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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 158054 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Ottobre 10, 2013, 05:08:17 pm »

LA NUOVA LEADERSHIP DEL CENTRODESTRA

Due ostacoli per un’ambizione

Forse la domanda che oggi bisogna porsi per ragionare sul futuro della politica italiana è la seguente: quanto grande è l’ambizione di Angelino Alfano e del suo gruppo? Hanno davvero la volontà di guidare il centrodestra nel suo insieme nella fase post berlusconiana? Oppure hanno ambizioni molto più modeste: dare vita a una formazione neo-centrista - separando il proprio destino dai «lealisti» (come hanno scelto di chiamarsi coloro che non hanno condiviso lo strappo di Alfano)? Insomma, saranno i leader che rivitalizzeranno un centrodestra alternativo alla sinistra oppure, come li definisce perfidamente Giuliano Ferrara, sono solo un pugno di «ministeriali» interessati a tenere in piedi il governo, qualunque cosa esso faccia, con l’obiettivo di creare un partitino neo-democristiano per forza di cose obbligato a cercare punti di incontro con la sinistra?
Per capire, al di là delle dichiarazioni di facciata, quale sarà la strada che Alfano, Lupi, Quagliariello e gli altri imboccheranno, bisognerà osservarli in azione su certi temi. Ad esempio, ammorbidiranno la battaglia per la riduzione delle tasse? Come ha sostenuto Raffaele Fitto, i lealisti berlusconiani intendono condurre la lotta dentro il partito contro Alfano e i suoi, accusandoli di cedimento e subalternità alla sinistra. Se Alfano darà l’impressione che l’accusa sia fondata, le sue chance di guidare il centrodestra tutto in competizione con la sinistra si ridurranno drasticamente. Per un leader di destra la benevolenza o gli applausi della sinistra sono come il bacio della morte. Come testimonia la parabola di Gianfranco Fini. La dura replica di Alfano al premier Letta mostra che egli ne ha consapevolezza.
Un altro aspetto che bisognerà considerare riguarderà le scelte del gruppo Alfano in materia di riforma elettorale. Se l’ambizione del gruppo è limitata, esso finirà per lavorare sotto traccia (senza dichiararlo) per il ritorno della proporzionale. Perché la proporzionale è il sistema elettorale più adatto per favorire la formazione di un partito neo-centrista distinto da, e contrapposto a, i berlusconiani. Si consideri, per di più, che la proporzionale può fare gioco a molti: per esempio, a sinistra, favorirebbe il drastico ridimensionamento delle ambizioni di Matteo Renzi (con la proporzionale è più facile separare i ruoli di segretario e di premier).
Le mosse del gruppo Alfano sulla legge elettorale ne chiariranno la vera ambizione. Perché se il gruppo punterà su una riforma maggioritaria ciò significherà che l’ambizione è davvero grande: Alfano e i suoi dovranno giocarsi la partita del potere dentro il Pdl, e né loro né i lealisti avranno la tentazione di fare una scissione. Le scissioni pagano in regime di proporzionale, non di maggioritario. D’altra parte, in tutti i grandi partiti europei, di destra e di sinistra, coesistono correnti più centriste, pragmatiche, e correnti più estremiste o intransigenti. Perché il Pdl dovrebbe fare eccezione?
Fino a poco tempo fa Alfano era il delfino, era stato designato dal capo. Ciò non gli dava grandi chance elettorali. Ma adesso si è conquistato sul campo i galloni da leader mettendo in minoranza il capo. Il quale ultimo, peraltro, essendo un realista, difficilmente avrà voglia di rompere definitivamente con lui. Se non commetterà troppi errori, Alfano avrà la possibilità di giocarsi la futura partita elettorale con qualche possibilità di vittoria. Persino contro un Matteo Renzi. Ma, appunto, è una questione di ambizioni.

08 ottobre 2013
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Angelo Panebianco
Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_08/due-ostacoli-un-ambizione-e5d2d98c-2fd6-11e3-8faf-8c5138a2071d.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Ottobre 20, 2013, 11:30:27 pm »

LO STRANO SONNO DEL CENTRODESTRA

Gli statalisti trasversali

Circola in questi giorni un appello firmato da un gruppo di economisti — fra i quali Francesco Giavazzi che del tema si è già occupato sul Corriere — contro il nuovo statalismo, le azioni neo-protezioniste del governo Letta. I sottoscrittori fanno riferimento a tre interventi a gamba tesa del governo volti a bloccare gli investitori stranieri: l’operazione che ha portato la Cassa depositi e prestiti al pieno controllo di Ansaldo Energia, quella su Telecom Italia e, infine, la ristatalizzazione di fatto di Alitalia attraverso l’intervento delle Poste.
In tutti e tre i casi, anziché lasciare che il mercato seguisse il suo corso e che le suddette aziende venissero acquisite da investitori disposti a rischiarvi i propri soldi, si è scelta, cambiando le regole ex post, a giochi ormai aperti, la via statalista. Pessimi segnali inviati ai mercati da quello stesso governo che diceva di volere attirare capitali esteri, di voler far cambiare idea a coloro che non investono in Italia perché ritengono il nostro Paese inaffidabile. Le vicende di cui si occupa l’appello, peraltro coerenti con una lunga tradizione statalista, hanno di singolare il fatto che si devono all’azione non di un governo di sinistra ma di un governo ove la destra ha un peso pari a quello della sinistra. Che un governo di sinistra possa decidere interventi di tal fatta lo si può pure capire. Perché lo esigono i sindacati e perché, nei ranghi della sinistra, sono tanti quelli che continuano a preferire l’intervento pubblico alla libera competizione di mercato.
L’unico problema fastidioso davanti al quale può trovarsi la sinistra quando statalizza è che le può accadere di mettersi in urto con quella Europa di cui si considera la più fedele interprete italiana. Come sta accadendo nella vicenda Alitalia: è difficile dar torto agli inglesi mentre chiedono la condanna dell’Italia per violazione dei trattati in materia di concorrenza. Ma che dire della destra? Non toccherebbe a lei la più fiera difesa del mercato? Non toccherebbe alla destra contrastare le pulsioni stataliste della sinistra? E invece no. Queste operazioni si sono fatte col consenso e l’attiva partecipazione del Pdl. L’anomalia italiana è che in questo Paese non è statalista solo la sinistra.
Lo è anche la destra. Si può capire, naturalmente, che sulla vicenda Alitalia il Pdl abbia la coda di paglia e voglia in qualche modo coprire l’errore che, a suo tempo, venne commesso da Berlusconi quando sbarrò il passo a Air France, ma questo da solo non dovrebbe essere un buon motivo per razzolare in modo opposto a come si predica. Non ha molto senso battersi contro l’Imu o altre tasse e poi lasciare che l’intervento pubblico dilaghi. Poiché le tasse alte sono solo un sintomo, o l’effetto, di una presenza statale che non si sa contenere né ridurre. Prima di contrapporsi fra lealisti e ministeriali quelli del Pdl dovrebbero riflettere su che cosa vorranno proporre al Paese quando arriverà il momento di farlo. Il che implica anche una presa d’atto delle ragioni di fondo dei fallimenti dei governi Berlusconi, del fatto che le (troppe) parole spese sulla «rivoluzione liberale» non fossero accompagnate da atti in grado di dare davvero senso, e credibilità, a quelle parole. Piuttosto che sui gradi di fedeltà al capo sarebbe forse più sensato, per il Pdl, dividersi tra chi pensa che non ci siano autocritiche da fare e chi pensa che sia infine necessario cambiare registro.

19 ottobre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_19/gli-statalisti-trasversali-ef0dd322-3881-11e3-a22e-23aa40bc2aa7.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Novembre 04, 2013, 05:27:55 pm »

L’ ONDATA DI MALESSERE ANTI EUROPEO

Non basta dire no ai populisti


Nelle capitali europee è oggi allarme rosso: molti partiti antieuropeisti, secondo i sondaggi, potrebbero trionfare nelle prossime elezioni europee. In Francia, in Gran Bretagna, in Olanda, ma forse anche in Italia, in Austria e in altri Paesi ancora, gli antieuropeisti potrebbero ottenere più consensi dei partiti tradizionali. Il presidente del Consiglio Enrico Letta ha dato voce, nei giorni scorsi, alle preoccupazioni condivise da tutti i capi di governo. È probabile dunque che il prossimo Parlamento europeo sia fortemente connotato in senso antieuropeista. Bisognerà però fare la tara ai risultati, bisognerà ricordare che se quei successi ci saranno, si dovranno in larga misura alla astensione dei votanti che, normalmente, sostengono i partiti tradizionali. Bisognerà ricordare che quelle europee sono elezioni sui generis nelle quali manca la posta presente nelle altre elezioni, nazionali o locali: non si vota per influenzare la composizione del governo.

Ciò spiega quanto tradizionalmente accade nelle elezioni per il Parlamento europeo: gli altissimi tassi di astensione, e il fatto che chi va a votare lo faccia, molto spesso, più per tirare uno schiaffo al proprio governo nazionale che per un vero interesse per le questioni europee. Non bisognerà insomma commettere l’errore di vedere nei risultati delle consultazioni europee un’anticipazione di quanto in seguito accadrà nelle diverse elezioni nazionali. Fatta la tara, però, resta che una «grande abbuffata » antieuropeista è dietro l’angolo, attende di manifestarsi nelle europee di primavera. E resta il fatto che questa volta, gli strali avranno come bersaglio l’Unione più che i rispettivi governi nazionali (come invece accadeva in passato).

L’Europa è vittima del suo successo: poiché l’integrazione è andata molto avanti si è anche «politicizzata», è una questione che ora divide i cittadini dei Paesi membri. Naturalmente, il previsto forte successo degli antieuropeisti avrà conseguenze: obbligherà i partiti tradizionali, e i governi, a tenerne conto. Il modo in cui ne terranno conto inciderà sulle sorti del Continente negli anni a venire. La prima cosa da evitare sarà la criminalizzazione dei cittadini che voteranno contro l’Europa: gli elettori, in democrazia, non hanno mai torto. Il torto è sempre di coloro, le élite politiche, che non li hanno convinti delle loro buone ragioni (ammesso che avessero buone ragioni). Bisognerà anche evitare di esorcizzare l’ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passpartout (che non spiegano nulla) come il termine «populista ».

Questi partiti sono contro le élite esistenti? Certo che lo sono. Tutti i nuovi partiti, da quando esiste la democrazia, sono, per definizione, contro le élite esistenti. Altrimenti, come farebbero a calamitare consensi e ad affermarsi? Soprattutto, bisognerà riconoscere che la responsabilità dell’ondata antieuropeista ricade interamente sulle spalle di quelle élite che con le loro politiche e i loro errori l’hanno provocata. L’Unione Europea va ripensata. Bisogna prendere atto che le divisioni che l’attraversano sono ormai troppo profonde e che l’unico modo per non esasperarle ulteriormente è cambiare registro. È inutile, e controproducente, continuare a spendere vuota retorica a favore di una ipotesi di super Stato — gli Stati Uniti d’Europa — che probabilmente non nascerà mai e che, comunque, in questa fase storica, non interessa alla maggioranza degli europei.

Tanto vale ridefinire la direzione di marcia e piegare le istituzioni verso una più realistica e fattibile soluzione «con- federale» (le confederazioni, a differenza degli Stati federali, sono state assai frequenti nella storia umana). Ciò significa accettare che gli Stati europei man- tengano il controllo su quasi tutto tran- ne che su poche cose essenziali, le quali devono ricadere sotto l’autorità degli organi confederali. Occorre stipulare un nuovo «patto europeo», di netta im- pronta confederale. È assurdo, ad esempio, che non esista una vera politica europea per l’immigrazione (una materia questa sì vitale) mentre, in compenso, da decenni, si rompono le scatole ai cit- tadini dell’Unione sfornando infiniti regolamenti su questioni inessenziali e sulle quali gli unici titolati a metter becco dovrebbero essere gli Stati nazionali e i governi locali. Una soluzione confederale è compatibile con la moneta unica? Forse sì e forse no. Ma chi vuole mettere in sicurezza l’euro (e bisognerebbe fare il possibile per metterlo in sicurezza) ha l’onere di individuare soluzioni realisti- che, accettabili per i diversi Stati nazionali, rinunciando alle solite fughe in avanti, rinunciando a perorare l’idea di un impossibile Stato sovranazionale.

Forse, il vero salvataggio dell’Unione verrà alla fine dall’accordo per il libero scambio con gli Stati Uniti. Se oggi il più grave problema europeo, che alimenta tanta parte dell’antieuropeismo, è quel- lo di una Germania troppo potente economicamente (e quindi politicamente) perché gli altri, a torto o a ragione, non se ne risentano, diluire quella potenza entro una più vasta area economica integrata potrebbe alleviare, col tempo, le difficoltà. Può essere che l’ondata antieuropei- sta colpisca a morte l’Unione. Ma può anche essere che si tratti di una sfida sa- lutare. Le stanche élite europeiste potrebbero trovare la forza, il coraggio e l’immaginazione per fare i cambiamenti in grado di riconciliare gli europei con l’Europa.

04 novembre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_04/non-basta-dire-no-populisti-15c1fbca-451a-11e3-9115-48b024bd67ed.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Novembre 18, 2013, 10:21:00 pm »

PERCHÉ NON SIAMO CREDIBILI IN EUROPA

Dire molto per fare poco

La bocciatura, che però il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni nega essere tale, della nostra legge di Stabilità da parte della Commissione europea, è il segnale del cul de sac in cui ci troviamo, l’indice di un circolo vizioso che da molto tempo caratterizza il rapporto fra Italia e Europa: non siamo ritenuti affidabili, credibili, il che ci rende deboli nelle negoziazioni, ci toglie la forza che sarebbe indispensabile per strappare condizioni a noi più favorevoli.

Gettare la croce sul governo in carica è, per molti versi, ingiusto (anche se, in democrazia, è inevitabile: con chi altri prendersela?). Il governo è bloccato o procede a stento perché subisce un quotidiano bombardamento come effetto delle lotte per il potere che scuotono la sua divisissima maggioranza parlamentare. A dimostrazione del fatto che le Grandi Coalizioni possono funzionare relativamente bene solo se i partiti che le compongono sono organizzazioni coese, saldamente controllate dai loro leader. L’opposto di ciò che accade in Italia.

Si aggiunga il vincolo che pesa su tutti i governi italiani: le nostre istituzioni premiano i poteri di veto, non il potere di decisione. Da qui la tradizionale politica degli annunci: «Faremo questo, faremo quello». Poiché, in realtà, si può fare poco, poiché c’è sempre qualcuno che può porre veti (si veda cosa è successo appena il governo ha cercato di mettere mano ai conti della Sanità), i governi, anziché fare, devono limitarsi a promettere che faranno. Privatizzazioni? Spending review con quel che segue in termini di razionalizzazione della spesa? Riduzione delle tasse? Non ci crediamo noi. Perché dovrebbero crederci gli altri?

O si consideri il caso di Matteo Renzi, l’astro nascente. Se non gli gettano la proporzionale fra i piedi forse vincerà le prossime elezioni. Magari riuscirà anche a stravincerle. E si troverà a seguire le orme di Berlusconi: grandi maggioranze, scarsi risultati. Il nostro sistema politico-istituzionale è costruito per premiare la conservazione, non l’innovazione. Come ha scritto Adriano Sofri (sul Foglio del 16 novembre): chi parla di «Costituzione più bella del mondo» ne ha mai lette almeno due?

Il che ci porta al nostro rapporto con l’Europa. Romano Prodi ha lanciato una idea (Il Messaggero , 2 novembre) molto discussa. L’Europa, e l’Italia più di altri, hanno bisogno di politiche pro crescita. Ma la Germania - osserva Prodi - è irremovibile. Occorre un cambiamento nei rapporti di forza. Occorre una alleanza strategica fra Francia, Italia e Spagna che negozi con la Germania una rimodulazione della politica europea. Prodi ha ragione. Sulla carta, non c’è altra strada. Ma gli ostacoli sono formidabili. Dovuti alle condizioni di Francia e Italia. In Francia, un presidente ormai debolissimo, ai minimi storici di popolarità, difficilmente potrebbe trovare l’energia per dichiarare ufficialmente chiusa la stagione delle finzioni e delle illusioni: l’illusione, soprattutto, di potere ricostituire un giorno quell’asse franco-tedesco che, per decenni, diede alla Francia il ruolo di co-gestore della politica europea. Occorrerebbe un presidente assai più forte di Hollande per un così marcato cambio di strategia. E ci sono poi le strutturali debolezze dell’Italia di cui si è detto.
La cattiva notizia è che abbiamo necessità di costruire nuove alleanze in Europa ma non ne abbiamo la forza. La buona notizia, se così si può dire, è che, per lo meno, la storia è sempre imprevedibile, e magari ci sbagliamo.

18 novembre 2013
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Angelo Panebiancohttp://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_18/dire-molto-fare-poco-b6ce511a-5016-11e3-b334-d2851a3631e3.shtml
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« Risposta #214 inserito:: Novembre 29, 2013, 07:21:40 pm »

Gli ostacoli nella corsa di Renzi
Il dilemma del candidato

Matteo Renzi vincerà, con ogni probabilità, le primarie (aperte) dell’8 dicembre e diventerà così, ufficialmente, il leader del Partito democratico. Solo una bassa affluenza alle urne potrebbe ammaccarlo, offuscarne un po’ la vittoria. Renzi è anche il più probabile candidato premier del centrosinistra (Enrico Letta permettendo) alle prossime elezioni. E se il centrodestra rimarrà nel marasma in cui è, incapace di andare oltre Berlusconi, Renzi avrà ottime possibilità di uscirne vincitore e diventare capo del governo. Dunque, è giusto che su di lui, sulle sue parole e sulle sue azioni, si appuntino oggi le attenzioni di tutti.

Sulle sue capacità comunicative e sulla sua abilità tattica non c’è bisogno di spendere parole: sono evidenti. Non sembrano, peraltro, molto giustificate (almeno per ora) certe critiche che taluni gli rivolgono. Lo accusano di fumosità, vaghezza, inconsistenza programmatica, solo nascoste da una capacità di affabulazione superiore alla media. Ma in Italia la fumosità programmatica è il tratto dominante di tutti i discorsi politici. Perché gettare la croce sul solo Renzi? Si dice che stia mettendo a punto le linee guida di una proposta programmatica volta al rilancio della crescita economica e che potrebbe ottenere il favore degli industriali. Staremo a vedere.

È difficile giudicare un politico soprattutto dalle sue promesse. Bisogna aspettare di vedere cosa succede quando egli passa dal dire al fare. Per ora, di concreto, Renzi ha fatto soprattutto due cose: si è esposto a favore delle dimissioni del ministro nel caso Cancellieri e ha preso una posizione netta contro le manovre volte a rimettere in vigore una legge elettorale proporzionale.

Poiché un politico abile non fa nulla a caso, erano evidenti gli obiettivi che Renzi si proponeva nella vicenda Cancellieri: mettere in difficoltà il governo Letta, mandare un messaggio critico al presidente della Repubblica, e stipulare un’intesa con forze che, per mandare all’aria il governo, avevano puntato tutto sulle dimissioni del ministro. Quanto al contenuto, Renzi, per dare un po’ di concretezza alla sua azione politica, avrebbe forse dovuto cercare un altro terreno di gioco: non c’era stato nulla di penalmente rilevante nell’azione del ministro e, per giunta, la Cancellieri si era scusata in Parlamento per l’ingenuità e l’inopportunità di certe sue parole. L’accanimento era sospetto. Tanto più che Renzi, in questo modo - proprio lui che con quelle cose non c’entra - si è ritrovato a braccetto di pessime compagnie, con i più collaudati esperti di linciaggi e di giustizia sommaria. Per non sentirti imbarazzato a causa della fiducia che (giustamente, secondo chi scrive) mantieni per un sindaco a te vicino raggiunto da un avviso di garanzia, dovresti teneri sempre alla larga da quelle pessime compagnie.

Nella vicenda Cancellieri colpiva soprattutto, di Renzi, l’assordante silenzio sul vero scandalo (a cui peraltro siamo assuefatti da tanti anni), segno, questo sì davvero, di decadenza morale: la divulgazione di intercettazioni come mezzo di lotta politica e processi mediatici. È stato il silenzio di Renzi su questo aspetto a far pensare che egli abbia colto l’occasione del caso Cancellieri per cercare un’alleanza con gruppi interessati a che quest’andazzo non abbia mai fine. È facile, non costa niente, parlare della necessità di riformare la giustizia. È meno facile aggredire nodi che troppi interessi vogliono mantenere aggrovigliati. L’altro tema su cui Renzi si è molto speso è la questione della legge elettorale. Forse oggi Renzi è l’unico leader importante che voglia davvero impedire il ritorno alla proporzionale. Chi pensa che il suo personale interesse al varo di una legge maggioritaria coincida con l’interesse del Paese, non può, su questo punto, che tifare per lui. Renzi però deve fronteggiare un dilemma. Una buona legge maggioritaria (ammesso, e non concesso, che egli riesca ad ottenerla) non basta per dare al Paese un buon governo. È una condizione necessaria, ma non sufficiente. Senza una riforma costituzionale che, per lo meno, superi il bicameralismo simmetrico (due Camere con uguali poteri) e dia qualche strumento di azione in più al primo ministro, un governo efficace ed efficiente non è possibile. Anche con una buona legge elettorale Renzi (come chiunque altro), in assenza di interventi sulla Costituzione, rischia domani di fallire nella azione di governo, pur disponendo, eventualmente, di una larga maggioranza parlamentare. Il governo si è impegnato per ottenere il varo, in tempi relativamente rapidi, di alcune indispensabili riforme costituzionali. Servirebbero, in prospettiva, anche a Renzi. E difatti egli ha dichiarato di volerle. Però, se quelle riforme arrivassero davvero in porto, si rafforzerebbe anche la posizione politica di Enrico Letta, il suo vero rivale. Da qui il dilemma. Osservando come si muoverà Renzi in questa cruciale partita capiremo se, capacità comunicative a parte, egli ha anche stoffa e qualità di statista.

26 novembre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_26/dilemma-candidato-0e39fc2c-5663-11e3-9a32-8b8b5da15961.shtml
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« Risposta #215 inserito:: Dicembre 11, 2013, 11:46:55 am »

Un leader moderno, insidie antiche
Il segretario e i suoi nemici

Un anonimo sostenitore di Gianni Cuperlo, commentando il trionfo di Matteo Renzi, ha detto ai cronisti, mestamente: «Oggi il Pci è davvero finito. Sepolto». Beh, sepolto no, e morto nemmeno, ma forse agonizzante. Se il contesto in cui il neosegretario dovrà muoversi fosse diverso da quello che è, se non ci fosse ripiombata addosso, grazie alla Consulta, persino la proporzionale con le preferenze, anche chi scrive farebbe sua (con un diverso spirito) l’affermazione di quell’anonimo. Ma il contesto è tale, e la connessa palude è così insidiosa per Renzi, che l’agonia del vecchio partito, dichiarato morto vent’anni fa ma vissuto clandestinamente fino a oggi (perché vivo nella coscienza di tanti militanti nonché in certe istituzioni di partito arrivate, quasi inalterate, fino a noi) potrebbe prolungarsi a lungo. Così a lungo da logorare il nuovo leader carismatico. Apparentemente, sulla carta, la vittoria a valanga di Renzi nelle primarie aperte cambia la natura del Pd: da partito degli iscritti a partito degli elettori (storicamente, le due principali modalità di organizzazione partitica). Renzi dovrebbe essere così generoso da ringraziare pubblicamente chi gli fece da battistrada: Walter Veltroni, primo segretario del Pd, colui che almeno tentò, non riuscendoci, di fare una operazione simile.

Renzi, come ha osservato Antonio Polito sul Corriere di ieri, dovrà cambiare la «macchina» e impadronirsi dei gruppi parlamentari (creature, per lo più, dell’apparato antirenziano) e dovrà farlo fronteggiando, contestualmente, le quotidiane esigenze della politica politicienne : tallonare il governo, rintuzzare gli attacchi degli avversari esterni, eccetera. Ma condizione indispensabile perché riesca a fare politica (o almeno la politica che egli dice di voler fare) è che riduca il partito ai suoi voleri, superando e sconfiggendo sia le adesioni insincere che arrivano a valanga (l’effetto bandwagoning , saltare sul carro del vincitore) sia le resistenze più o meno passive che si manifesteranno.

Sarà interessante soprattutto vedere come Renzi affronterà una questione per lui cruciale, quella dell’«oro del Pci» (il patrimonio immobiliare del vecchio partito). L’Italia è un curioso Paese nel quale può accadere che i beni di chi è stato dichiarato ufficialmente defunto non passino agli eredi, come ci si aspetterebbe, ma vengano invece messi «al sicuro» in qualche Fondazione, in attesa di non si sa che cosa. Renzi ha due ottime ragioni per affrontare la questione. Se non ne viene a capo non potrà sconfiggere definitivamente il vecchio partito di apparato. E non potrà tenere fede all’impegno di abolizione (vera) del finanziamento pubblico ai partiti. Si ritroverebbe al verde o quasi. Le donazioni che affluirebbero dai suoi sostenitori probabilmente non gli basterebbero. E con pochi soldi è difficile fare politica.

La difficoltà più grave, naturalmente, è data dal fatto che un partito degli elettori, per prosperare, per dispiegare davvero la «vocazione maggioritaria», ha bisogno di un contesto esterno fondato su una logica, appunto, maggioritaria, non proporzionale. Con la proporzionale sguazzano soprattutto i partiti (oligarchici) degli iscritti, quelli in cui la difesa dell’identità fa premio sulla ricerca di nuovi consensi, non i partiti (carismatici) degli elettori.

I nemici di Renzi, sia interni al partito che esterni, sanno bene cosa dovranno fare per logorarlo e, infine, batterlo: conservare gelosamente l’insperato regalo che ha fatto loro la Corte costituzionale.

10 dicembre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_10/segretario-suoi-nemici-0960d81e-6163-11e3-9835-2b4fbcb116d9.shtml
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« Risposta #216 inserito:: Gennaio 02, 2014, 03:11:10 pm »

Il peso dello stato corporativo
Maggioranze inconfessabili

Non è difficile spiegare perché la legge di Stabilità varata dal governo sia così tragicamente inadeguata (Alberto Alesina sul Corriere di ieri), perché non sia possibile rilanciare la crescita mediante un percorso virtuoso di tagli alla spesa e di riduzione della pressione fiscale. Accade perché interessi, tradizioni culturali, e regole del gioco fanno sinergia e remano contro, impediscono che lo «Stato corporativo» venga scalfito.

La maggioranza bipartitica che si è formata sulla questione delle aziende municipalizzate a Roma dice, a proposito di Stato corporativo, tutto ciò che c’è da sapere. Qui non si vuole infierire su Berlusconi o sull’onorevole Brunetta ma è stato uno dei loro, il senatore di Forza Italia Francesco Aracri (un originale interprete della Rivoluzione liberale), a proporre l’emendamento che dà ai sindacati il potere di veto sui licenziamenti nelle municipalizzate di Roma. E nemmeno si vuole infierire su Matteo Renzi ma sono stati i suoi a votare l’emendamento del suddetto senatore mentre veniva respinta (per veto Cgil) una proposta di Linda Lanzillotta che andava nella direzione opposta (Sergio Rizzo, Corriere di ieri a pagina 5).

Fossi al posto di Enrico Letta , che è uomo colto e intelligente, anziché difendere l’indifendibile, spiegherei al Paese perché qui da noi ciò che ci si propone inizialmente di fare — vedi la parabola tragicomica della spending review — non può essere fatto (da nessuno: Renzi se ne accorgerà presto), le ragioni per cui è al di là delle umane capacità innescare in Italia un percorso virtuoso di sviluppo. Potenza delle lobbies che, in Parlamento, nell’amministrazione, negli enti locali (i sindaci vogliono soldi ma si guardano bene dal mettere le mani nelle municipalizzate in deficit), negli organi della giustizia amministrativa, stanno a guardia della spesa pubblica? Certamente. Forza di una tradizione culturale che avalla e legittima l’azione delle suddette lobbies? Sicuro. Regole del gioco, costituzionali e non, costruite per impedire inversioni di marcia? Detto e ridetto.

Sostengono i cantori dello Stato corporativo che così si tutela la pace sociale. Ma il punto è che quando tali pratiche diventano incompatibili con lo sviluppo (e oggi lo sono), e l’impoverimento del Paese avanza inesorabilmente, finisce per gonfiarsi l’esercito dei non tutelati, o dei non più tutelabili, e, alla fine, anche la pace sociale viene meno. A causa della rivolta, e dell’assedio, degli esclusi. Dopo le elezioni della primavera scorsa e l’impasse politico che ne seguì, per un breve momento, sembrò entrata nella consapevolezza dei più l’idea che occorresse cambiare le regole del gioco, sbarazzarsi di ciò che di sbagliato o inadeguato c’è nella Costituzione del ’48. È tutto già finito. E si capisce: con una Costituzione diversa, i governi italiani potrebbero disporre di una forza simile a quella che detengono i governi delle altre grandi democrazie europee. Ma il partito trasversale della spesa e delle tasse non può accettarlo. Le regole del gioco attuali lo proteggono. Con altre regole potrebbe, un giorno, essere sfidato o minacciato. Peter Praet, capo economista della Bce (su La Stampa di ieri) dice che siamo stati bravi, abbiamo messo sotto controllo i conti. C’è solo — egli nota — il piccolo dettaglio che lo abbiamo fatto a colpi di tasse anziché di tagli. Moriremo per asfissia da tasse ma con i conti (forse) in ordine. Sono soddisfazioni.

23 dicembre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_23/maggioranze-inconfessabili-bc05a31c-6b97-11e3-82ae-77df18859bd6.shtml
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« Risposta #217 inserito:: Gennaio 04, 2014, 04:27:35 pm »

Il Nord tra Lega, Berlusconi e Pd
Una questione non risolta

 
Cosa succederà alla rappresentanza politica del Nord? Chi raccoglierà il testimone dalle mani, oggi esauste, dei movimenti che quella rappresentanza si sono intestati negli ultimi venti anni?

Ciò che chiamiamo Seconda Repubblica è stata molte cose ma, certamente, anche un tentativo, alla fine non riuscito, di spostare verso il Nord il baricentro politico del Paese, di dare all’Italia una egemonia politica «nordista». Un tentativo non riuscito, sia per i limiti (culturali e di visione politica, prima di tutto) dei movimenti che ne sono stati protagonisti, sia per le resistenze efficacemente opposte dagli altri territori e da coloro che, nelle istituzioni, dall’amministrazione alle magistrature, non intendevano subire quella egemonia.

I limiti culturali sono stati diversi e gravi. La Lega ha sempre oscillato fra un secessionismo velleitario e un sindacalismo territoriale teso solo a trattenere nei luoghi da essa controllati il massimo della ricchezza prodotta. Il tutto condito con un «pan-politicismo» (la pretesa di fare della Lega il centro della vita comunitaria; il rifiuto di privatizzazioni e liberalizzazioni per non perdere il controllo sulle risorse locali) che poteva soddisfare solo le esigenze dei ceti sociali che alla politica chiedono protezione. Uno stile e una cultura politica che erano in conflitto con le domande della parte più dinamica della società del Nord, quella non attratta dagli ideali comunitari leghisti, e che chiedeva più libertà dai lacci politici e burocratici, nazionali e locali. Non è un caso che la Lega, conquistata Milano, e subito perduta, nei primi anni Novanta, non sia mai più riuscita a sfondare nelle grandi città del Nord.

La domanda della parte più dinamica del Nord venne invece intercettata da Berlusconi, il Berlusconi del ‘94. Ma, poi, diventata Forza Italia partito nazionale, capace di fare il pieno elettorale sia in Lombardia che in Sicilia o in Campania, la sintesi fra interessi così contrastanti non venne neppure tentata. Alla sintesi, che impone comunque scelte, si preferì la sommatoria di domande eterogenee e in conflitto. Con il risultato di scontentare sia il Nord (cui veniva promessa e poi negata una maggiore libertà dallo Stato) sia il Sud (cui non veniva offerto un serio progetto di sviluppo e la speranza di una emancipazione, almeno parziale, dalle storiche tare). Né, soprattutto, Berlusconi fu in grado di riformare lo Stato coerentemente con le esigenze dei ceti e dei territori di cui, in via prioritaria, aveva assunto la rappresentanza.

Oggi la questione settentrionale è di nuovo aperta. Chi raccoglierà il testimone? Potrebbe essere Matteo Renzi? Effettivamente, Renzi ha fin qui dato l’impressione di cercare l’incontro con la parte economicamente più dinamica del Paese. Inoltre, può contare su una fitta rete di sindaci che conoscono bene i territori, dall’Emilia Romagna in su. Però è anche vero che Renzi ha preso la guida di un partito tradizionalmente «romano-centrico», il contrario di ciò che servirebbe per entrare in sintonia con il Nord nel suo insieme. È da vedere se riuscirà a cambiarlo. Ma per ora non sembra.
La cosiddetta Seconda Repubblica ha fallito per un complesso di circostanze, compresi i limiti dei suoi protagonisti. Ma il principio non era sbagliato. Serve alla crescita, anche civile, di un Paese che primato economico-territoriale ed egemonia politica coincidano. Speriamo che il prossimo tentativo, se ci sarà, non abbia gli stessi difetti del precedente.

02 gennaio 2014
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_gennaio_02/questione-non-risolta-444743f0-7374-11e3-8c6d-871530ae059d.shtml
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« Risposta #218 inserito:: Gennaio 14, 2014, 05:23:02 pm »

L’accoglienza e la convenienza
Troppe ipocrisie sugli immigrati

La richiesta di Matteo Renzi di inserire la riforma della Bossi-Fini fra i temi del contratto di governo, al di là delle motivazioni del neosegretario del Pd, potrebbe essere una occasione da cogliere per dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione. Dobbiamo solo limitarci a tamponare e contenere i flussi migratori o abbiamo bisogno di interventi più attivi e, soprattutto, più selettivi? Una domanda che diventa possibile se ci si lascia alle spalle le ambiguità e le ipocrisie che hanno fin qui dominato il campo. Le ambiguità dipendono dal fatto che sembriamo incapaci, a causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza (il dovere di accogliere i meno fortunati di noi)? Troppo spesso i due criteri vengono mescolati, l’immigrazione viene giustificata alla luce di entrambi. Se non che, si tratta di criteri fra loro in contraddizione. Ne deriva l’impossibilità di formulare proposte coerenti.

Le ragioni della convenienza sono note: abbiamo bisogno di contrastare l’invecchiamento della popolazione, abbiamo bisogno - almeno se la ripresa economica, come si spera, prima o poi arriverà - di forza lavoro aggiuntiva e di nuovi consumatori. Ma a queste ragioni, ispirate alla convenienza, ne vengono sovente aggiunte altre di diversa natura, di ordine umanitario (le ragioni dell’accoglienza). I piani si confondono rendendo impossibile fare scelte razionali. L’appello all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici (ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati. È la confusione fra il messaggio evangelico e la politica, fra l’universalismo della Chiesa, che parla a tutti gli uomini, e l’inevitabile particolarismo dello Stato che risponde a un insieme definito di contribuenti.

L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della «scarsità »: quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo? Quante risorse possiamo mettere a disposizione dell’accoglienza se la vogliamo decente? A chi e a quali altri compiti toglieremo queste risorse?

L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o «meschino» possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza , della nostra convenienza . Una volta adottato con franchezza ci consente di porci il problema - che altri Stati si sono già posti - di come selezionare gli immigrati. È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali caratteristiche, con quali eventuali competenze? Oggi il problema forse non si pone data l’elevata disoccupazione intellettuale giovanile (che resta grave, anche facendo la tara alle statistiche ufficiali che, fraudolentemente, imbarcano fra i disoccupati anche gli studenti).

Però, domani potremmo avere bisogno di importare mano d’opera qualificata, per esempio in settori tecnici lasciati sguarniti dai nostri giovani. In quel caso, una politica dell’immigrazione lungimirante cercherebbe di attirare quel tipo di mano d’opera a scapito di altri tipi. Considerando inoltre che un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa mano d’opera non qualificata. Oltre una certa soglia, non può assorbirla nei mercati legali, finendo così per favorire quelli illegali, gestiti dalla criminalità. Un effetto collaterale di una politica ispirata alla convenienza è che faremmo star bene anche gli immigrati che accogliamo.

E poi ci sono altre considerazioni che dovrebbero entrare nelle valutazioni di chi decide la politica dell’immigrazione. Per esempio, certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico. Quanto meno, questo dovrebbe essere un legittimo tema di discussione.

Una politica realistica, fondata sulla convenienza, si dovrebbe insomma porre problemi di scelta, di selezione (da monitorare e rivedere nel tempo, alla luce dell’esperienza). Non si tratta di inventare nulla. Altri Paesi hanno già imboccato questa strada.

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13 gennaio 2014

ANGELO PANEBIANCO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_13/troppe-ipocrisie-immigrati-feb5ed34-7c18-11e3-bc95-3898e25f75f1.shtml
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« Risposta #219 inserito:: Febbraio 03, 2014, 04:43:31 pm »

ISTITUZIONI E VITA QUOTIDIANA
Mediare sempre, decidere mai

È perfettamente comprensibile che tanti cittadini non colgano il legame che esiste fra ciò che accade e, presumibilmente, accadrà alle loro vite o a quelle dei loro figli, e questioni «astruse» come la legge elettorale o i propositi di riforma della Costituzione. Essi pensano che tali questioni siano di interesse solo per i politici di professione, per i giornalisti e per gli esperti accademici di istituzioni. Molti ritengono anche che occuparsi di riforme elettorali e costituzionali sia, per i politici, una sorta di alibi, un modo per eludere i problemi «veri»: l’occupazione, il reddito delle famiglie, eccetera. Se è comprensibile che essi non vedano quel legame è anche un fatto che si sbagliano. Le due cose sono collegate.

Il problema italiano, quello che ci impedisce di porre le condizioni per il rilancio dell’economia, è l’immobilismo decisionale, il fatto che non sappiamo attuare quei radicali interventi che ci permetterebbero di affrontare con più ottimismo il futuro. Ma quell’immobilismo non è effetto del caso né, come vuole la vulgata anti-politica, dell’inadeguatezza dei nostri uomini di governo. Non è vero che i politici britannici o spagnoli o tedeschi, siano, mediamente, migliori dei nostri: i politici si assomigliano un po’ tutti. L’immobilismo, e le risposte inadeguate che diamo ai problemi (si veda, ad esempio, ciò che ha scritto Francesco Giavazzi sulla privatizzazione delle Poste, Corriere del 29 gennaio), sono conseguenze della frammentazione politica, del fatto che qualunque decisione debba passare attraverso infinite mediazioni, e si scontri con un grandissimo numero di veti. E la frammentazione è appunto figlia di un sistema istituzionale che, dopo averla generata, la perpetua.

Non faremo mai gli interventi che servono per avere di nuovo crescita economica e dare così un futuro ai nostri figli se non riusciremo a ridurre drasticamente la frammentazione, se non riusciremo a tagliare le unghie ai tanti poteri di veto che oggi ci paralizzano, se non disporremo di una democrazia capace di decidere. Sta precisamente qui il legame fra la questione istituzionale e la vita di ogni giorno delle persone. L’immobilismo condanna il Paese alla decadenza e l’unico modo per uscire dalla trappola è fare quei cambiamenti istituzionali che possano rimettere in funzione il motore imballato.

Se a molti cittadini sfugge quel legame, esso però non è mai sfuggito a coloro che resistono attivamente a qualunque cambiamento istituzionale di una qualche serietà. C’è, e c’è sempre stata, una sovrapposizione quasi perfetta fra gli adepti di quello che potremmo definire il «partito trasversale del socialismo reale» (all’italiana) e i cantori della «Costituzione più bella del mondo». Sono in realtà, più o meno, le stesse persone. Quelli che «la spesa pubblica non si tocca», quelli che «le tasse alte non sono un problema», quelli che «il mercato del lavoro non si tocca», eccetera eccetera . Sono gli stessi che difendono l’assetto istituzionale vigente, e la frammentazione che esso contribuisce a perpetuare. Essi difendono in realtà il proprio potere di veto, la propria capacità di impedire che l’immobilismo abbia termine.

È vero, in venti e passa anni di discussioni sulle questioni istituzionali abbiamo abbondantemente annoiato i cittadini mettendo in competizione tante proposte di riforma elettorale o costituzionale, alcune delle quali, peraltro, davvero astruse. Ma si consideri che gli obiettivi sono sempre stati gli stessi: ridurre la frammentazione, indebolire i poteri di veto, dare ai governi maggior potere decisionale. Non importa il colore del gatto purché acchiappi il topo. Non importa che si segua la via britannica o quella spagnola o quella francese. Non conta insomma il «modello costituzionale» a cui ci si ispira. Importa che i succitati obiettivi vengano, in un modo o nell’altro, raggiunti.

La legge elettorale oggi in discussione, in virtù dell’accordo fra Renzi e Berlusconi, non è certo la migliore possibile ma è, a quanto pare, il massimo che si possa realisticamente realizzare nelle condizioni politiche attuali. Se porterà con sé anche la riforma del Senato e la fine del bicameralismo simmetrico o paritetico, l’accordo suddetto avrà comunque dato un significativo contributo alla riduzione della frammentazione e all’indebolimento, almeno parziale, dei tanti poteri di veto. Vedremo se ciò basterà per lottare, finalmente ad armi pari, con il partito immobilista, con il partito del socialismo reale. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per svoltare, per fermare il declino.

02 febbraio 2014
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_02/immobilismo-politica-frammentazione-istituzioni-panebianco-21b4a544-8bd9-11e3-a29b-8636964bc663.shtml
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« Risposta #220 inserito:: Febbraio 24, 2014, 07:15:00 pm »

Governo, quattro punti critici
Il velocista e il pachiderma

A dispetto dei santi? Può un uomo, tutto da solo, «battere» il sistema, imporre le innovazioni necessarie là dove ogni istituzione che conta è costruita per premiare l’immobilismo? Benché l’espressione «un uomo solo al comando» sia suggestiva e sia stata utilizzata da molti per commentare l’ascesa politica di Renzi, bisogna riconoscere che è sbagliata. Non ci può essere nessun «uomo solo al comando» per la semplice ragione che manca il luogo del comando. Palazzo Chigi non lo è e non lo è mai stato. Tutti incrociamo le dita e speriamo che Renzi ce la faccia ma non è realistico sottovalutare gli ostacoli. Anche quelli nuovi, che si sono aggiunti con le scelte sulla composizione del nuovo governo. Una volta fatti gli apprezzamenti di rito per le novità, giovinezza, eccetera, eccetera, non si possono non considerare anche i problemi.

Ci sono almeno quattro punti critici. Il primo riguarda il fatto che il varo della legge elettorale è, nella sostanza, rinviato sine die. Si aspetta (fiduciosi?) la riforma del Senato. E siamo già tutti curiosi di vedere come reagiranno i senatori il giorno in cui saranno davvero chiamati a votare a favore del proprio suicidio collettivo. Senza parlare del prezzo che, al momento buono, Renzi dovrà pagare ad Alfano in materia di soglie di sbarramento. Il cosiddetto Italicum, il progetto di riforma elettorale del patto Renzi-Berlusconi, non è di per sé un granché ma si può scommettere che sarà ancora più brutto quando e se arriverà in porto.

Il secondo punto critico riguarda il governo dell’economia. Il governo Renzi sarà in realtà il governo Renzi-Padoan, come è giusto che sia. I due però dovranno, prima di tutto, imparare a conoscersi. Un uomo del valore di Pier Carlo Padoan sarebbe sicuramente un eccellente ministro dell’Economia in un governo di sinistra legittimato come tale dal voto elettorale. Ma dovrà svolgere il suo compito in un esecutivo che ha una diversa origine e nel quale Renzi deve fare il funambolo fra sinistra e destra, cercando continuamente di scompaginare i diversi fronti. E poiché Padoan si è in passato espresso a favore della patrimoniale, sarebbe consigliabile che il tandem Renzi-Padoan escludesse subito, solennemente, qualunque nuova forma di aggressione fiscale in un Paese già massacrato dalle tasse, impegnandosi a puntare tutto sulla riduzione della spesa. Scordatevi, altrimenti, la ripresa della domanda interna. La classe media continuerà ad avere paura dei governi e i consumi a languire.

Il terzo punto critico riguarda i rapporti fra l’Italia e il mondo. Non appaiono affatto convincenti la sostituzione di Emma Bonino agli Esteri e l’allontanamento di Enzo Moavero Milanesi, ministro agli Affari europei nel governo Letta. Per quanto riguarda la Bonino è ingeneroso addossare a lei la responsabilità per la questione dei marò (ai quali, giustamente, come primo atto del suo governo, Renzi ha telefonato), frutto dei pesantissimi errori dei suoi predecessori; e fare finta che non abbia guidato con intelligenza il ministero in diverse situazioni complesse e critiche. Soprattutto, quella sostituzione rivela una grave e preoccupante sottovalutazione, da parte di Renzi, del rapporto fra politica e burocrazia. Se puoi disporre di un ministro degli Esteri di vasta e vera competenza, ma al suo posto metti una persona, magari eccellente, ma non altrettanto esperta, vuol dire che stai deliberatamente consegnando la guida politica del ministero alla burocrazia del medesimo. Per un bel po’ saranno gli alti gradi della Farnesina, non il ministro, a decidere su tutti i dossier aperti.

Stesso discorso vale per Moavero. A detta di tanti osservatori ha lavorato assai bene, e sarebbe stato di grande utilità per Renzi, uomo privo, a differenza di Enrico Letta, di esperienza europea. Per farsi valere nell’Unione occorrono competenze e relazioni. Lì, i discorsi brillanti non impressionano nessuno.
E c’è, infine, il problema dei problemi: la burocrazia. Se non si sottomette il pachiderma, se non gli si fa capire chi comanda, nessuna innovazione è possibile. E il pachiderma è da tanto tempo abituato a schiacciare con le sue zampe chiunque si faccia venire la bizzarra idea di comandarlo. Come hanno scritto Alesina e Giavazzi (Corriere del 21 febbraio), o si impongono cambiamenti nell’alta dirigenza dei ministeri o il fallimento del governo è garantito. Aggiungo che va affrontato anche il problema delle magistrature amministrative (Corte dei conti, Consiglio di Stato), cani da guardia della burocrazia così come è. Ma per metter mano a una questione di tale complessità la volontà politica (ammesso che ci sia) non basta. Deve essere sostenuta da eccezionali competenze tecniche (e guai se sono competenze solo giuridiche: non se ne può venire a capo). Forse, e ce lo dobbiamo augurare, nel governo Renzi tali competenze ci sono, magari nascoste da qualche parte, e verranno fuori. Al momento, però, è lecito avere qualche dubbio.

Forse suona disdicevole alle orecchie dell’Italia bacchettona del politicamente corretto ma la vera ragione per cui Renzi è piaciuto a tanti è che si tratta di un giocatore di poker coraggioso e spregiudicato. È come uno di quei giocatori professionisti a cui tante altre persone, fidandosi della sua abilità, danno i soldi per fare una partita. È come se, premiandolo nei sondaggi, tanti italiani gli avessero affidato i propri risparmi. E lui se n’è servito fino ad ora facendo rilanci su rilanci. Adesso, è arrivato il momento di vedere le carte. Se il punto risulterà alto, bene per tutti. Se era solo un bluff, poveri noi.

23 febbraio 2014
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ANGELO PANEBIANCO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_23/paneibanco-renzi-velocista-pachiderma-7e43a82a-9c58-11e3-bf70-ea8899950404.shtml
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« Risposta #221 inserito:: Marzo 19, 2014, 12:06:48 pm »

Ragioni e rischi della rottura renziana
Non si vive di belle parole

di Angelo Panebianco

L’affermazione del presidente del Consiglio secondo cui se a maggio non ci saranno i soldi in più promessi nelle buste paga per effetto della manovra Irpef, allora egli sarà da considerare un buffone, è sembrata a molti la conferma di quanto azzardato sia il suo gioco politico. Ma è forse possibile una diversa interpretazione: quella frase irrituale svela quale sia il vero punto di forza di Renzi. Egli ha intercettato e correttamente interpretato un grande cambiamento (positivo) che si è verificato negli atteggiamenti dell’opinione pubblica. Il fatto è che ormai non è più possibile abbindolare nessuno: nessuno si fida più, non solo degli annunci, ma nemmeno - finalmente! - delle decisioni formalmente e ufficialmente prese da governi e Parlamenti. «Pagare moneta, vedere cammello» è ora l’atteggiamento dominante nell’opinione pubblica.

Fino a poco tempo fa il sistema funzionava così: veniva annunciato un nuovo, meraviglioso, provvedimento. I media, per lo più, lo presentavano come cosa già fatta. Dopo qualche tempo arrivava, se arrivava, la decisione, con i crismi del decreto legge o magari (ma doveva passare molto più tempo) con quelli della legge votata dal Parlamento in pompa magna. Già lì c’era la prima doccia fredda: gli addetti ai lavori scoprivano che fra il provvedimento annunciato e quello varato c’era un grande scarto. Ma questa informazione arrivava attutita all’opinione pubblica. E la cosa non finiva lì. Dopo, scattava il complicatissimo iter burocratico dell’attuazione durante il quale il provvedimento veniva ulteriormente triturato e, spesso, pervertito. Gli scopi iniziali venivano sovente abbandonati e sostituiti tacitamente da altri. Alla fine della fiera, e dopo parecchi mesi, i soliti addetti ai lavori scoprivano che il provvedimento non aveva sortito alcun effetto oppure solo effetti negativi: niente che assomigliasse, neppure alla lontana, alle meravigliose novità a suo tempo annunciate. L’opinione pubblica, ormai distratta da altro, neppure veniva a saperlo.

Adesso, anche i sassi sanno che non bisogna fidarsi: che non bisogna guardare solo alle decisioni che vengono prese ma aspettare di vedere quale ne sarà la attuazione, ciò che conta davvero. Perché questo cambiamento dell’atteggiamento dell’opinione pubblica è positivo? Perché apre la possibilità di imporre anche in Italia ciò che gli anglosassoni chiamano accountability: sei responsabile di ciò che mi prometti e ti giudicherò non per le promesse ma per i fatti che seguiranno, o non seguiranno, alle promesse. E ciò, oltre alla politica, potrebbe finalmente mettere sotto scopa anche «l’infrastruttura amministrativa» (burocrazia e giustizia amministrativa), il cui malfunzionamento è il male più grave da cui è afflitto il Paese. Accountability significa che l’epoca delle furbizie volge forse al tramonto.

Certo, gli umori del Pae-se potrebbero cambiare di nuovo. L’opinione pubblica potrebbe tornare ad essere ciò che è sempre stata: un impasto di apatia, credulità e voglia di ribellione, unite a ignoranza e disinteresse per i veri meccanismi che condizionano le scelte pubbliche. Ma è già tanto che la «politica degli annunci» non incanti più nessuno e che, inoltre, si sia diffusa la consapevolezza che ciò che blocca il Paese sta nell’intreccio fra una politica impotente e una infrastruttura amministrativa che opera al servizio di se stessa. È questo il vero punto di forza di Renzi. È la più potente arma di ricatto di cui dispone per mettere in riga le lobby parlamentari e la burocrazia a tutti i livelli: tutti quelli che, se si profila all’orizzonte una innovazione, si mettono subito al lavoro per neutralizzarla, distorcerla, edulcorarla. E che fino ad oggi, sfruttando cavilli e procedure complicate, sono sempre, o quasi sempre, riusciti a spuntarla. Basti vedere che cosa è successo a tanti provvedimenti varati dai governi Monti e Letta.

Sbloccherà davvero Renzi il pagamento dei debiti alle imprese? Il provvedimento sui contratti a termine, quando verrà varato, partirà già annacquato grazie al lavoro sottotraccia delle lobby contrarie oppure verrà neutralizzato in sede di attuazione? La riforma del lavoro di Renzi farà la fine di quella della Fornero? Il taglio dell’Irpef risulterà solo un regalo elettorale (in vista delle Europee di maggio) incapace di stimolare la ripresa della domanda interna oppure, sommandosi ad altri provvedimenti pro-crescita, contribuirà a mutare il clima del Paese, a dare il colpo di frusta di cui l’economia italiana ha bisogno? Cosa verrà fatto, a breve, contro quella palla al piede dell’economia che è il malfunzionamento della giustizia civile? Cosa verrà fatto per rendere i ricorsi ai Tar l’eccezione anziché la regola? A seconda delle risposte che potremo dare fra qualche mese a queste e ad altre domande, capiremo - lo capiremo solo allora - se Renzi si rivelerà un autentico vincente oppure un’altra (l’ennesima) promessa mancata.

I vincoli che il premier deve aggirare o allentare sono potenti. Egli ha in mano due sole carte: il rapporto carismatico che ha stabilito con l’opinione pubblica e la paura dei parlamentari che un suo fallimento li porti dritti alle elezioni. Ma sono carte a rischio di deterioramento rapido. Il carisma, per sua natura, è fragile, transitorio, effimero. Renzi ha ragione nel voler fare tutto o quasi tutto in fretta, nel tempo più breve possibile. Deve cambiare le regole del gioco, ivi comprese quelle istituzionali e amministrative, prima che il suo carisma subisca l’inevitabile logoramento. Altrimenti, tutto finirà con il solito «vorrei ma non posso», la vera epigrafe di altre avventure carismatiche che l’Italia repubblicana ha conosciuto.

17 marzo 2014 | 09:19
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_17/non-si-vive-belle-parole-9c839e52-ada2-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml
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« Risposta #222 inserito:: Aprile 02, 2014, 10:26:22 pm »

I demolitori in ordine sparso

di Angelo Panebianco

Per gli alti tassi di astensione che le caratterizzano, e per la loro natura di consultazioni sui generis (i cittadini non vengono chiamati a decidere della formazione di un governo), le elezioni europee non sono mai davvero rappresentative dei reali orientamenti degli elettorati. E quasi mai anticipano quanto accadrà nelle successive elezioni politiche nazionali. Non abbiamo motivo di pensare che le consultazioni europee di maggio possano essere diverse. Nonostante ciò, sappiamo che i loro risultati avranno comunque conseguenze. Sull’Europa (intesa come Unione) e anche, più ambiguamente, sugli equilibri politici dei diversi Paesi. Sappiamo, inoltre, che, proprio a causa dell’alto tasso di astensione - praticamente, si tratta di un copione già scritto - le prossime elezioni europee saranno una specie di saga di quelli che, apparentemente, si presentano come gli sfasciacarrozze. Sarà il trionfo di tutti coloro che vorrebbero demolire, in tutto o in parte, l’Unione Europea così com’è.

Il fronte (europeo) anti-Unione che si va formando, galvanizzato anche dal successo di Marine Le Pen nelle elezioni amministrative francesi, è assai eterogeneo, in esso si riflettono le diverse specificità nazionali. Per esempio, se non fosse perché in campagna elettorale tutto fa brodo e nessuno guarda troppo per il sottile, l’incompatibilità di fondo fra gli scopi dei lepenisti e quelli dei leghisti italiani (e movimenti europei analoghi) dovrebbe saltare subito agli occhi.

I lepenisti puntano al recupero pieno della sovranità nazionale francese. I leghisti, così come tutti gli altri difensori (in Catalogna e altrove) della ideologia delle «piccole patrie», sono nemici della sovranità nazionale. In teoria, sono dunque anche nemici di Marine Le Pen (della quale, però, si dicono oggi alleati). Di più: quale futuro potrebbero mai avere le agognate piccole patrie, si chiamino Catalogna, Padania o altro, se non entro la cornice di una Unione Europea ove le sovranità nazionali fossero progressivamente dissolte? Come potrebbero le piccole patrie affermarsi se non godendo della protezione dell’Unione? Cosa potrebbe mai combinare la Catalogna, tutta sola, in giro per il mondo?

Il protezionismo economico nazionale che piace ai 5 Stelle (e che oggi porta loro consensi da destra e da sinistra), oltre che a diversi altri movimenti politici anti-euro, il «sovranismo» del Front National francese, l’orgogliosa insularità rivendicata dall’Ukip (il partito per l’indipendenza della Gran Bretagna), l’ideologia delle piccole patrie, tutto ciò, messo insieme, non fa un fronte politico. C’è da scommettere che i contrasti fra tutti questi movimenti emergeranno con forza, presto o tardi, all’interno del Parlamento europeo.

Ma questi gruppi sono solo un pericolo per l’Europa, come sostengono i difensori della ortodossia europeista, oppure rappresentano anche un’opportunità? Dipenderà dall’entità del loro successo. Un successo travolgente (che, per esempio, vada oltre quel terzo di seggi, oggi previsto, nel Parlamento europeo) potrebbe aggravare la crisi dell’Unione, portarla oltre il punto di non ritorno. Invece, un successo forte ma non travolgente, potrebbe rivelarsi una buona cosa. Non si può fare finta di non sapere che i consensi di cui oggi godono i movimenti anti-Unione sono un effetto, una conseguenza, di tutto ciò che non funziona nell’Unione così com’è. Lasciate perdere parole come «populismo» che non significano nulla e sono solo la spia della pigrizia mentale di chi le usa. Lasciate perdere persino il termine antieuropeismo: essere contro l’Unione così com’è non significa necessariamente essere anche contro l’Europa in quanto tale. Non tutti i movimenti di protesta sono come il Front National o l’Ukip britannico, non tutti sono, in questo senso, antieuropeisti.

L’Europa così com’è non va, richiede di essere riformata. Abbiamo ormai sperimentato quali siano le conseguenze di un’Unione che, al contrario di quanto accade negli autentici federalismi, centralizza troppo il potere, a beneficio, inevitabilmente, degli Stati più forti. Abbiamo visto come ciò porti a un conflitto distruttivo fra democrazie nazionali e Unione. Abbiamo bisogno di un’Europa assai più flessibile, meno camicia di forza di quanto oggi non sia. Sperando, naturalmente, che si trovi il modo di rendere compatibile l’auspicabile maggiore flessibilità con il mantenimento della moneta unica. La combinazione di forza e di eterogeneità dei movimenti anti-Unione può diventare una opportunità, una risorsa, sfruttabile da chi vuole riformare l’Unione, da chi ha capito che essa potrà sopravvivere solo se verrà cambiata.
C’è almeno una buona notizia. Il riavvicinamento fra Stati Uniti ed Europa, dopo anni di disinteresse americano, un riavvicinamento dovuto a pressanti esigenze geopolitiche (Putin, Medio Oriente) e geoeconomiche (la competizione con i giganti emergenti), può, sommandosi alla protesta anti-Unione, dare una mano ai riformatori europei.

La grande crisi europea ha coinciso con la fine della special relationship, della relazione speciale fra le due sponde dell’Atlantico. Se essa si ricostituisce in modo non episodico (che sia questo il vero significato dell’incontro fra Obama e Renzi?), i riformatori dell’Europa avranno una sponda e una leva in più su cui giocare per ammorbidire i tedeschi e incanalare in modo costruttivo la protesta degli sfasciacarrozze.

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31 marzo 2014 | 08:20

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_31/i-demolitori-ordine-sparso-8ef5e638-b891-11e3-917e-4c908e083af6.shtml
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« Risposta #223 inserito:: Aprile 23, 2014, 01:51:46 pm »

RENZI, L’EX CAVALIERE E LE TOGHE
Una proposta per la giustizia
Se il premier deciderà di affrontare la questione dell’ordine giudiziario, e dovrà farlo se davvero vorrà cambiare il Paese, sarà costretto a dotarsi di strumenti adeguati

Di ANGELO PANEBIANCO

Per venti anni è stata opinione dominante che fin quando Berlusconi fosse stato al centro della politica italiana, una seria riforma del sistema giudiziario sarebbe stata impossibile. C’è sempre stato anche il dubbio che questa argomentazione fosse in realtà solo l’alibi di chi, Berlusconi o non Berlusconi, una riforma della giustizia non la voleva e basta. Comunque sia, l’impasse dura da venti anni. Un periodo in cui Berlusconi, spesso pessimamente consigliato da avvocati privi di una visione d’insieme dei problemi dell’ordine giudiziario, affastellava leggine che, nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto difenderlo dai procedimenti a suo carico, e in cui i suoi oppositori, consapevoli della propria inettitudine politica, difendevano lo status quo nella speranza di una liquidazione di Berlusconi per via giudiziaria. Adesso Berlusconi è fuori gioco a causa di una condanna definitiva (che ieri ha di nuovo criticato duramente) ed è opinione generale che, se anche resterà un protagonista, non potrà mai più avere il ruolo che ha avuto negli ultimi venti anni. Nessuno pensa, ad esempio, che potrà tornare ad essere presidente del Consiglio.

Forse è questa la ragione per cui qualche segnale di disgelo intorno alla questione giustizia comincia ad apparire. Ha suscitato impressione leggere sul Fatto (17 aprile), il principale organo di stampa del giustizialismo italiano, un articolo a firma di Bruno Tinti, che conteneva una requisitoria contro il metodo spartitorio con cui le correnti della magistratura gestiscono il Csm, l’organo di autogoverno. Quali che siano le motivazioni del Fatto, resta che in quell’articolo si dice la pura verità e che risulta confermato, anche da una fonte insospettabile di berlusconismo, che il Csm necessita di una radicale ristrutturazione. Sostenere che l’ordine giudiziario richiede, a tutela dei diritti del cittadino, serie revisioni, non significa «avercela con i magistrati». Significa riconoscere la validità di una «legge sociale» che non ammette eccezioni: se un potere è incontrollato, e privo anche di forti meccanismi interni di checks and balances, di pesi e contrappesi, esso si presterà ad abusi. Senza bisogno di presumere nessuna particolare malvagità da parte di chi esercita quel potere. Basta solo ammettere che si tratta di uomini e donne uguali a tutti noi, soggetti alle stesse tentazioni di chiunque altro.

È il precetto su cui si regge una delle più importanti invenzioni occidentali, il costituzionalismo: mai permettere, se vuoi tutelare le libertà di tutti, che un potere risulti incontrollato, o perché non bilanciato da poteri concorrenti o perché organizzato in modo da rendere deboli anche i controlli interni. L’ordine giudiziario italiano è in realtà strutturato in un modo non compatibile con i principi del costituzionalismo. Quando si dice, ad esempio, che le carriere dei giudici e dei procuratori dovrebbero essere separate o che le decisioni sulle carriere dei magistrati, o sulle sanzioni disciplinari, non dovrebbero essere appannaggio di un organo eletto da quegli stessi magistrati, perché ciò porta con sé lottizzazioni e altre patologie, si sta solo chiedendo di rendere l’ordine giudiziario italiano meno anomalo di quanto esso non risulti nel panorama delle democrazie occidentali. Il premier Renzi si muove come un ciclone in tante direzioni. Come era forse inevitabile, è già entrato in urto anche con la potente Associazione nazionale magistrati a proposito delle remunerazioni degli alti magistrati. Più o meno con la stessa irruenza con cui, occupandosi di un altro ganglio vitale dello Stato, aveva annunciato pochi giorni fa una «violenta lotta contro la burocrazia». Solo che, si tratti del funzionamento dell’amministrazione o di quello della magistratura, le ruspe non servono per venire a capo dei problemi.

Se Renzi deciderà di affrontare la questione dell’ordine giudiziario, e prima o poi dovrà farlo se davvero vorrà cambiare questo Paese, sarà costretto a dotarsi di strumenti adeguati. Occorrono analisi serie e decisioni ponderate per approdare a qualche risultato. Il vicepresidente del Csm, Michele Vietti (sul Corriere della Sera di ieri), ha proposto l’istituzione di una commissione che affronti la questione della giustizia civile. Forse, occorrerebbe puntare più in alto, mettere le mani in tutte le principali patologie che affliggono la giustizia. Perché il governo non affida a un gruppo di esperti (non esclusivamente giuristi), eventualmente guidato da un uomo della competenza di Luciano Violante, il compito di formulare, dopo un lavoro di due o tre mesi, una proposta articolata? Magari affiancato da un altro gruppo di esperti che lavori sul tema dell’amministrazione (e della giustizia amministrativa). Dopo un’attesa di venti anni tutto serve meno che l’improvvisazione.

20 aprile 2014 | 08:24
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_20/proposta-la-giustizia-aed13400-c852-11e3-bf3a-6dacbd42b809.shtml
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« Risposta #224 inserito:: Maggio 12, 2014, 04:51:53 pm »

Le ipotesi sull’avanzata grillina
I troppi voti in frigorifero

Di ANGELO PANEBIANCO

Il sospetto è che diverse persone abbiano cominciato da qualche tempo ad accarezzare l’idea che sia possibile ricostituire in Italia il «bipartitismo imperfetto». La formula fu coniata nel secolo scorso dal politologo Giorgio Galli. Descriveva la democrazia senza alternanza, con un partito dominante inamovibile e una fortissima opposizione anti-sistema, che fu propria del Paese per tutto il periodo della Guerra fredda.

Consideriamo due ipotesi, una plausibile e una molto meno. L’ipotesi plausibile è che alle elezioni europee di maggio il Pd risulti il primo partito e i 5 Stelle si collochino al secondo posto superando di parecchio Forza Italia. Si noti che, al momento, è solo un’ipotesi plausibile. I sondaggi vanno presi con le molle e, inoltre, è nota la capacità di Berlusconi di fare grandi rimonte partendo da una posizione di svantaggio. Per giunta, non è detto, contrariamente a ciò che molti pensano, che le nuove inchieste sulla corruzione debbano per forza tradursi, al momento del voto, in ulteriori consensi per Beppe Grillo. Comunque, soprattutto in presenza di un elevato astensionismo - che è la norma nelle elezioni europee -, è possibile, e forse anche probabile, che il risultato indicato dai sondaggi (Pd primo, 5 Stelle secondo) si realizzi.

La seconda ipotesi è che alle elezioni politiche successive (tra un anno o quando saranno) ci sia la replica: ancora una volta il Pd primo e i 5 Stelle secondi. A grande distanza da tutti i rimanenti partiti. Questa, a differenza della prima, non è affatto un’ipotesi probabile. Perché le elezioni politiche nazionali sono assai diverse da quelle europee: nelle Politiche, il grosso degli elettori ha idee chiare su quale sia la posta in gioco e, in più, la maggior parte di loro vota con un occhio al portafogli. Sono due condizioni che non si danno nelle elezioni europee. Il che ne spiega gli altissimi tassi di astensione e il fatto che molti elettori votino «in libertà», in modo difforme da come fanno nelle elezioni politiche. Un’eventuale replica alle Politiche dei risultati delle Europee è, per lo meno, improbabile.

Ma, ancorché improbabile, si tratta di uno scenario che va preso in considerazione. Se non altro, per esorcizzarlo. Potrebbe realizzarsi solo se il centrodestra, incapace di risolvere il problema della successione a Berlusconi, si spappolasse definitivamente. Un esito che potrebbe essere favorito anche da una nuova sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale. Se fossimo costretti a votare con un sistema proporzionale puro, il centrodestra non riuscirebbe a ricompattarsi, non potrebbe formare una coalizione elettorale.

Con una destra polverizzata, resterebbero in campo solo il Pd e i 5 Stelle. Il Pd si troverebbe nella condizione (paradossale, data la sua origine storica) di diventare la «diga» (contro Grillo) sulla quale finirebbe per convergere, sommando i propri voti a quelli della sinistra tradizionale, anche il grosso dell’elettorato di centrodestra.

Si ricostituirebbe, in forme inedite, il bipartitismo imperfetto. Il Pd governerebbe senza alternative e senza troppa paura di perdere le elezioni successive. Ottimo per il Pd, pessimo per il Paese. Così come, ai suoi tempi, per quasi un cinquantennio, fu ottimo per la Dc, perché ne garantì inamovibilità e predominio, ma pessimo per il Paese, il fatto che la più forte opposizione fosse un partito antisistema (percepito come tale dal grosso degli elettori).

Chi spera che la leadership di Matteo Renzi serva a fare del Pd il nuovo partito dominante, forse non guarda con preoccupazione all’annunciato successo dei 5 Stelle. Ma non calcola che, nelle condizioni turbolente del XXI Secolo, un nuovo bipartitismo imperfetto porterebbe presto al disastro la democrazia. Quali che saranno i risultati delle elezioni europee, lo scenario del bipartitismo imperfetto resta poco probabile. Ma per essere certi di scongiurarlo abbiamo bisogno di riforme serie, della Costituzione come del metodo di voto. I pasticci, invece, hanno il potere di rendere possibile ciò che pareva improbabile.

11 maggio 2014 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_11/i-troppi-voti-frigorifero-26f59a36-d8d2-11e3-b8f7-5c1c0bbdabb2.shtml
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