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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 158010 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Maggio 18, 2014, 05:30:27 pm »

L’AZIONE PENALE E IL SENSO DI GIUSTIZIA
Il conflitto in Procura

Di Angelo Panebianco

La Procura di Milano non è una Procura qualsiasi. Le inchieste di Mani Pulite di venti anni fa modificarono la nostra «costituzione materiale». Da allora, la Procura di Milano è uno dei centri di potere più importanti del Paese. È un fatto che qualunque analisi del nostro assetto istituzionale che dimentichi il ruolo strategico di quella Procura si riduce a una finzione formalistica.
La Procura di Milano, nel mezzo di inchieste delicatissime, è ora dilaniata da violenti conflitti (fra Bruti Liberati e Boccassini da una parte e Robledo dall’altra). Fioccano accuse reciproche di dire falsità, ci si rinfaccia comportamenti e invasioni dei campi di competenza altrui.

Se il Consiglio superiore della magistratura fosse cosa diversa da ciò che è agirebbe con tempestività per stroncare la guerra in corso. E magari anche per spostare nelle mani di persone più serene le inchieste più delicate. Ma il Csm è un organo lottizzato dalle correnti e le sue decisioni (e le sue non decisioni) sono il frutto di negoziazioni fra i diversi gruppi organizzati della magistratura. È improbabile che da lì vengano, per giunta con tempestività, provvedimenti risolutivi. Temporeggiare e sopire in attesa che i rumori si plachino e che una decisione, presa col bilancino, diventi alla fine possibile, sarà quasi sicuramente la strategia che il Csm adotterà. Come sempre, quando è chiamato a dirimere risse fra magistrati.

Solo che questa volta non siamo in presenza di una zuffa qualsiasi. Dato il ruolo della Procura di Milano e il peso politico-simbolico da essa assunto negli ultimi venti anni, questa volta ciò che è in gioco è, niente meno, il rapporto fra la magistratura e il Paese. Se una Procura viene identificata per tanti anni da una parte rilevante dei cittadini come il «tempio della giustizia» per eccellenza e poi si scopre che i sacerdoti si scannano fra loro, difficilmente il rapporto fra la magistratura nel suo complesso e il Paese ne usciranno indenni. Tenuto anche conto che un’altra parte di cittadini, di quella Procura e di molte sue azioni non ha mai pensato bene.
Chi ama le immagini suggestive, spesso sbagliate, potrebbe sostenere che la fine di quella che è stata chiamata Seconda Repubblica porti con sé anche il ridimensionamento (o un mutamento di posizione e di ruolo) della Procura che, più di ogni altra, vi ha svolto una parte fondamentale. Come sempre, le cose sono più complicate.

Il conflitto in atto porta alla luce aspetti noti agli addetti ai lavori ma ignorati dal grosso dei cittadini, soprattutto il fatto che sotto l’ombrello della «obbligatorietà dell’azione penale» stanno sempre le azioni discrezionali dei magistrati in carne e ossa alle prese con problemi molto complessi. Nel caso dell’Expo, ad esempio, il conflitto, per quel che s’è capito, verte sul disaccordo fra Robledo e Bruti Liberati sul fatto che contro gli accusati siano stati utilizzati certi capi d’accusa piuttosto che altri.

Ogni medaglia ha il suo rovescio. L’aspetto negativo della lotta in corso è che mina la fiducia di tante persone nella correttezza e nella lucidità dell’azione dei magistrati. L’aspetto positivo è che, a partire da quanto avviene alla Procura di Milano, diventa forse possibile affrontare argomenti fino ad oggi tabù. Il primo dei quali riguarda proprio la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale, una finzione, una foglia di fico, utile solo per nascondere un certo grado di discrezionalità.

Di fronte alla discrezionalità dell’azione giudiziaria ci sono due possibilità. La prima è quella di negare cocciutamente l’evidenza, negare il carattere discrezionale dell’azione giudiziaria (è stata, fin qui, l’ipocrita scelta italiana). La seconda è ammetterla apertamente e, per conseguenza, collegare strettamente discrezionalità, responsabilità e controllo. Il magistrato si prende i suoi rischi ed eventuali abusi e inefficienze potranno essere più facilmente individuati e sanzionati: chi ne colleziona troppi non fa carriera.

Forse è un’ingenuità sperare che qualcosa di buono venga fuori dal caos di questi giorni. Probabilmente, la strategia che, quasi certamente, adotterà il Csm si rivelerà vincente: placati i rumori, tutto si risolverà con qualche sostituzione al vertice della Procura di Milano. Senza che nessuno, né fra i politici di governo né fra gli alti magistrati, si mostri desideroso di incidere sui nodi di fondo. Anche perché bisognerebbe rimettere in discussione troppi luoghi comuni e ribaltare strategie consolidate. A cominciare da quelle che hanno reso così fallimentare, per ammissione di tutti, l’azione di contrasto alla corruzione. Già si sente dire che occorrono nuove leggi, più severe. Bugie o stupidaggini. Occorrerebbe invece fare il contrario di quello che si è fin qui sempre fatto: occorrerebbe semplificare drasticamente la legislazione sugli appalti e modificare, rendendoli molto meno formalistici e molto più sostanziali, i meccanismi amministrativi di controllo. Ma, a quanto pare, l’Italia non è capace di imparare dai propri errori. Anche in materia di conduzione di inchieste giudiziarie, sembra che ci sia poco spazio per ripensamenti.

Se, in questo modo, risulterà alla fine che ci saremo giocati anche l’Expo, il vulnus sarà per il Paese pesantissimo, forse irrimediabile.

Per ora, possiamo solo ricordare una «regolarità». Le istituzioni forti, capaci di imporsi anche alle altre, sono sempre internamente coese. Quando si dividono, quando sono dilaniate da lotte intestine, perdono di colpo la forza. E anche il prestigio.

18 maggio 2014 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_18/conflitto-procura-9e1f4080-de54-11e3-a788-0214fd536450.shtml
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« Risposta #226 inserito:: Maggio 28, 2014, 11:56:18 am »

Analisi critica di un successo
La diga utile del premier
Non prevista dai sondaggi né, probabilmente, dallo stesso Matteo Renzi, l’entità del successo del Pd modifica il quadro politico

Di ANGELO PANEBIANCO

Non prevista dai sondaggi né, probabilmente, dallo stesso Matteo Renzi, l’entità del successo del Pd modifica il quadro politico. Scelte e strategie dei protagonisti cambieranno, forse radicalmente. Per mettere nella giusta luce quel successo, e per soppesarne i possibili effetti, occorre leggere con attenzione i risultati elettorali. Sono necessarie due premesse. Non bisogna dimenticare il carattere sui generis delle elezioni europee. Anche se i loro effetti politico-istituzionali sono assai rilevanti (determinano la composizione del Parlamento europeo e le coalizioni che vi si formano), per il grosso degli elettori - non solo italiani - resta confusa, poco chiara la posta in gioco. Ciò spiega la bassa affluenza al voto (nel nostro Paese è stata del 58,6%) e il fatto che le campagne elettorali si concentrino sulle questioni «interne», con pochi, retorici, riferimenti all’Europa. Per i più, le Europee sono un sondaggio che misura le forze dei partiti: si vota pro o contro il governo. In questo senso, Beppe Grillo aveva ragione quando diceva che queste sono elezioni «politiche». Ma con una particolarità: gli elettori sono liberi dai vincoli che li condizionano nelle elezioni nazionali, «non votano con il portafogli», non mettono in gioco i propri interessi, fanno meno calcoli di convenienza. Per conseguenza, se si recano alle urne, sono più propensi a votare «in libertà». Confusione sulla posta in gioco, bassa affluenza, e meno vincoli di convenienza, rendono le elezioni europee non confrontabili con le Politiche. Raramente gli esiti delle prime anticipano gli esiti delle seconde.

La seconda premessa è che, per valutare i risultati, le percentuali di voto dei vari partiti possono essere ingannevoli. Occorre considerare anche il numero dei voti ottenuti da ciascun partito. Proprio guardando al numero di voti raccolti, il successo del Pd di Renzi appare imponente. Se confrontato con i risultati delle elezioni politiche dello scorso anno. Nonostante la più bassa affluenza (58,6 % contro il 75,2% delle Politiche del 2013 per la Camera dei deputati) e i minori vincoli che incombono sugli elettori, il Pd di Renzi prende 11 milioni di voti e rotti contro gli 8 milioni e mezzo raccolti un anno fa dal Pd di Bersani alla Camera. Non ha sfondato il tetto dei 12 milioni e rotti (massimo risultato della sinistra post-comunista del 2008) ma vi si è avvicinato.

Si può ipotizzare che Renzi abbia attirato due diversi tipi di elettori: quelli convinti dalla sua proposta e quelli che lo hanno individuato come la «diga» utile per fermare l’avanzata dei grillini. Se si guarda all’ottimo risultato del Pd nel Nord (dove la propensione al voto per quel partito è tradizionalmente scarsa), si capisce che l’effetto diga deve essere stato potente: la paura del grillismo ha innescato una mobilitazione a favore di Renzi.

Il principale sconfitto è Grillo. Sulla carta, le Europee erano, per lui, le elezioni ideali. Propensione alla protesta (soprattutto al Sud) e «voto in libertà», secondo le aspettative, avrebbero dovuto premiarlo. Invece registra una perdita di 3 milioni di voti rispetto alle Politiche di un anno fa (5,8 circa contro gli 8,7 circa del 2013). La politica è imprevedibile, e il futuro di qualunque partito sarà deciso sia da ciò che farà quel partito sia da ciò che faranno i suoi avversari, ma, considerando solo i risultati delle Europee, possiamo ipotizzare che i 5 Stelle, dopo il boom del 2013, siano entrati nella fase del declino. Grillo è riuscito a fare paura a tanti. Renzi dovrebbe ringraziarlo: difficilmente, senza lo spauracchio del grillismo, avrebbe potuto ottenere un così lusinghiero risultato. Da ultimo, Berlusconi e il centrodestra. Il Popolo delle libertà, alle Politiche del 2013, ricevette 7,3 milioni di voti circa. Se si sommano i voti ottenuti alle Europee da Forza Italia e dal Nuovo centrodestra di Alfano, la perdita è assai forte (oltre 2 milioni di voti in meno rispetto al 2013). Però, aggiungendo i voti della Lega e di Fratelli d’Italia (la vecchia coalizione di centrodestra), si arriva circa al 30%. Niente di comparabile ai fasti di un tempo ma abbastanza per suggerire che, probabilmente, nelle prossime elezioni politiche, si tornerà a una «normale» competizione fra Pd e centrodestra (con Grillo come terzo incomodo).

Ma occorre fare due precisazioni. La prima gioca a favore della destra e la seconda contro. La precisazione a favore è che, plausibilmente, le astensioni hanno colpito soprattutto a destra. Il che dice che la destra, sulla carta, ha ampie possibilità di recupero. La precisazione contro è che una sommatoria di forze, eterogenee e distanti su questioni cruciali (come l’euro), non fa una proposta politica credibile. Alla destra occorrerà molto lavoro per dare vita a una sintesi politica di cui, al momento, non si vede la possibilità. Verosimilmente, il trionfo di Renzi e la necessità del centrodestra di ricompattarsi per tornare ad essere competitivo dovrebbero agevolare le riforme (legge elettorale e Senato).

Sul vincitore, Renzi, ricadono, come è giusto, i compiti più gravosi. Apparentemente, nulla può fermarlo. Potrà inaugurare il semestre italiano di Presidenza della Ue da una posizione di forza e di prestigio, dovuta alla vittoria e alla posizione conquistata dal suo partito nel Parlamento europeo. Inoltre, ha azzittito coloro che lo accusavano di non essersi sottoposto a una prova elettorale. In più, ha annichilito i suoi avversari interni di partito. Torneranno ad agitarsi alle prime difficoltà ma ora devono tacere e obbedire.

Al momento, Renzi ha un solo vero nemico da cui guardarsi: se stesso. Deve vincere una certa propensione all’improvvisazione, allo slogan brillante che fa apparire di semplice soluzione problemi complessi. Deve fare, per davvero, il tanto che ha promesso e che, ancora, in larga misura, non ha nemmeno cominciato a fare.

27 maggio 2014 | 07:59
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Da -http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_27/diga-utile-premier-68ec180c-e55c-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml
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« Risposta #227 inserito:: Giugno 08, 2014, 06:53:51 am »

L’IPOTESI Juncker E LA VIA DEMOCRATICA
Dietro la scelta di un presidente

di Angelo Panebianco

Intorno alla scelta del prossimo presidente della Commissione europea si sta giocando una partita che influenzerà il destino dell’Unione e, quindi, di tutti noi. È necessario che il Consiglio europeo designi il lussemburghese Jean-Claude Juncker come presidente della Commissione (come richiesto anche nell’appello di un gruppo di intellettuali pubblicato ieri dal Corriere)? Juncker è espressione del partito popolare, il partito più forte del Parlamento europeo. È il candidato che dispone di una maggioranza parlamentare. Se il Consiglio lo designasse presidente rispettando le indicazioni del risultato elettorale, il famoso «deficit democratico» dell’Unione non scomparirebbe ma si farebbe comunque un passo importante per ridurlo: la Commissione diventerebbe espressione di una maggioranza parlamentare e, quindi, di qualcosa che assomiglia alla sovranità popolare (dico «assomiglia», perché le elezioni europee sono ancora assai diverse da quelle politiche nazionali).

È dunque evidente quale sia la scelta giusta da fare? Non del tutto. Perché si dà il caso che Juncker sia anche la massima espressione della continuità, l’ortodossia europeista fatta persona. Non è l’uomo a cui affidarsi per cercare soluzioni innovative allo scopo di salvare un’Unione squassata da nazionalismi e da proteste antieuropee. Il paradosso è che designare Juncker sarebbe un atto, al tempo stesso, di innovazione istituzionale e di conservazione politica. La domanda è: oggi ci serve di più l’innovazione istituzionale (riduzione del deficit democratico) o l’innovazione politica? Il premier britannico Cameron ha dichiarato che la designazione di Juncker spingerebbe la Gran Bretagna ad accelerare i tempi del referendum sulla permanenza nell’Unione. In pratica, la Gran Bretagna se ne andrebbe. Cameron ha due ragioni per essere contro Juncker. Non può accettare, in omaggio alla tradizionale ostilità britannica a qualunque cosa somigli, anche vagamente, a un «super Stato», che il Consiglio europeo (che rappresenta gli Stati nazionali) perda potere a favore del Parlamento. E non può riconoscersi (come quasi nessun britannico) nell’ortodossia incarnata da Juncker.

Intorno al nome del presidente della Commissione si gioca anche una sotterranea partita fra quelli che vorrebbero trattenere nell’Unione la Gran Bretagna e quelli che saluterebbero con soddisfazione il suo abbandono. Sarebbe più semplice sciogliere il dilemma se comprendessimo davvero quale sia la posta in gioco. Lo comprendiamo poco e male perché non sappiamo bene quale Europa stiamo costruendo né quale Europa vogliamo. Ciò spiega, ad esempio, perché, in materia d’Unione, non si tenga per lo più distinta la questione della «democrazia» da quella del «federalismo». Designare Juncker sarebbe un passo sulla strada della democratizzazione dell’Unione (creazione del circuito elezioni-Parlamento-Commissione). Ma sarebbe anche un passo verso il «federalismo»? C’è da dubitarne, troppi essendo i tratti non federali dell’Unione di cui Juncker è uno dei custodi. I politici europei hanno ora da affrontare questioni pressanti e pratiche (quale compromesso trovare fra le esigenze tedesche e quelle degli altri Paesi?), non spetta loro il compito di filosofare. Però, un’idea di dove vogliamo andare è necessaria se siamo interessati a introdurre cambiamenti, indispensabili per salvarla, nel modo d’essere dell’Unione.

Le analogie storiche servono solo a fini orientativi ma potremmo dire che, apparentemente, le alternative che abbiamo di fronte sono fra una specie di Sacro Romano Impero in salsa repubblicana (e solo parzialmente democratica) e una specie di Lega anseatica (la flessibile confederazione di città tedesche che fu anche una grande potenza europea, specialmente nei secoli XIV e XV). L’opzione che, invece, non è mai stata sul tavolo (né, credo, lo sarà mai) è quella degli «Stati Uniti d’Europa». Ben poco di ciò che si è costruito va in quella direzione. E si capisce perché. Per decenni, la Francia, con le sue tradizioni stataliste (anti-federaliste per eccellenza), ha, più di qualunque altro Paese, influenzato la costruzione dell’Unione. Un’influenza che è stata solo in parte temperata dal federalismo tedesco. Per questo, troppi aspetti del funzionamento dell’Unione e della sua invadente legislazione (il cosiddetto acquis communautaire) sanno di centralismo più che di federalismo. Se una direzione di marcia si intravvedeva fino a qualche tempo fa, essa andava nel senso di una progressiva riesumazione di un composito impero continentale caratterizzato da un mix confuso di centralismo burocratico e di autonomie (statali) gestionali. Un impero continentale che, in quanto tale, prima o poi, avrebbe dovuto recidere il legame con la potenza marittima: la Gran Bretagna. E che avrebbe anche ridefinito, per conseguenza, nel senso della competizione, il suo rapporto con gli Stati Uniti.

Ma il progetto dell’Impero è entrato in crisi da quando l’ascesa della Germania a Stato egemone europeo ha drasticamente ridimensionato il peso della Francia. Il trionfo lepenista si spiega forse anche così: se non possiamo essere noi a comandare in Europa, allora ciascuno per la sua strada. Adesso si tratta di scegliere: incaponirsi, per mancanza di volontà, interessi o inventiva, nel perseguire un progetto che incontra la crescente opposizione degli elettorati europei o trovare i mezzi per salvare l’Unione introducendo i cambiamenti necessari a instradarla verso un esito confederale? Come fu nel caso dell’Hansa, della Lega anseatica, le flessibili confederazioni possono svolgere un grande ruolo politico. Fare quella scelta sarebbe un modo per tenere dentro la Gran Bretagna, riconciliare gli elettori con un’Europa meno invadente, rispettare le diversità che la arricchiscono, e assicurarle un posto nel mondo. Il nome del prossimo presidente della Commissione aiuterà forse a capire quale strada intraprenderemo.

7 giugno 2014 | 07:29
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_07/dietro-scelta-un-presidente-70be4c62-ee03-11e3-8977-68eaa9ab56ac.shtml
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« Risposta #228 inserito:: Giugno 15, 2014, 07:38:46 pm »

UN SISTEMA BLOCCATO DA TROPPI VETI
Ma decidere non è una colpa

Di ANGELO PANEBIANCO

Almeno ci prova. Forse alla fine l’impresa si rivelerà più grande di lui ma, per lo meno, Matteo Renzi sta forzando, spingendolo a cambiare, un sistema politico-istituzionale, i cui riti, le cui pratiche, le cui procedure, sono al servizio dell’immobilismo, della mediazione senza decisione. Ottenendo per giunta, lui indiscutibilmente uomo di sinistra, di essere trattato come un politico di destra da quella parte del suo partito e del suo mondo abituati a credere che la decisione non abbia nulla a che fare con la democrazia, abituati a credere che la cosiddetta «dialettica democratica» sia più o meno raffigurabile così: un gruppo di persone che si agitano tanto, stando, ciascuna, rigorosamente ferma sulla stessa mattonella. Il massimo di movimento apparente unito al massimo di immobilismo sostanziale.

Prendiamo la riforma della pubblica amministrazione. È un provvedimento complicato, ci sono dentro alcune cose giuste e altre, che avrebbero dovuto esserci, non ci sono (ad esempio non c’è quasi nulla che spinga alla responsabilità i dirigenti e all’efficienza gli impiegati). Però, almeno, è una decisione, anche se la legge delega fa presagire tempi più lunghi.

Renzi è schiacciato fra due esigenze, è in equilibrio fra forze che lo spingono in direzioni opposte. Da un lato, ha fretta, moltissima fretta. I messaggi che manda al Paese sono sempre dello stesso tenore: «Devo fare subito, prima possibile, quello che devo fare, quello che il Paese si attende. Se non lo faccio subito non riuscirò a farlo mai più». Dall’altro lato, Renzi deve misurarsi con problemi di grandissima complessità, sia tecnica che politica, e la fretta può facilmente portare a decisioni sbagliate: ad esempio, la riforma del Senato avrebbe avuto fin dall’inizio molte più chance, se il progetto presentato dal governo non fosse stato così fragile, così raffazzonato. Tra la necessità di fare in fretta e la necessità di approfondire, la porta è molto stretta e sulla capacità di passarci attraverso Renzi gioca la sua intera partita politica.

Si tratti di politica delle nomine, di rifiuto dei riti concertativi, di indisponibilità a farsi incastrare o bloccare dai giochi degli oppositori interni di partito («il tempo delle mediazioni è finito»), quella di Renzi è una politica della decisione che si trova a fronteggiare sia istituti sia idee, visioni della politica, costruite su opposti principi. Costruite, più precisamente, su un insieme di (aberranti) sillogismi: «La decisione è di destra. La destra è fascismo, l’opposto della democrazia. La democrazia, quindi, è non-decisione, è mediazione senza decisione». Diversi Soloni, difensori dell’intoccabilità della Costituzione, disinteressati o ignari di come funzionano le buone democrazie, lo hanno eletto a dogma e il dogma, col tempo, si è trasformato per tanta gente in luogo comune: provare a fare dell’Italia una democrazia che decide significa coltivare disegni autoritari, significa avere nostalgie di fascismo. È su questo scoglio, su questa barriera mentale che si è sempre infranto, fino ad oggi, ogni serio tentativo di riforma istituzionale. Ed è anche il paradosso del politico Renzi.

Egli è indubbiamente un uomo di sinistra. Lo è sulle questioni che, chiacchiere a parte, dividono sul serio la sinistra e la destra: lo è sulla questione della redistribuzione dalla classe media ai ceti meno abbienti (gli ottanta euro) come lo è sul tema dell’immigrazione. Un politico di destra avrebbe fatto l’opposto di quello che egli ha fatto in entrambi i casi. Ma poiché Renzi è anche un decisionista, questa sua qualità di uomo di sinistra non è riconosciuta da chi assurdamente assimila destra e decisione. Renzi ha una occasione storica: può cambiare in un colpo solo i tratti di un sistema politico e quelli di una cultura legnosa, logora,

15 giugno 2014 | 09:42
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_15/ma-decidere-non-colpa-07c395f8-f454-11e3-8a74-87b3e3738f4b.shtml
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« Risposta #229 inserito:: Giugno 22, 2014, 05:41:04 pm »

La dignità di una funzione
Di Angelo Panebianco

In che senso la riforma del Senato, se l’accordo fra governo, Berlusconi e Lega reggerà alla prova dei voti dell’Aula, sarà un risultato «storico»? Lo sarà perché, per la prima volta nella vita della Repubblica, si sarà operato per concentrare, almeno parzialmente, il potere di governo anziché per disperderlo e diluirlo (come avvenne, invece, con la pessima riforma del Titolo V nel 2001).

Da qui al momento dell’approvazione ne vedremo delle belle. Si mobiliteranno i soliti al grido di «hanno tradito la Costituzione», «hanno calpestato i principi del ‘48», «diciamo no al nuovo autoritarismo». Manifestazioni, manifesti degli intellettuali: il repertorio di sempre, insomma.

Si noti però che quelli che grideranno al tradimento non avranno proprio tutti i torti. Effettivamente, il bicameralismo simmetrico o paritetico (due Camere con uguali poteri), che la riforma del Senato, se passerà, manderà in soffitta, non era un puro accidente storico. Era un mostro istituzionale, sì, ma un mostro provvisto di una sua logica. I costituenti non erano né pazzi né grulli. Reagivano, con gli strumenti culturali in loro possesso, alle circostanze. Non sapevano chi avrebbe vinto le future elezioni (se i socialcomunisti o i democristiani). Per questo, misero in atto tutti gli espedienti possibili per diluire al massimo il potere di governo, e perché chi avesse vinto le future elezioni fosse costretto a governare venendo a patti con l’opposizione parlamentare. Inoltre, giocò un ruolo la cultura politica assemblearista (soprattutto, di parte comunista), la confusione fra «tutto il potere all’assemblea» (a scapito degli esecutivi) e «tutto il potere al popolo». Il mostro istituzionale del bicameralismo simmetrico, nacque così.

Stiamo per strappare una brutta pagina della nostra Costituzione. Tutto bene, dunque? Vedremo. Nelle faccende istituzionali, il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. E non tutti i dettagli sono stati chiariti.

Checché ne dicano i soliti moralisti fissati, sempre pronti a raccattare ovunque gli umori anti-istituzionalisti, è un’ottima cosa, anzi eccellente, che sia stata stabilita l’immunità per i futuri senatori. Non in omaggio alle caste, alla corruzione o a che altro. In omaggio, invece, a una cosa fondamentale (senza la quale, per inciso, non esiste neppure la democrazia): la dignità della funzione svolta e, pertanto, dell’istituzione di cui si fa parte. L’immunità ai senatori ci dice che il Senato (pur finalmente diverso dalla Camera) sarà comunque una cosa seria, degna di rispetto. Come si conviene a un organo che, se perderà il potere di dare e togliere la fiducia al governo e il potere legislativo paritetico a quello della Camera, manterrà pur tuttavia il diritto di contribuire alla elezione del presidente della Repubblica, dirà la sua sulle leggi, avrà il controllo degli affari regionali.

Il modello a cui ci si è ispirati è il Bundesrat, il consiglio federale tedesco. Come nel Bundesrat è prevista l’elezione indiretta: nel caso italiano, cento membri, novantacinque dei quali rappresentativi di Regioni e Comuni, il cui mandato durerà quanto quello delle amministrazioni di provenienza. Nel modello a cui ci si ispira ci sono, insieme, la forza e la debolezza della riforma prevista. La forza, perché il Bundesrat è una istituzione collaudata. Ma anche la debolezza perché le Regioni italiane non sono i Länder (gli Stati) tedeschi. E il regionalismo italiano non è il federalismo tedesco. I dettagli che non sono ancora chiari (perché dovranno essere oggetto di leggi successive) riguardano il modo in cui verrà ridefinito il Titolo V, i rapporti centro-periferia e, per essi, le aree di competenza della Camera e del Senato. È ottima cosa che siano sparite le famigerate «materie concorrenti», fonti di infiniti contenziosi fra Stato centrale e Regioni. Così come è ottimo che una serie di cruciali materie ritornino sotto il controllo del governo nazionale.

Ma molti altri aspetti restano ancora incerti. Stando al testo, sembra che le Regioni vedranno confermati molti dei poteri acquisiti nella riforma del 2001. Poiché l’esperienza dice che, in tutti questi anni, non ne hanno fatto per lo più un buon uso, questa non è necessariamente una buona notizia.

In ogni caso, fra il testo (fragile) inizialmente presentato dal governo per la riforma del Senato e il testo su cui si è chiuso l’accordo, c’è un evidente salto di qualità (in meglio). Se questa riforma si farà, per una volta potremo dire che l’incontro fra una leadership dinamica e innovatrice e una classe parlamentare in cui non sono mancate saggezza ed esperienza ha generato un bel risultato.

22 giugno 2014 | 09:21
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_22/dignita-una-funzione-bc99017c-f9d4-11e3-88df-379dc8923ae4.shtml
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« Risposta #230 inserito:: Luglio 16, 2014, 05:55:52 pm »

Tasse e immigrazione, i silenzi del governo
Due argomenti ancora tabù

Di Angelo Panebianco

Sembrano davvero tanti, non solo in Italia, quelli che hanno già venduto la pelle dell’orso, che scommettono sul successo di Renzi, del suo tentativo di costruire una egemonia, sua e del suo partito, di lungo periodo. Costoro vedono correttamente i punti di forza di questo tentativo ma ne sottovalutano fragilità e debolezze. La forza di Renzi, che gli ha attirato così tanti consensi, anche da destra, sta nella sua comprovata capacità di sfidare alcune convenzioni, tic e luoghi comuni della sinistra. La debolezza (che potrebbe alla fine portarlo al fallimento) sta nella sua arrendevolezza di fronte ad altre convenzioni e altri luoghi comuni.

Chi accusa Renzi di essere solo un bluff non vede quanto sia stato eversivo il suo attacco frontale ad alcune delle principali cittadelle del potere della sinistra. A cominciare dalla Cgil. In questo Renzi assomiglia davvero, fatte le debite differenze, a Tony Blair. Come Blair, egli ha sfidato il conservatorismo sindacale, come Blair ha aggredito centri di potere che da sempre monopolizzavano il diritto di decidere cosa fosse, e che identità dovesse avere, la «sinistra». Su aspetti non irrilevanti Renzi sta davvero tentando di spezzare alcune delle catene (per citare il titolo del bel libro del giornalista del Foglio Claudio Cerasa) di quella parte politica.

Però non è tutto oro quello che luccica. Renzi è stato fin qui molto selettivo. Ha colpito certi luoghi comuni ma si è ben guardato dal metterne in discussione altri.

Si consideri la questione cruciale delle tasse. È ormai chiaro che con Renzi la pressione fiscale non scenderà: è anzi già aumentata e probabilmente aumenterà ancora. E questo nonostante tante voci autorevoli (si pensi soprattutto a Bankitalia) da tempo indichino nell’eccesso di tassazione la causa principale del declino economico del Paese. Ufficialmente le tasse non possono scendere perché non lo permettono i conti dello Stato. È così solo in parte. Le tasse non possono scendere anche per ragioni ideologiche o culturali.

Nella tradizione della sinistra abbassare le tasse è di destra, abbassare le tasse suona berlusconiano. Abbassare le tasse significa abbassarle a tutti, persino a quei ceti medi indipendenti, imprenditoriali e professionali, che la sinistra vive da sempre come i propri antagonisti sociali principali. Abbassare le tasse significa, per la sinistra, «fare regali» a un mondo che tradizionalmente essa giudica assai negativamente imputandogli per lo più ogni sorta di malefatte: dall’evasione fiscale a comportamenti di consumo e stili di vita che essa ha sempre considerato riprovevoli.

Renzi non abbasserà le tasse semplicemente perché il suo mondo non può accettarlo ed egli non sembra intenzionato a sfidarlo su questo punto. Tuttavia, l’impossibilità per il premier di combattere i tabù culturali della sinistra in materia di tassazione potrebbe impedire la ripresa economica. E, alla fine, costargli il successo. Con l’operazione ottanta euro in busta paga Renzi si era proposto due obiettivi: garantirsi il consenso di larghe fasce di lavoro dipendente attraverso un’azione di ridistribuzione del reddito e mettere un po’ di soldi nelle tasche delle famiglie per rilanciare la domanda interna. Il primo obiettivo è stato raggiunto. Il secondo ancora no.

I consumi continuano a languire, la domanda interna non accenna a riprendersi. Se le cose continueranno così forse Renzi sarà costretto a cambiare strategia. Sarà costretto a porsi il problema delle tasse. E a quel punto dovrà misurarsi con la forza, con la potenza, dei pregiudizi della sinistra.

Il secondo punto di debolezza di Renzi riguarda l’immigrazione. La sinistra, e Renzi non fa eccezione, non ha mai voluto distinguere in modo netto - e mandando al mondo messaggi inequivocabili su questo punto - fra l’aiuto ai profughi che scappano dalle guerre e l’accoglienza agli immigrati che scappano dalla povertà. Non c’è mai stata, in fondo, troppa differenza fra il messaggio della laicissima sinistra e quello di molti esponenti della Chiesa cattolica. Si pensi a come si è affrettata la sinistra renziana a cancellare il reato di clandestinità.

È anche per questo che non è oggi possibile una politica europea dell’immigrazione. Le altre forze politiche europee, sinistre incluse, devono sempre, in questa materia, tenere d’occhio l’interesse nazionale (si ricordi con quanta durezza i socialisti spagnoli, quando erano al potere, respingevano i clandestini). La sinistra italiana, invece, è a-nazionale, portatrice di confuse aspirazioni cosmopolite, a loro volta eredità o cascami di antichi e più strutturati internazionalismi ideologici. È una sinistra che oggi potremmo definire francescana, costitutivamente incapace di tracciare una linea di confine fra «noi» e «loro» (e di ragionare quindi in termini di interesse nazionale), incapace di stabilire quanti e quali: quanti immigrati accettare, con quali caratteristiche professionali. L’idea implicita è che sono tutti figli di Dio e che fra i figli di Dio non si discrimina.

Senza contare, dell’immigrazione, un risvolto o un sottoprodotto assai inquietante e rispetto al quale la politica non potrà continuare a lungo a nascondere la testa sotto la sabbia: i califfati attuali e prossimi venturi avvicinano, anno dopo anno, il momento in cui la jihad, la guerra santa islamica, incendierà anche i territori europei, Italia inclusa.

Tuttavia, Renzi non può proprio permettersi una politica realistica dell’immigrazione. Come nel caso delle tasse, i tabù culturali della sua parte sono troppo potenti.

Essendo più intelligente di tanti suoi adulatori Renzi sa che il suo celebre «40 per cento» ottenuto alle Europee è soltanto un trucco, una illusione contabile. Renzi non ha affatto raccolto il quaranta per cento dei voti degli italiani. Alle prossime elezioni politiche, plausibilmente, la percentuale dei votanti rispetto alle Europee aumenterà notevolmente. Altrettanto plausibilmente, scenderà la percentuale di voti del Pd. Renzi potrebbe uscirne lo stesso vincitore. Per le sue capacità, certo, e soprattutto perché difficilmente la destra farà in tempo a dotarsi di un capo in grado di sostituire Berlusconi. Se però la destra ci riuscisse allora per Renzi sarebbero dolori. Potrebbe perdere le elezioni e perderle di brutto. In questo caso, tasse e immigrazione sarebbero le cause della sua sconfitta.

13 luglio 2014 | 09:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_13/due-argomenti-ancora-tabu-b71c241e-0a59-11e4-b9f9-15449e4acf0d.shtml
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« Risposta #231 inserito:: Agosto 02, 2014, 11:02:49 pm »

Tre schieramenti per una riforma
Gli irriducibili e i camaleonti

Di Angelo Panebianco

La riforma del Senato, e le tante parole spese, fanno pensare alla massima secondo cui «per ogni problema complesso, esiste sempre una soluzione semplice e sbagliata». Conviene un po’ di umiltà quando si ragiona su complicati cambiamenti che, nel caso specifico, investono gli equilibri istituzionali.

Lasciando da parte quei camaleonti che si travestono da riformatori ma non lo sono, possiamo dire che sul Senato si fronteggino tre «partiti». C’è il partito degli avversari della riforma, dei difensori dello status quo. Usa, per lo più, argomenti inconsistenti: la Costituzione non si tocca, c’è il disegno autoritario, la reazione in agguato, eccetera. È la difesa dell’indifendibile, di quel bicameralismo simmetrico o paritetico che contribuisce a rendere la nostra democrazia parlamentare diversa (in peggio) da tante altre. I più lucidi fra gli avversari della riforma sanno quale sia la vera posta in gioco: quel potere di veto delle microminoranze che condanna all’impotenza i governi e all’immobilismo il Paese. Il bicameralismo simmetrico è il più importante simbolo (e difesa) della democrazia paralizzata, non decidente. Pensano che, se salta tale simbolo (e diga), quei poteri di veto, responsabili dell’immobilismo, per un effetto a cascata finirebbero per indebolirsi ovunque.

Però, sul Senato, i partiti non sono solo due ma tre. Perché anche coloro che condividono il rifiuto del bicameralismo simmetrico sono divisi. Una parte teme gli effetti di una riforma che faccia del Senato la sede della rappresentanza non elettiva delle Regioni.

In un editoriale assai lucido (Corriere , 6 luglio), Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno dato voce, con solidi argomenti, a questa posizione, al disagio di chi, sapendo cosa sono le Regioni, teme le conseguenze disfunzionali della riforma. Alesina e Giavazzi hanno segnalato che il ddl in approvazione a Palazzo Madama lascia una possibilità di intervento del Senato delle Regioni in tema di leggi di bilancio. Il rischio è che il Senato, assumendo la difesa corporativa (transpartitica) del potere di spesa delle Regioni, condizioni la Camera dei deputati, spingendola ad approvare bilanci e spese insostenibili.

La tesi è corretta. Ma il tema è più ampio. Anche se la riforma del Senato si ispira al Bundesrat, la Camera alta tedesca (che in quel sistema federale rappresenta gli Stati, i Länder), resta che la Regione italiana non è affatto un Land e che, per giunta, le classi politiche e amministrative regionali non brillano, mediamente, per qualità. Conviene mettere nelle loro mani il nuovo Senato? Ciò non compenserebbe, annullandolo, il vantaggio derivante dalla riforma del Titolo V, dal recupero del controllo statale su materie oggi di competenza regionale?

Tali preoccupazioni non sono infondate. Però è anche vero che lo status quo (nessuna riforma) ci condannerebbe a perseverare in un immobilismo che non possiamo più permetterci. Tra una certezza e un rischio, conviene il rischio. Le riforme hanno sempre conseguenze imprevedibili. Eliminando il bicameralismo simmetrico, si rafforzerebbero i governi, si ridurrebbero alcuni poteri di veto. Ma si rafforzerebbero anche, per contro, i poteri di veto regionali? Lo capiremo quando, approvata la riforma, vedremo i dettagli. Per ora, si può sperare che il bicameralismo simmetrico venga infine cancellato e che, contemporaneamente, chi ha la possibilità di farlo non commetta l’errore di idealizzare le Regioni, di dare loro più fiducia, e più poteri, dello stretto necessario.

29 luglio 2014 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_29/gli-irriducibili-camaleonti-49bc4790-16df-11e4-ad95-f737a6cb8946.shtml
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« Risposta #232 inserito:: Agosto 04, 2014, 08:48:10 am »

REINTRODURRE LE PREFERENZE? UN ERRORE

La farina del diavolo

Di Angelo Panebianco

Solo un Paese afflitto da amnesia storica può discutere sul serio della possibilità di reintrodurre le preferenze. Sarebbe come voler rimettere in piedi il commercio delle indulgenze mentre ancora non si sono smaltiti tutti gli effetti del terremoto luterano. Colpevolmente immemori di che cosa siano state, e di quali funzioni svolgessero, nella cosiddetta Prima Repubblica, le suddette preferenze, i politici sembrano davvero intenzionati a ripristinarle. Se non fosse che ci andrebbe di mezzo l’intero Paese verrebbe voglia di limitarsi a osservarli con curiosità mentre meditano questa singolare forma di suicidio collettivo.

Non è un caso che nelle democrazie occidentali che utilizzano il sistema elettorale proporzionale viga la lista bloccata, non le preferenze. Poiché le preferenze non sono affatto, come pensano gli ingenui e come recita una propaganda interessata, un modo per «dare al cittadino la possibilità di scegliere». Le cose funzionano assai diversamente. Le preferenze sono lo strumento mediante il quale i candidati, e gli eventuali gruppi di interesse nazionali o locali che li appoggino, entrano in competizione con gli altri candidati del loro stesso partito. Con le preferenze, alla lotta (esterna) fra i partiti viene in larga misura sostituita la lotta (interna) fra i candidati del medesimo partito. Questa distorsione permanente del gioco democratico indotta dalle preferenze non è l’unica conseguenza grave ma è certamente la più grave.

Però, dicono i nostalgici della Prima Repubblica, in Italia abbiamo avuto le preferenze per decenni, fino ai primi anni Novanta. Vero, ma si davano allora due condizioni che non esistono più. La prima condizione era rappresentata dal fatto che il sistema politico era bloccato, non c’era possibilità di alternanza (i comunisti non potevano vincere). In un sistema privo di alternanza, con i democristiani e i loro alleati ininterrottamente al governo, le preferenze funzionavano da surrogati. Non potendoci essere vera competizione per il potere fra maggioranza e opposizione, le preferenze servivano soprattutto a garantire competizione (e alternanza) fra le correnti e i gruppi interni ai partiti di governo.

Ma c’era anche una seconda condizione che oggi non esiste più (anche se fra i politici attuali ci sono diversi aspiranti suicidi che preferiscono ignorarlo): il voto di scambio non era reato. Nessuno poteva essere penalmente perseguito per voto di scambio. E le preferenze erano per l’appunto il principale meccanismo di raccolta del voto di scambio. Ma davvero, reintroducendo le preferenze, volete fare un così grande piacere a tutti quelli che godono quando vedono politici inquisiti o, meglio ancora (dal loro punto di vista), in galera? Il voto di scambio, all’inizio però con forti limitazioni (riguardava allora solo il caso dei rapporti mafia-politica), è diventato reato in Italia nei primi anni Novanta. Ma la legge Severino sulla corruzione, approvata ai tempi del governo Monti, ne ha ora allargato notevolmente l’ambito di applicazione.

Chiunque parli oggi di preferenze farebbe bene a leggere con attenzione quella legge. Si noti per giunta che la criminalizzazione (in senso letterale: la penalizzazione, la trasformazione in reato penale) del voto di scambio, è avvenuta in un Paese che, per ragioni culturali, non è mai stato capace di chiarire a se stesso quale sia il confine fra il lecito e l’illecito, fra la normale, normalissima (svolta da tutti i Parlamenti democratici) rappresentanza degli interessi, e la corruzione parlamentare. La prova di questa incapacità culturale è data dal fatto che l’Italia non è mai stata in grado di regolamentare il lavoro delle lobby. È in un Paese siffatto che volete reintrodurre le preferenze? In tempi, oltre a tutto, di grande attivismo giudiziario?

Soprattutto i partiti con vocazione governativa, i partiti che hanno ottime probabilità di andare al governo, dovrebbero tenersene alla larga. Quanto tempo dopo le elezioni comincerebbero a fioccare gli avvisi di garanzia per i politici entrati in Parlamento con un bel gruzzolo di preferenze? I leader nazionali, certamente, prenderanno tante preferenze «spontanee» e nessuno li accuserà di voto di scambio. Così come accadrà a qualche esponente di movimenti di protesta. Ma che dire delle seconde, terze e quarte file dei partiti di governo, di quei tanti signor Nessuno che risulteranno molto bravi nell’organizzazione del consenso?

Il vero scopo politico di chi vuole le preferenze è chiaro: tentare di indebolire i leader più forti, e in particolare Renzi, impedire loro di dare vita, alle prossime elezioni, a gruppi parlamentari a propria immagine e somiglianza. Ad esempio, grazie alle preferenze, la Cgil può sperare di fare eleggere nel Pd qualche candidato in più fra i propri a scapito dei renziani. Analogo discorso vale per altri gruppi organizzati (oltre che per diversi notabili esperti nella raccolta di voti) sia a sinistra che a destra. Lo scopo è evidente ma i costi collettivi sarebbero elevati. Anche a tacere del grande spreco di denaro che la lotta per le preferenze porta con sé, e di tutte le altre disfunzioni connesse, non ci serve una democrazia nella quale i candidati più prudenti siano costretti ad impegnarsi nella campagna elettorale accompagnati dai loro avvocati.

3 agosto 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_03/farina-diavolo-6ef3e7ce-1ad2-11e4-b652-72373bf3d98f.shtml
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« Risposta #233 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:36:01 pm »

LO STATUS QUO DI UN PAESE
Guardandoci allo specchio

di Angelo Panebianco

A giudicare dalla diffusa resistenza a qualunque accenno di bonifica e di razionalizzazione della spesa, una parte cospicua della società italiana è impegnata nella difesa a oltranza dello status quo, non prende sul serio, e non lo ha mai fatto, i continui e severi moniti delle autorità nazionali, europee, internazionali. L’aneddotica che ci viene quotidianamente presentata dalle cronache è nutrita ma coglie solo la punta dell’iceberg: dipendenti Alitalia che si oppongono all’unico accordo che può salvare e rilanciare l’azienda, commessi parlamentari che difendono emolumenti indifendibili, addetti di municipalizzate locali in fortissima perdita pronti a fare le barricate a difesa dello sperpero di denaro ai danni dei contribuenti, eccetera.

È inutile negarlo: il cambiamento, per quanto definito necessario da tutti gli osservatori, e dalla stessa classe politica di governo, deve fronteggiare una resistenza e una opposizione «di popolo». È questa la ragione per cui, anche se pochi lo dicono, molti lo pensano: forse fu un errore non accettare il commissariamento europeo. Sarebbe servito a vincere resistenze così diffuse. È un fatto che la Spagna, dopo avere pagato un alto prezzo, ora naviga finalmente in acque migliori delle nostre (aiutata, va detto, dai soldi che l’Europa ha dato alle sue banche).

Cosa può fare la politica, e soprattutto la politica democratica, se componenti quantitativamente assai rilevanti della società italiana si oppongono alle tanto invocate riforme? Non sbagliamo quando pretendiamo che assuma un ruolo salvifico? Non ne sopravvalutiamo capacità e possibilità? Perché mai la politica dovrebbe essere in grado di salvarci contro la nostra volontà?

In una democrazia i politici dipendono dai voti degli elettori. Se gli elettori non vogliono una cosa i politici non possono farci proprio nulla. Si può supporre che sia per questo, in realtà, che le promesse e le proposte dei vari leader appaiano sempre così poco credibili. Forse è per questo, ad esempio, che non è credibile la destra la quale oggi, per gioco delle parti, critica la politica economica di Renzi ma non è mai stata in grado di spiegarci perché in tanti anni di governo non abbia fatto quegli interventi, a cominciare dai tagli alla spesa pubblica, che andavano fatti. E forse è per questo che comincia a consumarsi anche Renzi, ad apparire sempre meno credibile: troppe parole, troppe promesse.

In realtà, le cose sono più complicate. Perché se è vero che la resistenza al cambiamento è forte e diffusa, e i ricatti elettorali che subiscono i politici sono potenti, è anche vero che se l’economia non riparte, sarà a quegli stessi politici che verrà poi presentato il conto, saranno loro a fungere da capri espiatori.

A dispetto della retorica imperante, a dispetto del fatto che soprattutto i leader parlano di se stessi come se fossero onnipotenti, la politica «non cambierà l’Italia». Nel bene e nel male l’Italia è questa e resterà più o meno uguale a se stessa per anni e anni a venire. Ma senza esagerare, senza sopravvalutare le possibilità della politica, riconosciamo che alcune cose possono essere comunque fatte.

Checché ne pensino molti, ad esempio, chi scrive ritiene che la riforma del Senato non sia affatto un «parlar d’altro» ma possa servire, in prospettiva, anche alla crescita economica del Paese. Perché indebolendo i poteri di veto connessi al bicameralismo paritetico può migliorare l’efficacia degli interventi dell’esecutivo. Per il resto servirebbe, da parte dei politici di governo, un po’ di umiltà. Facciamo un esempio. Come ha ricordato Mario Draghi, contribuisce a scoraggiare gli investimenti in Italia l’eccesso di burocrazia, il fatto, ad esempio, che occorrano otto o nove mesi per ottenere le autorizzazioni a fare impresa. Si può cambiare questa situazione? Forse sì, ma non a colpi di slogan. Non basta evocare, come ha fatto Renzi, la «lotta alla burocrazia». Occorre affrontare, anche con strumenti conoscitivi adeguati, una situazione molto complessa costituita da un reticolo di vincoli normativi, di routine amministrative distorte, di resistenze burocratiche alla innovazione.

La politica non può fare tutto. Solo qualcosa. Ma per riuscirci deve rispettare una condizione. Non le si può chiedere di rinunciare alla demagogia (che è indispensabile per ottenere voti). Si può però pretendere che affronti problemi complessi con intelligenza. Con meno superficialità, per lo meno.

Angelo Panebianco

10 agosto 2014 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_10/guardandoci-specchio-0df5d698-2055-11e4-b059-d16041d23e13.shtml
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« Risposta #234 inserito:: Agosto 20, 2014, 07:17:10 pm »

ESTREMISMO ISLAMICO, ALIENAZIONE EUROPEA
Le complicità occidentali

Di Angelo Panebianco

Troppi indizi lasciano pensare che stia accadendo di nuovo. Nel XX secolo le società democratiche occidentali vennero sfidate da potenti movimenti politici totalitari. Quei movimenti politici trovarono simpatie, connivenze e alleanze all’interno di quelle stesse società democratiche. Si pensi ai tanti simpatizzanti del nazismo nell’Europa degli Anni Trenta. E, soprattutto, si pensi al comunismo sovietico. Per decenni e decenni la sua natura tirannica venne negata da milioni di uomini in Occidente (in particolare, nell’Europa latina). I movimenti totalitari del XX secolo poterono contare, nelle società europee rimaste democratiche, su quinte colonne estese, motivate e radicate.

L’estremismo islamico è certamente diverso da nazismo e comunismo. Non nasce in Europa, anzi le è totalmente estraneo. È anch’esso una ideologia politica totalitaria ma non è un figlio spurio della secolarizzazione. Si tratta di una ideologia che utilizza e piega ai suoi scopi una religione. A prima vista, non dovrebbe avere nulla di attraente per degli occidentali, non dovrebbe suscitare alcuna simpatia. Ma non è così. Sorprendentemente, incontra molta più comprensione, fra certi occidentali, di quanta se ne potrebbe ragionevolmente aspettare. E la ragione forse, nella sua tragicità, è abbastanza semplice. Le società democratiche occidentali hanno sempre contenuto al loro interno quote più o meno ampie di persone che le odiano e vorrebbero distruggerle. Persone che di tali società rifiutano l’individualismo congenito, ne negano il carattere democratico, disprezzano i diritti di libertà di cui godono i loro concittadini, provano ripugnanza per il «materialismo» occidentale, per il fatto che le società democratiche siano soprattutto impegnate nella ricerca del benessere economico. Si pensi a quelle mosche cocchiere che in Occidente sono sempre stati gli intellettuali. Come diceva l’economista Joseph Schumpeter, solo il capitalismo occidentale, fra tutte le formazioni sociali esistite, ha avuto la particolarità di allevare e mantenere un così grande stuolo di intellettuali (e di pseudo-intellettuali) che vorrebbero distruggerlo. È questa incomprimibile quota di alienati, sempre presente, sia pure in proporzioni variabili, in tutte le società democratiche occidentali, a fornire, a seconda delle posizioni sociali occupate, manovalanza oppure copertura e appoggio intellettuale ai movimenti totalitari, a costituirne le quinte colonne.

Non andrebbe sottovalutata la dichiarazione del deputato dei Cinque Stelle di comprensione per il terrorismo islamico. Una dichiarazione, peraltro, che segue di una settimana un’altra dichiarazione, di un altro esponente Cinque Stelle, il quale manifestava simpatia per l’Isis, il Califfato siriano-iracheno.Una rondine non fa primavera ma uno stormo sicuramente sì. Si guardi cosa si è scatenato, non solo qui da noi ma in tutta Europa, in occasione del nuovo conflitto a Gaza. Le accuse ad Israele di genocidio (una parola che sembra aver perso il suo significato originario), addirittura - come recita un manifesto di intellettuali, con molte firme al seguito, circolante oggi in Italia - la richiesta di una nuova Norimberga contro lo Stato ebraico, Hamas fatta passare per una congrega di puri combattenti per la libertà. Solo crimini, e nessuna ragione, vengono imputati da costoro ad Israele (si veda il suddetto manifesto). Anche in Europa, insomma, c’è un bel po’ di gente che vorrebbe «cancellare l’entità sionista». Per non parlare degli attacchi alle sinagoghe e delle minacce agli ebrei.

Certamente, nell’odio per Israele confluisce un antisemitismo mai sradicato che oggi preferisce mimetizzarsi, mostrarsi interessato alla causa palestinese. Ma gioca anche il fatto che in Medio Oriente Israele è, con le sue peculiarità, la società più simile a quelle occidentali. E, in quanto tale, bersaglio, qui in Europa, di ostilità e disprezzo. Confrontate quanto i nemici europei di Israele hanno detto e scritto in questi giorni su Gaza con «l’assordante silenzio» che essi hanno rigorosamente mantenuto nei confronti delle stragi jihadiste di cristiani che si consumavano nello stesso momento. E capirete. L’ostilità per Israele è oggi il comun denominatore, l’elemento che accomuna, e avvicina, gli europei alienati e l’estremismo islamico. E prepara i primi al ruolo di alleati del secondo. In nome della comune avversione al materialismo e all’individualismo occidentali. Forse un messaggio sufficientemente netto, e sufficientemente condiviso dai suoi massimi esponenti, da parte della Chiesa cattolica, aiuterà in futuro, almeno qui in Italia, a circoscrivere il fenomeno. Il Papa ha preso una posizione forte e chiara sulla persecuzione in atto dei cristiani da parte dei jihadisti. Ma, in una intervista al Corriere (15 agosto), il segretario della Cei monsignor Nunzio Galantino, dopo avere detto molte cose condivisibili, ha dato anche al lettore l’impressione, sicuramente sbagliata, di mettere sullo stesso piano il «fondamentalismo» occidentale, l’ostilità di molti occidentali per l’islam, e le azioni dell’Isis e degli altri movimenti jihadisti. Un messaggio più chiaro sarebbe sicuramente di aiuto. Certo, per sua natura (soprattutto la sua alterità culturale) l’estremismo islamico non farà comunque in Europa altrettanti proseliti dei movimenti totalitari del XX secolo. Ma una rete di complicità e di alleanze sicuramente si formerà. La storia si ripete. Speriamo che non sia ancora tragedia.

18 agosto 2014 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_18/complicita-occidentali-f2e576b4-2695-11e4-bbeb-633ac699516c.shtml
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« Risposta #235 inserito:: Settembre 01, 2014, 06:36:08 pm »

L’America (e l’Europa) senza strategie
Quando Obama si smarrisce

di ANGELO PANEBIANCO

Obama si è lasciato sfuggire ciò che tutto il mondo, nemici dell’America compresi, ha capito benissimo: la sua Amministrazione non dispone di una strategia per fronteggiare il Califfato siriano-iracheno. In realtà, si tratta di un giudizio fin troppo generoso: è da tempo che quasi tutti gli osservatori, anche quelli un tempo più simpatetici nei suoi confronti, constatano che l’Amministrazione Obama non dispone di una discernibile strategia di politica estera in quasi nessuno degli scacchieri che contano. Le critiche di Hillary Clinton, ex segretario di Stato e futura candidata democratica alla presidenza, non sono infondate.

Tutto ciò ci riguarda? Ci riguarda moltissimo. Perché l’Europa è legata a filo doppio all’America e l’assenza di una strategia di politica estera della seconda getta nel marasma la prima. L’Europa, lasciata a se stessa, come si è potuto constatare in questi anni, è - retorica europeista a parte - un insieme di Stati nazionali che hanno alcuni interessi in comune e hanno altri interessi divergenti e in competizione. Solo una chiara e dominante strategia americana può mettere un certo ordine e dare un po’ di coesione all’Unione, in particolare quando essa è alle prese con crisi internazionali.

Facciamo due esempi. Dimostrano che, senza una leadership americana, gli europei sanno soprattutto danneggiarsi a vicenda. Cominciamo dal caso libico. Il marasma della Libia post Gheddafi è la causa principale della situazione (sbarchi, operazione Mare Nostrum) che fronteggiamo nel Mediterraneo. All’origine ci fu un intervento, deciso da alcuni Stati europei, con l’avallo americano, contro Gheddafi, cui seguì il disinteresse di quegli stessi Stati per la situazione creatasi dopo la caduta del dittatore. La responsabilità principale, per quel che riguarda sia l’intervento militare che la caduta di interesse a intervento avvenuto, è della Francia.

Fu l’allora presidente Sarkozy, spalleggiato dagli inglesi, a volere l’azione anti Gheddafi. Per ragioni e calcoli molto «francesi». C’erano i sondaggi sfavorevoli al presidente e l’idea (poi rivelatasi sbagliata) che una guerra vittoriosa contro un tiranno arabo gli avrebbe restituito lustro e un po’ di consensi perduti. E c’era, inconfessata, la voglia di rifarsi a spese degli italiani. Le primavere arabe, eliminando il dittatore tunisino Ben Ali, uomo della Francia, avevano messo in discussione l’influenza francese in Tunisia. Perché dunque non intervenire in Libia, dove erano sempre stati prevalenti, per ragioni storiche, gli interessi italiani, al fine di ritagliarsi un ruolo nel dopo Gheddafi?

Obama, che nemmeno allora disponeva di una strategia per il Medio Oriente (si pensi alle contorsioni e all’improvvisazione dell’America in tutta la vicenda egiziana: dalla caduta di Mubarak a quella di Morsi) avallò la scelta francese e fece anche pressioni su un’Italia, comprensibilmente riluttante, perché si accodasse all’intervento armato.

Dopo di che, una volta eliminato Gheddafi, subentrò il disinteresse dei francesi. Chi aveva eliminato la dittatura non si sentì in dovere di contribuire alla ricostituzione di un ordine politico in Libia. A loro volta, gli americani, colti di sorpresa dall’assassinio dell’ambasciatore Chris Stevens, non furono capaci di prendere l’iniziativa, di decidersi a fronteggiare in qualche modo il caos libico. Tutti, in sostanza, se ne lavarono le mani, consegnarono agli italiani il cerino acceso. Un secondo esempio è dato dalla guerra ucraina. Troppe divisioni in Europa di fronte al rinato imperialismo russo hanno fatto a lungo il gioco di Putin. Le preoccupazioni geopolitiche di alcuni Paesi europei che chiedevano fermezza erano in conflitto con l’interesse di altri Paesi europei a preservare i rapporti economici con la Russia. E un’America le cui debolezze su tutti gli scacchieri erano e sono ben chiare agli europei dell’Unione (oltre che a Putin) non aveva l’autorevolezza necessaria per imporre coesione. Non è bastata la conquista della Crimea per creare un fronte compatto europeo. Anche se la scelta di un polacco, Donald Tusk, come presidente del Consiglio europeo è stata forse un passo in quella direzione, non è nemmeno certo che quel fronte possa costituirsi ora, dopo che i russi hanno dimostrato di non essere disposti a fermarsi, a mettere fine alla guerra, prima di avere riconquistato, in un modo o nell’altro, il controllo sul destino dell’Ucraina.

Nessuno sfugge alla propria storia. L’integrazione europea mosse i suoi primi passi nell’età della Guerra fredda, e ottenne i suoi primi, spettacolari, successi, grazie a una divisione dei compiti: gli europei poterono concentrare i loro sforzi sull’integrazione economica perché la difesa armata dell’Europa e tutte le decisioni importanti nelle questioni militari erano delegate agli americani. La Guerra fredda è finita da venticinque anni circa ma in tutto questo periodo l’Europa non ha dato segni di sapersi muovere unita, e in autonomia dagli Stati Uniti, sui problemi della sicurezza.

Anche agli europei, dunque, serve un’America che, anziché limitarsi a constatare di non avere una strategia, sia di nuovo capace di darsela, e non solo per quanto riguarda il Califfato. In fondo, non è ciò che sperano anche gli ucraini mentre chiedono (agli americani) di essere accolti nella Nato?
Mentre ci complimentiamo per la sua nomina con Federica Mogherini, il nuovo «ministro degli Esteri» europeo, osserviamo che il lavoro che l’aspetta diverrà molto più semplice se gli americani riconquisteranno, anche solo in parte, la perduta capacità di visione e di leadership.

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1 settembre 2014 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_01/quando-obama-si-smarrisce-04e0ad70-3195-11e4-a94c-7f68b8e9ffdd.shtml
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« Risposta #236 inserito:: Settembre 10, 2014, 11:15:16 pm »

Non trattateci come sudditi
di Angelo Panebianco

È solo un paradosso apparente che i sondaggi mostrino il sostegno degli italiani per Matteo Renzi (raggiunge il 64 per cento dei consensi nel sondaggio di cui ha dato conto il Corriere domenica, e in nessun altra rilevazione scende sotto il 50), unito però a un diffuso scetticismo sulle misure del governo. Non c’è nulla di irrazionale. Anzi, il pubblico si mostra giudizioso. Si affida a Renzi perché lo riconosce come l’uomo forte del momento, colui che domina la politica e dice di sapere che cosa occorra fare per portarci fuori dai guai. In situazioni tribolate non è insensato affidarsi (provvisoriamente) all’uomo forte disponibile. Ma, al tempo stesso, gli italiani non si mostrano stupidi, non si fanno prendere in giro. Fino ad oggi il governo non è risultato molto convincente nella sua azione e i sondaggi lo registrano.

Proviamo a domandarci che cosa ci sia di poco convincente. Detto in modo enfatico e (non troppo) esagerato, di poco convincente c’è il fatto che non si è visto fin qui nessun provvedimento volto a restituire agli italiani i diritti di cittadinanza, nessun provvedimento che dia l’impressione di volerli trasformare da sudditi, quali per molti versi sono, in cittadini. Alcuni anni fa l’economista Nicola Rossi scrisse un bel libro (Sudditi , Istituto Bruno Leoni) che documentava il modo in cui politica e amministrazione avevano ridotto alla stato di sudditanza gli italiani, che pure, stando alla Costituzione, dovrebbero essere cittadini. Nel periodo intercorso non è cambiato nulla. E nemmeno Renzi finora ha fatto granché. Il caso della Tasi è esemplare. Come documentavano, sul Corriere di ieri, Fracaro e Saldutti, a meno di un mese dalla scadenza, più di 3.000 Comuni su 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota che dovrà essere versata. Una grande quantità di italiani continua ad ignorare quanto dovrà pagare. Il governo Renzi, sulla scia di Letta, ha ripetuto l’errore fatto a suo tempo dal governo Monti con l’Imu.

Ma perché mai dovrebbero ripartire i consumi se si impongono tasse e poi si lasciano passare mesi e mesi prima che i cittadini (pardon : i sudditi) possano conoscerne l’entità? Eppure sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato stabilire che le inefficienze dell’amministrazione sono a carico solo dell’amministrazione. Sarebbe bastato decidere che i Comuni avevano tempo, poniamo, fino al maggio 2014 per stabilire l’ammontare dell’aliquota. Dopo di che, avrebbero perso il diritto di esigere il pagamento della tassa.

Sbaglia chi crede che perché ci sia crescita economica occorra che la politica sia «amichevole verso il mercato». Occorre invece che sia amichevole verso i diritti di cittadinanza. L’orientamento pro-mercato ne è soltanto una conseguenza. Chi, ad esempio, oggi vuol fare impresa è sottoposto alla tagliola e al ricatto delle autorizzazioni che l’amministrazione rilascerà a suo comodo, quando vorrà. Anche qui basterebbe poco per ristabilire il diritto di cittadinanza: il silenzio-assenso. Se l’autorizzazione esplicita non arriva entro un termine preciso, si dà per acquisita. E i funzionari che non se ne sono occupati nel tempo previsto saranno civilmente e penalmente corresponsabili di eventuali abusi.

Se il governo cominciasse ad «elargire» agli italiani diritti di cittadinanza avrebbe forse più successo di quello fin qui ottenuto con gli ottanta euro, riuscirebbe a fare ripartire l’economia. E forse i consensi di cui Renzi gode oggi nel Paese non risulterebbero effimeri, passeggeri.

10 settembre 2014 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_10/non-trattateci-come-sudditi-fc569aec-38a7-11e4-ba01-a3638c813bce.shtml
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« Risposta #237 inserito:: Settembre 20, 2014, 03:42:03 pm »

Tre lezioni dal referendum in scozia
Le diversità da rispettare
Non soltanto la Spagna, alle prese con l’indipendentismo catalano, ma anche altri Paesi, Italia inclusa, hanno a che fare con aspirazioni secessioniste


Di Angelo Panebianco

Non sono solo i diretti interessati, il governo britannico e la regina, ad applaudire al risultato del referendum scozzese. Il senso di sollievo è palesemente diffuso in Europa. Non soltanto la Spagna, alle prese con l’indipendentismo catalano, ma anche altri Paesi, Italia inclusa, hanno a che fare, in modo più o meno serio, con aspirazioni secessioniste. Una vittoria del «sì» in Scozia avrebbe innescato effetti imitativi, avrebbe galvanizzato gli estimatori delle «piccole patrie» sparsi per il Vecchio Continente, fornendo propellente per la loro agitazione politica. La vicenda del referendum scozzese è stata istruttiva. Ci ha impartito tre insegnamenti. In primo luogo, ci ha dimostrato che, nonostante venga affermato il contrario da molti, lo Stato così come si è formato in Europa nel corso dei secoli, il cosiddetto Stato nazionale (nel quale, cioè, esiste un riconoscibile gruppo etno-nazionale dominante) non è affatto morto, continua ad essere percepito dai più - anche da coloro che, come gli scozzesi, non appartengono al gruppo dominante - come un porto sicuro, l’organizzazione politica capace di offrire, rispetto ad altre, maggiore protezione e migliori garanzie per il futuro. Protezione e garanzie che la piccola patria, potenziale vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro (gli Stati nazionali rimasti tali) non è in grado di assicurare.

Il secondo insegnamento è che, comunque, la storia pesa e soprattutto là dove resiste (tramite i racconti famigliari che attraversano le generazioni) la memoria del sangue versato nei secoli passati, l’identità locale, l’identità della piccola patria, mantiene comunque una sua notevole forza politica. La Scozia, per effetto del referendum, è spaccata in due: quasi la metà degli scozzesi si è pronunciata a favore dell’indipendenza. Londra dovrà per forza tenerne conto concedendo più risorse e più poteri. Il terzo insegnamento riguarda l’Europa. L’imbarazzo europeo di fronte al referendum scozzese era palese. E si capisce. L’Unione è una organizzazione di Stati nazionali, costruita a misura degli Stati nazionali. Se una parte di questi ultimi si disgrega l’Unione può soffrirne assai. Altro che «superamento» dello Stato quale meta finale, come hanno ripetuto per anni coloro che si erano autonominati custodi dell’europeismo. L’integrazione europea non implica né presumibilmente implicherà in futuro tale superamento. L’Europa è un club di Stati nazionali legati fra loro da forti interessi comuni.

Come in qualunque club che si rispetti, i soci grandi e forti contano di più di quelli piccoli e deboli. Se i suoi problemi interni non la frenassero, ad esempio, l’Italia sarebbe uno degli Stati dominanti dell’Unione, riconosciuto come tale da tutti gli altri Stati. Come ha dimostrato anche l’incontro tenutosi al Corriere due giorni fa fra gli ambasciatori dei ventotto Paesi dell’Unione, l’europeismo di ciascuno dei ventotto ha motivazioni diverse, che dipendono dalla storia e dalle esigenze geopolitiche di ogni singolo Paese. Se si vuole ridare slancio all’integrazione e frenare l’antieuropeismo montante nell’opinione pubblica, è necessario prendere atto di queste diversità. Restituendo, quanto più è possibile, la perduta flessibilità alle istituzioni dell’Unione. In Europa c’è bisogno sia del vecchio che del nuovo. Servono tuttora i vecchi Stati. Ma serve anche una federazione (di Stati) messa in grado, meglio di quanto possa fare oggi l’Unione, di maneggiare certi problemi comuni. Sul fronte dell’economia come su quello della sicurezza.

20 settembre 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_20/diversita-rispettare-364c28f4-4085-11e4-ada3-3c552e18d4d4.shtml
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« Risposta #238 inserito:: Settembre 28, 2014, 03:46:16 pm »

L’EDITORIALE
Veleni interni, barriere infrante

di Angelo Panebianco

Contano solo le realizzazioni pratiche o anche le innovazioni culturali? Dobbiamo valutare una leadership solo per gli obiettivi concreti che ha raggiunto o anche per la qualità delle idee che diffonde, per la visione che cerca di trasmettere? Contano solo i «fatti» e il resto, tutto il resto, è soltanto chiacchiera? Se pensiamo che importino solo i fatti, le realizzazioni, gli obiettivi raggiunti, allora il giudizio sui primi sei mesi del governo Renzi (che si è insediato il 22 febbraio 2014) non è molto positivo. Sarà colpa della complessità e della lentezza del processo decisionale in Italia, sarà colpa delle divisioni entro i gruppi parlamentari del Partito democratico (ove coloro che remano contro Renzi sono tanti), sarà colpa - come gli imputano molti critici - del suo carattere, di una certa superficialità, di una sua tendenza all’improvvisazione e alla ricerca dell’applauso facile, non sorretta da un’adeguata conoscenza dei problemi, o una combinazione di questi e di altri fattori, ma i risultati di sei mesi di governo non appaiono esaltanti né numerosi. Il carnet di Renzi non è ancora molto ricco e l’encefalogramma sempre piatto dell’economia nazionale è lì a testimoniarlo.

Ma è solo in questo modo che va valutata una leadership? Oppure contano anche altri fattori, i cui effetti non sono magari immediatamente misurabili, le cui conseguenze non appaiono subito visibili ma che possono provocare, nel tempo, cambiamenti di vasta portata? Molti pensano, con ragione, che Renzi non raggiunga ancora la sufficienza in realizzazioni pratiche ma non possono negargli un nove o un dieci in innovazione culturale. Forse questa è anche la vera ragione del vasto consenso di cui gode nel Paese. Renzi sta cambiando, o si sforza di cambiare, non solo il volto ma anche l’anima della sinistra italiana, incidendo per questa via sulla più generale cultura politica del Paese. Sono almeno quattro gli ambiti in cui ha radicalmente innovato. Per cominciare, ha spazzato via in un colpo solo l’antiberlusconismo. Per venti anni l’antiberlusconismo è stato il cuore dell’identità della sinistra italiana. Anzi, esso era diventato la sinistra tutta intera: null’altro la definiva e la teneva insieme. Sono rimasti solo i Cinque Stelle a sventolare la bandiera antiberlusconiana. Senza troppo successo, a quanto pare. Grazie a Renzi, bisogna dirlo, la qualità della vita è migliorata. Non si inciampa più ad ogni piè sospinto in quei fissati, quegli ossessionati da Berlusconi che annoiavano tutti parlando solo di lui e che negli ultimi venti anni incontravi continuamente, ovunque andassi.

Renzi, relegando l’antiberlusconismo fra gli abiti dismessi, sta cambiando l’identità della sinistra. Un compito che può assumersi solo uno che ha autentiche qualità di leader. In secondo luogo, il premier ha aggredito il tabù della «Costituzione più bella del mondo», ha attaccato il conservatorismo costituzionale della sua parte politica. Non sappiamo come andrà a finire la riforma del Senato (giudicheremo alla fine: in materia costituzionale sono i dettagli che contano) ma almeno possiamo dire che ci ha provato sul serio.



C’è poi la circostanza che sta spaccando il Partito democratico in questi giorni. Renzi è stato il primo leader della sinistra che ha detto la verità sul conservatorismo della Cgil e sugli interessi che essa difende a scapito di quali altri interessi. Scontri fra la sinistra politica e la Cgil ce ne sono stati in passato (il principale, allora vinto dal sindacato, fu quello fra Massimo D’Alema e Sergio Cofferati negli anni Novanta) ma questa è la prima volta che la Cgil si trova sulla difensiva, è costretta a misurarsi con l’impopolarità. Unite al suo rifiuto della concertazione fra governo e parti sociali, le prese di posizione del premier su articolo 18 e Cgil stanno modificando senso comune e cultura politica della sinistra.

E c’è infine l’innovazione più importante di tutte, quella incarnata da Renzi stesso. Da sempre allergica all’uomo forte, all’uomo solo al comando, la sinistra si trova ora, precisamente, a subire il predominio dell’uomo forte, a subire l’uomo solo al comando. Un altro tabù che se ne va in pezzi.

Ci sono, naturalmente, quelli che pensano che Renzi sia più o meno uguale a Berlusconi. Anche se Renzi corre effettivamente il rischio di assomigliare a Berlusconi per un aspetto, la tesi è complessivamente errata e sciocca. Il vero, e grave, problema di Berlusconi era dato dal fatto che egli predicava abbastanza bene e razzolava abbastanza male. Il male stava nel grande divario fra il dire e il fare. Se le realizzazioni pratiche del governo continueranno a scarseggiare, la stessa cosa, forse, si dirà fra non molto di Matteo Renzi. Lo stesso avverrà se si scoprirà che il governo usa un linguaggio innovatore per nascondere il fatto che la sua politica è vecchia di decenni. Ad esempio, in materia scolastica, ci saranno davvero le innovazioni che Renzi sbandiera oppure tutto si risolverà, come è tradizione, nella assunzione di un gran numero di precari senza alcun riguardo per la qualità?

Ciò constatato, la tesi della identità fra Renzi e Berlusconi non regge, offende il buon senso, anche se è spiegabile. Coloro che per decenni hanno creduto che in politica l’alternativa fosse fra lo status quo e la palingenesi (il Grande Cambiamento e altre formule simili) non possono rassegnarsi di fronte a un leader che all’antico bla bla sulla palingenesi sostituisce l’elogio dell’inventiva e della innovazione tecnologica simbolizzate dalla Silicon Valley. Se la palingenesi non ha più corso, essi pensano, resta solo lo status quo e nello status quo tutti i gatti sono bigi, Renzi è uguale a Berlusconi. Ma, naturalmente, la politica democratica è un’altra cosa: è una gara fra coalizioni di interessi differenti che possono cooperare su alcuni temi ma sono anche, inevitabilmente, in competizione su altri. Renzi sta cambiando l’identità della sinistra. O almeno si sforza di farlo. Ma non sta cambiando, grazie al Cielo, la natura della politica democratica.

28 settembre 2014 | 09:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_28/veleni-interni-barriere-infrante-f234b634-46d5-11e4-b58c-ffda43e614fc.shtml
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« Risposta #239 inserito:: Ottobre 13, 2014, 03:16:23 pm »

L’attacco islamista Kobane, sotto assedio è l’Occidente

Di Angelo Panebianco

Quanto può valere, in termini di reclutamento di altri combattenti in tutto il mondo, oltre che di nuovi simpatizzanti per la «causa» (la guerra santa), la sempre più probabile caduta di Kobane nelle mani dello Stato islamico? Kobane, la città curda assediata (e già in gran parte conquistata dal Califfo) i cui abitanti combattono per sfuggire a morte certa, sta diventando una prova dell’impotenza occidentale. Le analogie storiche funzionano solo in parte ma la battaglia di Kobane sta assumendo un rilievo simbolico che ricorda quello di battaglie decisive in certe guerre del passato. Come Stalingrado. I curdi ce l’hanno soprattutto con il presidente turco Erdogan che non muove i carri armati, né permette ai curdi di attraversare il confine con la Siria per andare a salvare gli abitanti di Kobane. Ma la tragedia della città è, prima di tutto, il frutto degli errori degli occidentali, della loro passività, durata troppo a lungo, di fronte alla nascita e alle vittorie del Califfato. I bombardamenti americani hanno rallentato l’avanzata dei jihadisti ma, secondo lo stesso Pentagono, non basteranno né a salvare Kobane né a bloccare l’ulteriore espansione dello Stato islamico. Per fare quel lavoro occorrono le truppe di terra. Esattamente ciò che Obama non è disposto a impegnare.

Si scontano anche in questo caso gli effetti di una politica americana in Medio Oriente giudicata fallimentare da critici dello stesso campo democratico cui appartiene il presidente: dall’ex segretario di Stato e futura candidata alla presidenza Hillary Clinton all’ex segretario alla Difesa sotto Obama, Leon Panetta.

Il problema è che una coalizione di guerra contro lo Stato islamico che comprende le potenze sunnite dell’area è un’ottima cosa sulla carta ma non funziona o funziona male di fatto perché ciascuna di quelle potenze ha nella partita interessi e obiettivi propri, e la leadership americana è troppo debole e troppo poco credibile: non può imporre la coesione necessaria per ottenere decisive vittorie militari sul terreno. Non è nemmeno sicuro che le potenze sunnite coinvolte (la Turchia per prima) vogliano davvero spingersi fino a distruggere il Califfato. Intendono certamente colpirlo e fermarlo poiché si tratta di un fenomeno sfuggito di mano a tutti. Ma non è sicuro che vogliano anche distruggerlo se ciò significa regalare la vittoria ad Assad in Siria, consentire che il suo regime si perpetui. Mentre è certo, almeno dal punto di vista occidentale, che la sconfitta definitiva dello Stato islamico è necessaria non solo per stabilizzare la regione ma anche per spegnere gli entusiasmi che i suoi successi e la sua sanguinaria capacità mediatica hanno suscitato fra molti giovani sunniti in Medio Oriente, in Europa e altrove.

Non sembra neppure funzionare l’idea fin qui accarezzata (implicitamente) dalla Casa Bianca: quella di coinvolgere l’Iran con lo scopo non solo di sconfiggere lo Stato islamico, ma anche di costituire, in prospettiva, una sorta di «equilibrio di potenza» fra Stati sunniti e Stati sciiti sotto sorveglianza occidentale per assicurare stabilità al Medio Oriente. In linea di principio, favorire un simile equilibrio ridando rispettabilità e riconoscimento all’Iran, soprattutto attraverso l’accordo nucleare, sembrava, fino a qualche tempo fa (prima che emergesse la minaccia dello Stato islamico), una buona idea.

Oltre a tutto, è vero che l’Iran post rivoluzione del ‘79 ha spesso favorito movimenti e azioni terroriste ma è altrettanto vero che è stato nel mondo sunnita, non in quello sciita, che ha preso corpo ed è decollata, da Al Qaeda al Califfato, la grande guerra condotta simultaneamente contro l’Occidente, gli sciiti e i sunniti non coinvolti nella jihad . Ma quella che era forse un tempo una buona idea, un progetto praticabile, oggi non lo è più. Non solo la nascita del Califfato ha complicato enormemente il quadro ma, per giunta, quel progetto avrebbe richiesto, per funzionare, anche un coordinamento e una intesa fra le grandi potenze: in concreto, sarebbe stato necessario l’appoggio della Russia. Un’ipotesi che è definitivamente tramontata a causa della crisi ucraina.

Il Corriere ha ieri ospitato un interessante intervento di due politici italiani, Pier Ferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto, giustamente allarmati per gli sviluppi in corso e che proponevano il coinvolgimento dell’Onu per fermare lo Stato islamico. In queste ore, anche altri in altre capitali europee, consapevoli della debolezza dell’attuale coalizione di guerra, propongono soluzioni simili. C’è da temere, però, che quella non sia la strada. L’Onu può servire (come accadde nel 1991 durante la prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein) per dare copertura politico-diplomatica a una potenza americana dotata di volontà d’intervento e di strategia militare. Difficilmente può essere il surrogato o il sostituto di quella volontà e di quella strategia. Per dire che, sfortunatamente, non c’è alternativa a un impegno diretto degli Stati Uniti e a una loro ritrovata capacità di guidare e dare coesione alla coalizione di guerra.

L’Europa corre rischi grandissimi. Siamo sulla linea di tiro. Le ripetute minacce del Califfo all’Europa non sono sbruffonate. Nella sua tragicità la situazione è semplice: o i jihadisti verranno fermati in Medio Oriente o la guerra, prima o poi, ci raggiungerà. La principale ragione per cui ciò continua ad apparire inverosimile a tanti europei occidentali è semplicemente il riflesso dell’eccezionalità della storia europea dopo il ‘45, della felicissima anomalia (almeno fino alle guerre iugoslave) di un lunghissimo periodo di pace. Essi faticano a comprendere che la sicurezza europea, in questo come nei passati frangenti, dipende da due condizioni: la disponibilità di americani ed europei a coordinare i loro sforzi, e la presenza di una America i cui dirigenti possiedano la capacità e la volontà di esercitare la leadership.

Le nuove minacce alla sicurezza obbligano a rettificare molti giudizi del passato. Per anni, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, in tanti hanno pensato che America e Europa potessero felicemente andarsene ciascuna per la propria strada. Che l’Europa non sia in grado di farlo dovrebbe essere ormai evidente. La si osservi con attenzione. Qualcuno pensa che sia capace di difendersi da sola? Si guardi al disastro che è riuscita a combinare in Libia.

Ma anche gli Stati Uniti, come hanno sperimentato con la presidenza Obama, la meno interessata, rispetto a tutte quelle che l’hanno preceduta nell’ultimo mezzo secolo, a mantenere la «relazione speciale» con l’Europa, non hanno nulla da guadagnare da un indebolimento eccessivo del legame transatlantico. È forse dai tempi di Jimmy Carter (fine anni Settanta) che il prestigio e l’influenza degli Stati Uniti non cadevano così in basso. Bisogna sperare che il prossimo presidente abbia l’energia e la capacità di rovesciare la tendenza. Nell’attesa, è vitale che, in Medio Oriente soprattutto, gli occidentali (gli americani in primo luogo ma anche gli europei) la smettano di accumulare solo errori.

12 ottobre 2014 | 09:09
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_12/kobane-sotto-assedio-l-occidente-8e50c4dc-51d9-11e4-b208-19bd12be98c1.shtml
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