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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160616 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Febbraio 15, 2012, 04:57:06 pm »

CRISI DEL DEBITO ED EFFETTI POLITICI

La democrazia può anche fallire

Le crisi obbligano a bagni di umiltà. Con la più grave crisi dai tempi della Grande Depressione si è dissolta, almeno temporaneamente, l'arroganza intellettuale con cui in tanti (esperti, governi, autorità internazionali), fino a ieri, spiegavano il mondo e proponevano le loro infallibili ricette e previsioni sul futuro. Le crisi svelano ciò che resta di solito celato ma è vero anche in tempi più tranquilli: i fattori in gioco, fra loro interagenti, sono troppo numerosi perché siano possibili spiegazioni «onnicomprensive» nonché affidabili previsioni sul futuro stato del mondo.

Soprattutto, restano imprevedibili gli esiti delle continue influenze reciproche fra politica e economia. Ciò non toglie però che se non si considerano quelle influenze reciproche si capisce poco o nulla della crisi in corso. Si pensi al viaggio di Mario Monti negli Stati Uniti. Il successo che il nostro primo ministro ha ottenuto nei suoi incontri col mondo politico e finanziario americano è stato forse un balsamo per il nostro (depresso) umore nazionale, ma è un fatto che dietro a quel successo c'è la paura americana (e la paura di Obama alla vigilia di elezioni presidenziali incerte) per l'evoluzione futura della crisi dell'euro, una crisi i cui esiti non dipendono «solo» dalla politica, dalle decisioni dei governi, ma «anche» dalla politica. Si appoggia Monti sperando che ciò serva a influenzare positivamente, oltre che il giudizio dei mercati, le scelte future dei governi, tedesco in testa. Nessuno sa se e come ciò avverrà.

Oppure prendiamo il caso della Grecia, ormai preda di convulsioni violente. All'inizio della crisi, l'incendio greco poteva essere spento facilmente. Non lo fu per un veto tedesco, frutto, non di un capriccio di Angela Merkel, ma dell'orientamento dominante nella società tedesca. I tedeschi non volevano pagare il prezzo per l'errore, di cui erano corresponsabili, commesso quando la Grecia, senza averne i requisiti, fu ammessa nell'Europa monetaria. Oggi la Grecia è con le spalle al muro. Il suo probabilissimo fallimento promette conseguenze pesanti (di cui la Merkel ora si preoccupa) per l'Unione e per la stessa sostenibilità del sistema finanziario. Conseguenze ancor più pesanti riguardano la Grecia. Come tutto il resto, anche le rivoluzioni sono imprevedibili. Però, nessuno faccia oh!, nessuno assuma un'aria stupefatta, se in Grecia i sommovimenti raggiungeranno una intensità tale da minacciare le istituzioni democratiche.

Nelle analisi dedicate alla evoluzione della crisi economico-finanziaria, è spesso poco soddisfacente, di rado illuminante, il trattamento dei fattori politici. Sovente, la politica è presa in considerazione più come un fastidioso ostacolo, fonte di ogni irrazionalità, che come una condizione da trattare con la stessa freddezza con cui si valutano le grandezze macro-economiche e i loro cambiamenti. In genere, si ragiona in questo modo: prima si identificano le cose che andrebbero fatte se la «razionalità» prevalesse; poi si aggiunge che, malauguratamente, fattori politici, come, ad esempio, le imminenti elezioni in vari Paesi, frenano i governanti, impediscono loro di fare le scelte razionalmente corrette. È un modo sbagliato di ragionare.
La politica non è necessariamente un ambito dell'agire umano più irrazionale dell'economia. Semplicemente, opera secondo ragioni e logiche diverse. Se nelle fasi di espansione la ragion politica (che ha di mira il consenso) e la ragione economica possono sostenersi a vicenda, nelle fasi di crisi entrano facilmente in conflitto.

Si aggiunga la specificità europea: con la moneta unica, a cui non ha fatto seguito l'integrazione politica, le regole della democrazia (l'unica che c'è, quella nazionale) e le regole imposte dall'Unione monetaria, sono entrate, a causa della crisi, in rotta di collisione. Il che spiega anche il fatto che i rapporti intergovernativi abbiano oscurato il ruolo (con la sola eccezione della Bce) delle istituzioni europee sovranazionali. E poiché, nonostante certa facile retorica europeista, gli elettori europei restano, a schiacciante maggioranza, avvinghiati come l'edera alle loro istituzioni democratiche nazionali (il che è peraltro comprensibile: più è vicino il potere del governo, più l'elettore può sperare, o illudersi, di influenzarlo), il dilemma appare, e forse è, insolubile.

Il tutto aggravato dalla questione tedesca. In una lucida analisi Lucrezia Reichlin (sul Corriere dell'8 febbraio) ha scritto che le nuove regole del fiscal compact imposte dalla Germania all'Europa sono espressione di una crescente incompatibilità: fra una Germania esportatrice, proiettata fuori dall'area euro, sempre meno dipendente dai mercati europei, e il resto d'Europa condannato a uno sviluppo anemico anche a causa dei drastici aggiustamenti di bilancio imposti dai tedeschi. Se l'analisi è corretta, se la divaricazione fra gli interessi della Germania e di tutti gli altri europei è destinata ad aumentare con crescenti costi per questi ultimi, si può immaginare che si verifichino, in un prossimo futuro, potenti reazioni antitedesche (e, quindi, anti-europee) in molti Paesi. E sarà la democrazia, il meccanismo elettorale, il veicolo di quelle reazioni. Cosa potrebbe restare a quel punto dell'Unione è difficile dire. Senza contare i prezzi che dovrebbero pagare le varie democrazie europee: non è prevedibile, infatti, la natura dei movimenti politici che potrebbero affermarsi. Sarebbe una vera beffa del destino se dalla crisi in corso uscissimo non solo con una Europa a pezzi ma anche con istituzioni democratiche (nazionali), in alcuni Paesi almeno, indebolite o compromesse.
Riflettere meglio sui rapporti fra politica e economia non garantisce che si trovino soluzioni ma è condizione necessaria per la ricerca, se c'è, di qualche via d'uscita.

Il mondo è un posto complicato e opaco la cui evoluzione è largamente imprevedibile. Non c'è bisogno di ingannare il pubblico lasciando credere che se ne conosca la direzione di marcia o le ricette giuste per guidarlo. Meglio riconoscere onestamente la limitatezza delle nostre conoscenze e la necessità di fare uso del poco che sappiamo con la saggezza consentita dalle circostanze.

Angelo Panebianco

14 febbraio 2012 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_14/la-democrazia-puo-anche-fallire-angelo-panebianco_ae369c50-56d1-11e1-a6d2-3f65acf5f759.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Marzo 02, 2012, 05:30:46 pm »

I RISCHI DI GUERRA E L'ASSENZA DELL'EUROPA

La polveriera iraniana

Fare i conti senza l'oste. L'Europa appare ormai da tempo ripiegata su se stessa. La crisi dell'euro, il fallimento di fatto della Grecia, i rischi corsi dall'Italia, le imminenti elezioni francesi, i gravi problemi della maggioranza di governo in Germania favoriscono l'introversione europea. L'Europa sembra cieca e sorda rispetto a ciò che si muove intorno a lei, ai pericoli incombenti e alle conseguenze che possono derivare da eventi esterni al perimetro dell'Unione. Organismo debilitato e in crisi l'Unione, e anche i suoi Stati più importanti, Germania in testa, sembrano rassegnati a un ruolo passivo e secondario nelle crisi esterne all'Europa. Come se parole quali «interdipendenza» o «globalizzazione», a forza di ripeterle, avessero perso il loro significato originario, come se fosse possibile isolare l'Europa dalle onde d'urto che provengono dall'esterno. Le divisioni che attraversano oggi il Vecchio continente hanno di mira solo i suoi equilibri interni: ad esempio, la lettera con cui dodici leader europei hanno chiesto vigorose misure per la crescita segnala il debutto di una coalizione contraria alle rigidità tedesche, alla politica di rigore senza sviluppo che la Germania sta imponendo all'Unione. Ciò è spiegabile alla luce della crisi che ha investito l'Europa.

Meno spiegabile è invece la latitanza europea dagli scacchieri esterni nei quali si giocano partite che possono avere un grandissimo impatto sulla evoluzione della crisi europea. Meno spiegabile è il fatto che i capi di governo europei non abbiano ancora trovato tempo e modo per una presa di posizione collettiva su ciò che sta accadendo in Medio Oriente. Come se l'Europa potesse disinteressarsene.
In Medio Oriente i venti di guerra stanno soffiando con sempre maggior forza. È probabile che Israele, sul quale pesa una minaccia esistenziale, una minaccia alla sua sopravvivenza, decida entro pochi mesi di attaccare l'Iran, di colpirlo prima che esso si doti di armamenti nucleari. La guerra è resa ancor più probabile per il fatto che in Iran è in corso una lotta senza esclusione di colpi fra due fazioni, entrambe nemiche di Israele ed entrambe sostenitrici del programma nucleare, quella che fa capo alla Guida suprema Khamenei e quella che fa capo al presidente Ahmadinejad. Come spesso accade in queste circostanze, la fazione più in difficoltà potrebbe scegliere di aggravare ulteriormente la crisi con Israele, innescando così il conflitto armato, nel tentativo di prevalere sulla fazione rivale. Si aggiunga il fatto che l'Iran corre il rischio, nei prossimi mesi, di vedere indebolita la propria posizione internazionale a causa della crisi, quasi certamente irreversibile, del suo principale alleato mediorientale, il regime siriano. E ciò può accrescere nei suoi governanti la tentazione dell'avventurismo.

L'ondata che la guerra solleverebbe sarebbe gigantesca. Il prezzo del petrolio volerebbe alle stelle con un fortissimo impatto recessivo sull'economia internazionale. Negli scenari più cupi, però, il costo stimato del petrolio in caso di conflitto sarebbe addirittura il problema minore. Perché si aprirebbero, soprattutto per l'Europa, anche gravissimi problemi di sicurezza. L'estremismo islamico sciita-iraniano potrebbe avere interesse a colpire l'Europa per costringerla a esercitare pressioni su Israele. E troverebbe alleati, probabilmente, fra gli estremisti sunniti, anch'essi nemici di Israele.

Si noti che l'evoluzione in Medio Oriente sarebbe negativa per noi europei sia nel caso che la guerra scoppiasse a breve termine sia nel caso che venisse rinviata nel tempo. Nella prima eventualità, ci sarebbe una immediata onda d'urto. E, inoltre, le conseguenze di medio-lungo termine sarebbero altrettanto gravi. Se la guerra scoppiasse ora e Israele vincesse allontanando da sé la minaccia nucleare, ciò sarebbe ottenuto al prezzo di un drastico indebolimento della potenza iraniana in Medio Oriente. Tolto di mezzo il loro storico nemico politico-religioso, i fondamentalisti sunniti, veri vincitori, fino ad oggi, delle cosiddette rivoluzioni arabe, diventerebbero molto più aggressivi. E con la loro accresciuta aggressività non solo Israele ma anche l'Europa dovrebbero fare i conti.
Se invece la guerra non scoppiasse subito e l'Iran diventasse una potenza nucleare, la conseguenza non sarebbe solo un rischio permanente per la sopravvivenza di Israele: i regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, dovrebbero a loro volta rapidamente dotarsi di armi nucleari per riequilibrare l'Iran. Un Medio Oriente interamente nuclearizzato sarebbe un incubo per il mondo e per l'Europa in primo luogo.

Ciò che davvero servirebbe a tutti, ma non c'è speranza di ottenerlo a breve termine, è un cambiamento di regime in Iran. Rassicurando così sia Israele che gli arabi sunniti. Obama e gli europei persero un'occasione d'oro quando, per miopia politica, non appoggiarono attivamente la rivolta antiregime in Iran del 2009. Fu l'unica buona occasione per rovesciare il regime teocratico nato dalla rivoluzione del 1979. E venne sprecata. Sarebbe stato più utile per tutti se gli occidentali avessero fatto per l'Iran in quella occasione ciò che hanno fatto (forse con eccessivo entusiasmo) per la Libia nel 2011, o almeno, senza arrivare all'intervento diretto, ciò che sta facendo oggi la Turchia a sostegno dei rivoltosi in Siria.
Che i medici si diano da fare intorno al capezzale dell'euro va benissimo. Ma senza dimenticare che i pericoli che corriamo sono di varia natura. Dal Medio Oriente, come sempre, arrivano i più insidiosi.

Angelo Panebianco

2 marzo 2012 | 8:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #152 inserito:: Marzo 09, 2012, 11:34:42 am »

Dopo il caso Palermo

Le primarie senza futuro

È ovviamente la scoperta dell'acqua calda: in condizioni di massimo discredito dei partiti politici è probabile che le primarie indette da quegli stessi partiti siano vinte da outsider, da persone che si candidano «contro» i candidati ufficiali, contro i candidati sponsorizzati dai leader nazionali di partito.

Il risultato palermitano delle primarie del centrosinistra conferma il trend: contro la candidata ufficiale, Rita Borsellino, sponsorizzata dalla segreteria nazionale del Pd (oltre che da Di Pietro e Vendola) vince un candidato «centrista» (ex Idv) che ha dietro di sé il sostegno del presidente della Regione, Raffaele Lombardo, e del Pd locale alleato di Lombardo. La sconfitta della Borsellino arriva, come sappiamo, dopo una lunga serie di sconfitte di candidati ufficiali del Pd, da Milano a Napoli a Genova.

Ciascuno di quei risultati si spiega, prima di tutto, alla luce di circostanze locali. Ma ci sono anche ragioni più generali. Discredito dei partiti a parte, giocano in questi risultati anche alcune anomalie, soprattutto la natura «bizzarra» delle primarie all'italiana. In primo luogo, non si tratta di gare ove ciascun candidato possa lottare «alla pari» (almeno in linea di principio) con gli altri candidati. Qui ci sono appunto «candidati ufficiali», sponsorizzati da apparati di partito. Col risultato che se l'apparato gode localmente di prestigio vincerà il candidato ufficiale (il caso di Piero Fassino a Torino) e se invece è screditato vincerà l'outsider. In secondo luogo, si tratta di primarie aperte che si svolgono in un contesto multipartitico, per giunta altamente frammentato. Ma mentre in contesti bipartitici le primarie possono risultare un utile strumento per selezionare gruppi dirigenti, è più difficile che ciò possa accadere in contesti multipartitici frammentati.

Ciò detto, un merito, nella attuale situazione, l'istituzione delle primarie lo ha senz'altro: è uno dei pochi mezzi di collegamento rimasti fra i cittadini e la politica rappresentativa. Esile e distorto, certamente: dietro lo schermo della retorica democratica, può consentire a micro-frazioni di attivisti, non rappresentativi del più ampio elettorato, di condizionare i risultati. Ma in una fase in cui i partiti nazionali sono oscurati dal governo (detto) dei tecnici, le primarie, sia pure solo per la scelta di candidati locali, mantengono una loro utilità.

Non è detto che si tratti di una istituzione destinata a durare. Forse, le primarie sopravvivranno per qualche tempo nelle competizioni locali, cittadine. Non avranno invece alcun futuro nella selezione dei gruppi dirigenti nazionali. Se ci sarà la prevista riforma elettorale in senso proporzionale, se si chiuderà l'epoca delle coalizioni contrapposte che chiedono il voto agli elettori l'una contro l'altra, allora di primarie nazionali non si parlerà mai più. Per una semplice ragione: se i governi si formano in Parlamento dopo le elezioni, allora i gruppi dirigenti dei partiti devono disporre della massima libertà di manovra (massima libertà di contrattare a destra e a manca gli accordi di governo) e nessuno potrà e dovrà disturbare i manovratori. Dunque: niente primarie nazionali.

Sarà un bene o un male? Si vedrà. Di sicuro, però, dopo tante parole spese contro il «Parlamento dei nominati», sarà divertente vedere a quali contorsioni dialettiche dovranno sottoporsi coloro che si sono più impegnati in quella campagna per spiegarci in che cosa il prossimo Parlamento sarà diverso dall'attuale.

Angelo Panebianco

6 marzo 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_06/panebianco-primarie-senza-futuro_4cd6cd2a-6754-11e1-894d-3b3e16fcb429.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Marzo 11, 2012, 10:58:39 am »

CASO NIGERIANO E MARÒ IN INDIA

Tra riscatti e ipocrisie


Puoi anche non curarti della politica internazionale. Sarà comunque lei a scovarti e ad occuparsi di te. Le due vicende dei marò italiani sequestrati dalle autorità indiane e del blitz britannico in Nigeria, ci hanno messo improvvisamente di fronte, come ha rilevato ieri Franco Venturini sul Corriere, alle nostre fragilità e alle incertezze con cui noi italiani, non da oggi, ci muoviamo nelle acque torbide e pericolose della politica internazionale. Per sovrappiù, in questo particolare frangente, queste vicende ci costringono anche a interrogarci sui limiti, se ci sono, dei governi sprovvisti di un esplicito mandato politico degli elettori.

Terrorismo, industria degli ostaggi, pirateria. Alla origine delle due crisi ci sono le nuove minacce alla sicurezza in un’epoca di globalizzazione. Con in più, in certi casi, la complicazione data dalle pretese di riconoscimento del proprio accresciuto status internazionale da parte delle nuove potenze extraoccidentali. Come mostra l’atteggiamento indiano nella vicenda dei soldati italiani.

Nella crisi nigeriana, scontiamo le ipocrisie e le ambiguità con cui da troppo tempo copriamo, di fronte a noi stessi, certe nostre scelte di fondo. Noi abbiamo la fama di pagare i riscatti sempre e comunque. E, per lo più, neghiamo di farlo. Non è questa una responsabilità del governo Monti che ha semmai ereditato una prassi consolidata dai suoi predecessori. È plausibile che i britannici ci abbiano avvertito del blitz solo ufficiosamente, e non ufficialmente, perché temevano, oltre che fughe di notizie, anche una reazione negativa del governo italiano.

È evidente che anche gli altri occidentali, quando non possono ricorrere alla forza, si adattano a pagare i riscatti. Ed è evidente che in questioni di questa natura occorrano flessibilità e discrezione. Ma, dato che l’industria dei sequestri continuerà a prosperare, dovremmo cominciare a chiederci se non sia il caso di fare qualche cambiamento nella nostra tradizionale linea di condotta. Per esempio, potremmo chiederci non tanto perché i britannici non ci abbiamo informato in tempo quanto perché, data la presenza di un ostaggio italiano, non ci fossero sul campo anche le nostre forze speciali. Come minimo, dovremmo chiederci se è poi davvero così «umanitaria» la politica del pagamento dei riscatti: quanto può contribuire quella politica ai sequestri prossimi venturi di operatori italiani?

Nel caso nigeriano, più che di responsabilità specifiche del governo Monti, è di una responsabilità nazionale che bisogna parlare: c’è, ormai da anni, una emergenza legata ai sequestri ad opera di terroristi e di predoni. E noi non siamo stati ancora capaci di affrontare il problema senza ipocrisie.

Diverso è il caso dei marò italiani. Qui gli errori del governo ci sono stati: diversi e gravi. Il primo è stato quello di non chiarire subito al comandante della nave (e forse anche all’armatore) che le conseguenze sarebbero state per loro assai pesanti se la nave fosse entrata nelle acque territoriali dell’India mettendo i nostri soldati alla mercé delle autorità locali.

Gli errori del governo poi sono continuati. Come ha mostrato il grave ritardo con cui abbiamo coinvolto nella vicenda l’Unione Europea. E come ha mostrato l’inutile visita del ministro Terzi in India, giustamente stigmatizzata da tanti. Abbiamo dato l’impressione, anzi lo abbiamo persino dichiarato, che la vicenda dei marò non avrebbe dovuto comunque compromettere i nostri ottimi rapporti con l’India. Troppo zelo, nel momento sbagliato. È evidente che abbiamo interesse a coltivare, e anzi a intensificare, le nostre relazioni economiche con l’India. Ma dichiararlo nel mezzo di una crisi come questa finisce per dare a tutti l’impressione che il business sia comunque più importante del riportare a casa i nostri soldati.

Lasciamo da parte la polemica politica che si è subito accesa, e nella quale prevale la propaganda. Dobbiamo riconoscere che l’Italia (e non il governo Monti in particolare) non ha ancora voluto fare apertamente i conti con le nuove sfide alla sicurezza. Sfide che mettono sempre in gioco la questione dell’uso della forza. Si tratti di terrorismo o di pirateria. Una questione, per noi, irrisolta. Potremmo, per cominciare, smetterla (siamo gli unici a farlo) di chiamare «operatori di pace» i nostri soldati di professione.

Però, è anche possibile che qualche problema legato alla natura di questo governo, del governo Monti, ci sia effettivamente. Il governo Monti è nato per fronteggiare una emergenza economico-finanziaria e ha fin qui fatto bene il suo lavoro. Ma è anche giusto chiedersi se, di fronte a sfide internazionali di diversa natura, le sue capacità di reazione non siano troppo deboli. E se la debolezza non abbia qualcosa a che fare con la natura particolare del governo. Non è questione di tecnici o di politici. È questione di essere in possesso, oppure no, di un mandato elettorale e di avere intenzione, oppure no, di battersi per la propria riconferma alle elezioni che verranno. Perché questo problema conta così tanto nelle crisi? Perché i governanti che sono tali grazie a elezioni vittoriose, e che si battono per vincere anche quelle successive, sono costretti a una reattività di fronte alle crisi che sembra mancare ai governanti sprovvisti di mandato popolare. I primi sanno che sulle crisi possono anche giocarsi la rielezione. I secondi non si pongono il problema. Ciò non garantisce affatto, figurarsi, che i governanti eletti faranno bene. Ma, di sicuro, ci sarà su di loro una pressione, una costrizione imposta dalle cose (e dalla paura della punizione elettorale) che non è presente o, quanto meno, è meno visibile nel caso dei governanti non eletti.

Angelo Panebianco

11 marzo 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_11/panebianco-tra-riscatti-e-ipocrisie_3f21f6d8-6b4a-11e1-a02c-63a438fc3a4e.shtml
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« Risposta #154 inserito:: Marzo 26, 2012, 06:41:00 pm »

IL RUOLO DELLE PARTI SOCIALI

Poteri di veto e costituzione

Gli specialisti dei problemi del lavoro discutono sulla efficacia o meno della riforma messa a punto dal governo Monti. Accrescerà davvero la flessibilità del mercato o accrescerà solo i contenziosi giudiziari? Favorirà l’occupazione o aumenterà gli oneri a carico delle imprese? A parte le valutazioni di merito c’è anche in gioco un problema che sarebbe riduttivo definire «politico »: perché investe gli equilibri del nostro sistema istituzionale, riguarda quella che con espressione abusata viene detta la «costituzione materiale». Il quesito è se ne sia parte integrante il potere di veto dei sindacati e, in particolare, della più forte organizzazione, la Cgil (a sua volta trainata dalla Fiom). Molti pensano che, almeno dagli anni Settanta dello scorso secolo, quel potere di veto sulle questioni del lavoro sia uno dei pilastri su cui si regge la Repubblica. Da qui la diffusa convinzione, propria di chi confonde democrazia e costituzione materiale, secondo cui sfidare quel potere di veto equivalga a mettere in discussione la democrazia.

Ricordiamo che prima di oggi, negli ultimi trenta anni, il potere di veto della Cgil è stato sfidato dai governi solo in due occasioni, una volta con successo e una volta no. Negli anni Ottanta fu il governo di Bettino Craxi ad ingaggiare un braccio di ferro con la Cgil sulla questione del punto unico di contingenza. In quella occasione, la Cgil perse la partita e la sua sconfitta consentì all’Italia di porre termine al regime di alta inflazione che l’aveva flagellata per più di un decennio. La seconda volta, il potere di veto della Cgil venne sfidato dal (secondo) governo Berlusconi proprio sull’articolo 18. L’allora segretario della Cgil, Sergio Cofferati, riuscì a mobilitare e a coagulare intorno a sé tutte le forze antiberlusconiane del Paese e la maggioranza parlamentare non seppe conservare la coesione necessaria. L’articolo 18 non venne toccato, il governo uscì sconfitto.

In entrambe le precedenti occasioni, la mobilitazione della Cgil e dei suoi alleati aveva come bersaglio un chiaro, riconoscibile, «nemico di classe»: Craxi (socialista ma anche anticomunista) e Berlusconi. Adesso le cose sono assai più complicate persino per la Cgil. Il contesto, sia politico che economico, non l’aiuta. Monti e Fornero possono anche essere dipinti nelle piazze come nemici di classe. Ma si dà il caso che l’attuale governo sia un governo del Presidente, voluto e sostenuto da Giorgio Napolitano. Sarà alquanto difficile, e poco credibile, trattare da nemico di classe anche il presidente della Repubblica. Né aiuta la Cgil il contesto recessivo e i potenti vincoli esterni che incombono sull’economia italiana. La battaglia per conservare il potere di veto e, con esso, la potenza dell’organizzazione, si scontra con una congiuntura nella quale il giudizio dei mercati, delle istituzioni finanziarie e dell’Unione Europea sull’operato del governo e del Parlamento è decisivo e può farci facilmente ripiombare nella condizione di assoluta emergenza in cui eravamo solo pochi mesi fa.

Dopo le elezioni amministrative, quando il provvedimento del governo approderà in Parlamento, vedremo se il potere di veto della Cgil ne uscirà ridimensionato o riaffermato. Sarà la cartina al tornasole per capire se ci saranno cambiamenti oppure no nella costituzione materiale della Repubblica. Chi definisce solo simbolica la questione dell’articolo 18 forse sottovaluta il fatto che, in genere, sono proprio gli esiti delle battaglie sui simboli a decidere queste cose.

Angelo Panebianco

26 marzo 2012 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_26/panebianco-poteri-di-veto-e-costituzione_66113e8a-7701-11e1-93b9-89336e75ab45.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Aprile 02, 2012, 04:57:51 pm »

ISTITUZIONI E SPESA PUBBLICA




Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere , 31 marzo), ribadendo che il circolo virtuoso della crescita economica non potrà mettersi in moto se non ci si decide a tagliare la spesa pubblica e ad abbassare le tasse (anziché continuare ad aumentarle), hanno anche osservato che ciò richiederebbe un contesto istituzionale appropriato. È difficile non mettere in relazione quella giusta osservazione con l'accordo di massima raggiunto dai leader di Pd, Pdl e Udc sulle riforme istituzionali. Un accordo di cui non sono ancora noti certi dettagli, ma la cui ispirazione di fondo è chiarissima. Almeno per chi conosce la storia e le tradizioni del Paese. L'accordo annunciato avrebbe potuto benissimo essere concepito negli anni Ottanta dello scorso secolo quando democristiani e comunisti erano ancora le forze dominanti. Proprio da quelle due esperienze provengono diversi protagonisti dell'accordo di oggi. E le tradizioni culturali non sono acqua.

L'accordo previsto, con il ritorno alla proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento, assicurerà all'Italia un futuro di esecutivi deboli e brevi, di perenne instabilità (si veda l'ottima analisi di Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore del 28 marzo). Una condizione che abbiamo ben conosciuto per un quarantennio, all'epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Scordatevi per sempre i «governi di legislatura», quelli che durano per tutto l'intervallo che va da una elezione all'altra.

Bene, anzi male. Ma che c'entrano le riforme istituzionali previste con l'impossibilità di tagliare seriamente la spesa pubblica? C'entrano. Perché la spesa pubblica potrebbe essere tagliata solo da governi istituzionalmente forti che possiedano tutti gli strumenti necessari per imporre le proprie scelte e che abbiano la certezza di durare per una intera legislatura. Governi come quello uscito dalle recenti elezioni in Spagna, ad esempio. Le riforme prospettate qui da noi vanno nella direzione opposta. Non ci si faccia ingannare dagli specchietti per le allodole, disseminati qua e là. Ad esempio, dalla prevista «sfiducia costruttiva».

È un marchingegno (talvolta) utile per rafforzare i governi ma solo a due condizioni: che in Parlamento siano rappresentati pochissimi partiti, coesi e disciplinati, e che una sola Camera (e non tutte e due, come prevede invece l'accordo) sia abilitata a fiduciare o a sfiduciare gli esecutivi. Altrimenti, la «sfiducia costruttiva» è solo un pasticcio, una norma aggirabile con facilità. Non meno truffaldina di quella che prevede l'indicazione del candidato premier sulla scheda.

Il bipolarismo, di cui ci si vuole sbarazzare, non è un ideale estetico. È una concretissima esigenza. Solo se la competizione politica ha una struttura bipolare, gli elettori possono esercitare il potere che la democrazia affida loro: quello di cacciare il governo che li ha delusi mettendo al suo posto l'opposizione. Inoltre, il bipolarismo è una condizione necessaria (ma non sufficiente, come abbiamo sperimentato in Italia negli ultimi diciotto anni) per avere governi forti. Il governo forte è, a sua volta, una necessità per una democrazia bene funzionante e molti problemi italiani sono sempre dipesi dalla debolezza istituzionale dei governi.

Ma il bipolarismo, nei suoi diciotto anni di vita, non ha forse funzionato male? È vero ma fra le ragioni va anche ricordato l'attivo sabotaggio attuato dagli stessi che oggi ne denunciano con soddisfazione il fallimento. Non si può fare, come facemmo noi nei primi anni Novanta, una riforma maggioritaria e poi pretendere di non spazzare via le regole consociative su cui si regge il Parlamento. Non si può fare una riforma maggioritaria mantenendo però un sistema di finanziamenti che incentiva la frammentazione partitica. Non si può fare una riforma maggioritaria e poi negare ai primi ministri, come abbiamo sempre fatto, i poteri istituzionali di cui dispongono il premier britannico, il cancelliere spagnolo o il presidente francese.

Noi abbiamo oggi una «partitocrazia senza partiti», raggruppamenti politici che hanno mantenuto l'antica funzione di uffici di collocamento, di distributori di posti e prebende (lo dico senza moralismi: tutti i partiti del mondo fanno anche questo) ma hanno perduto l'insediamento sociale, i forti legami con la società che avevano i partiti di un tempo. Partiti siffatti hanno bisogno, ancor più di quelli della Prima Repubblica, di contare sulla spesa pubblica come strumento di consenso elettorale.

Nulla di meglio, allo scopo, di un ritorno al sistema proporzionale e alle pratiche spartitorie che esso favorisce. Perché rischiare, col maggioritario, di essere esclusi a lungo dal potere e, per conseguenza, dal controllo sulle risorse pubbliche?
Ciò che realmente ci dice l'accordo sulle riforme istituzionali è che mentre il mondo esterno è drammaticamente mutato i nostri principali raggruppamenti politici, e le loro rispettive clientele, pensano come se nulla fosse accaduto negli ultimi venti anni. Alcuni addirittura raccontano che, ritornando ai vecchi riti, si potranno anche resuscitare quei legami fra partiti e società che non esistono più da tempo. Ciò però è falso: quei legami non sono ricostituibili. Perché, insieme al mondo esterno, è cambiata la società italiana.

Una classe politica all'altezza delle sfide incombenti proporrebbe altro da quanto ci viene ora cucinato. Proporrebbe una buon legge elettorale maggioritaria, una drastica riforma del finanziamento dei partiti, e l'abbandono del parlamentarismo puro a favore o di un autentico sistema di cancellierato (autentico: non la caricatura da noi inventata che chiamiamo «modello tedesco») o di una qualche forma di presidenzialismo. Per assicurare alle cariche di governo un maggiore potere decisionale ma anche quel carisma che è stato definitivamente perduto dai partiti. E invece no. Ci propongono una versione della «Repubblica dei notabili». Una simil III Repubblica francese (ottocentesca) che soddisferà forse gli istinti manovrieri, e il gusto per gli intrighi parlamentari, di questo o quel leader, ma che non ci porterà da nessuna parte.

Angelo Panebianco

2 aprile 2012 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_02/panebianco-partitocrazia-zenza-partiti_9cec8350-7c84-11e1-b9fa-a64885bf1529.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Aprile 10, 2012, 12:03:55 pm »

LE TRE CAUSE DEL DISCREDITO

Chi alimenta l'antipolitica


Intervenendo sulla vicenda dei finanziamenti ai partiti il presidente della Repubblica ha ammonito che ciò che rischiamo è «la fine della democrazia e della libertà». Ad alcuni, quella di Napolitano, sarà parsa una forzatura retorica. Ma non lo è. Gli scricchiolii sono sempre più numerosi, il rischio c'è. Si consideri la contestuale presenza di tre elementi. In primo luogo, una crisi economica destinata a durare a lungo, per anni probabilmente, con tanti giovani disoccupati e l'impoverimento di molte famiglie. In secondo luogo, una condizione di generale discredito dei partiti e della classe politica professionale. Infine, l'incapacità di quella medesima classe politica di trovare rimedi adeguati per la crisi di legittimità che l'ha investita. È la sinergia fra questi tre fatti che può provocare conseguenze devastanti.

Sbaglia chi crede che la crisi della Lega tolga semplicemente di mezzo uno dei principali strumenti di canalizzazione di umori antipolitici, che quella crisi sia un colpo all'antipolitica. Semmai, contribuisce a esasperarla. L'antipolitica è il convitato di pietra della politica italiana, si nutre del suo discredito, ne succhia il sangue, e può, in qualunque momento, esplodere in forme imprevedibili. Quando i sentimenti antipolitici diventano dominanti, e certamente lo sono oggi in Italia, aspiranti demagoghi di ogni genere si fanno avanti per intercettarli e assicurarsi un lauto bottino. Chi pensa che alle prossime elezioni politiche il gioco, e il pallino, resteranno interamente nelle mani delle vecchie oligarchie forse si illude. È possibile che la combinazione dei tre elementi suddetti (crisi economica, discredito della politica, inadeguatezza delle risposte al discredito) favorisca il successo di movimenti di protesta a vocazione autoritaria, già esistenti o in via di costituzione, non importa di quale colore politico. Con effetti di condizionamento sull'intera politica italiana.

Soffermiamoci sulla inadeguatezza delle risposte della classe politica al discredito. Si prenda il caso dei rimborsi pubblici ai partiti. L'andazzo durava da anni. Quando finalmente è esplosa la vicenda Lusi i politici hanno solo finto di scandalizzarsi. Adesso che è scoppiato il caso della Lega sembrano decisi a muoversi. Per fare cosa? A quanto pare, per «riformare» il sistema dei rimborsi, stabilire controlli, regole, eccetera. Senza tener conto di due fatti che pesano come macigni: il primo è che il finanziamento pubblico che vogliono mantenere, sia pure riformandolo, ha un non emendabile vizio d'origine, è figlio di un grave vulnus alle regole democratiche. È stato messo in piedi aggirando, e annullando di fatto, i risultati di un referendum popolare che imponeva la fine del finanziamento pubblico (i radicali di Pannella, che lo hanno sempre denunciato, hanno ragione). Se il sistema viene solo «riformato», il vulnus e la connessa illegittimità restano intatti. Il secondo macigno è dato dal fatto che, essendo i partiti giunti a questo livello di impopolarità, è l'idea stessa di finanziamento pubblico (camuffato o meno da rimborso) che è diventato inaccettabile per il grosso dei cittadini-contribuenti, i quali, per giunta, sono soggetti a una pressione fiscale altissima.

Occorrerebbe una rivoluzione, il coraggio di rinunciare ai soldi pubblici e di puntare sui finanziamenti privati (con tutti i paletti, i tetti, i limiti e i controlli che si vuole). Sulla base del principio: il cittadino, se vuole, «si paga» il partito che preferisce. Sarebbe un modo per assicurare che vivano (o si ricostituiscano) i partiti veri, capaci di mobilitare cuori e portafogli, e che muoiano invece le camarille oligarchiche in grado di sopravvivere solo come strutture parastatali, grazie ai soldi pubblici. Non si può fare? Sarebbe una cosa troppo «americana»? E allora tenetevi tutto il pacchetto: i soldi pubblici assieme al disgusto dell'opinione pubblica.

Oppure prendiamo il caso delle riforme istituzionali su cui si è realizzato un accordo di massima fra Pdl, Pd e Udc. Luciano Violante, autore di quella bozza, non me ne voglia se dico che quello schema mi sembra, anche al di là delle sue personali intenzioni, un «Manuale di autodifesa per oligarchie partitiche in pericolo». Un manuale, aggiungo, che non può dare ciò che promette. È surreale, nelle attuali condizioni, puntare su una legge elettorale i cui scopi sono quelli di assicurare (come nella legge che si vuole sostituire) il controllo di pochi dirigenti sulle candidature e di ritornare all'epoca in cui i governi si facevano e si disfacevano in Parlamento, senza riguardo per la governabilità. In Italia, dal 1948 al 1992, in 44 anni, si succedettero 45 governi. Non c'è più nessun Muro di Berlino in grado di tenere in piedi un sistema politico così inefficiente.

Se non fosse perché troppo preoccupati della propria sopravvivenza politica a breve termine, i politici italiani comprenderebbero che la sola strada rimasta per rimettere in sicurezza la democrazia consiste in un vero ampliamento dei poteri del governo (Cancellierato) o in un ampliamento dei poteri unito alla elezione diretta (Presidenzialismo). E in una legge elettorale coerente con lo scopo. Per iniettare più capacità decisionale nella democrazia e dare alle cariche di governo quel prestigio e quella forza perduti dai partiti e che questi ultimi potrebbero recuperare solo dopo anni di buon lavoro.

Le democrazie muoiono di solito per eccesso di frammentazione, instabilità, incapacità decisionale, e per il discredito che, in certe fasi, colpisce i loro partiti. Oggi i partiti italiani vengono percepiti da tanti come un problema anziché una soluzione (ciò spiega la popolarità di Monti). Ai loro dirigenti converrebbe uscire dall'angolo mediante qualche risposta adeguata. Altrimenti, la democrazia potrebbe in breve tempo vacillare sotto l'urto di ondate di protesta sempre più impetuose e pericolose.

Angelo Panebianco

10 aprile 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #157 inserito:: Aprile 16, 2012, 11:48:16 am »

RUOLO E FUTURO DEL PARTITO POLITICO

Non più un principe ma un utile Sherpa

L’Italia sta attraversando una fase in cui i sentimenti antipolitici sono virulenti. Ma che cosa è l’antipolitica? La sua essenza sta nel rifiuto della mediazione politica, di quella attività che consiste nell’aggregare interessi diversi e eterogenei a sostegno di decisioni su problemi collettivi. Le manifestazioni dell’antipolitica variano in funzione dei contesti e delle tradizioni. I suoi nemici, ovviamente, sono i politici, i professionisti della mediazione, giudicati troppo corrotti o troppo inefficienti o entrambe le cose.

Se l’enfasi è sulla corruzione, l’antipolitica si nutre di argomentazioni etiche. In Italia conosciamo questa variante dai tempi di Mani Pulite.
Più interessante è l’antipolitica fondata su accuse di inefficienza, di incapacità di risolvere i problemi collettivi.
Può presentarsi in due versioni. I politici possono essere giudicati inefficienti perché incompetenti. In questo caso l’antipolitica si aggrappa a soluzioni tecnocratiche. Gran parte della popolarità del governo Monti si spiega così. Per questa forma di antipolitica i problemi collettivi sono troppo complessi per lasciarli nelle mani di politici ignoranti. La complessità esige competenza tecnica.
La stessa democrazia rappresentativa può essere percepita come un impiccio.

Nella seconda versione, i politici sono ancora una volta inefficienti ma non a causa della complessità. A causa del fatto che badano solo ai propri interessi. L’argomento della inefficienza si somma a quello della corruzione. Per questa forma di antipolitica i problemi collettivi sono semplici. Ogni uomo di buona volontà può risolverli. È l’argomento detto della «cuoca di Lenin ». Lo sostengono tanti demagoghi in tutto il mondo. La situazione italiana è esplosiva perché tutte le forme di antipolitica sono in questo momento presenti. È un brodo di coltura da cui può venir fuori qualunque cosa.

Date le nostre tradizioni, la politica contro cui ci si scaglia è la «politica partitica », non quella delle istituzioni: ciò spiega perché, mentre i partiti hanno pessima fama, il presidente della Repubblica in carica, che pure viene dall’esperienza partitica, gode di generale stima. Ma sul ruolo dei partiti bisogna essere chiari. Perché la confusione è tanta (come mostra, ad esempio, un articolo di Alfredo Reichlin
sull’Unità di sabato 14 aprile, che se la prende anche con questo giornale). Che i partiti siano necessari alla democrazia rappresentativa è un fatto indiscutibile. Non è invece indiscutibile che siano necessari i partiti come li abbiamo conosciuti in questo Paese.

Dell’Italia repubblicana si è sempre detto che essa nacque sotto forma di «democrazia dei partiti». L’affermazione sarebbe stata pleonastica (in tutte le democrazie, infatti, ci sono i partiti) se non fosse per il particolare significato che ha sempre avuto quella espressione.
Si riferisce al fatto che i partiti, in un’Italia iper-partigiana, hanno avuto per decenni un ruolo assorbente, totalizzante, in grado di dominare o controllare qualunque istanza si affacciasse alla vita pubblica. La si chiamasse «Repubblica dei partiti» (nella versione benevola) o «partitocrazia» (in quella malevola) la democrazia italiana si è caratterizzata per decenni come un luogo nel quale i partiti erano tutto e le istituzioni erano niente.

Le istituzioni, per prima la presidenza della Repubblica, cominciano ad acquistare un peso via via crescente (si pensi a Pertini e poi a Cossiga) solo in coincidenza con l’aggravarsi della crisi dei partiti della (cosiddetta) Prima Repubblica. Il grande problema dei partiti attuali, intorno al quale i loro gruppi dirigenti si sono avvitati accrescendo così il proprio discredito, è che essi non hanno più quei fortissimi legami che hanno avuto per decenni con segmenti importanti della società e che consentivano loro di fare il bello e il cattivo tempo, ma non sono stati in grado di accettarlo e di ridisegnare la propria mission, la propria «ragione sociale». Non è vero che in una democrazia i partiti debbano essere per forza ciò che erano nell’Italia dei primi quaranta anni di storia repubblicana e che l’alternativa sarebbe la scomparsa dei partiti. Coloro che dalla crisi delle formazioni personali o carismatiche, da Berlusconi a Bossi, traggono ispirazione per sostenere che bisogna tornare ai partiti di un tempo, non solo fanno un sogno impossibile (quei legami fra partiti e società non sono ricostituibili perché è cambiata la società italiana).

Fanno anche danni, si aggrappano a terapie sbagliate, alimentano l’antipolitica. La vicenda dei rimborsi elettorali (che rimborsi non sono affatto) è emblematica. Solo gruppi dirigenti che immaginavano di poter operare con la stessa arroganza del tempo che fu potevano concepire, di comune accordo, un simile sistema. L’antipolitica può essere contenuta solo se i partiti accettano di essere altro da ciò che sono stati, accettano di essere, come sono nelle democrazie meglio funzionanti, solo organizzazioni specializzate nella raccolta del consenso elettorale e nella fornitura di personale per cariche di governo, senza più la pretesa di dominare le istituzioni. Il che richiede il contestuale rafforzamento dell’autonomia e dei poteri decisionali attribuiti alle istituzioni di governo. Compito dei partiti non è di essere, gramscianamente, i «principi». È di essere, più modestamente, gli sherpa, le strutture di supporto di coloro che si sfidano sul piano elettorale allo scopo di diventare, essi sì (ma con mandato a termine), i principi. Che altro sono i partiti in Francia o in Gran Bretagna?
Si guardi alla esperienza di maggior successo degli ultimi venti anni, quella dei sindaci. Non tutte le ciambelle riescono col buco, naturalmente, ma è un fatto che spesso lo scontro frontale fra candidati sindaci, e la vittoria di uno di loro, rivitalizzano il rapporto politica-società, e danno anche ai partiti un ruolo che non avrebbero se non fossero stati il supporto del candidato vincente.

Se si vuole sconfiggere l’antipolitica (nei suoi aspetti minacciosi per la democrazia) occorre che i partiti si rassegnino a un ruolo assai più modesto che in passato. Solo così i cavoli dei partiti e la capra della democrazia potranno essere salvati.

Angelo Panebianco

16 aprile 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #158 inserito:: Aprile 24, 2012, 05:27:37 pm »

ISTITUZIONI FORTI, GOVERNI AUTOREVOLI

L'antipolitica e i suoi antidoti

Di quali istituzioni (e di quali partiti politici) avrebbe bisogno l'Italia per avviare una nuova stagione di crescita economica? Ha senso pensare istituzioni e partiti in questa chiave?

Cominciamo col dire che sarebbe strano se non convenissimo tutti che rilanciare la crescita economica sia la nostra priorità nazionale, lo scopo primario a cui tutti gli sforzi dovrebbero tendere. Riavviare la crescita non serve solo a ridare prosperità al Paese, serve anche a mettere in sicurezza la democrazia. La decrescita provoca impoverimento e, superata una certa soglia, l'impoverimento fa correre rischi mortali alla democrazia. Nei prossimi anni, la competizione fra le forze politiche potrà riguardare, per l'essenziale, solo le differenti ricette per rilanciare la crescita, per invertire la tendenza, per porre termine a quella emergenza nazionale che è il declino economico. E ciò richiederà la capacità di ridurre drasticamente il debito, di abbattere (giunti a questi livelli di prelievo, non si tratta più semplicemente di «abbassare», ma di abbattere) le tasse, di aggredire, possibilmente col lanciafiamme, una burocrazia inefficiente e opprimente.

Un compito del genere richiede istituzioni adeguate, dotate di un forte potere decisionale concentrato. Come si potrebbero altrimenti vincere le immense resistenze che, per esempio, si sprigionano a tutti i livelli contro qualunque ipotesi di riduzione della spesa pubblica o di semplificazione del quadro normativo? Dunque, è necessario irrobustire assai le istituzioni politiche accrescendone autonomia e potere decisionale. In concreto, si tratta di dare alla democrazia italiana ciò che non ha mai avuto: governi istituzionalmente forti.

Ciò si può fare in vari modi, sono possibili diverse strade. Mi permetto di dissentire dall'onorevole Massimo D'Alema quando, in una intervista alla Stampa (del 22 aprile), dice che la sola scelta che abbiamo di fronte è fra il sistema parlamentare e quello presidenziale. In realtà, ci sono vari tipi di presidenzialismo, alcuni efficienti e altri no. E vari tipi di parlamentarismo, alcuni efficienti e altri no. Il nostro, simile a quello della IV Repubblica francese, è, come è noto, altamente inefficiente.

La ragione per cui, su questo giornale, chi scrive ha criticato la bozza di accordo su legge elettorale e riforme istituzionali elaborata da Pd, Udc e Pdl, è che quel progetto non promette di darci ciò di cui abbiamo necessità: governi forti e stabili e drastica riduzione di quei diffusi e radicati poteri di veto che obbligano sempre i governi a compromessi al ribasso, ne bloccano le velleità riformatrici.

In un quadro che fosse di rafforzamento delle istituzioni di governo, i partiti, che sono organismi parassitari (si adattano cioè alle istituzioni in cui operano), non potrebbero avere il ruolo di dominatori delle istituzioni, dovrebbero accettare di essere strutture di servizio e di supporto per candidati in lizza per la guida del governo. Si leggono molti commenti secondo cui la crisi dei partiti personali, da Berlusconi a Bossi, rilancerebbe l'idea del partito a guida «collettiva». Chi lo sostiene forse non sa che, nel caso dei partiti, ci sono solo due possibilità: o sono guidati da un leader (che si candida per la guida del governo) o sono guidati da una ristretta oligarchia. Quanto a struttura del potere, in altre parole, i partiti possono essere solo monocrazie o oligarchie.

Davvero la soluzione alla crisi dei partiti personali sarebbe la rivitalizzazione del partito oligarchico? Nelle altre grandi democrazie europee, dove pure non si è verificata quella traumatica distruzione delle vecchie formazioni partitiche che noi abbiamo sperimentato nei primi anni Novanta, la politica democratica è competizione fra leader, sostenuti dai rispettivi partiti, per la conquista del governo. Ciò è inevitabile in tutti i casi in cui la democrazia si sposi con governi istituzionalmente forti. La concentrazione di potere nelle istituzioni di governo produce concentrazione di potere nei partiti. Chi vuole il partito a guida collettiva (ossia, oligarchico), ne sia consapevole o no, vuole anche ciò che non possiamo più permetterci: istituzioni di governo acefale, deboli e frammentate. Sembra che in Italia ci siano ancora troppi «intellettuali della Magna Grecia», così innamorati delle specificità italiane da non guardare con sufficiente attenzione a ciò che accade in altre democrazie.

L'antipolitica è un sintomo e non la malattia, si gonfia se le classi politiche non riescono a dare risposte plausibili alle sfide. Date risposte plausibili (si tratti di finanziamento dei partiti, di costi degli apparati politico-amministrativi, di riforme istituzionali, ma anche di riduzione del debito, tasse, lotta alla burocrazia, efficienza dei servizi pubblici) e l'antipolitica riprecipiterà in quei bui e un po' maleodoranti scantinati in cui normalmente si nasconde.

Angelo Panebianco

24 aprile 2012 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_24/antipolitica-suoi-antidoti-panebianco_6f7b94e4-8dd0-11e1-839c-11a4cf6ed581.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Maggio 06, 2012, 04:42:44 pm »

NON SONO SOLO AMMINISTRATIVE
Che significato dare al voto

A volte i risultati delle elezioni amministrative anticipano quelli delle successive elezioni politiche e a volte no. Nel 1975 il successo del Partito comunista alle Amministrative anticipò la sua forte affermazione nelle elezioni politiche del 1976. Ma un analogo successo dell'erede del Pci, il Pds di Achille Occhetto, nelle Amministrative del 1993 non anticipò affatto il risultato delle Politiche del 1994 (il Pds venne allora sconfitto da Silvio Berlusconi). Quali che saranno gli esiti delle Amministrative parziali di oggi, nonché gli «insegnamenti» e i «presagi» che gli esperti in divinazione elettorale ne trarranno, difficilmente quegli esiti potranno darci i nomi dei vincitori e dei vinti delle elezioni politiche generali dell'anno prossimo, del 2013. Soprattutto se, come appare probabile, sarà andata in porto, nel frattempo, la riforma del sistema elettorale.

Molte incognite pesano sul voto. C'è la questione della tenuta del Pdl. Una sua forte sconfitta potrebbe imprimere una accelerazione al processo di disintegrazione, già in atto da tempo, di quella formazione politica. Nessuno però potrebbe sapere come, in tal caso, andrebbe a riorganizzarsi quell'area politica e con quali chance di successo in vista delle elezioni del 2013. Né è dato di sapere cosa accadrà alla Lega. Da un lato, in quanto «grandi oppositori» del governo Monti, i leghisti dovrebbero intercettare una parte almeno della protesta che le politiche del governo alimentano. Dall'altro lato, però, la Lega si trova a fronteggiare uno scandalo di tale forza da averne terremotato i vertici investendo il suo stesso fondatore e capo carismatico. E anche il Pd ha i suoi problemi (dalle inchieste giudiziarie alla agguerrita concorrenza che subisce da parte di candidati locali che si collocano alla sua sinistra).
Insomma, comunque vada, anche dopo che si saranno tenuti i ballottaggi, difficilmente l'incertezza e la confusione oggi regnanti si dilegueranno.

La complessità della situazione è data dal fatto che il voto sarà influenzato da tre fattori il cui rispettivo peso resterà difficile da valutare. Peseranno, prima di tutto, come è ovvio (anche se i commenti del giorno dopo, tradizionalmente, tendono a dimenticarlo) le specificità locali. Molti elettori voteranno semplicemente con lo sguardo volto all'amministrazione della loro città. Troppo spesso, si attribuiscono valenze politiche generali a un voto che, come è naturale e giusto che sia, è condizionato da ragioni locali.

Però, è anche vero che, soprattutto in tempi di crisi, una parte almeno degli elettori, anche in un voto amministrativo, risponde a stimoli e pressioni di ordine generale. La complicazione è data dal fatto che sono congiuntamente in atto due crisi, fra loro distinte, anche se collegate, entrambe suscettibili di influenzare il voto.

C'è, in primo luogo, la crisi del sistema politico, determinata dalla fine (o dalla forte attenuazione) della ventennale contrapposizione fra berlusconiani e antiberlusconiani. È la crisi del bipolarismo all'italiana: ci si aspetta che essa inneschi a breve termine una ristrutturazione/ricomposizione delle forze politiche fin qui dominanti. Il voto amministrativo cade, cioè, nel mezzo di una confusa transizione di cui sono espressioni sia la presenza del governo detto tecnico (che si trova a svolgere, di fatto, il ruolo del traghettatore verso equilibri politici diversi da quelli del recente passato) sia la drammatica perdita di credibilità dei partiti esistenti.

La seconda crisi è, naturalmente, quella economica: qui più che le specificità italiane giocano le dinamiche mondiali. E gioca ciò che l'Unione europea fa o non fa per contrastare la crisi (o si ritiene che debba fare o non fare). In Italia, come in molti altri Paesi, è cresciuto un sentimento di ostilità verso l'Europa, e verso la Germania, che dell'Europa è il dominus , che difficilmente mancherà di lasciare la sua impronta persino sulle nostre elezioni amministrative (parziali). Così come su qualunque altra elezione, nazionale o locale, che si tenga in qualunque altro Paese europeo. È, fra quelle in atto, la tendenza più pericolosa. L'Unione europea si è sempre retta sul consenso (passivo, quanto meno) dei più: se il consenso si riduce sensibilmente, come sta avvenendo oggi in molti Paesi europei, se il dissenso manifesto si gonfia oltre una certa soglia, l'Unione avrà a disposizione sempre meno risorse politiche per fronteggiare la crisi e trovare soluzioni. Non solo, come è più ovvio, la sfida per le Presidenziali in Francia fra Hollande e Sarkozy, ma persino una elezione di secondaria importanza come le nostre Amministrative odierne diventano altrettanti test sul futuro dell'Europa.

Si è molto parlato di antipolitica, soprattutto con un occhio ai sondaggi che danno il movimento di Beppe Grillo in crescita, ma si è collegato il fenomeno solo alla crisi del sistema politico italiano, e al discredito dei nostri partiti. Ma questa è solo una faccia del problema. L'altra faccia è rappresentata dal fatto che gli umori antieuropei circolanti nel Paese (come in altri Paesi) sono alla ricerca di sbocchi politici, di rappresentanza. E, inevitabilmente, finiranno per trovarla.

L'interdipendenza, anche politica, in Europa è ormai tale che persino elezioni comunali non sono senza effetti sugli equilibri europei. In fondo, vale per l'Europa ciò che vale per i partiti italiani. L'una e gli altri o riescono a trovare soluzioni credibili, serie, per i problemi che ci attanagliano o riceveranno schiaffi sempre più forti da elettori disorientati e alla ricerca di alternative più o meno illusorie.

Angelo Panebianco

6 maggio 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_06/significato-voto-panebianco_a1629b54-9741-11e1-9a56-d67dd7427f23.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Maggio 18, 2012, 10:52:29 pm »

LE SCELTE SULLA LEGGE ELETTORALE

Casini e l'addio alle mani libere


Si farà la riforma elettorale? E se sì, di che riforma si tratterà? Forse, potrebbe rispondere a queste domande il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Non tutto, ma molto, dipende da lui. Dipende, cioè, dalle scelte strategiche che Casini farà (o non farà) in materia di alleanze, in vista delle prossime elezioni. Cerchiamo di capire perché.

Fino a questo momento, i lavori sulla riforma elettorale (la cosiddetta bozza Violante) sono stati condizionati dalla centralità che Casini, grazie alla nascita del governo Monti, ha provvisoriamente conquistato in Parlamento. Giocando su quella centralità Casini ha lavorato in questi mesi per un obiettivo: il varo di una legge proporzionale che, nelle intenzioni, gli avrebbe consentito di assumere in permanenza il ruolo di ago della bilancia della politica italiana, di avvantaggiarsi della rendita di posizione centrista. Per ragioni diverse, gli altri (Pd, Pdl) lo hanno fin qui assecondato. Il Pd lo ha assecondato perché influenzato dal progetto, che si attribuisce a Massimo D'Alema, di una futura alleanza con l'Udc. Il Pdl, a sua volta, lo ha assecondato ritenendo che con la proporzionale avrebbe forse potuto rendere meno catastrofica la prevista (dai sondaggi) sconfitta elettorale e rimanere comunque in gioco.

Naturalmente, né il Pd né il Pdl, pur assecondando Casini, erano e sono disposti a rinunciare al ruolo di principali partiti del sistema politico. Da qui i tira e molla su premi di maggioranza, grandezza dei collegi (i collegi piccoli, di tipo spagnolo, premiano i partiti grandi, quelli grandi premiano i partiti medi e piccoli), soglie di sbarramento, eccetera. Quei tira e molla - e i malumori che circolano dentro i due maggiori partiti per il previsto ritorno alla proporzionale - hanno infine prodotto una situazione di stallo.

Ma supponiamo che ora Casini cambi strategia. Preso atto, e lo ha già fatto, che il progetto del Terzo polo è fallito, constatato che le sue chance di diventare l'ago della bilancia non sono poi molte, e riconosciuto, infine, che se il sistema politico, dopo le elezioni, si incartasse come ha fatto quello greco sarebbero dolori per tutti, Casini potrebbe decidere di abbandonare la politica delle «mani libere» e di stringere una alleanza con il Pd o con il Pdl. Più plausibilmente con il Pdl visto che, fra i due partiti maggiori, è il più debole e quindi anche il meno coriaceo nelle eventuali trattative.

A quel punto, fatto l'accordo, persino a Casini potrebbe convenire un sistema elettorale che salvi il bipolarismo (o un proporzionale di tipo spagnolo o, meglio ancora, un doppio turno di tipo francese) premiando le due alleanze politiche più forti. Basterebbe, ad esempio, convincere il Pdl che il doppio turno, in elezioni politiche, non lo mette necessariamente in posizione di svantaggio rispetto al Pd. Non è affatto detto, infatti, che, in elezioni ove la posta in gioco è molto alta, gli elettori di destra «votino meno» al secondo turno rispetto agli elettori di sinistra. E il doppio turno ha il vantaggio di premiare le alleanze e di punire chi va da solo. Tanto la concorrenza della Lega (a destra) quanto quella di Beppe Grillo (a sinistra) diventerebbero, col doppio turno, meno temibili.

Come sarà il prossimo sistema elettorale? Dipenderà forse, in non lieve misura, da ciò che Casini deciderà di fare da grande.

Angelo Panebianco

18 maggio 2012 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_18/casini-addio-mani-libere-panebianco_af726e52-a0a8-11e1-b2d7-87c74037ee6c.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Giugno 06, 2012, 04:49:08 pm »

TRA ÉLITE EUROPEE E GENTE COMUNE

Una distanza insostenibile

Se cerchiamo le cause profonde della crisi dell'Europa, possiamo forse identificarne una più generale e una più specifica. La più generale consiste nel «ciclo generazionale». La più specifica nell'incapacità delle élite europeiste di fare i conti con le credenze del common man, dell'uomo comune europeo.

Per ciclo generazionale si intende una regolarità tante volte all'opera nella storia. A una fase di grandi disordini (guerre interstatali e civili) segue una lunga fase di pace e ordine. Coloro che hanno vissuto l'età del disordine e ricordano le morti violente e il senso di costante insicurezza, coloro che sentono ancora, se chiudono gli occhi, l'odore della paura per la sopravvivenza propria e dei propri cari, si adoperano perché quei tempi non tornino più. Ne seguiranno sforzi individuali e collettivi tesi ad assicurare una forma di «pace perpetua» (dentro le società e fra le società affini), un ordine che si spera di costruire su basi solide. I figli di coloro che hanno vissuto nell'età del disordine ne continuano l'opera. Non hanno conosciuto direttamente quella età (o erano troppo piccoli per averne un ricordo distinto) ma sono stati influenzati dai racconti dei genitori. Da quei racconti hanno appreso che l'ordine societario è una fragile cosa, che l'età del disordine potrebbe tornare spezzando di nuovo vite e progetti di vita, sogni e desideri. L'ordine si mantiene grazie allo sforzo della nuova generazione. Possono anche insorgere, qua o là, minoranze violente (terrorismo) ma verranno sconfitte. I padri sono ancora lì a ricordare a tutti l'esperienza vissuta nell'età del disordine.

Poi, a poco a poco, scompaiono tutti quelli che hanno avuto esperienza diretta di quei tragici tempi. Per i loro nipoti non c'è ormai differenza fra le guerre puniche e il nazismo o la Seconda guerra mondiale. Cose che appartengono a epoche lontane, che si studiano a scuola, irrilevanti per la loro personale esperienza. Le inibizioni che hanno condizionato le generazioni precedenti si dissolvono. Non c'è più memoria dell'antica barbarie. Il rischio di una nuova età del disordine diventa elevato.

La Comunità europea, e poi l'Unione, insieme alle altre istituzioni del mondo occidentale sono state per tanti una assicurazione contro il rischio del disordine. Più passa il tempo, più questa funzione dell'Europa comunitaria si indebolisce. Chi ritiene «impensabile» che in Europa possa tornare una età del disordine, simile a quella che la sconvolse nella prima metà del XX secolo, aderisce a una variante ingenua dell'ideologia del Progresso.

La seconda causa della crisi riguarda la distanza, culturale prima che politica, fra le élite europeiste, le élite (politici, intellettuali) che ancora investono nell'integrazione europea, e una parte consistente dei cittadini comuni. È una distanza fra élite e popolo che si spiega, in parte, con la storia dell'integrazione europea. L'Europa fu voluta da élite illuminate. Fino alla moneta unica, l'integrazione fu un processo elitario. Gli elettori, certo, lo accettavano. Perché lo percepivano come una garanzia di ordine e ne ricavavano visibili benefici. Ma da quando il ciclo generazionale ha quasi completato il suo percorso e i benefici visibili sono diminuiti, la distanza fra élite europeiste e «popolo» (o una parte del popolo) è andata allargandosi.

Il referendum irlandese sul fiscal compact dell'altro ieri è andato bene ma quante volte gli elettori dell'uno o dell'altro Paese hanno votato contro i desiderata dei leader europei?

È vero che se crollasse l'euro la catastrofe economica sarebbe immane e forse molte delle nostre democrazie ne verrebbero travolte. Ma perché mai questo (giusto) ragionamento sembra avere poca efficacia politica? Forse perché (o anche perché) molti esponenti delle élite europeiste non sanno entrare in sintonia con il cittadino comune, non sono capaci di empatia. Sottovalutano, in primo luogo, la forza del nazionalismo. Quando si criticano il nazionalismo economico della Germania di oggi e i comportamenti che hanno portato la crisi dell'euro al limite della rottura, si dimentica che il nazionalismo economico è una sottocategoria del nazionalismo tout court , non ha vita autonoma. La maggior parte degli europei continua a identificarsi nella propria nazione. Il fatto che il nazionalismo non si manifesti con l'aggressività bellica di un tempo nulla toglie alla sua perdurante vitalità.

Le élites europeiste sottovalutano, poi, l'importanza che mantengono per i cittadini le istituzioni della democrazia nazionale. Saranno anche meri simulacri, privi di potere effettivo, ma sono le uniche, perché più vicine a loro, che i cittadini pensano di potere influenzare. Se non si fa loro cambiare idea su questo punto diventa un esercizio sterile invocare l'integrazione politica sovranazionale.

La proposta migliore l'ha avanzata l'ex ministro tedesco Joschka Fischer (su questo giornale, il 26 maggio). Creiamo - ha detto - una «euro-Camera», una sorta di Camera bassa, nella quale siano presenti sia le maggioranze che le opposizioni di ogni Stato dell'Eurozona. L'attenzione di mass media e opinione pubblica si concentrerebbe sulle alleanze che vi si creano e le decisioni che si prendono. È una buona idea: prende atto del fallimento dell'attuale Parlamento europeo e suggerisce una strada più coinvolgente.

Ma è solo un esempio. È compito delle élite guidare gli altri cittadini con lungimiranza. Ma se, per mancanza di empatia e di attenzione ai loro umori e orientamenti, se ne allontanano al punto da non scorgerli più, allora il loro ruolo è finito. L'Europa corre lo stesso rischio.

Angelo Panebianco

4 giugno 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_04/distanza-insostenibile-panebianco_7242e9b6-ae05-11e1-bd42-307990543816.shtml
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« Risposta #162 inserito:: Giugno 12, 2012, 04:39:43 pm »

I PERICOLI DELL'UNIONE EUROPEA

La tentazione nazionalista

La questione dell'Europa coincide con la questione della pace


A grandi pericoli corrispondono grandi opportunità. Proprio perché la costruzione europea è oggi a rischio di distruzione esiste anche l'opportunità di darle nuovo slancio. Ha ragione l'ex cancelliere tedesco Helmut Kohl: la questione dell'Europa coincide con la questione della pace. Persino in un'epoca che si fa beffe della memoria storica si deve sapere che la storia d'Europa è una storia di guerre. Continuare a lavorare nel cantiere europeo, impedire che venga smantellato, serve soprattutto alla pace.

Per discuterne utilmente bisogna però rimuovere alcuni ostacoli: pregiudizi, modi sedimentati di guardare la realtà, che la deformano. Alcuni anni fa, una studiosa di cose europee, Vivien Schmidt, scrisse che il funzionamento dell'Unione è stato a lungo un caso di policy without politics , di politiche pubbliche senza politica. L'Unione macinava quotidianamente «politiche» (agricola, commerciale, monetaria, eccetera) ma la «politica» - intesa come conflitto e competizione aperta fra visioni differenti - era esclusa dall'ambito europeo, restava relegata negli ambiti nazionali.

Oggi, con la crisi dell'euro, le cose sono cambiate: la «politica» è entrata nelle felpate stanze dell'Unione. Ma un lungo periodo di policy without politics ha lasciato una impronta. Una eredità negativa è il carattere tradizionalmente stereotipato, ripetitivo, del dibattito pubblico sull'Europa. Un dibattito nel quale, a lungo, c'è stato spazio solo per due posizioni: l'europeismo acritico e l'antieuropeismo. O si era europeisti, e si accettavano supinamente, senza discutere, istituzioni, procedure e politiche generate dall'Unione, o si era antieuropeisti, nostalgici delle sovranità nazionali. Chiunque fosse convinto del valore della casa comune europea ma esprimesse dubbi su questo o quell'aspetto dell'integrazione, o della filosofia che la giustifica, si vedeva additato come antieuropeista. Ciò ha strozzato il dibattito, ha fatto male all'Europa. Gli antieuropeisti ci sono ma ci sono anche, per parafrasare Romano Prodi, gli «europeisti adulti», refrattari alle ortodossie e ai catechismi. Se si vuole salvare l'Europa se ne deve parlare senza tabù, liberamente.

In un precedente articolo (Corriere , 4 giugno), ho scritto della distanza che separa le élite europeiste tradizionali dai cittadini comuni. Un effetto di tale distanza è che, spesso, queste élite tendono a imputare solo alle «classi politiche nazionali» le resistenze che impediscono una piena integrazione politica. Senza avvedersi di quanto forte sia sempre stata, su questo punto, la tacita solidarietà fra classi politiche nazionali e cittadini.

Prendiamo il tema tabù per eccellenza: il nazionalismo. Per la concezione dell'Europa che chiamo «ortodossa» è impensabile che il nazionalismo (l'identificazione in quella «comunità immaginaria» che è la propria nazione) possa tuttora essere più forte della identificazione nell'Europa. Quando si ammette l'esistenza del nazionalismo (si veda l'articolo di Giuliano Amato, Emma Bonino e altri, «La spinta necessaria a un'Europa politica», Corriere , 6 giugno, che rappresenta al meglio la posizione ortodossa) lo si associa al «populismo». Come se, ad esempio, il nazionalismo in Francia riguardasse solo gli elettori lepenisti. Non è così. Non solo in Francia il nazionalismo è vivo e vegeto e ha fino a ora impedito ai suoi governi di sottoscrivere proposte di rafforzamento dell'Europa politica ma è vitale anche in molti altri Paesi.

Non sono nazionalisti solo gli antieuropeisti dichiarati. Lo sono anche i governi, sostenuti dai rispettivi elettori, che non rinunciano ai vantaggi dell'Unione ma vogliono piegarla ai propri interessi nazionali. Sembra di tal fatta anche la recente proposta di Angela Merkel di una maggiore integrazione politica: il progetto di una «piccola Europa», che escluda i Paesi «non in ordine» secondo i criteri tedeschi. Non, si badi, un'Europa a leadership tedesca (che nessuno potrebbe sensatamente rifiutare) ma dominata dai tedeschi. Non si può più ignorare il peso del nazionalismo, bisogna farci i conti per impedire che distrugga l'Unione.

Allo stesso modo, senza preconcetti, bisogna interrogarsi sugli ostacoli che hanno fin qui impedito di accrescere la rappresentatività delle istituzioni europee. Nessuno sa come potrebbe funzionare una democrazia sovranazionale multilinguistica di dimensioni continentali (la storia degli Stati Uniti d'America è assai diversa dalla nostra). E nessuno sa come convincere gli elettori a non rimanere abbarbicati alla democrazia nazionale. C'è un rapporto fra la distanza dell'elettore dall'arena rappresentativa per la quale vota e la sua sensazione di poter controllare i rappresentanti. Anche se, con l'integrazione, i governi e i parlamenti nazionali hanno perso il controllo su tante aree decisionali, molti elettori mantengono l'idea, o l'illusione, che sia più facile per loro condizionarli.

Nell'intervento sopra citato, Amato, Bonino e gli altri firmatari criticano la mia affermazione secondo cui il Parlamento europeo ha fallito il suo scopo principale. Lo ribadisco: quella istituzione ha ben poco a che fare con la «sovranità popolare». Gli elettori che votano alle elezioni europee lo fanno più per lanciare messaggi ai partiti dei propri Paesi che per concorrere a formare un'inesistente «volontà popolare europea». Per questo mi è parsa una buona idea la proposta dell'ex ministro tedesco Joschka Fischer di creare una Camera bassa, limitata all'eurozona, ove siano rappresentate sia le maggioranze che le opposizioni di ciascun Paese. Per calamitare l'attenzione dell'opinione pubblica sulle alleanze che vi si stipulano e le decisioni che vi si prendono. Non ci serva la riproposizione di formule stantie. Servono nuove idee, e la ricerca di intelligenti alternative, per impedire che il cantiere comune europeo venga smantellato.

Angelo Panebianco

12 giugno 2012 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_12/tentazione-nazionalista-angelo-panebianco_394dfaca-b44e-11e1-8aac-289273c95a39.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Giugno 21, 2012, 06:39:05 pm »

UNA QUESTIONE NON SOLO ECONOMICA

Moneta unica e democratica

La crisi dell'euro ha rilanciato anche in Italia la tesi, che circola qua e là con sempre maggiore insistenza, secondo cui un'eventuale uscita dalla moneta unica, ancorché drammatica, sarebbe pur sempre meno dolorosa di una agonia prolungata e senza sbocchi. Meglio, pensano alcuni, fare da soli, tornare alla lira e alle svalutazioni competitive del passato, piuttosto che continuare a precipitare, senza reagire, nell'abisso in cui la crisi dell'euro sta trascinando l'Europa. Persone stimabilissime, da Paolo Savona ad Antonio Martino, lo pensano e lo dicono. Fermo restando che, di sicuro, l'infallibilità non ci appartiene, è però lecito ipotizzare che se l'euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l'economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale.

Possiamo discutere quanto vogliamo sul vizio d'origine della moneta unica, una moneta non sorretta da quella unificazione politica che tanti oggi invocano pur sapendo che essa non è comunque a portata di mano. Ma il fatto è che, quali che siano stati gli errori commessi, giunti a questo punto, la fine dell'euro avrebbe forti probabilità di risolversi, per contraccolpo, in una catastrofica dissoluzione di quasi tutto ciò che è stato costruito in sessanta anni di integrazione europea. E l'Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo.

Si può naturalmente pensare che ci sia molta esagerazione nella tesi secondo cui l'Italia necessitava prima e necessita oggi di stringenti vincoli esterni. Si può pensare che sia addirittura offensivo, o magari antipatriottico, dipingere un'Italia minorenne, incapace di gestirsi da sola, senza tutori e imposizioni esterne. Ma una più attenta osservazione della nostra storia postbellica nonché delle condizioni presenti del Paese, dovrebbe consigliare maggiore prudenza. Il patriottismo è un'ottima cosa ma a patto che non renda ciechi.

Per tutto il periodo della guerra fredda la democrazia italiana sopravvisse più a causa dei vincoli esterni (la Nato e, per essa, il rapporto con l'America, la Comunità europea in subordine) che a causa delle sue tradizioni e della sua cultura politica. Senza bisogno di spingersi a sostenere che, durante la guerra fredda, la democrazia sopravvisse in Italia nonostante quelle tradizioni e quella cultura politica, non può essere negato il potentissimo ruolo stabilizzatore che ebbero le costrizioni esterne.

Oggi, il rapporto con un'America sempre più lontana non funziona più come vincolo, non può più proteggerci da noi stessi. È rimasta solo l'Europa. Venisse meno anche quest'ultimo vincolo, che accadrebbe all'Italia? Si considerino due aspetti (che, sono, ovviamente, fra loro connessi): la condizione in cui versa la nostra democrazia politica e le vistose crepe che esibisce lo Stato nazionale.

Per quanto riguarda la democrazia, basta leggere le cronache quotidiane: classe politica delegittimata, disaffezione di porzioni ampie dell'opinione pubblica nei confronti del Parlamento e di altri fondamentali istituti democratici, rischi gravi di ingovernabilità una volta che si sia chiusa la parentesi del governo detto tecnico. Nonché la noia infinita di una discussione sulle «urgentissime» riforme costituzionali che si trascina sterilmente da trenta anni (dagli anni Ottanta dello scorso secolo) e minaccia di durare per altri trent'anni. Quanto questo eterno discutere senza sbocchi operativi, senza costrutto, abbia contribuito a usurare linguaggi e simboli della democrazia è difficile stabilire.

Altrettanto grave, e forse ancor più grave, è la condizione in cui versa lo Stato nazionale. Dopo centocinquanta anni di unità, il fallimento è evidente: la grande questione italiana, la questione meridionale, non ha mai trovato soluzione. La frattura Nord/Sud è più viva e forte che mai e, con essa, la distanza che separa certe regioni del Sud dal Nord d'Italia. Con la differenza che, un tempo, la speranza di venirne a capo mobilitava intelligenze, cervelli. Oggi non più. Non esiste più un pensiero meridionalista degno di questo nome. È subentrata la rassegnazione. Se verrà meno il vincolo europeo quanto tempo passerà prima che il conflitto territoriale esploda in forme incontrollabili?

Immediati costi economici a parte, la fine dell'euro, trascinando nella rovina anche l'Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi. Non ci conviene. Nel calcolo dei costi e dei vantaggi, la bilancia continua a pendere dalla parte dell'Unione. Non siamo certo gli unici, ma siamo comunque fra coloro che hanno un vitale interesse a che la crisi dell'euro venga superata.

Angelo Panebianco

21 giugno 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_21/moneta-unica-democratica-panebianco_322a2168-bb62-11e1-b706-87dd3eab4821.shtml
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« Risposta #164 inserito:: Luglio 05, 2012, 11:59:06 am »

IL SENTIERO DEL NUOVO LEADER

Il carroccio tra Po e Baviera

Come negli anni '92-93, la politica si è trasformata in un composto fluido, quasi gassoso. In attesa che si solidifichi di nuovo con nuove caratteristiche. La sola certezza è che fra un anno, dopo le prossime elezioni, la fisionomia della Italia pubblica sarà diversa da quella di oggi. Una buona spia dei movimenti in atto nel sistema dei partiti, ma anche della confusione che oggi regna, è data dalla svolta avvenuta nella Lega Nord. Ieri, al congresso di Assago, è nata la Lega di Roberto Maroni. Maroni, che ha il problema di dare un nuovo volto a un partito oggi diviso e in crisi, ha compattato i militanti ricorrendo a un linguaggio molto duro. Ha parlato di indipendenza del Nord come obiettivo strategico, ha ribadito l'opposizione frontale al governo Monti, ha adombrato gesti estremi come l'abbandono di Roma di parte dei leghisti. Per consolidare la sua leadership, Maroni deve difendersi da un doppio attacco, interno ed esterno. All'interno, deve tenere a bada i nostalgici del vecchio capo, di Umberto Bossi, che lo aspettano al varco, pronti ad accusarlo di svendere la Padania se cercherà accordi con i partiti «romani». All'esterno, deve impedire che gli elettori leghisti si facciano tentare dalle sirene anti-sistema di Beppe Grillo e, per questo, tiene alta la bandiera, anch'essa anti-sistema, dell'indipendentismo. Tutto ciò è comprensibile, nel senso che ne è chiara la logica politica.

Tuttavia, Maroni è anche un leader troppo intelligente e abile per non sapere che non riuscirà a difendere il ruolo della Lega come sindacato territoriale, come assertore degli interessi del Nord del Paese (o di una sua parte), se non si «sporcherà le mani» cercando intese e accordi elettorali con altri partiti. Potrà anche aspettare che si faccia (e pare proprio che si faccia) la nuova legge elettorale ma, dopo, non potrà rinviare ancora a lungo la questione delle alleanze. La porta è stretta. Maroni ha il problema di riuscire a normalizzare la Lega, di trasformarla in un normale partito territoriale (modello Csu in Baviera) come i tanti che esistono in Europa: una via praticamente obbligata dopo la conclusione della fase rivoluzionario-carismatica dominata da Bossi. Non è però sicuro che quest'opera di normalizzazione sia possibile se Maroni non si rassegnerà a perdere (magari allo scopo di conquistare nuovi e diversi elettori) le componenti più estremiste del movimento e, soprattutto, se non sarà disposto a modificare molte posizioni leghiste su temi cruciali. Ad esempio, come sarà possibile ricucire i rapporti con il Pdl, che ha sostenuto e sostiene Monti, se su una serie di argomenti, dalle pensioni alle liberalizzazioni, alla riduzione della spesa pubblica (quella locale compresa), la Lega manterrà la sua tradizionale posizione di ostinato rifiuto? Se e quando una normale dialettica destra/sinistra si ricostituirà nel Paese, è probabile che, visti i livelli di tassazione raggiunti, la domanda principale degli elettori di destra, non solo al Nord, si concentri sulla riduzione delle tasse. Ma un programma di riduzione fiscale non sarebbe credibile, sarebbe velleitario e irresponsabile, se non fosse accompagnato da una politica di drastica contrazione e razionalizzazione della spesa pubblica, nazionale e locale. Se vorrà essere della partita, la Lega dovrà rinunciare al conservatorismo intransigente che ha per tanto tempo coltivato.

Angelo Panebianco

2 luglio 2012 | 7:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_02/carroccio-tra-po-baviera-angelo-panebianco_3f4f2ef8-c407-11e1-8a5a-a551a87e60ad.shtml
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