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 02, 2008, 11:45:54 am »

RIFIUTI E DISFATTA DEL SUD

Se la società civile scendesse in piazza


di Angelo Panebianco


Nel suo L'armonia perduta, del 1999, a proposito di quell'invenzione culturale che è stata la «napoletanità», Raffaele La Capria scrive che essa «... fu l'approdo inevitabile di questa piccola borghesia che rinunciava a priori, per risolvere il problema della plebe, a ogni vero tentativo di trasformazione sociale. Che rifiutava a priori ogni tentativo di industrializzazione, in quanto comportava rischi e richiedeva investimenti, capacità imprenditoriali, cultura, proprie di una classe dirigente moderna e di una borghesia degna di questo nome».

Assillata dall'esigenza di controllare la plebe, la borghesia napoletana, per La Capria, diede vita a una forma di civiltà duttile e raffinata ma immobile, impermeabile alle esigenze della modernità.

L'ambivalente sentimento dello scrittore nei confronti della borghesia della sua città ritorna oggi negli interventi che egli dedica all'emergenza napoletana. Lo si coglie anche nelle riflessioni pubblicate ieri sul Corriere. Quell'ambivalenza dà luogo, mi sembra, a oscillazioni nel giudizio. C'è una differenza fra la prima parte, dove risponde a Ernesto Galli della Loggia, e la seconda dove esamina criticamente Il mare non bagna Napoli, il libro di Anna Maria Ortese. Nella prima parte, egli accusa l'Italia per quanto è accaduto e accade a Napoli. Il rischio è che il lettore vi veda (fraintendendo, credo, il vero pensiero di La Capria) una sorta di assoluzione per Napoli, un voler gettare sulle spalle di altri le responsabilità. Nella seconda parte, però, egli dedica un giudizio molto affilato e duro alla borghesia napoletana, della quale dice che essa non si è mai confrontata con il mondo e, pertanto, non è mai stata in grado di conoscersi: «Come si fa a essere classe dirigente se non si sa chi si è?».


Io credo che a Napoli oggi possa servire più questo duro giudizio sull'inettitudine della sua borghesia, della sua classe dirigente, che una chiamata di correo per l'Italia nel suo insieme. Perché nelle chiamate di correo è sempre insito il rischio, anche al di là delle intenzioni, di allontanare la responsabilità da chi in primo luogo la possiede. E' mia impressione che i napoletani, e in particolare proprio quella borghesia da cui fin qui, nella vicenda dei rifiuti, ci si è attesi invano uno scatto d'orgoglio, la manifestazione di un'inequivocabile volontà di prendere in mano il destino della propria città, non abbiano ancora misurato fino in fondo il baratro morale in cui Napoli è precipitata agli occhi del resto dell'Italia. Forse, per quella normale forma di cortesia che impronta le conversazioni private, i non napoletani evitano di calcare troppo la mano quando parlano con dei napoletani. Ma è purtroppo un fatto che, ad esempio, quando al Nord oggi si parla di Napoli (e la cosa non coinvolge solo elettori leghisti ma i più disparati ambienti, culturali e politici) smorfie e commenti carichi di disprezzo sono la regola. Il resto del Paese si sente danneggiato da Napoli due volte. In termini di immagine, perché la vicenda napoletana dei rifiuti coinvolge l'intera Italia agli occhi del resto del Mondo. E in termini di sforzo finanziario, perché quella storia costa cifre colossali ai contribuenti italiani.


Da quindici anni, o quanti ne sono passati da quando dura il problema dei rifiuti, afflitta da quegli antichi difetti acutamente individuati da La Capria, la società civile napoletana, quell'ambiente borghese fatto di professionisti, professori, imprenditori, giornalisti, magistrati, è stato silente, e quindi complice, degli errori inanellati dalla classe politica. Quella società civile non può fingere di non avere responsabilità possedendo essa le risorse culturali ed economiche che avrebbero potuto metterla in grado di esercitare un'influenza positiva, se solo lo avesse voluto.

Trovo stupefacente che quella classe borghese non abbia ancora sentito su di sé tutto il peso morale dell'emergenza e non si sia data da fare di conseguenza. Trovo strano, ad esempio, che essa non sia stata ancora in grado di portare in piazza mezzo milione, o più, di persone, con lo scopo di solidarizzare con chi, da De Gennaro a Bertolaso, ha tentato e tenta l'impossibile per rimediare, e di dire basta alle manovre dilatorie e alle «rivolte » suscitate ad arte, mediante le quali, da troppo tempo, si impedisce di porre termine a questa scandalosa situazione. Se quella reazione ci fosse stata, il clima e il vento sarebbero già cambiati e Napoli potrebbe guardare con più fiducia al futuro. Per i rifiuti ma forse anche per i suoi più generali problemi di sviluppo. L'assenza di quella reazione spiega anche l'incapacità delle istituzioni di cooperare fra loro (come mostra l'ultimo, devastante, intervento della magistratura), di remare nella stessa direzione.

Non dovrebbe essere questo il compito di intellettuali di grande prestigio come La Capria? Quello di spingere i propri concittadini ad abbandonare l'apatia, a muoversi per riconquistare un orgoglio e un onore oggi perduti? Anche i difetti più antichi e radicati di una classe dirigente che, in realtà, non sa dirigere più nulla, possono essere riscattati nelle situazioni di emergenza. Anzi, è solo in presenza di crisi gravissime che potenziali classi dirigenti, abituate a stare in ginocchio, riescono talvolta ad alzarsi in piedi.
In quasi tutto il Sud, non solo a Napoli, è da sempre radicata l'idea che tocchi agli altri, al Nord ricco oppure allo Stato, «risarcire» il Sud, risolvere i problemi della società meridionale. Ma è una tragica illusione. Gli «altri», si tratti dello Stato o di qualunque altra entità, anche ammesso (e non concesso) che lo vogliano, non potrebbero comunque riuscirci. Nessuno è in grado di aiutare davvero un altro se quest'ultimo non aiuta se stesso per primo.


31 maggio 2008(modificato il: 01 giugno 2008)

da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:27:51 pm »

Il monito di Obama


di Angelo Panebianco


Probabilmente non è così esperto da mettere in conto tutte le conseguenze delle proprie dichiarazioni. Gli premeva solo segnare un punto contro il suo avversario, il repubblicano John McCain. Ma quando, alcuni giorni fa, Barack Obama, il candidato democratico, ha assunto una durissima posizione contro l'Iran, chiarendo che lo considera un nemico dell'America, egli ha lanciato, involontariamente, anche un messaggio all'Europa.

Soprattutto, a quella parte d'Europa tentata dall'appeasement con l'Iran. Riflettano quelli che in Europa pensano che con l'Iran bisogna fare solo affari, fingere che il presidente iraniano Ahmadinejad sia un pazzo isolato che non va preso sul serio quando ribadisce che Israele dev'essere distrutto e chiudere gli occhi di fronte all'espansionismo del-l'Iran in Medio Oriente e al suo programma nucleare. Non sappiamo se il «predicatore » diventerà presidente e se, diventandolo, darà vita a una politica estera mediocre e oscillante (come quella di Jimmy Carter) oppure di grande profilo come quella di altri presidenti democratici. Ma una cosa è sicura. L'America (eventuale) di Obama non cesserà di essere pronta alla durezza nei confronti delle più pericolose potenze revisioniste, quelle che si propongono di rovesciare a proprio vantaggio, anche con la forza delle armi, lo status quo (l'Iran di oggi è una potenza del genere nello scacchiere mediorientale). C'è quindi da scommettere che molto del favore che Obama raccoglie anche in Europa (la «buona America » contro quella cattiva di Bush) si ridurrà se egli diventerà presidente. Si noti che una politica dura nei confronti del-l'Iran porterà per forza altre conseguenze.

Non potrà essere abbandonato l'Iraq perché ciò permetterebbe all'Iran di dilagare senza contrappesi nella parte sciita di quel Paese. Nel Libano, dove l'Hezbollah filoiraniano si è ulteriormente rafforzato, si dovrà continuare a fronteggiarne la minaccia. La stessa cosa varrà per Gaza. E' un monito anche per noi italiani. Bene ha fatto il governo a non ricevere Ahmadinejad durante la sua visita alla conferenza della Fao e bene hanno fatto le forze politiche a tenersene distanti. Così come è giusto voler entrare nel gruppo 5+1 per partecipare all'azione internazionale coordinata contro la potenziale minaccia nucleare iraniana. Anche a costo di perdere commesse e affari. Poiché una guerra (che, purtroppo, ha forti probabilità di scoppiare se non ci saranno, nei prossimi anni, un cambio di regime in Iran o una sua rinuncia al nucleare militare) farebbe perdere a tutti molto di più. Come ha scritto Mario Ricciardi sul Riformista, trattare con i gangster politici si può e, talvolta, si deve, ma si può fare solo mettendo una pistola sul tavolo. Chi non la pensa così nel caso dell'Iran ne sottovaluta la minaccia oppure ha ragioni inconfessate per approvarne l'avventurismo (perché, ad esempio, detesta a tal punto Israele da considerarlo una pedina sacrificabile). L'Iran, si dice, è una società complessa ove sono presenti molte forze. Lo è di sicuro. Ma per permettere alle forze interne contrarie all'avventurismo dell'attuale gruppo dirigente iraniano di prevalere, occorre un Occidente compatto e deciso, tale da non lasciare al regime spiragli per giocare un Paese occidentale contro l'altro. Forse persino Obama non sarà molto diverso da Bush su questo punto.

08 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:46:07 pm »

GOVERNO E OPPOSIZIONE

Il ritorno all'antico


di Angelo Panebianco


Non se ne sentiva la mancanza ma la notizia è ufficiale: è tornato il «regime» con annessi «attentati alla Costituzione » e «derive autoritarie». La sinistra dura e pura, quella che oggi vuole dare lo sfratto a Walter Veltroni per connivenza col nemico, torna agli argomenti di sempre. Mobilita persino (lo ha fatto l’Unità ieri) i «reporter europei» contro il divieto di pubblicare le intercettazioni. È un dettaglio irrilevante, naturalmente, il fatto che nessuno di quei reporter europei (come i pubblici ministeri dei relativi Paesi) abbia mai potuto fare l’uso delle intercettazioni che si è fatto fin qui in Italia. La difesa del circo mediaticogiudiziario viene assimilata alla difesa della libertà di stampa.

Per inciso, chissà come si deve sentire Luciano Violante, nonostante l’autorevolezza di cui ha sempre goduto a sinistra sui temi giudiziari: avendo detto cose assai diverse da quelle che dice la «sinistra anti-regime», rischia di essere trattato da traditore. La battaglia anti-regime ha fatto male alla sinistra in passato. È stata una strada politicamente fallimentare. Se verrà imboccata di nuovo (e ce ne sono i segnali) farà ancora male alla sinistra. E anche alla democrazia italiana. Il paradosso è che la mobilitazione anti-regime non avviene in un Paese che soffre di iper-decisionismo ma del suo esatto contrario, di un’insuperabile debolezza decisionale. Nel 2001 Berlusconi aveva, sulla carta, una fortissima maggioranza ma questo non impedì che la sua azione venisse continuamente bloccata dai veti incrociati. L’illusione ottica si è ripresentata dopo le ultime elezioni.

La vittoria del centrodestra è stata così netta da far pensare che nulla avrebbe potuto impedire a Berlusconi di governare con vero piglio decisionista. Ma non può essere così in un sistema politico come il nostro. L’illusione ottica si sta dissolvendo. Il governo appare già oggi indeciso a tutto. Basti guardare alla girandola di norme che vengono inserite nei decreti (a immediata operatività) e, un istante dopo, ne escono per essere trasferite dentro disegni di legge: in un sistema indecisionista come il nostro, trasferire una norma da un decreto a un disegno di legge significa farla uscire dall’agenda politica. Prima che se ne discuta di nuovo, campa cavallo. A differenza di quanto accade in altre democrazie, in Italia ottenere grandi consensi elettorali e disporre di una grande maggioranza non garantisce la capacità decisionale del governo. Nonostante le differenze fra il governo Berlusconi e il governo Prodi (minor numero di partiti nella coalizione, maggioranza sicura in entrambe le Camere), non è detto che, in termini di capacità decisionale, a Berlusconi vada davvero molto meglio che a Prodi.

Perché restano inalterati i problemi di fondo della nostra democrazia: i debolissimi poteri di cui gode il premier e un numero di poteri di veto, diffusi a tutti i livelli del sistema istituzionale, più elevato di quello di altre democrazie. Basti guardare, ad esempio, alla capacità che hanno certi settori della magistratura campana (il commissario De Gennaro è stato esplicito su ciò) di bloccare o rallentare l’azione governativa nella vicenda dei rifiuti. È strano, o perlomeno prematuro, che si accusi un sistema politico cronicamente malato d’indecisionismo di essere un regime.

17 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 15, 2008, 10:29:34 am »

IL RAPPORTO CON I PM

Giudici, la svolta che serve ai democratici


di Angelo Panebianco


L’arresto del presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e di altri dirigenti politici e amministrativi e l'incriminazione di molte altre persone nell’ambito di una inchiesta su presunte tangenti nella sanità ha scompaginato le file del Partito democratico di quella regione ricordando a tutti che i problemi dei rapporti fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi. Come sempre accade in questi casi vengono poste pubblicamente domande destinate a restare senza risposta. Una per tutte: a parte l’esigenza di ottenere il massimo impatto mediatico, c’è stata anche qualche altra ragione dietro la decisione (ovviamente molto grave per le sue conseguenze) di procedere all’arresto della massima autorità politico- amministrativa della Regione? Ancorché indubbiamente meno spettacolare, una semplice incriminazione a piede libero non sarebbe ugualmente servita agli scopi dell’inchiesta? Una cosa è certa. Se mai Del Turco, alla fine, dovesse uscire pulito da questo affare giudiziario non ci sarà comunque mai alcuna sede disciplinare nella quale le suddette domande potranno essere poste a quei magistrati.

L’imbarazzo del Partito democratico è evidente. Il silenzio dei suoi vertici sulla vicenda abruzzese, durato per buona parte della giornata di ieri, è stato rotto solo a metà pomeriggio da una dichiarazione di Walter Veltroni che, mentre manifestava stupore e amarezza per l’arresto di Del Turco, riconfermava, un po’ ritualmente, la sua fiducia nella magistratura.

Ma forse, oggi, dal Partito democratico è lecito attendersi anche qualcosa d’altro. Forse anche per il Pd è arrivato il momento, dopo anni di silenzi, acrobazie e furbizie da parte dei partiti predecessori (Ds e Margherita), di smetterla di fare il pesce in barile sulle questioni della giustizia e dei rapporti fra magistratura e politica.

È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di tornare a essere forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia, una posizione che non si limiti a essere, come è sempre stato fin qui, una fotocopia di quella dell’Associazione nazionale magistrati?

Almeno da Mani pulite in poi la sinistra ha nel complesso finto (e comunque questo è il racconto che, per lo più, ha «venduto » all’elettorato e ai militanti o ha permesso che venisse venduto dai propri giornali di riferimento) che non ci fossero veri problemi nel rapporto fra giustizia e politica. Ha negato l’esistenza di un potere discrezionale eccessivo dei pubblici ministeri, ha finto di non vedere le continue invasioni di campo. Ha accreditato in sostanza l’idea che i problemi derivassero tutti, e soltanto, dalla natura corrotta del nemico del momento (Craxi, Berlusconi).

In mezzo a tanti convegni inutili, l’unico convegno davvero prezioso che purtroppo manca ancora all’appello è quello in cui il Partito democratico, pubblicamente e solennemente, sceglie la strada della discontinuità, di una svolta decisa nella sua politica della giustizia.

Solo dopo l’incresciosa manifestazione di Piazza Navona, il Pd ha preso le distanze dal partito di Di Pietro. Ma perché quella decisione non si riduca solo a furbizia tattica occorrono ora cambiamenti nelle concezioni e nelle scelte in materia di giustizia.

Non esistono dubbi che, senza una collaborazione fra maggioranza e opposizione una riforma dell'ordinamento della giustizia (separazione delle carriere, responsabilizzazione dei pubblici ministeri, eccetera) che lo renda coerente con lo spirito e i principi di una democrazia liberale e che riequilibri i rapporti (squilibrati ormai da quasi un ventennio) fra magistratura e politica, non potrà mai passare. È lecito dunque attendersi dalla massima forza di opposizione non solo qualche battuta utile per ottenere un titolo sui giornali ma un ripensamento serio delle proprie posizioni.

Luciano Violante, un esponente politico la cui influenza passata sulla politica della giustizia della sinistra sarebbe impossibile sottovalutare, sembra oggi uno dei pochi consapevoli della necessità di cambiamenti. In un intervento ieri sulla Stampa Violante ha criticato in termini che a me paiono ineccepibili la nuova versione della cosiddetta norma blocca-processi decisa dal governo. L'argomento che ha usato dovrebbe fare storcere il naso ai giustizialisti. Ha sostenuto che, se pure la nuova versione è meglio della precedente, produce anch'essa danni, lasciando in questo caso troppa discrezionalità ai magistrati. Violante, mi pare di capire, dichiara il suo favore per un sistema nel quale, come avviene in tanti Paesi occidentali (in passato si è tentato di farlo anche in Italia ma senza grandi risultati), Guardasigilli e Parlamento dettino annualmente alla magistratura le priorità. A me pare, però, che senza una riforma che, tra le altre cose, separi le carriere e tolga di mezzo l'obbligatorietà dell'azione penale, non sarà mai possibile ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia. Forse proprio Violante, con la sua autorevolezza, potrebbe oggi essere, insieme ad altri (come i radicali, oggi accasati nel Partito democratico, con il loro patrimonio di battaglie e proposte garantiste) uno degli uomini in grado di fare da battistrada a un nuovo corso, aiutare il Partito democratico a cambiare registro.

15 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 27, 2008, 10:54:28 am »

SINISTRA, AVVERSARI E GIUDICI

La doppia morale


di Angelo Panebianco


Ma perché la cifra stilistica della sinistra italiana deve essere per forza il doppio standard, la doppia morale?
Prendiamo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il governo utilizza una norma vigente per dichiarare lo stato d'emergenza di fronte all'afflusso dei clandestini. Dalla sinistra partono bordate: razzismo, xenofobia, autoritarismo, intollerabile clima emergenziale.

Quella norma però è stata in passato utilizzata anche dal governo Prodi.

Come mai all'epoca nessuno fiatò? Come mai nessuno di quelli che oggi strillano accusò quel governo di razzismo e xenofobia? Perché i «sacri principi», quali che essi siano, devono sempre essere piegati alle esigenze politiche del momento? Non è forse un modo per dimostrare che in quei principii, utili solo come armi da brandire contro l'avversario, in realtà, non si crede affatto? La spiegazione più ovvia, più a portata di mano, quella che rinvia l'esistenza della doppia morale, del doppio standard, alle persistenti scorie lasciate in eredità al Paese dalla vecchia tradizione comunista, è insoddisfacente: spiega troppo o troppo poco. Certo, è vero, nella tradizione comunista il doppio standard era la regola. Per i comunisti esisteva un fine superiore, una nobile causa al cui raggiungimento tutto doveva essere subordinato e piegato. Il ricorso continuo alla menzogna, ad esempio, era giustificato dal fine superiore. Così come il doppio standard.

Si pensi alla sorte di certi leader democristiani: Fanfani, Andreotti, Cossiga. Su di essi il Pci riversò a più riprese ogni genere di accuse, spesso anche quella infamante di essere registi di trame paragolpiste. Però, se il vento cambiava , quei registi occulti delle peggiori trame si trasformavano in amici e «compagni di strada»: il giudizio politico-morale su di loro dipendeva dall'utile politico del momento. E la capacità di intimidazione culturale del Pci e delle forze che lo fiancheggiavano era tale da non rendere necessario rispondere a una domanda che, del resto, solo pochi osavano porre: ma come è possibile che oggi strizziate l'occhio a un tale che fino a pochi mesi fa accusavate dei più infami misfatti?

Qualcosa del genere, d'altra parte, accade ancora. Si pensi al caso di Umberto Bossi del quale non si è ancora capito se si tratta di un leader xenofobo e parafascista, praticamente un delinquente, una minaccia per la democrazia, oppure di una costola della sinistra, uno con cui, magari, si può essere disposti a fare un po' di strada «federalista» insieme. O meglio, abbiamo capito benissimo: Bossi continuerà ad essere, alternativamente, l'una o l'altra cosa a seconda di come evolveranno nei prossimi anni i suoi rapporti con Berlusconi. Dicevo che non ce la possiamo cavare tirando in ballo solo la tradizione comunista. Sarebbe sbagliato e anche ingiusto verso molti ex comunisti.

Tra i comunisti c'erano molte persone serie, rigorose, di qualità. Queste persone, quando presero atto che la superiore causa era un vicolo cieco, o un'impostura, cambiarono registro. Misero da parte quella doppia morale che, ormai, ai loro stessi occhi, non aveva più alcuna giustificazione morale e politica. Spesso, questi ex comunisti, rimasti all'interno dello schieramento di sinistra, sono tra le persone migliori in cui ci si può imbattere, quelle con cui anche liberali come chi scrive possono trovare punti di incontro e affinità, con le quali, comunque, non capita mai di provare quel fastidio che si può invece provare quando si incontrano certi esponenti, politici o intellettuali, della sinistra mai-stata-comunista. I quali, spesso, continuano, imperterriti, a usare il doppio standard e la doppia morale.

La sinistra attuale è un amalgama informe che mescola brandelli della vecchia tradizione comunista con tic e cliché culturali di derivazione azionista e del cattolicesimo di sinistra. Queste ultime due componenti sono, forse, ancor più responsabili della prima nell'alimentare oggi quel mito della superiorità antropologico- morale della sinistra che continua a giustificare il ricorso al doppio standard e alla doppia morale. Tutto ciò è bene esemplificato dagli atteggiamenti dominanti a sinistra sulle questioni di giustizia. Il «pieno rispetto» per la magistratura e la regola secondo cui «ci si deve difendere nei processi e non dai processi» sono nobili principi che vengono sempre invocati quando nei guai ci sono gli avversari di destra. Ma se in graticola finiscono esponenti della sinistra (a patto, naturalmente, che non siano «ex socialisti») la musica improvvisamente cambia. Diventa legittimo attaccare i magistrati e persino difendersi «dai processi».

Personalmente, ho forti perplessità sui comportamenti tenuti, nell'esercizio delle loro funzioni, da magistrati come la Forleo e, soprattutto, De Magistris, ma non sono affatto sicuro che ad essi si possano attribuire più scorrettezze di quelle imputabili a certi magistrati che in passato si occuparono di Berlusconi e di altri nemici della sinistra. Si guardi a come opera il doppio standard nelle valutazioni di processi e procedimenti giudiziari a seconda che vi siano coinvolti amici o nemici. Se, poniamo, viene scagionato un imprenditore «amico» si plaude all'impeccabile comportamento dei magistrati e non ci si impegna certo in «analisi» minuziose con lo scopo di fare le bucce ai risultati delle inchieste. Altrimenti, come ha giustamente osservato Pierluigi Battista sul Corriere due giorni fa, lo spartito cambia, il doppio standard impera. Questi signori, sempre impegnati a stilare pagelle e ad assegnare brutti voti a quelli che definiscono «sedicenti» liberali, non hanno mai capito che indice di liberalismo è usare un solo criterio, un solo metro di giudizio, sempre lo stesso, per gli amici e per gli avversari, e che fare un uso così platealmente strumentale dei principi significa non avere alcun principio. Quando qualcuno di loro finalmente lo capirà, avremo, e sarà un bene per il Paese, qualche esponente in meno della genia dei «moralmente superiori» e qualche liberale in più.

27 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 04, 2008, 11:35:21 am »

UNA RIFORMA POCO DISCUSSA


Il paradosso del federalismo


di Angelo Panebianco


Non conosciamo ancora le sole cose che davvero contino in questa materia, e cioè i dettagli, ma siamo comunque abbastanza sicuri del fatto che stiamo per diventare (qualunque cosa ciò concretamente significhi) uno Stato «federale ». Dopo decenni di sforzi, alcuni coronati da successo e altri meno, di spostamento di poteri e competenze verso la periferia, Regioni e enti locali, sta per arrivare il «federalismo fiscale». Che del federalismo politico, almeno in linea di principio, è l'anima, la struttura portante. Lo reclama la Lega, lo hanno promesso Berlusconi e Tremonti, lo vogliono anche le Regioni e le amministrazioni locali, soprattutto del Nord, guidate dal centrosinistra.

Certo, saremo comunque uno Stato federale un po' strano, uno Stato federale con i prefetti: rimarremo, cioè, una mescolanza di vecchio centralismo napoleonico e di nuovo federalismo. Ma non c'è dubbio che se davvero arriverà il federalismo fiscale (se non sarà solo un bluff) la fisionomia del nostro sistema statale cambierà. Non subito, magari. Ma col tempo cambierà, e di parecchio. Però, c'è un però. Forse eravamo distratti quando la spiegazione è stata data ma non abbiamo ancora capito come la classe politica giustifichi di fronte al Paese una simile rivoluzione istituzionale e costituzionale. Non mi si fraintenda. Magari è un'idea eccellente (al Nord ne sembrano convinti quasi tutti, anche se poi, scavando un po', si scopre che ciascuno ha in mente un federalismo diverso da quello del suo vicino) ma bisognerà pur spiegarla al Paese, possibilmente andando al di là degli slogan e della propaganda di derivazione prevalentemente leghista. Per esempio: quale sarà l'utilità del federalismo fiscale, se c'è, per il Mezzogiorno?

Mentre si prepara una rivoluzione istituzionale, almeno potenzialmente, di immensa portata, come il federalismo fiscale, il Sud è silente. Sembra che la sola preoccupazione della classe politica meridionale sia quella di assicurarsi «compensazioni» adeguate (la quota del gettito fiscale che le Regioni più ricche dovranno comunque trasferire, tramite lo Stato centrale, alle Regioni più povere). Tutto qui? Il Sud non ha altro da dire? Solo garantirsi di essere sussidiato per l'eternità? In epoche intellettualmente più felici per il Mezzogiorno è esistito un pensiero meridionalista di grande qualità e spessore che ha guardato anche al federalismo come a un possibile motore di sviluppo, a unmezzo di emancipazione economica e sociale. Di quell'epoca e di quel pensiero non è rimasto nulla? Oggi non sembra arrivare alcun contributo di idee e di proposte alla «impresa federalista» dal Mezzogiorno d'Italia. Il federalismo parla solo, o prevalentemente, con accenti e inflessioni del Nord. Forse è anche per questo che la classe politica ha qualche difficoltà a presentarlo come un grande progetto per il Paese nel suo insieme.

L'assenza di spiegazioni articolate alimenta voci e chiacchiere. Come quella secondo cui solo con il federalismo fiscale si potranno ridurre le tasse. Questa, se permettete, è una bugia. Il livello di imposizione fiscale può benissimo scendere anche in uno Stato centralista. Anzi, col centralismo, di solito, è più facile decidere di ridurre la pressione fiscale. Il federalismo, per contro, può anche far lievitare, anziché contrarre, la spesa pubblica (rendendo così impossibile la riduzione delle imposte): perché, ad esempio, crescono i «costi di transazione», ossia i costi che dipendono dall'accrescimento dei livelli istituzionali e dalle aumentate negoziazioni fra Stato centrale, Regioni, enti locali. Ma, si dice, col federalismo fiscale, gli amministratori locali dovranno giustificare davanti ai loro elettori ogni tassa e la sua entità. E qui sorge un interrogativo che l'assenza di una discussione pubblica sul federalismo fiscale non aiuta a chiarire. Davvero le classi politiche locali, anche quelle del Nord (anche quelle leghiste), sono pronte a un simile salto nel buio?

Ha osservato giustamente Guido Tabellini (Il Sole 24 Ore, 31 luglio) che il federalismo fiscale può innescare comportamenti fiscali virtuosi solo a patto che si stabilisca un legame diretto fra spesa e prelievo: il politico locale sa che se non contiene le spese e le imposte pagherà un prezzo politico. Ciò è possibile solo se, trasferimenti perequativi dalle Regioni ricche a quelle povere a parte, i governi locali avranno ampi margini nelle scelte delle aliquote e le basi imponibili locali saranno ben visibili ai cittadini. Solo in quel caso l'aumento delle tasse, o la loro mancata riduzione, non verrà imputato dai cittadini allo Stato centrale ma agli amministratori regionali e locali. Veniamo da anni in cui le spese locali sono cresciute a dismisura perché ciò era nell'interesse di Comuni e Regioni (al Nord come al Sud): tanto, le tasse si pagavano prevalentemente al centro (allo Stato centrale) ed era solo sul centro che si scaricava quindi il malcontento.

Come la metterebbero Regioni e Comuni se, con un «vero» federalismo fiscale, la musica dovesse davvero cambiare? Non ne uscirebbero destabilizzate quasi tutte le amministrazioni regionali e locali attuali? Per esempio, è curioso il fatto che i leghisti vogliano più di tutti il federalismo fiscale e allo stesso tempo si oppongano (più o meno come si opponeva Rifondazione comunista nel passato governo Prodi) alla liberalizzazione dei servizi locali. Ma il federalismo (fiscale e non) non è per l'appunto voluto soprattutto al fine di favorire concorrenza, riduzione dei monopoli pubblici, comportamenti locali virtuosi? Urgono ragguagli sul perché stiamo per diventare uno Stato federale.

03 agosto 2008

da corriere.it

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« Risposta #22 inserito:: Agosto 18, 2008, 04:28:00 pm »

L’EUROPA DAVANTI ALLA CRISI GEORGIANA


I profeti disarmati e la prepotenza di Putin


di Angelo Panebianco


Machiavelli, le cui idee, dopo cinquecento anni, continuano a scandalizzare tanti, diceva che i profeti disarmati sono sempre destinati alla rovina. In Europa occidentale coltiviamo da tempo (con un’ossessione particolare dopo la fine della guerra fredda) l’idea che il Diritto e la Morale possano sostituire nel mondo la Forza e che l’Europa stessa, la sedicente «Europa civile», abbia una speciale missione da svolgere per attuare questo stupefacente disegno. Si tratta di una tragica illusione. Il diritto e la morale possono, nelle faccende internazionali, legittimare la forza (possono dare «più forza» alla forza) ma non possono sostituirla. Con la sola eccezione del Papa, gli altri, se vogliono contare e decidere del proprio destino, devono disporre anche di un bel po’ di «divisioni». Molti commentatori europei sostengono che, con la cosiddetta «mediazione », fra russi e georgiani, del presidente francese Sarkozy, l’Europa (l’Unione Europea) è tornata a contare nel mondo.

Ma se consideriamo freddamente i fatti dobbiamo ammettere che, al contrario, l’Europa esce malissimo da questa crisi. Ha solo mostrato una volta di più che essa non è neppure embrionalmente e, continuando così, non diventerà mai, un’entità politica. Per tre collegate ragioni. La prima è di immagine (ma nella politica internazionale l’immagine, e quindi il prestigio, contano tanto) e le altre due di sostanza. Con i militari russi che tuttora occupano spavaldamente ampie porzioni di territorio georgiano anche fuori dell’Ossezia e dell’Abkhazia, la cosiddetta mediazione europea è stata irrisa e sbeffeggiata. I russi, dedicandosi a ciò che essi chiamano «misure aggiuntive di sicurezza» (la distruzione, tuttora in atto, delle strutture militari georgiane) e procrastinando il più possibile il ritiro delle truppe, stanno chiarendo che, nei loro intendimenti, la Georgia (rea, tra l’altro, di fare transitare verso l’Europa energia non direttamente controllata dai russi) dovrà avere un futuro di «sovranità limitata ». L’Europa, con la sua cosiddetta mediazione, è oggi, agli occhi di tutto il mondo ex comunista (sia le vecchie colonie «interne » dell’Urss che i suoi vecchi satelliti) nient’altro che la complice, più o meno riluttante, di questo disegno russo. Un pessimo risultato di «immagine» davvero. La seconda ragione è di sostanza. In questa crisi l’Europa (occidentale) ha preso di fatto le distanze dagli Stati Uniti, li ha lasciati soli a condannare «senza se e senza ma» la Russia e a sostenere l’integrità della Georgia.

Con il doppio effetto di indebolire diplomaticamente gli Stati Uniti e di dare al risorto imperialismo russo la possibilità di sfruttare le divisioni occidentali al fine della ricostituzione della propria area di influenza. La prossima volta potrebbe toccare all’Ucraina. Noi europei faremo allora un’altra brillante mediazione? Davvero il mondo ex sovietico è oggi più sicuro di quanto sarebbe stato se l’Europa avesse fatto fronte unico con gli Stati Uniti nel contrapporsi politicamente alla Russia in questa crisi? La Polonia (che, oltre che della Nato, fa parte dell’Unione europea) è appena stata minacciata di possibile attacco nucleare visto che ospiterà lo scudo antimissilistico statunitense. La cosa, forse, ci riguarda. La terza ragione della pessima prova offerta dall’Unione in questa crisi (o meglio, dai suoi Paesi leader) riguarda lei stessa, i suoi rapporti interni. L’Europa occidentale ha dimostrato una sordità sconcertante di fronte alle paure dei Paesi ex comunisti, ivi compresi quelli che fanno oggi parte dell’Unione. Che i polacchi e i baltici fossero, insieme agli ucraini, a Tbilisi a sostenere il presidente georgiano Saakashvili, non è frutto di capricci o di una infantile volontà di disobbedire ai «grandi» dell’Unione.

Non si capisce perché abbiamo fatto l’allargamento europeo se non siamo disposti a farci carico delle paure degli ex satelliti di Mosca, quei Paesi che hanno sperimentato sulla propria pelle, per tantissimo tempo, i rigori del potere russo. In questa crisi, abbiamo purtroppo chiarito, non solo alla Georgia, all’Ucraina e agli altri Paesi ex sovietici, ma addirittura agli ex satelliti, quelli che sono già nell’Unione europea e quelli che sono in procinto di entrarci, che essi potranno sperare solo negli americani perché a noi, delle loro paure e della loro sicurezza, importa poco. Su queste basi non è possibile che l’Unione europea, l’Europa a ventisette, l’Europa dell’allargamento, possa immaginare di avere un qualsivoglia futuro politico. Ma, si dice, non possiamo isolare la Russia. Certo che non possiamo isolarla. Ci serve il suo gas, ci serve il suo appoggio nella crisi iraniana, ci serve che essa svolga un ruolo internazionale di cooperazione. Ma non possiamo permettere che essa usi il bastone e la carota con noi senza fare la stessa cosa nei suoi confronti.

Non possiamo dimenticare che la Russia è un regime semi-autoritario che usa da tempo politicamente, nella sua politica estera, le risorse del suo capitalismo di Stato e oggi, di nuovo, anche le sue risorse militari. Non possiamo dimenticare che la sua involuzione autoritaria (alimentata dalle «utili guerricciole » su cui ha scritto acutamente Sandro Viola qualche giorno fa) è la prima causa del suo risorgente imperialismo e che non si possono intrattenere con una democrazia autoritaria le stesse relazioni di fiducia reciproca che esistono fra democrazie liberali. E’ dall’involuzione interna della Russia che, prima di tutto, nasce (rinasce) la sua minaccia verso l’esterno (lo ha ricordato Filippo Andreatta sul Corriere di ieri). Dobbiamo tener conto delle «ragioni» della Russia ma non al punto di andare contro i nostri interessi vitali (per esempio, l’interesse a forniture di idrocarburi dal Caucaso non interamente monopolizzate dai russi o l’interesse a farci carico dei problemi di sicurezza di tutti i membri dell’Unione, presenti e futuri). Né possiamo dimostrare disinteresse, o peggio, per l’aspirazione alla libertà dei cittadini delle ex colonie russe. I russi sperano che l’Europa proceda sul cammino iniziato, che essa, prima o poi, porti a compimento il decoupling, lo sganciamento dagli Stati Uniti. Ai prepotenti piace avere a che fare con i profeti disarmati.

18 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 08, 2008, 12:25:05 am »

PERSECUZIONI ANTICATTOLICHE

Il silenzio sui cristiani


di Angelo Panebianco


Con l’eccezione della stampa cattolica, i mezzi di comunicazione non hanno dato risalto al fatto che ieri la Conferenza episcopale ha indetto una giornata di solidarietà con i cristiani perseguitati dai fondamentalisti indù (e una fiaccolata con l’appoggio di «Liberal» è prevista per mercoledì prossimo). Come se fosse una faccenda interna della Chiesa. Le notizie sulle uccisioni di cristiani che si verificano da alcune settimane nello Stato indiano di Orissa vengono naturalmente pubblicate (ieri sono state aggredite quattro suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta). Così come vengono (di solito) pubblicate le notizie sui periodici massacri di cristiani in certi Paesi islamici.

Ma quando queste cose accadono ci si limita a registrare i fatti, per lo più senza commenti. Eccezionalmente, fece scalpore, nel 2006, l’uccisione di un sacerdote italiano in Turchia ma la causa è da attribuire, oltre che alla nazionalità del sacerdote, al fatto che la Turchia ha chiesto di entrare nell’Unione Europea. Sembra che per noi, e per l’Europa, il fatto che in tante parti del mondo persone di fede cristiana vengano perseguitate e, con frequenza, uccise, non sia un problema sul quale occorra sensibilizzare l’opinione pubblica. Eppure i fatti sono chiari. In un’epoca di risveglio religioso generalizzato sono ricominciate in molti luoghi le guerre di religione ma con una particolarità: in queste guerre i cristiani sono solo vittime, mai carnefici.

Da dove deriva tanto disinteresse per la loro sorte? Sono all’opera diverse cause. La prima è data da quell’atteggiamento farisaico secondo il quale non conviene parlare troppo delle persecuzioni dei cristiani se non si vuole alimentare lo «scontro di civiltà ». Come se ignorare il fatto che nel mondo vari gruppi di fanatici usino la loro religione (musulmana, indù o altro) per ammazzarsi a vicenda e per ammazzare cristiani ci convenisse. D’altra parte, basta rammentare le reazioni europee al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. Venne biasimato il Papa, non i fanatici che usarono quel discorso per tentare di incendiare il mondo islamico. C’è anche una seconda causa. Sotto sotto, c’è l’idea che se uno è cristiano in Pakistan, in Iraq, in India o in Nigeria, e gli succede qualcosa, in fondo se l’è cercata. La tesi dei fondamentalisti islamici o indù secondo cui il cristianesimo altro non è se non uno strumento ideologico al servizio della volontà di dominio occidentale sui mondi extra occidentali sembra condivisa, qui da noi, da un bel po’ di persone.

Persone che credono che l’Europa debba ancora fare la penitenza per le colpe (alcune reali e altre no) accumulate nei suoi secolari rapporti col mondo extra occidentale. Ne derivano il silenzio sulla libertà religiosa negata ai cristiani, soprattutto nel mondo islamico, e il disinteresse per le persecuzioni che in tanti luoghi, islamici e no, subiscono. Ne deriva anche una sorta di illusione ottica che a molti fa temere di più i segnali di risveglio cristiano (del tutto pacifico) in Italia che tante manifestazioni di barbarie religiosa altrove. Nel frattempo, le religioni «altre», con l’immigrazione, acquistano qui da noi un peso crescente. È difficile che si riesca a fare «patti chiari» con gli adepti di quelle religioni. Almeno finché non avremo capito che il mondo è cambiato e che le nostre reazioni, per lo più automatiche, irriflesse, a quei cambiamenti, sono datate e inadeguate.

07 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 18, 2008, 03:58:34 pm »

LA CRISI DEL ’29 ED OGGI


Le facili profezie


di Angelo Panebianco.


Spiegare l’ignoto attraverso il già noto, cercare di orientarsi di fronte agli eventi inattesi rifacendoci ai precedenti, alle nostre personali esperienze passate o alle esperienze di altri di cui siamo venuti a conoscenza, sono attività in cui tutti siamo continuamente impegnati, spesso anche inconsapevolmente. Si spiega anche così il fascino irresistibile che esercitano sempre le analogie storiche. L’analogia storica ha la rassicurante caratteristica di darci una spiegazione facile, di immediato consumo, di eventi che, in assenza del ricorso all’analogia, resterebbero incomprensibili, e dunque, proprio perché incomprensibili, ancora più spaventosi di quanto già non siano.

Gli sconvolgimenti del mercato finanziario americano, il protrarsi e l’aggravarsi di una crisi della quale non si vede la fine, l’alternarsi di salvataggi (le agenzie finanziarie Fannie Mae e Freddie Mac e a quanto pare anche il colosso assicurativo Aig) e di clamorosi fallimenti (la grande banca d’affari Lehman Brothers), con tutte le conseguenze a catena che ne derivano, ha reso irresistibile per i mass media il riferimento al ’29 e alla Grande Depressione degli anni Trenta. Una crisi cominciata con il crollo di Wall Street e propagatasi a tutto il mondo con effetti economici catastrofici e immani sconvolgimenti politici. Quella crisi portò in America alla reazione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt ma diede anche il colpo di grazia alla Repubblica di Weimar spianando la strada del potere a Hitler. E fece vacillare, e anche crollare, molti altri regimi politici. Non solo a quella crisi, ma anche a quella crisi, va fatta risalire la catena di eventi che finì per far precipitare il mondo nella Seconda guerra mondiale. Nonostante il fascino dell’analogia, il ’29 c’entra poco con ciò che sta accadendo. Lo ha spiegato benissimo Alberto Alesina (Il Sole 24 Ore di ieri). La Grande Depressione fu l’effetto di politiche radicalmente sbagliate adottate dalla presidenza Hoover e dalla Banca Federale (restrizione della liquidità, misure protezioniste, comportamenti punitivi nei confronti degli «speculatori »). Un insieme di risposte sbagliate che portarono al disastro sia l’America che il resto del mondo.

Ci sono quindi due ottime ragioni per respingere l’analogia con il ’29. La prima è che la storia ci insegna più cose quando ce ne serviamo per evidenziare le differenze (fra ieri e oggi) e non soltanto le somiglianze. La seconda, di sostanza, è che gli ammaestramenti del passato pesano sull’oggi. La vera utilità del richiamo al ’29 e alla Grande Depressione è sempre consistita nel suo ruolo di spauracchio. Quel richiamo funziona come una profezia che si autofalsifica. Mette in moto comportamenti che ne assicurano la non evenienza. Come, ad esempio, mostrarono le reazioni efficaci alla gravissima crisi asiatica del 1997.

Naturalmente, come tutti gli esperti ci dicono, la crisi continuerà a dispiegarsi per un certo tempo, mieterà ancora molte vittime e richiederà, come auspica il governatore di Bankitalia Mario Draghi, un’azione internazionale concertata di ridisegno di molte regole. Ma prima o poi finirà lasciandoci in eredità, sperabilmente, mercati finanziari in tutto o in parte risanati.

Ciò che non è affatto chiaro è quali saranno le ricadute politiche della crisi. I «declinisti», i sostenitori della tesi secondo cui gli Stati Uniti sono una potenza ormai in declino, ne trarranno probabilmente la conclusione che questa crisi finirà per accelerare le dislocazioni di potenza già in atto nel sistema internazionale. Più la crisi finanziaria americana dura, maggiore è lo spazio di manovra politico a disposizione delle potenze emergenti. Alla fine, un’America ridimensionata dovrà cedere lo scettro di superpotenza e acconciarsi al ruolo di grande potenza in mezzo ad altre grandi potenze (Cina, Russia, India, e forse altre ancora). In un’altra, e opposta, interpretazione, la «distruzione creatrice» che è tipica (secondo l’economista Joseph Schumpeter) del procedere del capitalismo, eliminando ciò che non è più vitale, e risanando il sistema finanziario, finirà per dare rinnovato vigore alla potenza americana. A seconda di quale delle due interpretazioni risulterà corretta, la storia politica mondiale dei prossimi decenni prenderà una direzione o l’altra.

18 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 28, 2008, 12:16:32 pm »

Editoriali

DEMOCRATICI E CASO SCUOLA


Il riformismo bocciato


di Angelo Panebianco


Walter Veltroni, nell'eccellente discorso del Lingotto (27 giugno 2007) con cui ufficializzò la sua candidatura a leader del Partito democratico, e nei discorsi dei mesi successivi, mise a punto la carta di identità di una moderna sinistra riformista proponendola al neonato partito. Veltroni batteva allora con vigore su un tasto: il Partito democratico avrebbe sviluppato una reale capacità di intercettare le aspirazioni degli elettori e dei ceti sociali più dinamici e orientati alla modernizzazione del Paese, solo se avesse abbandonato, su un ampio arco di problemi, le posizioni conservatrici che avevano in passato caratterizzato la sinistra. La visione articolata da Veltroni appariva allora forte ed efficace ma restavano sospesi due interrogativi. Sarebbe egli riuscito a imporre un così radicale cambiamento di prospettiva a tanti militanti fino ad allora di diverso orientamento? Sarebbe riuscito, soprattutto, a ottenere un riposizionamento e un rinnovamento, culturale e di proposte, di quel sindacato (la Cgil in primo luogo) il cui appoggio è necessario a un partito di sinistra riformista? Non solo quel riposizionamento del sindacato non c'è stato ma è lo stesso Partito democratico a reagire oggi alle difficoltà suscitate dalla sconfitta ritornando sui propri passi, abbandonando la strada del rinnovamento, ridando spazio a quelle posizioni conservatrici che il Veltroni del Lingotto sembrava determinato a combattere.

Il miglior test per sondare lo «spessore riformista » di un partito italiano consiste nel valutare le posizioni che esso assume sulla scuola. La scuola pubblica è come l'Alitalia: rovinata da decenni di management interessato a garantirsi clientele e da un sindacalismo cui si è consentito di cogestirla con gli scadenti risultati (in tema di preparazione dei ragazzi) che i confronti internazionali ci assegnano. Solo che nel caso della scuola pubblica non ci sono cordate di imprenditori o compagnie straniere cui affidarla. Proprio nel caso della scuola il Partito democratico sta fallendo il test sullo spessore riformista. Perché ha scelto ancora una volta (come faceva il Pci/Pds/Ds) di accodarsi acriticamente alle posizioni della Cgil, di un sindacato che, in concorso con altri, porta pesanti responsabilità per lo stato disastrato in cui versa la scuola, un sindacato interessato solo alla difesa dello status quo (come è successo, del resto, nel caso di Alitalia fin quando ha potuto). Prendiamo la questione del ritorno al maestro unico deciso dal ministro Gelmini. Sembra diventato, per la sinistra, sindacale e non, il simbolo del «vento controriformista» che soffierebbe oggi sulla scuola. Al punto che, come è accaduto a Bologna, si arriva persino a far sfilare i bambini contro il ministro (nel solco di una tradizione italiana, antica e spiacevole, di uso dei bimbi per fini politici). Si fa finta di dimenticare che la riforma della scuola elementare del 1990, quella che abolì il maestro unico, fu un classico prodotto del consociativismo politico-sindacale che caratterizzava tanti aspetti della vita repubblicana. Nel caso della scuola funzionava allora un'alleanza di fatto fra Dc, Pci e sindacati. L'abolizione del maestro unico fu dettata esclusivamente da ragioni sindacali.

E' antipatico citarsi ma alla vigilia dell'approvazione della legge scrissi su questo giornale: «Nonostante le nobili e altisonanti parole con cui l'operazione viene giustificata la ratio è una soltanto: bloccare qualsiasi ipotesi di ridimensionamento del personale scolastico come conseguenza del calo demografico e anzi porre le premesse per nuove, massicce, assunzioni di maestri. Non a caso sono proprio i sindacati i più entusiasti sostenitori della riforma (…) Questa classe politica ha sempre trattato così la scuola, incurante delle esigenze didattiche ma attentissima a quelle sindacali» (Corriere della Sera, 22 novembre 1989). Veltroni e il Partito democratico dovrebbero spiegarsi: è quella cosa lì che, ancora una volta, vogliono difendere? Per il futuro vedremo ma la verità è che, fino a questo momento, il ministro Gelmini ha fatto pochi errori. I provvedimenti fino ad ora adottati sono di buon senso e per lo più tesi ad arrestare il degrado della scuola. Ma, anziché riconoscerlo e dare il proprio contributo di idee e di proposte (come dovrebbe fare un vero partito riformista, ancorché all'opposizione), il Partito democratico preferisce ripercorrere l'antica strada: quella della «mobilitazione», della sponsorizzazione dei sindacati, anche quando questi difendono posizioni indifendibili.

Non è casuale che proprio sulla scuola la Cgil si appresti a fare lo «sciopero generale ». Difende un potere di cogestione che viene da lontano e che ha contribuito a danneggiare assai la scuola (dove la quasi totalità delle risorse se ne va in stipendi a insegnanti troppo numerosi, mal pagati e mal selezionati). Un potere di cogestione che fino ad oggi ha sempre potuto contare sulla complicità di governi e opposizioni. Non è plausibile che nel Partito democratico siano tutti felici di queste scelte (che danno un brutto colpo alla credibilità del Pd come partito riformista). E infatti non è così. Ricordo un intervento critico di Claudia Mancina ( Il Riformista) sulle attuali posizioni del Pd sulla scuola. O le parole per nulla critiche nei confronti della Gelmini pronunciate (a proposito della polemica sull' impreparazione di certi insegnanti meridionali) da uno che di scuola se ne intende: l'ex ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer. Sarebbe bene che anche molti altri, dentro il Partito democratico, venissero allo scoperto. Ha senso continuare a trattare la scuola pubblica come un «dominio riservato» del sindacalismo?

28 settembre 2008


da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 10, 2008, 11:56:34 am »

LA FINE DEL SECOLO AMERICANO

Il nuovo mondo multipolare


di Angelo Panebianco


Oggi, in tutto il mondo, come è giusto, le preoccupazioni si concentrano sulle conseguenze immediate della crisi finanziaria, sui risparmi, sulle imprese, sul tenore di vita delle persone. Ma la crisi avrà anche potenti riflessi politici, forse cambierà il volto della politica mondiale.
Essendo troppi i fattori in gioco, è sempre impossibile prevedere il futuro ma è per lo meno plausibile immaginare che uno degli effetti della crisi sia quello di accelerare una tendenza già in atto: alla ridistribuzione del potere internazionale, al definitivo passaggio dall'unipolarismo (un mondo dominato da una sola superpotenza) al multipolarismo (un mondo spartito tra alcune grandi potenze).

Il ridimensionamento degli Stati Uniti, e la conseguente nascita di un mondo multipolare, dovrebbero essere, in questa ipotesi, gli esiti di una doppia crisi. Innanzitutto, una crisi di risorse: gli Stati Uniti, plausibilmente, avranno difficoltà crescenti a reperire le risorse finanziarie necessarie per continuare a svolgere il ruolo di superpotenza globale (per ragioni che ha spiegato, tra gli altri, sul
Corriere di martedì, Fareed Zakaria). In secondo luogo, una crisi di modello culturale, con la drastica perdita di appeal in giro per il mondo della «società aperta» (o libera) così come è stata fin qui incarnata dagli Stati Uniti.

Chiunque sia il prossimo Presidente degli Stati Uniti, la sua «agenda» sembra già predisposta: oltre ad agire per il superamento della crisi, egli dovrà anche gestire il ripiegamento americano. Da buon patriota, lo farà tentando di rallentare il processo e di diluirne nel tempo le conseguenze. La speranza di un mondo multipolare, senza più gli «arroganti» americani a farla da padroni, accomuna da tempo molti europei e la gran parte del mondo extraoccidentale. Quella speranza sta probabilmente per diventare realtà.
Quando la crisi finirà non sarà crollato il capitalismo ma sarà forse al tramonto il «secolo americano ». Gli Stati Uniti resteranno ancora per un certo tempo la più forte potenza militare ma il «gioco » sarà ormai multipolare e il divario con le altre grandi potenze tenderà a ridursi.

Ma un mondo siffatto sarà anche più «pacifico» e più «libero»? Penso di no, penso che sarà un mondo più pericoloso ancora di quello che abbiamo conosciuto e nel quale, inoltre, le prospettive della libertà (per milioni di persone) si faranno ancor più precarie di oggi.

La pace correrà rischi maggiori. L'esperienza storica suggerisce che un sistema multipolare sia più pericoloso tanto del sistema bipolare (1945-1989, l'età della guerra fredda) quanto di quello unipolare (dal 1989 ad oggi, l'età della superpotenza solitaria) che si sono succeduti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nel sistema bipolare le due superpotenze si controllavano a vicenda. Diedero così vita a uno stabile equilibrio (del terrore). La principale ragione della stabilità era che non esisteva una terza potenza così forte da poter alterare l'equilibrio alleandosi con l'una o l'altra delle due superpotenze.

Nel sistema unipolare, a sua volta, la stabilità dipendeva da uno squilibrio di potenza così accentuato da rendere impossibile per qualunque Stato sfidare militarmente gli Stati Uniti (la sfida all'America venne infatti dal terrorismo, da un gruppo transnazionale, non da un grande Stato). Invece, nei sistemi multipolari, con quattro o cinque grandi potenze, la guerra fra di esse è resa più probabile a causa di quei repentini cambiamenti di alleanze (tipici dei sistemi multipolari) che alterano l'equilibrio delle forze mettendo di volta in volta l'una o l'altra grande potenza sotto scacco.

Non è che nel multipolarismo prossimo venturo dovrà per forza scoppiare una guerra fra grandi potenze (grazie al Cielo non ne abbiamo più avuta una dalla Seconda guerra mondiale e speriamo di continuare così). È solo che le probabilità di tale guerra sono maggiori proprio in quel tipo di sistema internazionale. Si aggiunga il rischio protezionismo. Se, come è certo, usciremo dalla crisi attuale con più intervento statale nell'economia, ovunque nel mondo, non sarà poi tanto facile tenere a freno le spinte protezioniste (che l'intervento statale favorisce). Forse quelle spinte verranno contenute e forse no. Se non lo saranno, cresceranno i pericoli: il protezionismo, di solito, favorisce le guerre. Va notato inoltre che se il potere si distribuisce tra grandi potenze con regimi politici diversi è più difficile realizzare accordi di governance
(tipo Bretton Woods) di quanto non lo sia se a distribuire le carte sono solo potenze democratiche.

Al guaio di una pace più precaria va aggiunto quello di una libertà in ritirata. I cosiddetti «liberisti» si affannano a spiegare che la crisi finanziaria non è solo figlia del «fallimento del mercato» ma anche di un «fallimento dello Stato» (le leggi varate dall'Amministrazione Clinton). Ma non c'è niente da fare, il patatrac è senza rimedio. Ovunque nel mondo si levano attacchi contro il «liberismo selvaggio» (che è poi liberalismo tout court, come Piero Ostellino, su questo giornale, insiste giustamente a ricordare). Si assisterà ovunque a una perdita di credibilità del «sistema liberale» (capitalismo privato più democrazia liberale) e a una crescita di attrattiva dei sistemi autoritari e semi-autoritari (Cina, Russia). In fondo, non si sta dimostrando che capitalismo e crescita economica possono fare a meno della democrazia liberale? E non è forse questo un messaggio attraente per tanti tiranni in tanti luoghi? Dal '45 ad oggi (con un'accelerazione dopo la guerra fredda) abbiamo assistito a una impetuosa diffusione della democrazia nel mondo. Negare che ciò abbia avuto a che fare con il ruolo degli Stati Uniti significa negare l'evidenza. Con un'America in ripiegamento anche l'area di diffusione della democrazia potrebbe ridursi.

E l'Europa? Forse la gravità della crisi finanziaria la spingerà a fare un salto verso l'unità politica (e militare). Ma è improbabile. Nel mondo multipolare l'Europa sarà, più plausibilmente, un vaso di coccio, pronta a venire a patti con chiunque, forse anche a scoprire le virtù (nascoste) delle potenze illiberali. Come certi giornali inglesi ai tempi di Monaco per i quali Hitler non aveva avuto torto a prendersi i Sudeti e, in fondo, non era poi quel diavolo che si diceva che fosse.

10 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 20, 2008, 12:41:36 pm »

EUROPA E USA

Dopo la crisi l'Atlantico è più largo


di Angelo Panebianco


Come è stato spesso osservato, ogni volta che si diffonde l'idea che l'America sia entrata in una fase di declino, essa reagisce e, al suo interno, si mettono in moto processi che le danno nuovo slancio, una nuova giovinezza. Le profezie sul declino americano (come quella dello storico Paul Kennedy negli anni Ottanta) erano insomma, fino a oggi, «profezie che si auto-falsificavano ».

Magari andrà così anche questa volta. C'è però una differenza rispetto agli anni Ottanta. Allora, l'America aveva di fronte solo un rivale in declino (l'Urss) e le ricette reaganiane bastarono a rivitalizzarla, rivitalizzando l'intero Occidente. Oggi, la crescita delle potenze asiatiche sembra un fatto irreversibile. La crisi finanziaria potrebbe allora accelerare (come ho scritto sul Corriere il 10 ottobre) la tendenza, già in atto, alla ridistribuzione del potere, il definitivo passaggio da un sistema internazionale unipolare (una sola superpotenza) a un sistema multipolare (quattro o cinque grandi potenze). Non mi pare che la possibile emergenza di un sistema multipolare sia in contraddizione con la constatazione che l'America resterà comunque a lungo la più forte potenza militare né con il fatto che solo l'America ha tuttora le risorse per far ripartire un nuovo ciclo economico espansivo. Sarebbe un multipolarismo asimmetrico (come ha scritto Vittorio Emanuele Parsi), un sistema internazionale comunque diverso da quello che abbiamo conosciuto. Con regole diverse. La mia ipotesi è che un mondo del genere sarebbe più pericoloso (con più rischi di guerra) e più ostile alle libertà.

È stato il predominio indiscusso dell'America a favorire la diffusione della democrazia nel mondo (ci sono oggi molte più democrazie che in passato). Con un ridimensionamento, sia pure relativo, dell'America, quel processo perderebbe la spinta propulsiva. Che fine farebbe l'Europa in un sistema multipolare? Il multipolarismo è un sogno coltivato da molti europei desiderosi di sbarazzarsi degli arroganti americani. Al tempo dell'invasione del-l'Iraq, il francese Chirac e il tedesco Schroeder accarezzarono l'idea di dare vita, insieme alla Russia di Putin, a una coalizione capace di «bilanciare» gli Stati Uniti, come si fa, appunto, nei sistemi multipolari. All'epoca sembrava un soggetto da film di fantastoria. Ma domani? Per cavarsela in un mondo multipolare l'Europa avrebbe solo due possibi-lità: diventare in fretta un «Superstato» (gli Stati Uniti d'Europa) capace di trattare alla pari con le altre potenze o, in alternativa, mantenersi legata agli americani. Sul Corriere di ieri Mario Monti ha giustamente ricordato quale straordinario successo sia stato il raggiunto accordo fra i governi europei sulle misure per fronteggiare la crisi finanziaria. Un successo dei governi, come Monti ha sottolineato.

Penso si possa dire che abbiamo visto in azione una sorta di incarnazione della «Europa delle patrie» prefigurata a suo tempo dal generale de Gaulle. Proprio come de Gaulle sognava, il presidente Sarkozy sta oggi energicamente coordinando un'Europa dei governi impegnati a fronteggiare l'emergenza. La Commissione (che, insieme alla Corte di giustizia e alla Banca europea, rappresenta la dimensione sovranazionale dell'Unione) è invece emarginata. In una situazione da «stato d'eccezione», le decisioni spettano al potere vero, quello dei governi. Quali ne sono le implicazioni per un mondo multipolare? Raramente, in Italia almeno, il dibattito pubblico sull'Europa tiene conto dei risultati dei più seri «studi europei » (un filone sviluppatissimo nelle accademie e nei centri di ricerca occidentali). Esistono oggi molti bravi studiosi delle istituzioni europee. Sapete quanti di loro reputano possibile una prossima trasformazione dell'Unione in una Federazione, negli Stati Uniti d'Europa? Nemmeno uno. Gli studiosi possono sbagliarsi, per carità, ma la cosa più probabile è che l'Europa resti in futuro ciò che oggi è: un bizzarro amalgama di sovranazionalità (solo in certe materie) e di compromessi intergovernativi. Niente Stati Uniti d'Europa. Un'Europa che può scegliere la strada del massimo coordinamento nelle fasi di emergenza ma che è anche pronta a dividersi di nuovo (per esempio, sulla sicurezza) quando l'emergenza finisce.

Come farebbe un'Europa simile a fronteggiare il mondo multipolare, plausibilmente dominato dalla competizione fra grandi imperi? Sarebbe un vaso di coccio. Per difendere indipendenza e libertà, dovrebbe restare legata agli Stati Uniti e alla loro «egemonia liberale ». Se il «blocco transatlantico» resistesse, esso resterebbe comunque, anche con un'America in ripiegamento, la più importante concentrazione di potere politico, economico e militare. Ma resisterebbe quel blocco alle prevedibili tensioni? Se Barack Obama diventerà presidente ci sarà forse una nuova luna di miele fra Stati Uniti e Europa. Finita la luna di miele, l'insofferenza europea per gli americani e la voglia di prenderne le distanze (come si è visto ad agosto, in occasione della guerra russo-georgiana) torneranno a farsi sentire. Tanto più che dalla crisi finanziaria America e Europa usciranno in modi diversi. Lo ha scritto benissimo Salvatore Carrubba ( Il Sole 24 ore, 18 ottobre). Solo apparentemente America e Europa stanno reagendo allo stesso modo (con massicce iniezioni di statalismo) alla crisi in atto. Per l'America, infatti, si tratta di misure temporanee, prese obtorto collo (incoerenti con la sua radicata cultura individualista, liberale e libertaria). Per l'Europa (continentale), che nei decenni passati aveva subìto più che abbracciato con convinzione il liberalismo economico, si tratta invece di tornare, con le solite ricette socialdemocratiche (da chiunque gestite) e simil- keynesiane, allo statalismo di sempre.

Quando la crisi sarà superata, si scoprirà di quanto si siano allontanate, sul piano culturale prima ancora che su quello delle scelte politico-economiche, le due sponde dell'Atlantico. Pensare che il nuovo interventismo statale europeo possa restare a lungo senza effetti sui rapporti internazionali mi pare un'illusione. Comunque, vale la pena di parlarne. Sperando che, a forza di parlarne, diventi anche questa una profezia che si autofalsifica.

20 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 30, 2008, 11:11:47 am »

Editoriali

PARTITO DEMOCRATICO E RIFORME

I rischi dei troppi no


di Angelo Panebianco


La manifestazione di sabato scorso ha dato a Veltroni una rinnovata forza politica. È sperabile che egli se ne serva per sottrarsi alla trappola in cui sindacati e proteste studentesche, ma anche Berlusconi, lo hanno fin qui sospinto. La trappola consiste nel fare del Partito democratico il campione del «cartello dei no», di una coalizione di interessi che difende lo status quo in settori come la scuola o il pubblico impiego. Per il fatto che impiegati pubblici e insegnanti rappresentano una parte rilevante della constituency elettorale del Partito democratico, del bacino da cui provengono i suoi voti, l’attivismo del governo in quei settori crea obiettivamente un serio problema a Veltroni. Ma l’arroccamento, il «no» ad ogni provvedimento, spiegabile con la condizione di debolezza in cui l’opposizione si è trovata dopo le elezioni, rischia di diventare suicida. Due ministri in particolare, Brunetta (Pubblica amministrazione) e Gelmini (Istruzione), stanno toccando importanti santuari elettorali del Partito democratico. Ciò spiega l’astio nei loro confronti degli esponenti di quel partito e dei suoi giornali d’area (Il Riformista escluso). Tanto più che i due ministri si muovono in un modo insidioso per i difensori dello status quo. Non hanno fatto l’errore di proporre l’ennesima «Grande Riforma» della pubblica amministrazione o della scuola. In Italia le Grandi Riforme non portano da nessuna parte, finiscono con un buco nell’acqua. Brunetta e Gelmini si sono mossi invece pragmaticamente, mettendo in fila un provvedimento dopo l’altro.

Questo modo di procedere è insidioso per gli oppositori perché rende difficile dire sempre no. Si può contestare un provvedimento o l’altro ma si diventa poco credibili se li si contesta tutti. L’accresciuta forza politica di Veltroni dovrebbe aiutarlo a riprendere un cammino (prefigurato in campagna elettorale) teso a fare del Partito democratico una vera forza riformatrice. In materia di pubblica amministrazione come di scuola ciò può solo significare assumere posizioni davvero indipendenti da quelle del sindacato. Sulla scuola, ad esempio, la difesa sindacale della «quantità» (tanti insegnanti mal pagati) a scapito della qualità non dovrebbe più trovare, come fin qui è stato, l’appoggio del maggior partito di opposizione. Il che significa che il confronto con il governo dovrebbe spostarsi dal tema della quantità (no ai tagli, sempre e comunque) a quello della qualità (idee per migliorare la qualità dell’insegnamento). Né le cose dovrebbero andare diversamente nel caso dell’Università. Non siamo al ’68. Gli studenti occupanti godono dell’incoraggiamento aperto di quella parte della docenza che non desidera un uso più responsabile dei soldi pubblici.

Alcune delle Università più virtuose ed efficienti si sono già smarcate dalla protesta. Se il governo avrà su questo punto un ripensamento (magari anche spronato in questo senso dall’opposizione) ed eviterà l’errore di tagliare i fondi in modo uniforme, mettendo sullo stesso piano gli atenei efficienti e quelli inefficienti, se procederà premiando i primi e punendo i secondi, assisteremo finalmente a un bello scontro frontale (il Paese ha solo da guadagnarci) fra la buona Università e quella cattiva. Si tratti di scuola, di pubblica amministrazione o di università, il Partito democratico deve dunque ricalibrare la sua azione. Le proposte di riforma (in dieci punti) appena avanzate dal Pd in materia di istruzione sono ancora troppo generiche (è facile dire che si vuole premiare il merito; il difficile è farlo) e sembrano, più che altro, un mezzo per fare fuoco di sbarramento contro la Gelmini. Più di proposte generiche servirebbe, da parte del Pd, un serio ripensamento sui problemi dell’università e della scuola. Per esempio, ci vorrà pure, prima o poi, una pubblica spiegazione sul perché, a suo tempo, Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione del primo governo Prodi, venne bruciato, fatto fuori, quando tentò di introdurre (contro i sindacati) un po’ di meritocrazia negli avanzamenti in carriera degli insegnanti. Riflettere sugli sbagli del passato è l’unico modo per non ripeterli in futuro. E per non trovarsi (di nuovo) a marciare accanto a chi difende cause indifendibili.

30 ottobre 2008


da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Novembre 06, 2008, 11:47:41 am »

LA DEMOCRAZIA USA

Una società aperta


Viene sanata la frattura della discriminazione razziale, che appariva come la principale macchia della democrazia Usa.

Il sogno americano ne esce vivificato e rinvigorito


di Angelo Panebianco


Nessuno oggi può sapere che cosa farà il nuovo presidente, che cosa diventeranno gli Stati Uniti nell’era di Barack Obama. Ma tutti, persino i tanti nemici dell’America sparsi per il mondo, sono costretti a riconoscere che la democrazia americana continua ancora oggi a disporre di doti che nessun’altra comunità politica possiede. «Se qualcuno pensava che l’America non fosse il Paese ove tutto è possibile...». Le parole con cui Obama ha iniziato il suo patriottico discorso di ringraziamento alla nazione che lo aveva appena eletto rendono perfettamente il senso di ciò che è accaduto.

Un giovane senatore afro-americano, di poca esperienza politica, con un passato di simpatie radicali e un background da outsider si è dapprima imposto contro un establishment democratico che gli era ostile, sconfiggendo alle primarie un cavallo di razza come Hillary Clinton, e ha poi conquistato la Casa Bianca contro un avversario di grande valore come John McCain (il cui spessore politico e la cui tempra morale, per inciso, tutti, anche quelli che gli erano ostili, hanno potuto misurare ascoltando il bellissimo discorso con cui ha riconosciuto la vittoria di Obama, e ha invitato i repubblicani a stringersi intorno al nuovo presidente).

È vero in generale che in tempi di crisi le personalità carismatiche hanno più probabilità di affermarsi. E, senza dubbio, la gravissima crisi finanziaria, con i suoi pesantissimi effetti sull’economia americana, ha favorito l’outsider Obama. Il successo del suo stile profetico e l’entusiasmo che ha suscitato in una parte così ampia degli Stati Uniti non sarebbero stati possibili senza il senso di smarrimento e la paura per il futuro che attanagliavano la società americana già prima che (sono passate solo poche settimane) la crisi rivelasse tutta la sua gravità con i fallimenti bancari e il crollo di Wall Street.

E, tuttavia, questo risultato non sarebbe stato comunque possibile se l’America non fosse ancora, nonostante tutte le sue trasformazioni, ciò che i suoi Padri Fondatori vollero che fosse: una società aperta e libera e una democrazia autentica le cui istituzioni non hanno subito l’usura del tempo e nella quale è sempre possibile per gli outsider di valore farsi strada ed affermarsi.

Centocinquant’anni dopo l’abolizione della schiavitù, cinquant’anni dopo la fine della segregazione razziale, un nero arriva alla Casa Bianca e sana così la frattura più grave, in passato sempre giudicata da tutti insuperabile, della storia degli Stati Uniti, quella che appariva come la principale macchia, il difetto peggiore, della democrazia americana. Almeno per ora il sogno americano ne esce vivificato e rinvigorito.

È sperabile che una ricaduta della vittoria di Obama consista, per lo meno in questa Europa che ha così tanto mostrato di apprezzare il neo-eletto presidente, in una maggiore disponibilità da parte di molti (per esempio, da parte di quei tanti intellettuali che l’America l’hanno sempre detestata senza comprenderla) a sforzarsi di capire qualcosa di più della società americana, della sua storia, della sua cultura politica, delle sue istituzioni. Un compito difficile, impegnativo, dal momento che per tanti europei l’America, con la sua storia diversissima dalla nostra, è sempre stata un enigma. Detestabile proprio perché incomprensibile. Detestabile per quel suo impasto di patriottismo e di religiosità così lontani dalla sensibilità di molti europei.

Detestabile per il suo individualismo. Detestabile per la sua disponibilità a tollerare livelli di disuguaglianza economica e sociale superiori a quelli tollerati in Europa. E detestabile anche per ciò che di quella disuguaglianza è sempre stata la contropartita: la mobilità e il dinamismo, alimentati dalla fiducia, propria di una società individualista, che a ciascuno sia possibile, almeno in linea di principio, innalzarsi contando sulle proprie forze e capacità anziché sulla protezione dello Stato. Le anchilosate, oligarchiche e demograficamente invecchiate società europee applaudono Obama ma in quell’applauso si nasconde un paradosso. Poiché la vittoria di Obama (ma anche la corsa del suo avversario McCain) mette in risalto ciò che rende l’America irrimediabilmente diversa dall’Europa. Perché nelle chiuse società politiche europee un Obama o un McCain (anche lui un outsider nella sua parte politica) non avrebbe nessuna chance.

Il neo-presidente dovrà fronteggiare immani problemi. Dovrà aiutare l’America a uscire dalla crisi, dovrà imparare a muoversi in un mondo ormai multipolare e dovrà contemporaneamente cercare di contrastare (in Iraq, in Afghanistan e in altri luoghi) potenti forze destabilizzatrici.

La «Repubblica imperiale» americana acquisterà certamente, con Obama, un nuovo stile. Ma i segni del passato saranno comunque visibili. Forse Obama ripercorrerà, in condizioni mutate, le orme di Franklin Delano Roosevelt (il presidente del New Deal), forse si ispirerà anche ad altri presidenti democratici, come Woodrow Wilson, con il suo idealismo internazionalista, o forse sceglierà non l’isolazionismo (oggi impossibile) ma un parziale ripiegamento, di tipo jeffersoniano, una parziale e selettiva riduzione dell’impegno americano nel mondo. Non lo sappiamo ancora. Sappiamo però che, quali che saranno le virtù e gli errori della nuova.

Amministrazione, di sicuro non ci saranno rotture radicali, non ci sarà alcun congedo dalla tradizione americana. Finita la luna di miele, quelli che detestavano l’America ricominceranno a detestarla e quelli che l’amavano continueranno a farlo. Per le stesse ragioni.

06 novembre 2008

da corriere.it
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