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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160737 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Luglio 28, 2009, 11:23:46 pm »

I PARTITI E LA CONTESA TRA NORD E SUD

La debole unità di un Paese


Dobbiamo davve­ro preoccuparci per l’unità futu­ra del Paese? Di che cosa è sintomo la sciatteria fin qui dimo­­strata, e denunciata da Er­nesto Galli della Loggia, nella preparazione delle celebrazioni per i cento­cinquanta anni dell’unità d’Italia? E, ancora, che co­sa indicano le voci intor­no alla possibile nascita di una «lega sud» che po­trebbe domani contrap­porsi frontalmente al «partito del nord»? Davve­ro la Lega Nord ha ormai «vinto», quanto meno sul piano culturale, come ha scritto Alessandro Campi sul Riformista , tal­ché l’unità morale del Pae­se sarebbe già irrimedia­bilmente svanita?

I processi storici sono il frutto delle azioni degli uomini e delle organizza­zioni a cui gli uomini dan­no vita. E’ ormai dalla fi­ne della Seconda guerra mondiale che l’unità del Paese dipende dalla capa­cità integrativa, o federati­va, svolta da alcuni partiti politici. In quella che, convenzionalmente, vie­ne chiamata Prima Re­pubblica, l’unità del Pae­se dipendeva dal ruolo fe­deratore svolto dalla De­mocrazia Cristiana. Fu la Dc il partito che tenne in­sieme l’Italia impedendo alle sue storiche fratture (Nord/Sud, Stato/Chie­sa) di acutizzarsi dispie­gando tutta la loro poten­ziale capacità disgregati­va. Nel suo ruolo di parti­to di maggioranza relati­va la Dc legava fra loro il Veneto e la Sicilia, la Lom­bardia e la Calabria, il Friuli e la Campania, il Trentino e il Lazio.

Nella «Repubblica dei partiti», la Democrazia Cristiana, per oltre un quarantennio, garantì il mantenimento del lega­me fra le diverse parti del Paese. Era quello, e non altro, il mastice in una fa­se storica, seguita alla dit­tatura e alla sconfitta belli­ca, in cui l’eredità risorgi­mentale era stata seria­mente lesionata e logora­ta sul piano politico-sim­bolico. La Lega Nord, a mio avviso, non è stata la causa di nulla. La sua comparsa, nei primi anni Novanta, fu, semmai, un effetto. L’effetto di un lun­go periodo dominato da una (sciagurata) pedago­gia negativa sul Risorgi­mento e l’Unità d’Italia: per rinfrescarsi la memo­ria converrebbe riprende­re in mano qualcuno fra i tanti manuali di storia pa­tria circolanti nella scuo­la pubblica, soprattutto a partire dagli anni Settan­ta.

Dunque, piaccia o me­no, è ai partiti politici che bisogna guardare per ca­pire quale sorte sia riser­vata all’unità del Paese. Se ci si pone da questo punto di vista, effettiva­mente, l’estrema precarie­tà della situazione che vi­viamo salta agli occhi. Al­la Dc è sì succeduto un al­tro partito federatore ma si tratta di un federatore fragilissimo. Si osservi la mappa elettorale del Pae­se. Il partito federatore, subentrato alla Democra­zia Cristiana, è il Popolo della Libertà, primo parti­to sia al Nord che al Sud. E’ la conseguenza di quan­to accadde negli anni No­vanta. Spazzati via i parti­ti della Prima Repubblica fu allora Silvio Berlusco­ni, insieme ai suoi alleati, a colmare il vuoto lascia­to dalla Democrazia Cri­stiana.

Ma il Popolo della Li­bertà ha due evidenti pun­ti di debolezza. Il primo è che si tratta di un conteni­tore mal amalgamato, na­to dalla recentissima fu­sione di Forza Italia e An. Un contenitore che si è formato solo per mante­nere competitivo il cen­trodestra nel momento in cui è stato creato il Parti­to democratico.

Dovesse quest’ultimo dividersi (e la pos­sibilità sicuramente esiste), il Popolo della Libertà subirebbe dopo poco la stessa sor­te. Il secondo, e più importante, elemento di debolezza consiste nel fatto, naturalmen­te, che si tratta di un partito carismatico, il cui destino è strettamente legato alla sorte politica di Berlusconi.

Che succederà al Popolo della Libertà quando Berlusconi lascerà la scena politi­ca? Si frantumerà, come è probabile, se­guendo la sorte di tanti altri partiti carisma­tici? Oppure sperimenterà quel raro feno­meno che viene detto «istituzionalizzazio­ne del carisma», sopravvivendo politica­mente al suo fondatore? Nessuno è oggi in grado di rispondere. Il problema, però, è che la chiave per comprendere quale sarà il futuro del Paese (della sua unità) è conte­nuta proprio nelle risposte a queste doman­de.

Immaginiamo il caso peggiore, il caso in cui, uscito di scena Berlusconi, il Pdl si fran­tumasse in due tronconi, uno di cen­tro- nord e uno meridionale. In fondo, le manovre in corso in Sicilia e l’agitazione dei deputati e dei ministri meridionali pos­sono essere lette anche come un’anticipa­zione di quella eventualità. La nascita di un blocco politico meridionale «indipenden­te » esaspererebbe le spinte centrifughe. Ve­nuto a mancare il «mastice partitico», Nord e Sud entrerebbero politicamente in rotta di collisione. La débâcle, finanziaria e di prestazioni, della Sanità meridionale, og­gi sotto i riflettori, è solo un aspetto, ancor­ché gravissimo, delle tensioni che si vanno accumulando e che mettono in sofferenza l’unità del Paese. Cosa accadrebbe ove ve­nisse meno il federatore?

L’eventualità, nel dopo-Berlusconi, di una divisione del centrodestra in due tron­coni territorialmente contrapposti, si capi­sce, non dispiacerebbe all’attuale gruppo dirigente del maggior partito di opposizio­ne, il Partito democratico. Sulla base del principio che fra i due litiganti, eccetera. Ma il Partito democratico versa in una crisi di identità difficile da risolvere e che può facilmente ridurlo alle dimensioni di un partito regionale (emiliano-toscano e poco più). Difficile che trovi la forza e la spinta per trasformarsi nel nuovo federatore del Paese.

È ormai un luogo comune storiografico che in Italia, data la debolezza dello Stato, i partiti abbiano svolto un ruolo di supplen­za diventando gli (involontari) garanti del­la coesione sociale e politica.

Se quella tesi è vera, è alla evoluzione dei partiti che dobbiamo guardare per capire cosa ne sarà in futuro dell’unità d’Italia. Le idee, le visioni, le tradizioni (e le divisioni) culturali contano tantissimo. Ma è ciò che gli uomini scelgono di farne, per calcoli contingenti, a decidere le sorti politiche dei Paesi.



Angelo Panebianco
26 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #61 inserito:: Agosto 03, 2009, 03:19:50 pm »

IL PD E LE INCHIESTE GIUDIZIARIE

Dal moralismo al riformismo


Analizzando la si­tuazione creatasi in Puglia a segui­to delle inchie­ste sulla sanità che vedo­no coinvolti i partiti di cen­trosinistra, Antonio Maca­luso ( Corriere , 31 luglio) si è chiesto maliziosamente «… se i pesanti attacchi di tutto il fronte dell’opposi­zione nei confronti del pre­sidente del Consiglio e dei suoi comportamenti — si­curamente discutibili — non abbiano talvolta volu­to coprire i timori per quel­lo che l’inchiesta avrebbe potuto portare alla luce». È probabile che sia così. Ma la vicenda pugliese, se non fosse usata come mez­zo per regolamenti di con­ti interni, potrebbe diven­tare la dimostrazione del fatto che non tutto il male viene per nuocere. A patto che ci sia un leader abba­stanza coraggioso per prendere di petto il vero problema che attanaglia il Partito democratico, la ta­ra che impedisce a quel partito di darsi una credi­bile identità riformista. Mi riferisco al fatto che esso non è mai stato in grado di impostare in modo sa­no e corretto, di fronte a se stesso e all’opinione pubblica, la questione del rapporto fra morale e poli­tica.

Detto così, lo riconosco, suona tutto un po’ astratto e accademico ma, in real­tà, mi riferisco a due con­cretissimi problemi di cui, non casualmente, nessu­no parla nel confuso dibat­tito precongressuale del Pd. Il primo riguarda il fat­to che la debolezza politi­co- culturale del Pd lo con­danna a essere un partito «eterodiretto», un partito che, nelle scelte che davve­ro contano, subisce il pe­sante condizionamento di alcuni «giornali di riferi­mento ». Il secondo riguar­da l’incapacità di sbaraz­zarsi dell'alleanza con Di Pietro: come potrebbe sba­razzarsene, tenuto conto che il Pd non dispone al momento delle armi cultu­rali necessarie per combat­tere quello che è ormai il suo più insidioso competi­tore? Le domande che il congresso del Pd dovreb­be porsi sono le seguenti: quale futuro politico può avere un partito che si pre­senta come riformista ma la cui componente identi­taria principale, quella che trasmette soprattutto di sé, è il moralismo? E, anco­ra: è il moralismo una ri­sposta giusta o sbagliata ai delicati problemi di etica pubblica che la democra­zia deve quotidianamente fronteggiare?

All'origine della grande tara, della scelta del mora­lismo come elemento ide­ologico dominante della identità della sinistra italia­na, ci sono probabilmente gli eventi del quinquennio 1989-1994, il periodo che va dalla caduta del Muro di Berlino all'ingresso in politica dell’Uomo Nero, Silvio Berlusconi, passan­do per Mani Pulite. Orfana del comunismo, la sinistra non seppe far altro, anche aggrappandosi agli aspetti peggiori dell’eredità di Ber­linguer (la diversità antro­pologica, l’austerità), che mettersi a gridare «al la­dro ». In parte, per blandi­re le procure impegnate nelle inchieste sulla corru­zione, offrendo loro una al­leanza politica di fatto (e sperando così di limitare i danni) e in parte perché non aveva altra identità a cui aggrapparsi.

Oltre a tutto, il passaggio dal comuni­smo al moralismo, dalla rivoluzione comu­nista alla «rivoluzione dei Santi», favorì il matrimonio dell’ex Pci con la sinistra de­mocristiana, anch’essa allo sbando dopo la fine della Dc. La ciliegia sulla torta fu l’arri­vo di Berlusconi: di fronte all’Orco, simbo­lo di tutti i vizi e le turpitudini del Paese, occorreva che i buoni, i santi, gli incorrotti, facessero blocco insieme: per lo meno, que­sta è stata la favola raccontata per quindici anni agli elettori del centrosinistra. Ma le favole funzionano solo se le si riconosce co­me tali. Se le si scambia per descrizioni del­la realtà portano alla rovina.

Ancora una volta, quel genio della comu­nicazione che è Berlusconi, pur in grave dif­ficoltà a causa della sua disordinata e scon­siderata vita privata, li ha battuti usando quattro paroline magiche: «non sono un santo». Tutti sanno infatti che di santi, su questa terra, ne circolano davvero pochi, e nemmeno i moralisti lo sono (anche se fin­gono, per convenienza politica, di esserlo). Sposando il moralismo, quali che siano i vantaggi politici a breve, ci si scotta sem­pre. In primo luogo, non si possono affron­tare correttamente le questioni di etica pubblica. In termini di etica pubblica, il problema non è mai «combattere i corrot­ti » (l’accertamento dei reati di corruzione spetta alla magistratura penale). Il proble­ma è invece incidere sulle condizioni, sulle circostanze, che accrescono o diminuisco­no la propensione alla corruzione. Persino Madre Teresa di Calcutta, santa donna (uno dei pochi santi in circolazione nel XX secolo), avrebbe probabilmente avuto pro­blemi con la giustizia se le avessero affida­to un assessorato regionale alla Sanità in certe zone del Mezzogiorno.

In secondo luogo, sposando il morali­smo, riducendo la politica a una questione di santi e di reprobi, ci si imbatte sempre, prima o poi, in qualcuno che si dichiara più santo di te. La principale ragione per cui il Pd subisce da mesi e mesi, senza rea­gire, l’offensiva di Di Pietro, è che, dopo quindici anni di confusione fra moralismo e etica pubblica, esso si ritrova con buona parte dei suoi elettori e militanti in sinto­nia ideologica con il dipietrismo.

Eppure, prendere di petto queste que­stioni è vitale per il Pd. L’occasione per fare un salto dal moralismo al riformismo, per affrontare a muso duro il «partito morali­sta », potrebbe consistere nell'accoglimen­to della richiesta del presidente della Re­pubblica di un accordo bipartisan sulle in­tercettazioni. La politica moralista è sem­pre stata intrecciata con le questioni di giu­stizia. Imboccando la strada di un accordo con il centrodestra sulle intercettazioni, il Pd potrebbe cominciare a sciogliere quel­l’intreccio. Scegliendo di porre fine a una ventennale, opportunista, politica di fian­cheggiamento della Associazione Naziona­le Magistrati, scegliendo di non chiudere più gli occhi di fronte agli eccessi dell'attivi­smo giudiziario, il Pd comincerebbe a rego­lare i suoi conti anche con il dipietrismo e le sue finte virtù. In nome e per conto di una identità riformista finalmente in can­tiere.

In un mondo di peccatori, quel poco di etica pubblica che è possibile salvaguarda­re richiede lucido e pragmatico riformi­smo. Lasciando alla Chiesa il compito di proclamare i santi.


Angelo Panebianco
03 agosto 2009
da corriere.it
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« Risposta #62 inserito:: Agosto 26, 2009, 04:38:13 pm »

IL DIBATTITO SU MORALISMO E RIFORMISMO

La politica non è lotta tra bene e male

   
E' possibile liberare dalla gabbia mentale in cui sono imprigionati coloro che confondono politica e morale, che credono che moralità e moralismo siano sinonimi, che pensano che la politica sia una guerra fra l'armata della luce e quella delle tenebre? In un editoriale del 3 luglio ho sostenuto che il Partito democratico dovrebbe scrollarsi di dosso l'ipocrita impalcatura moralista che si è costruito. Che nel Pd ci sia una divisione fra riformisti e moralisti è dimostrato dalle reazioni a quell'articolo.

Linda Lanzillotta, prendendo lo spunto dal­le inchieste pugliesi, ha fatto un ineccepibile intervento (Corriere del 4 agosto) sulla neces­sità di una riforma del sistema della sanità che separi politica e amministrazione: un esempio cristallino di ciò che intendevo, nel­l’editoriale citato, per approccio riformista ai problemi di etica pubblica. Però, sempre sul Corriere del 4 luglio, si po­teva anche leggere la sdegnata replica al mio articolo di Franco Monaco, democratico doc come la Lanzillotta, ma di altra pasta. Quello di Monaco sembrava un comunicato dell’uffi­cio stampa dell’Italia dei Valori. È la presenza di tanti Monaco a spiegare l’impossibilità per il Pd di scindere le proprie sorti da quelle di Di Pietro, di fare il salto dal moralismo al rifor­mismo.

Anche se è difficile oggi separare la questio­ne del moralismo da quella della presenza in politica di Silvio Berlusconi proverò a farlo. Perché ci sono anche, mi ha ricordato Mario Pirani ( La Repubblica , 7 agosto), ottime ragio­ni politiche per criticare Berlusconi. L’inter­vento di Pirani, uno dei pochi editorialisti di Repubblica da cui non mi senta culturalmen­te agli antipodi, mi ha richiamato alla mente certi rituali del Pci, dove il reprobo veniva at­taccato da uno che egli non riteneva troppo diverso da sé. Pirani elenca i tratti di Berlusco­ni (il conflitto di interessi, gli attacchi alla ma­gistratura, eccetera) che richiedono di essere combattuti. Bene, ma faccio notare a Pirani che la sua ricostruzione è troppo squilibrata. Berlusconi, dice Pirani, è un unicum nel pano­rama conservatore: non è Sarkozy, la Merkel o Cameron. Sì, ma uno sguardo storico aiuta a capire. Noi non abbiamo avuto de Gaulle. Né la secolare alternanza fra conservatori e laburi­sti. Noi avevamo un sistema bloccato domina­to da democristiani e comunisti. Berlusconi è un unicum ma è il prodotto di un altro uni­cum: la rivoluzione giudiziaria che spazzò via i partiti moderati e che, anch’essa, non ha con­fronti con quanto accaduto in altre parti d’Eu­ropa. Inoltre, come Pirani sa, i conflitti di interes­se sono, per le democrazie, difficili da gestire (vedi il caso Bloomberg a New York).

Da noi, certo, il problema è reso ancor più acuto a cau­sa delle televisioni. Ma imporre all’imprendi­tore che assume certi ruoli di vendere le azien­de significa ignorare le regole del mercato: poiché vendere per legge è uguale a svendere tanto vale stabilire che agli imprenditori sia interdetta la politica. È fattibile? In altri termini, Pirani ha ragione ma fino a un certo punto: dimentica le cause che hanno «prodotto» Berlusconi e sottovaluta la com­plessità, e la difficile trattabilità, dei problemi che la presenza in politica di figure come la sua comportano. Mi meraviglio poi che Pirani adotti un atteg­giamento così acritico sulla questione del rap­porto fra Berlusconi e la magistratura. Ricor­do che nei primi anni Novanta io e Pirani, con­sapevoli dei guasti di un sistema giudiziario fondato sull’onnipotenza del pm, eravamo fra i pochi a invocare la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Possibile che Pirani abbia cambiato idea al punto di vedere nello scontro fra Berlusconi e certi settori del­la magistratura solo la lotta fra un impunito e i suoi irreprensibili accusatori? Se così fosse, sarebbe Pirani, e non io, come egli mi accusa, a sfogliare le favole dei fratelli Grimm.

È infi­ne strano che un fine analista sembri non comprendere il vero segreto del successo di Berlusconi dal ’94 in poi: il fatto che in un Pae­se iperstatalista, dominato fino a quel momen­to dai grandi «collettivi» (il Partito, il Sindaca­to, la Corporazione) abbia fatto irruzione un imprenditore che si è appellato allo spirito in­dividualista, che ha proposto una «via indivi­dualista alla felicità». Si può deprecare il fatto ma non sottovalutarlo. Personalmente, ciò che soprattutto non sopporto di Berlusconi è la distanza, per me intollerabile, fra le promes­se e le realizzazioni (di liberazione degli indivi­dui da «lacci e lacciuoli», nelle sue esperienze di governo, se n’è vista poca) ma, di sicuro, non sono fra quelli che deprecano l’appello al ruolo dell’individualità.

Torno sulla questione del moralismo. A for­za di campagne moralistiche, nel corso dei de­cenni, si è messa larga parte delle nuove gene­razioni nell’impossibilità di capire alcunché di politica. Le si è addestrate a pensare la poli­tica nei termini infantili e menzogneri della lotta fra il bene e il male, le si è condannate a non vedere la complessità del mondo e la sua ineliminabile ambiguità, anche morale. Non molti, ormai, riescono a distinguere fra la mo­ralità (che investe una dimensione personale: riguarda il rapporto fra me, i miei atti e la mia coscienza e, per chi ci crede, Dio) e il morali­smo, che è una tecnica di combattimento poli­tico. I moralisti sono di due tipi: quelli che ci credono e quelli che si fingono. Quelli che ci credono pensano che invocare di continuo la moralità sia un modo di testimoniare la pro­pria appartenenza alla schiera dei buoni. Sa­rebbero inoffensivi se la loro ingenuità non ve­nisse sfruttata da altri, i veri utilizzatori del moralismo come tecnica politica. Da coloro, cioè, che in un mondo di esseri imperfetti e peccatori, si attribuiscono virtù che non han­no e si ergono a giustizieri morali. Sono i re­sponsabili della propagazione di una immagi­ne farsesca della politica, come luogo del con­fronto fra luce e tenebre.

La loro presenza ren­de difficile affrontare i temi di etica pubblica. Questi ultimi riguardano, per lo più, problemi di convenienza collettiva: ad esempio, convie­ne abbassare il tasso di corruzione, per gene­rare condizioni di fiducia sociale e incentivi allo sviluppo, per migliorare le condizioni di vita. Ma parlare di queste cose con i moralisti è fiato sprecato.

Angelo Panebianco
14 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #63 inserito:: Agosto 31, 2009, 03:31:24 pm »

I PARTITI E LA RIDUZIONE DELLE TASSE

Una battaglia dimenticata


Diceva Adam Smith, padre dell’economia moderna, che perché in un Paese si dia «opulenza» occorrono tre condizioni: la pace, una «leggera tassazione» e una buona amministra­zione della giustizia. So­stituiamo «opulenza» con «crescita economica sostenuta» e guardiamo, usando quelle lenti, al ca­so italiano degli ultimi de­cenni. La pace fortunata­mente c’era ma il livello troppo alto di tassazione e il cattivo funzionamen­to della giustizia (si pensi alla giustizia civile, quella che più incide sugli affa­ri) bastano a spiegare — se crediamo ad Adam Smith — perché l’Italia abbia avuto per così tanti anni, prima che esplodes­se la crisi mondiale, tassi di crescita bassissimi. La domanda che oggi tanti si pongono è: quando la crisi finirà, quando l'eco­nomia mondiale tornerà a crescere, l’Italia ricomin­cerà ad arrancare, come ha fatto nei decenni scor­si, dietro ai nostri partner europei e occidentali più importanti? Ciò è assai plausibile se non verran­no rimosse le cause della bassa crescita del passa­to. Qualche buona notizia forse c’è. Ad esempio, se la riforma del processo ci­vile, voluta dal ministro Alfano, riuscisse davvero, come il ministro promet­te, a rendere più rapidi i procedimenti giudiziari, verrebbe meno un tradi­zionale impedimento al buon funzionamento del­la nostra economia.

Resterebbe comunque l’altro handicap, un livel­lo di tassazione troppo elevato. Francesco Giavaz­zi, su questo giornale (26 agosto), ha chiesto al pre­mier Berlusconi di torna­re alle sue (non attuate) proposte «rivoluziona­rie » dell’esordio, del 1994 e del 2001, in materia di fi­scalità: si riducano drasti­camente le tasse, dice Gia­vazzi, puntando sulla cre­scita per alleviare la pres­sione del debito pubbli­co. Altri economisti non concordano: avendo noi sulle spalle il terzo debito pubblico del mondo, dob­biamo muoverci, essi di­cono, con la massima prudenza e gradualità. La­sciando ai tecnici del­l’economia la discussio­ne sul fatto se sia meglio procedere con una tera­pia d’urto in fatto di rifor­me (Giavazzi, ma anche Giacomo Vaciago sul So­le 24 ore ), con uno shock, oppure con lentezza e gradualità (la «corrente continua» di cui ha parla­to il ministro dell’Econo­mia Giulio Tremonti), bi­sogna anche ricordare che la questione ha im­portanti implicazioni po­litiche, tocca problemi di consenso e di coesione delle coalizioni elettorali che sostengono le diver­se forze politiche.

Le circostanze forgiano e alimentano gli interes­si. In un regime di basse tasse gli interessi contrari a innalzamenti della pres­sione fiscale sono potenti e rappresentano un forte deterrente per i governi. In un regime di tasse alte, come quello italiano, vale l’opposto: è il «partito del­le tasse» a rappresentare la costellazione di interes­si più potente, quella che ha i mezzi per opporsi con forza a modificazioni dello status quo fiscale.

In Paesi occidentali con una storia diversa dalla nostra, il partito delle tasse è normalmen­te rappresentato dalla sinistra (mentre a destra sono più forti gli interessi alla riduzione della pressione fiscale). Nel nostro Paese non è così: il partito delle tasse taglia trasversalmente de­stra e sinistra, è ben rappresentato in tutti e due gli schieramenti.

Se ci limitiamo alle forze di governo sembra plausibile sostenere che il Pdl sia diviso fra una parte che vorrebbe rispondere positivamente al­la domanda di riduzione della pressione fiscale che viene da settori consistenti dell’elettorato di quel partito e la parte che, vivendo di inter­mediazione pubblica, teme che una riduzione delle tasse porti con sé una contrazione dell’am­montare delle risorse a disposizione. Le molte­plici lobby della spesa pubblica sono, e sono sempre state, le componenti più forti e aggressi­ve del partito delle tasse.

Del tutto speciale è poi il caso della Lega. La Lega ha sempre impostato la sua polemica poli­tica sui «soldi» ma ne ha fatto, in coerenza con un’ispirazione territorial-comunitaria, più una questione di rapporto fra Roma e il Nord («Ci teniamo noi i nostri soldi») che una questione di minor pressione fiscale sui cittadini. Per inci­so, credo che questa sia anche la ragione princi­pale per la quale la Lega, pur in crescita, non potrà non incontrare un limite nella sua espan­sione elettorale al Nord.

La crisi e il debito ci opprimono e non ha torto Tremonti quando dice che governare si­gnifica prendere decisioni qui e ora per affron­tare i problemi che incombono. Però, se sia­mo tutti d’accordo che senza forti riduzioni della pressione fiscale non c’è crescita seria (e pare difficile che questa tesi, a sostegno della quale abbondano le osservazioni storiche, pos­sa essere smentita da qualcuno), allora biso­gnerebbe, quanto meno, indicare una prospet­tiva, un percorso, che ci porti, con tutte le cau­tele e le gradualità del caso, verso un regime di fiscalità meno esosa, per le imprese e per i cittadini. Tremonti lascia intendere che sarà il federalismo fiscale, «la madre di tutte le rifor­me », come egli la chiama, a sciogliere molti nodi. Può essere che sia così ma può anche es­sere che il fortissimo partito delle tasse riesca a piegare il federalismo fiscale alle sue esigen­ze. È successo tante volte, in tanti Paesi, non solo in Italia, che riforme istituzionali concepi­te per raggiungere certi scopi siano state piega­te dagli interessi costituiti al servizio di scopi differenti. Dubito che il federalismo fiscale, se non accompagnato da misure incentivanti la riduzione delle tasse, possa essere, da questo punto di vista, una panacea.

Checché ne dicano i suoi nemici la crescita economica è un valore, perché porta con sé più benessere, più libertà e anche la possibilità, se lo si vuole, di politiche volte ad assicurare una maggiore equità (la crescita non garantisce di per sé equità ma la sua assenza comporta sem­pre iniquità). Per ottenerla non si conosce stru­mento migliore della «leggera tassazione» di cui parlava Adam Smith.

Angelo Panebianco
31 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #64 inserito:: Settembre 06, 2009, 12:11:29 pm »

I COSTI DI UNA FRATTURA IMPREVISTA

Le scelte politiche dei cattolici


Singoli eventi non possono modifica­re le relazioni fra istituzioni ma pos­sono accelerare tendenze in atto. Il caso Boffo, pur nella sua gravità, non cau­serà il riposizionamento della Chiesa nei confronti del sistema politico italia­no. Può però accelerarlo.

Ricapitoliamo il percor­so compiuto. Tramontata l’epoca dell’unità politica dei cattolici, scomparsa la Dc, la Chiesa (italiana) si adattò al nuovo mondo bi­polare. Il bipolarismo pre­sentava per essa un van­taggio e uno svantaggio. Il vantaggio era che, non es­sendo la Chiesa monoliti­ca, le sue componenti, in ragione dei loro differenti orientamenti, potevano trovare interlocutori, a be­neficio dell’istituzione, in entrambi gli schieramen­ti. Lo svantaggio era che il feroce bipolarismo italia­no rischiava di trasferire i suoi veleni nella Chiesa ac­crescendo, oltre il limite di guardia, la conflittuali­tà interna. La fortuna del­la Chiesa, per un lungo pe­riodo, fu di contare, alla te­sta della Conferenza epi­scopale, su un uomo co­me il Cardinale Camillo Ruini, capace, con energia e finezza politica, di garan­tire una navigazione sicu­ra in acque insidiose.

Dal ’94 ad oggi, dire «bi­polarismo » significa dire Berlusconi: nel senso che è stata la presenza di Ber­lusconi (più delle leggi elettorali) ad assicurare, grazie ai consensi e agli odi che ha suscitato, la di­visione del Paese, il bipola­rismo politico. Nei gover­ni Berlusconi la Chiesa ita­liana trovò più di un inter­locutore ben disposto: il centrodestra assunse in to­to , creando frustrazione nelle sue frange laiche, la rappresentanza delle istanze della Chiesa (fe­condazione assistita, op­posizione ai Dico, testa­mento biologico, ecc…). Il prezzo, per la Chiesa, fu di scontentare quella parte di sé e del più generale mondo cattolico ostili a Berlusconi. Ma era un prezzo che poteva essere pagato fin quando il cen­trodestra fosse rimasto un interlocutore affidabile.

Oggi le cose sono in mo­vimento. La Chiesa, come tutti, deve prendere atto che il ciclo politico di Ber­lusconi è comunque nella fase discendente. Al massi­mo, entro qualche anno, dovrà concludersi. E, co­me tutti, la Chiesa deve an­che chiedersi se il bipolari­smo sopravvivrà all’uscita di scena di Berlusconi. In più, le vicende personali del premier e ora il caso Boffo, sembrano avere in­nalzato il livello di conflit­to all’interno dell’istituzio­ne. Garantire l’unità, trova­re una sintesi, impedire conflitti laceranti, è ades­so, per i vertici della Chie­sa italiana, difficile.

E’ evidente che la Chie­sa, confusamente, si inter­roga sulle opzioni disponi­bili: mantenere un rappor­to privilegiato con il cen­trodestra tenendo a freno gli avversari interni? Pun­tare su un «partito cattoli­co » di centro (una mi­ni- Dc) che tuteli i suoi in­teressi quali che ne siano le alleanze? Cercare nella sinistra un nuovo interlo­cutore? La prima opzione è resa complessa dalle vi­cissitudini del premier e dai loro contraccolpi. La seconda rischia di risulta­re velleitaria. La terza de­ve fare i conti con l’egemo­nia esercitata sulla sini­stra da moralisti che si am­mantano di «virtù repub­blicane » e che incarnano un nuovo partito ghibelli­no. Alla fine, i nodi verran­no sciolti dalla politica. A decidere, anche delle scel­te della Chiesa, sarà la sor­te del bipolarismo: in so­stanza, la capacità o meno del centrodestra di supera­re la crisi di successione senza disgregarsi.

Angelo Panebianco
06 settembre 2009
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« Risposta #65 inserito:: Settembre 10, 2009, 11:02:43 am »

IL PROFILO POLITICO DEL PD

Un'offerta inesistente


Il Partito democratico si avvia verso il congresso. La lotta precongressuale è stata aspra ma ciò non è servito a guarire la malattia di quel partito: la scarsa credibilità della sua «offerta politica» complessiva, l'assenza di un insieme di idee e di proposte potenzialmente in grado di convincere una parte rilevante di quegli elettori che, fin qui, si sono tenuti alla larga dal Partito democratico. Di più: mi pare che ci sia, in settori significativi del Pd, la sfiducia nella possibilità stessa che una forte offerta politica possa essere confezionata. Come altro si può interpretare il fatto che il gruppo dirigente oggi non speri, per vincere di nuovo, nelle virtù e nelle capacità proprie ma unicamente negli incidenti di percorso altrui? Non è forse vero che, per tornare al governo, il Pd si affida solo alla speranza di una uscita di scena di Berlusconi e della disgregazione del centrodestra? Non è forse vero che esso ripone le proprie chances, anziché nella capacità di attrarre elettori, in quella di attrarre alleati? Puntare tutte le proprie carte, piuttosto che sulle possibilità di sfondamento nell'arena elettorale, sulle manovre nell'arena parlamentare, significa sostituire la tattica alla strategia, sperare che il tatticismo e le capacità manovriere possano sopperire ai ritardi culturali e alle inadeguatezze politiche.

Quando Massimo D'Alema dice che un partito del 27-30 per cento può andare al governo solo costruendo alleanze, rivela la sua sfiducia nelle possibilità di crescita autonoma del partito. Una sfiducia della quale è peraltro facile identificare l'origine: va cercata in una pagina di storia ormai chiusa, quella del partito comunista.
Non critico D'Alema per questo: tutti noi siamo condizionati dalle nostre esperienze passate. Ma è un fatto che pensare che un partito del 30 per cento sia condannato a rimanere tale è un portato di quella esperienza. All'epoca del bipolarismo Usa/Urss il Partito comunista non aveva possibilità di espansione al di là di una certa soglia elettorale. Poteva accrescere la propria influenza politica e, eventualmente, entrare nell'area di governo, solo grazie alla sua capacità di costruire alleanze. È quello schema che, consapevolmente o meno, D'Alema oggi ripropone. Ma nel mondo attuale, senza più conventio ad excludendum, guerra fredda e partiti comunisti, quello schema dovrebbe essere buttato via. Perché, nelle nuove condizioni, un partito del 27/30 per cento (alle precedenti elezioni) può benissimo, se azzecca la proposta politica, se intercetta la domanda del Paese, sfiorare la maggioranza dei consensi (e magari, se poi governa male, tornare al 27 per cento o anche meno alle elezioni successive). Capisco il fatto che, in politica, le proposte degli avversari siano sbagliate per principio. Ma la verità è che l'idea del «partito a vocazione maggioritaria» di Walter Veltroni non era affatto sbagliata. Nasceva dalla presa d'atto che, nel dopo guerra fredda, un partito di sinistra (non comunista), se centra la proposta politica, può benissimo giocarsela «alla pari» con la destra. L'idea era eccellente ma venne realizzata male. La proposta politica non fu abbastanza innovativa e ci fu l'errore dell’alleanza con Di Pietro.

Certo, poi ci vogliono anche le alleanze. Ma le alleanze vengono dopo la proposta politica. È nella proposta politica la vera debolezza del Pd. Ne deriva un circolo vizioso: la debolezza dell'offerta politica genera problemi di identità che alimentano la sfiducia, la quale a sua volta impedisce di agire creativamente per modificare l'offerta politica. Faccio solo l’esempio di un problema nel quale la debolezza, di visione e di proposte, del Pd è evidente: la questione dell'immigrazione. Si tratta di una questione decisiva. Nel XXI secolo è uno dei due o tre temi su cui ci si gioca, in Europa, il destino politico. I punti di criticità sono due: il problema dell'immigrazione clandestina e quello dell'immigrazione islamica. Sull'immigrazione clandestina il Pd balbetta. Affiorano qui i cascami di ammuffiti terzomondismi di origine comunista e cattolica.
La sola cosa che il Pd sa fare è accusare di razzismo il governo. Ma davvero la politica detta dei respingimenti (in presenza di una colpevole latitanza dell'Unione Europea nel contrasto all'immigrazione clandestina) può essere così liquidata? Zapatero, il premier spagnolo, non risulta iscritto alla Lega Nord. Ma tratta con la massima durezza l'immigrazione clandestina. Non è forse nell'interesse dei Paesi europei mandare messaggi chiari alle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani?
E, ancora, davvero il reato di clandestinità (che esiste in tante democrazie) è una infamia? Che lo descriva così qualche vescovo poco interessato al fatto che l'Italia possieda dei confini (il reato di clandestinità è proprio questo: la dichiarazione secondo cui i confini dello Stato non sono una finzione o una barzelletta) è comprensibile, ma se lo fa un partito di opposizione esso si condanna a non diventare forza di governo. C'è poi la questione dell'immigrazione islamica. Bisognerebbe smetterla di gridare all'islamofobia tutte le volte che qualcuno ricorda che l'immigrazione islamica è quella che comporta le maggiori difficoltà di integrazione e, in prospettiva, i rischi più seri. Come dovrebbero insegnarci le imprudenti politiche della Gran Bretagna e dell'Olanda, «dialogo» e «accoglienza» non risolvono il problema. Perché non ci siano penosi risvegli fra qualche anno, occorre dettare condizioni chiare. Ma quelli del Pd, quando discutono di immigrazione, sembrano disinteressati al tema. Era solo un esempio, anche se rilevante. Costruire una offerta politica adeguata ai tempi può essere, per il Pd, una impresa faticosa, destinata anche a suscitare forti conflitti interni.

Ma, almeno, sarebbero conflitti da cui potrebbero nascere serie elaborazioni culturali e sforzi di immaginazione politica. Molto meglio che stare seduti sul greto del fiume, ripetendo fino alla noia vecchi slogan, e aspettando, inerti, di vedere passare sull'acqua il cadavere del nemico.

di ANGELO PANEBIANCO

10 settembre 2009
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« Risposta #66 inserito:: Settembre 21, 2009, 04:06:48 pm »

LE RAGIONI DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN


Un impegno sul terrorismo

Oggi, nel giorno dei funerali dei sei pa­racadutisti caduti a Kabul, l’Italia uffi­ciale si stringerà, con compo­stezza e rispetto, intorno ai no­stri soldati. Come è certamen­te nei sentimenti di tutti e co­me l’opinione pubblica esige. Oggi non si sentiranno le «stecche» che si sono udite nel giorno dell’attentato. E’ im­portante che quelle stecche non si sentano più. Le questio­ni di guerra hanno questo di diverso rispetto alle normali lotte fra i partiti per, ponia­mo, l’accaparramento di cari­che di presidenti di Regione: ci va di mezzo la vita dei solda­ti. Come ha osservato Emma Bonino ( Il Riformista , 19 set­tembre) il nemico ascolta, ec­come: ci ascoltava quando, al­l’epoca del governo Prodi, la sinistra estrema minacciava sfracelli se non ce ne fossimo andati presto dall’Afghanistan e oggi ascolta le dichiarazioni (poi rettificate) di Umberto Bossi. Per questo, tali questio­ni non possono essere trattate dai partiti come se fossero fac­cende interne. Ciò non signifi­ca che non si debba partecipa­re, insieme agli alleati, a una riflessione collettiva su come fronteggiare le nuove, sempre più difficili, condizioni del conflitto in Afghanistan. Al di là di eventuali revisioni di stra­tegia militare o politica, c’è un dirimente punto politico, co­me ha notato Sergio Romano, sul Corriere del 19 settembre, e come ha riconosciuto il mi­nistro della Difesa Ignazio La Russa ( Il Corriere , 20 settem­bre): si tratta di rinnovare ogni sforzo affinché al Paese torni ad essere ben chiara la posta in gioco. Non è solo un problema italiano. E’ un pro­blema europeo. Oltre che in Italia anche in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna, nelle opinioni pubbli­che tende oggi a prevalere la richiesta di ritiro. Negli anni immediatamente successivi al­l’ 11 settembre 2001 era ancora chiaro agli europei il perché della presenza militare in Af­ghanistan. In seguito, man mano che andava sbiadendo la memoria dell’11 settembre e i talebani, ricostituite le forze, ricominciavano a combattere con crescente efficacia, le clas­si dirigenti europee non sep­pero rimotivare le opinioni pubbliche. E’ il senso della presenza europea in quel tea­tro che è andato perduto. Va urgentemente (ri) spiegato al­le opinioni pubbliche che una vittoria talebana a Kabul desta­bilizzerebbe il Pakistan, e il fondamentalismo islamico tornerebbe a galvanizzarsi ovunque (anche in Europa). E’ per evitare che i kamikaze si mettano all’opera qui da noi che siamo in Afghanistan.

Poiché la guerra va ora ma­le per gli occidentali, si è diffu­sa la tesi (consolatoria) secon­do cui ciò che là accade avreb­be poco a che fare con il terro­rismo islamico. Dipendereb­be dalle lotte fra i pashtun e le altre etnie, dai riflessi della ri­valità indo-pachistana, eccete­ra. Questi elementi esistono. Ma sarebbe cecità non vedere che il conflitto ha due facce: la prima legata alle specificità locali e la seconda alle sorti del terrorismo internazionale. Ma come la mettiamo, qui da noi in Italia, si sente ripete­re, con l’articolo 11 della Costi­tuzione? L’articolo 11 venne scritto perché i costituenti ave­vano in mente le guerre di ag­gressione del fascismo. Sono quelle guerre che la Costitu­zione vieta. Significa far torto alla intelligenza e al patriotti­smo dei costituenti sostenere che essa ci impedisce di parte­cipare, con gli alleati, ad azio­ni militari tese a contrastare (oggi in Afghanistan, domani forse in Somalia e in altri luo­ghi) la diffusione del terrori­smo.

Angelo Panebianco
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« Risposta #67 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:04:17 am »

 TESTAMENTO BIOLOGICO, LA SOLUZIONE POSSIBILE

La zona grigia tra vita e morte


Approvato nel marzo scorso dal Senato, il dise­gno di legge sul fine vita dovrebbe approda­re alla Camera entro qual­che settimana. Il testo vara­to dal Senato risente pesan­temente dei violenti scon­tri ideologici esplosi a feb­braio, in occasione della tragica conclusione della vicenda di Eluana Englaro. La scelta di interrompe­re, in ottemperanza a una sentenza di tribunale, l’ali­mentazione artificiale alla Englaro spaccò il Paese in due, diede luogo a una con­trapposizione feroce fra due visioni (su questo pun­to è già intervenuto sul Cor­riere della Sera Giovanni Sartori), due concezioni della vita e della morte, e del diritto di ciascuno (ri­vendicato dagli uni, nega­to dagli altri) a decidere della propria morte.

Oggi, a distanza di mesi, placate (ma fino a quan­do?) le passioni ideologi­che, sembra essersi aperto uno spazio di manovra per uscire dal cul de sac in cui la vicenda Englaro aveva sospinto il Paese. Un certo numero di deputati del Po­polo della Libertà (molti dei quali vicini al presiden­te della Camera Gianfran­co Fini) ha mandato una lettera aperta al presidente del Consiglio, pubblicata dal Foglio (23 settembre), proponendo una revisione del testo approvato dal Se­nato.

Si chiede che la legge si limiti a fissare dei paletti, ad affermare principi gene­rali (il rifiuto sia della euta­nasia che dell’accanimen­to terapeutico) abbando­nando però «l’iper-regola­mentazione giuridica» che caratterizza l’attuale testo. Si tratta, dice la lettera, di fare una legge ispirata alla «persuasione che il rappor­to con la malattia, con le cure e con la morte (…) ap­partenga a uno spazio per­sonale di cui la legge può prudentemente fissare i confini 'esterni' ma non i contenuti 'interni', che so­no interamente affidati al­le relazioni morali e profes­sionali che legano il mala­to al suo medico e ai suoi congiunti». Questa lettera, portando alla luce il disa­gio di alcune componenti della maggioranza, ha ria­perto una discussione che sembrava ormai chiusa.

Per capire i termini del­la questione occorre fare uno sforzo di immagina­zione, fingere che sulla vi­cenda non pesi, come inve­ce pesa, la «politica». Per politica intendo cose co­me la preoccupazione del governo di garantirsi, tra­mite la legge sul fine vita, un solido rapporto con la Chiesa, la fronda di Gian­franco Fini all’interno del Pdl, l’interesse dell’opposi­zione ad allargare le divi­sioni nella maggioranza, i conflitti, che fanno da sfon­do a tutta la vicenda, fra clericali e anticlericali, fra berlusconiani e antiberlu­sconiani, eccetera. Convie­ne mettere in parentesi tut­to ciò e ragionare solo sul­la questione del fine vita.

Un buon punto di par­tenza può essere la teoria (che ha apparentemente poco a che fare col tema) formulata dall’economista Friedrich von Hayek sul rapporto fra la conoscenza e il mercato. Per dimostra­re che i sistemi di mercato sono superiori ai sistemi di pianificazione Hayek so­stenne che i pianificatori falliscono sempre per difet­to di conoscenza.

Il pianificatore centrale, nonostante i suoi deliri di onniscienza, difetta delle conoscenze «localizzate», relative alle specifiche situazioni «locali», sempre diversissime le une dalle altre, in cui sono quotidianamente coinvolti gli attori economici (produttori e consumatori) e che solo essi possono conoscere. Da qui la superiorità dei sistemi economici decentrati (di mercato) rispetto ai sistemi economici pianificati.

Applichiamo la teoria al tema del fine vita. Le situazioni estreme con cui si confrontano i medici sono fra loro diversissime: dal punto di vista clinico e dal punto di vista del rapporto con ciascun paziente, i suoi familiari, eccetera. L’altissima variabilità delle situazioni rende la legge (l’equivalente del pianificatore centrale di Hayek) uno strumento inadatto a regolamentare nel dettaglio i casi: una disposizione di legge che va bene per un caso non va bene per un altro. Da qui la necessità che (come, tacitamente, si faceva prima che il tema venisse politicizzato) sia lasciato spazio alla discrezionalità e al giudizio del medico, in accordo col paziente o con i suoi familiari, sul caso singolo. Perché solo la conoscenza che essi (e non la legge) hanno del caso singolo, può permettere di fare le scelte più appropriate, di muoversi nel modo migliore nel terreno accidentato che separa l’eutanasia da una parte e l’accanimento terapeutico dall’altra. A febbraio, deplorando la politicizzazione del tema che il caso Englaro aveva provocato, chi scrive si espresse sul Corriere (9 e 23 febbraio) a favore del mantenimento di una «zona grigia» da preservare contro le intrusioni dello Stato (e la violenza che sui casi singoli quella intrusione avrebbe sicuramente provocato). La si chiami zona grigia o in un altro modo, di questo si tratta. Il problema è evitare «l’iper-regolamentazione giuridica».

Come sostengono, giustamente, gli estensori della lettera sopra citata.

C’è però una possibile obiezione. L’ha formulata l’on. Alfredo Mantovano, sostenitore dell’attuale testo di legge. Dice Mantovano (sul Foglio , 25 settembre): attenzione, il caso Englaro è nato da sentenze della magistratura, ideologicamente orientate, che forzavano le leggi vigenti nella direzione dell’eutanasia. Lasciare discrezionalità e decisione ai medici e ai familiari significa, in realtà, rimettere nelle mani dei giudici le scelte ultime in tema di vita e morte. Se non vogliamo che siano i giudici a decidere, deve essere il Parlamento a farlo. La preoccupazione di Mantovano è legittima. Osservo però che egli manifesta una eccessiva sfiducia nella capacità di auto-organizzazione della società (riferita in questo caso, al rapporto fra medici e pazienti). Il ricorso al giudice ci sarebbe solo nelle situazioni in cui quella capacità di autorganizzazione venisse meno. Per ogni singolo caso che approdasse in tribunale ce ne sarebbero moltissimi altri che non ne avrebbero bisogno. Che poi ci siano settori della magistratura che spesso pretendono di legiferare sostituendosi al Parlamento è vero ma è un problema generale, che di sicuro non riguarda solo la questione del fine vita.

Visto che una legge sembra a questo punto necessaria, che almeno essa sia il più possibile «liberale». Intendendo per tale una legge che lasci alle persone spazi di autonomia «dallo Stato» e che scommetta sulla responsabilità degli informati e competenti sul caso singolo.

Accettando anche quelle possibilità di errore che, come sempre nelle umane cose, accompagnano la responsabilità e la libertà.

Angelo Panebianco

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« Risposta #68 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:01:45 am »

 IL PREMIER E I TIMORI DEL COMPLOTTO

La stabilità di un governo


I capigruppo del Pdl di Camera e Senato hanno lanciato l'al­larme contro un pre­sunto piano eversivo che sarebbe in atto per «fare fuori» Silvio Berlusconi, per costringerlo alle di­missioni. Sono i «fanta­smi del 1994» a essere sta­ti implicitamente evocati. Nel '94, ricordiamo, la ca­duta del governo Berlu­sconi fu propiziata dalla garanzia offerta ai «con­giurati » che non ci sareb­bero state immediate ele­zioni anticipate. Ma al Quirinale oggi siede un vero custode della Costitu­zione come Giorgio Napo­litano e questa è la miglio­re garanzia che i fantasmi del '94, comunque, non si materializzeranno. I due capigruppo hanno reagi­to a un «clima» (soprat­tutto la sentenza ai danni di Fininvest sulla vicenda Mondadori, arrivata po­chi giorni prima della pro­nuncia della Corte costitu­zionale sul Lodo Alfano). Ma sbagliano, fanno il gio­co dei loro avversari, sce­gliendo la strada della drammatizzazione. Certa­mente, ci sono settori del­la sinistra politica, non­ché dell'establishment economico-finanziario, che sognano la «spalla­ta ». Come mostrano le in­dulgenze e le coperture che quei settori danno agli strampalati allarmi sul «fascismo alle porte» e sulle «minacce per le li­bertà democratiche». Ma è difficile che nuovi aspi­ranti congiurati possano portare a compimento i loro disegni.

Il governo Berlusconi conta su un'ampia e soli­da maggioranza. E conti­nua a godere di forti con­sensi nel Paese (più forti, stando ai sondaggi, di quelli di qualunque gover­no del recente passato al secondo anno di legislatu­ra). Non sembrano esser­ci le condizioni per una sua liquidazione tramite congiure di Palazzo. Nep­pure in caso di bocciatura del lodo Alfano. A propo­sito del quale è ovviamen­te lecito pensarla come si vuole. Chi scrive pensa che il lodo Alfano sia un ombrello utile per garanti­re la stabilità dei vertici istituzionali della Repub­blica. Soprattutto dopo che (come ha ricordato Giuliano Ferrara sul Fo­glio ) tra i demagogici svi­luppi della cosiddetta «ri­voluzione giudiziaria» del 1993 ci fu l'eliminazio­ne della protezione assi­curata dall'articolo 68 del­la Costituzione. Tanto più in un Paese in cui, come tutti sanno (compresi quelli che fanno finta di non saperlo), accanto a tanti magistrati che fan­no solo il loro lavoro, ce ne sono altri che perse­guono disegni politici. Ga­rantire che i risultati elet­torali non vengano annul­lati dall'azione di chi fos­se tentato di usare le risor­se giudiziarie per costruir­ci sopra carriere politiche è una garanzia minima che la democrazia deve dare a se stessa.

Berlusconi ha tutti gli strumenti per governare. Per giunta, ha dimostrato in varie occasioni, dalla vi­cenda dell’immondizia in Campania al terremoto dell'Abruzzo, al G8, alla gestione della crisi econo­mica, di saperlo fare. A lui e ai suoi conviene im­pegnarsi solo nell'azione di governo (facendo ma­gari, finalmente, anche certe riforme promesse e non attuate: per fare un solo esempio, non si do­vevano abolire le Provin­ce?), smettendola di se­guire sul terreno della drammatizzazione coloro che, forse pensando di va­lere poco, disperano di es­sere capaci di sconfiggere Berlusconi in campo aper­to, in una normale, demo­cratica, competizione elet­torale.

Angelo Panebianco
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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:21:32 pm »

IL PDL, LA LEGA E LE PICCOLE IMPRESE

Quei produttori da ascoltare


Che cosa sta acca­dendo nei rappor­ti fra il governo e quel mondo di piccole imprese del Nord che, oltre a essere la vera spina dorsale del nostro si­stema economico, è sem­pre stato anche, fin dai gior­ni del suo ingresso in politi­ca nel 1994, il nucleo duro, la componente più impor­tante, del seguito elettorale di Silvio Berlusconi? Da di­versi mesi le approfondite inchieste di Dario Di Vico pubblicate dal Corriere do­cumentano il disagio e le grandi difficoltà che vive ogni giorno questo cruciale (per le sorti del Paese) ceto sociale. La situazione deve avere raggiunto livelli dav­vero allarmanti se ieri perfi­no Il Giornale (per la pen­na, come sempre lucida, di Nicola Porro), commentan­do l'incontro nel Varesotto (a Vergiate) di una nutrita platea di piccoli imprendi­tori con Bossi e Tremonti, notava che in quel mondo «… l'umore è pessimo. An­cora, miracolosamente, non si è tradotto in aperta contestazione alla gestione di questo governo …. Ma la riserva di pazienza … è in via di esaurimento».

Tradizionalmente sotto­rappresentata nella Prima Repubblica, la classe media del Nord (piccoli e medi im­prenditori, artigiani, profes­sionisti, commercianti) vi­de improvvisamente cam­biare il proprio rapporto con la politica nel 1994. Le elezioni di quell'anno sono ricordate soprattutto per il successo di Berlusconi e del suo partito, Forza Italia, costruito in pochi mesi. Ma il cambiamento forse più profondo riguardò gli equi­libri territoriali della rap­presentanza: per la prima volta nella storia repubbli­cana, sotto il traino di For­za Italia e della Lega, il Nord, e segnatamente la Lombardia, acquistava una centralità nelle istituzioni rappresentative che non aveva mai avuto in prece­denza.

Il «vento del Nord» manifestò, da allora, i suoi effetti con la massima in­tensità. Si può ritenere che le formidabili resistenze che l'allora outsider Berlu­sconi suscitò subito nel si­stema politico, ma anche nel sistema della grande im­presa e nell'insieme delle corporazioni che erano sta­te i pilastri di sostegno del­la Prima Repubblica, fosse­ro anche (non solo, ma an­che) alimentate da una furi­bonda «lotta per la rappre­sentanza »: la lotta fra il Nord emergente e quegli ambiti, territoriali e profes­sionali, tradizionalmente sovrarappresentati nell'are­na politica, che avevano usufruito, durante la Prima Repubblica, di canali privi­legiati di accesso ai Palazzi romani.

Nel 1994 Berlusconi con­quistò i ceti medi del Nord innalzando la bandiera del­la liberazione fiscale e della rivolta contro l'eccesso di burocrazia statale. Il suo successo fu tale che l'altro attore che aspirava a rap­presentare quei ceti e che preesisteva a Forza Italia, la Lega di Bossi, si trovò rele­gato in un ruolo comunque importante ma secondario. Perché oggi le cose sono in movimento? Per tre ra­gioni, fondamentalmente. La prima è che Forza Italia, essendo confluita nel Popo­lo della Libertà, ha inevita­bilmente acquisito un profi­lo meno «settentrionale» di un tempo. La sua capaci­tà di ascolto è diminuita: deve tener conto anche de­gli interessi e delle aspira­zioni di altre zone del Pae­se. La seconda è che la Lega ha affinato al massimo la sua capacità di azione sul territorio e si pone come l'interlocutore più presente e affidabile nel dialogo con i ceti medi del Lombar­do- Veneto. Aspira, e i più recenti risultati elettorali la confortano, a sostituire il Pdl come rappresentante unico di quegli interessi.

Agevolata anche da una struttura partitica che per livello di organizzazione e coesione ricorda un po' il Pci emiliano o toscano di qualche decennio fa. Il Pdl, poco coeso, diviso al suo interno in una pluralità di sottogruppi in competizione e senza presenza capillare sul territorio, perde progressiva­mente terreno a favore della Lega. La terza ragione ha a che fare con l'azione del governo. Ammainate le antiche bandie­re della liberazione fiscale, delle liberalizzazioni e della de-burocratizzazione della vita economica, il governo Berlu­sconi non dispone, al momento, di una proposta forte, di alto profilo, con cui arginare la concorrenza della Lega.

Assai più esposti ai colpi del mercato, per nulla protetti, a differenza della grande impresa, i piccoli imprenditori vedono sommarsi, ai mali antichi, le conseguenze del­la crisi. Il governo garantisce ascolto e provvedi­menti ma la questione della rappresentanza, per questi ceti, resta apertissima. E' evidente che una parte di essi è già passata o si appresta a passare sotto le ali protettive della Lega, ma è altrettanto evidente che un'altra, forse più nu­merosa parte preferirebbe farne a meno.

La Lega infatti, con la sua ideologia comuni­tario- territoriale, e una prassi coerente con quella ideologia, suscita anche diffidenze, pro­mette protezione ma non sempre innovazione, rappresentanza sindacale di interessi territoriali ma non necessariamente dinamismo sociale. Pre­figura una società relativamente chiusa, ancorché efficacemente difesa nei suoi interessi quotidiani, più che una società dinamica e aperta. Anche se va ri­conosciuto che la Lega è riuscita nel tempo a creare una classe di amministratori locali spesso competenti e con au­tentica capacità di ascolto nei confronti dei ceti produttivi.

L'abbandono da parte del governo dell'antica proposta «liberista» che fu della Forza Italia delle origini è certo dovu­ta anche alla esigenza di fronteggiare la crisi, di attutirne gli effetti, senza destabilizzare i conti pubblici (che è quanto il ministro Tremonti, e l'esecutivo nel suo insieme, sono fin qui riusciti a fare con successo). Però è anche indubbio che in questo modo il Pdl si è trovato sprovvisto delle sue armi più efficaci nella sfida con la Lega per la rappresentanza dei ceti medi del Nord.

In Germania il partito liberale ha riscosso un grande suc­cesso con la sua battaglia antitasse. Anche nel Nord d'Italia quello sembra essere il miglior terreno su cui chi ne avesse voglia e capacità potrebbe sviluppare un'azione efficace­mente competitiva nei confronti della Lega e della sua uto­pia comunitaria.

Angelo Panebianco

11 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #70 inserito:: Ottobre 19, 2009, 03:56:48 pm »

CATEGORIE DI UNA (BRUTTA) STAGIONE

L’estremista, il fazioso e il pluralista


Viviamo in una fa­se, simile ad al­tre della nostra storia, di incana­glimento della lotta politi­ca, siamo immersi in un clima di guerra civile vir­tuale. Siamo, pur con i no­stri difetti, una democra­zia ma rispettabili pensa­tori di altri Paesi, aizzati da demagoghi nostrani, vengono a spiegarci che viviamo sotto una dittatu­ra. Abbiamo un dibattito pubblico apertissimo ma c’è chi racconta che la li­bertà di stampa è minac­ciata. Alcuni parlano del­­l’Italia come se si trattas­se dell’Iran o della Birma­nia. Abbiamo libere e re­golari elezioni ma una parte non esigua degli elettori dello schieramen­to sconfitto non ricono­sce la legittimità del go­verno in carica (ma la stessa cosa facevano certi elettori dell’attuale mag­gioranza quando governa­vano i loro avversari).

E’ in questi momenti che conviene tornare ai «fondamentali»: che co­sa permette a una demo­crazia di sopravvivere? Di quali virtù o qualità deve essere dotata la cittadi­nanza democratica? La de­mocrazia è un regime mo­derato. Ha bisogno che a guidare i governi siano sempre forze moderate, di destra o di sinistra, e che le componenti estre­miste siano tenute a ba­da. Ma perché ciò accada occorre che, fra i cittadi­ni, prevalgano certi atteg­giamenti anziché altri. Nelle democrazie, in tut­te, la maggioranza dei cit­tadini ha interesse nullo, scarso o sporadico per la politica. E’ sempre una minoranza, magari consi­stente ma pur sempre mi­noranza, a seguire con continuità le vicende poli­tiche. Sono gli atteggia­menti prevalenti in que­sta minoranza a dettare tono e qualità della demo­crazia.

Sono tre i tipi umani che più frequentemente si incontrano in tale mi­noranza: l’estremista, il fa­zioso, il pluralista. Li indi­co nell’ordine che va dal meno al più compatibile con la democrazia. Gli estremisti veri e propri, così come qui li intendo, sono (fortunatamente) sempre pochi, anche se rumorosi e, spesso, peri­colosi. La loro presenza dipende da certe caratteri­stiche della politica, dal fatto che la politica, più di qualunque altra attivi­tà umana, si presta ad es­sere il luogo in cui si pos­sono scaricare le frustra­zioni personali. Per l’estremista la politica è una grande discarica nel­la quale egli getta la parte peggiore di sé. L’estremi­sta è uno che odia. Odia se stesso in realtà ma tra­sforma l’odio per se stes­so in odio per il «nemico politico». La politica, da­ta la sua natura competiti­va e conflittuale, si presta bene per questa operazio­ne. Lo sventurato giovane che su Facebook si è chie­sto perché nessuno abbia ancora ficcato una pallot­tola in testa a Berlusconi è una vittima del clima che gli estremisti alimen­tano (per inciso, quel brutto incidente potreb­be essere la sua fortuna: se non è uno stupido ri­fletterà, capirà che un uo­mo è tale solo se pensa con la sua testa, se non si fa comandare o suggestio­nare dal clima dominante negli ambienti che fre­quenta).

Poi c’è il fazioso. A differenza dell’estremi­sta il fazioso, come qui lo intendo, non è un caso psichiatrico. Però è spaventato dalle opinioni in contrasto con la sua. Nei mezzi di comunicazione cerca più conferme ai suoi pregiudizi che informazioni o dibattiti di idee. È rassicurato dall’idea che esista, in materia di politica, la «verità», unica, chia­ra, indiscutibile, e che egli, essendo onesto e intelligente, la conosca. Per lui, quelli che non vogliono accettare la verità in cui egli crede sono disonesti o stupidi.

Il fazioso teme lo stress che gli procure­rebbe il riconoscimento che il mondo è dav­vero complesso e ambiguo. Ha bisogno di contare su un quadro di certezze: di qua il bene, di là il male. Un grande economista, Joseph Schumpeter, diceva che spesso eccel­lenti persone, brave nel loro mestiere, sono in grado di parlare con competenza e matu­rità dei problemi della loro professione ma regrediscono all’infanzia appena comincia­no a parlare di politica: il Bene, il Male, le fate e gli orchi, gli sceriffi col cappello bian­co e i banditi col cappello nero. Il fazioso, essendo spesso tutt’altro che stupido, vive con patimento la sua contraddizione: la coe­sistenza, in lui, dell’orrore per le opinioni di­verse dalla sua e del riconoscimento della necessità del pluralismo delle opinioni in una democrazia.

C’è infine il pluralista. Accetta il fatto che il mondo sia complesso e, dunque, che non ci sia, sui fatti contingenti della politica, una Verità acquisita per sempre. Accetta che il problema sia, ogni giorno, quello (fati­coso) di impadronirsi, confrontando le opi­nioni e riflettendo sui fatti, di quel poco di precarissima «verità» che si riesce ad affer­rare. Senza abdicare alle proprie convinzio­ni più profonde non teme di ascoltare pare­ri diversi. Pensa che, se sono ben argomen­tati e presentati con garbo, possano anche arricchirlo.

Quanto più nella minoranza che si inte­ressa con continuità di politica prevale il ti­po pluralista, tanto più la democrazia è sal­da e sicura. Non è questione di destra o sini­stra o, attualmente, di berlusconiani e anti­berlusconiani. Ci sono faziosi e pluralisti di ogni tendenza. Ad esempio, la differenza fra un fazioso antiberlusconiano e un plura­lista antiberlusconiano è che per il primo Berlusconi è il nemico mentre per il secon­do è solo un avversario.

C’è poi la questione dell’uovo e della galli­na. Ci sono fasi in cui, entro la minoranza che segue la politica, i pluralisti si trovano in difficoltà e sembrano quasi soccombere di fronte alla prepotenza dei faziosi (sempre seguiti da un imbarazzante codazzo di estre­misti). È difficile stabilire se in quei momen­ti i faziosi prevalgono perché aizzati dalle ur­la di furbi demagoghi o se, invece, i furbi demagoghi hanno successo a causa dell’esi­stenza di una folta pattuglia di faziosi.

Angelo Panebianco

19 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #71 inserito:: Ottobre 22, 2009, 11:20:04 pm »

IL SUD TRAVOLTO DALLE INCHIESTE

L'emergenza meridionale


L’inchiesta che coinvolge l’ex ministro della giustizia Cle­mente Mastella, alcuni suoi familiari ed esponenti dell’Udeur è l’ultimo tassel­lo che si aggiunge alle affol­latissime cronache politi­co- giudiziarie campane. Ha scioccato tutti il caso di Castellammare di Stabia: il camorrista con tessera del Pd che ha ammazzato un consigliere comunale del suo stesso partito. Poi c’è stata la sconsolata intervi­sta ( Corriere , 20 ottobre), di fatto una dichiarazione di impotenza, di Enrico Mo­rando, commissario straor­dinario del Partito demo­cratico in Campania. Men­tre, a pochi giorni ormai dalle primarie del Pd, si di­scute se sospenderle o no in Campania, date le condi­zioni in cui versa il partito (come dimostrano i tesse­ramenti gonfiati dalle lotte di corrente). Una débâcle per il Pd in una regione nel­la quale la sinistra è domi­nante da decenni. Si ag­giunga, per completare il quadro campano, che an­che a destra, nelle fila del­l’opposizione, non se la passano bene. Come mo­stra il conflitto, interno al Pdl, sulla candidatura alle regionali di Nicola Cosenti­no, a sua volta coinvolto in un’indagine per presunte relazioni con la camorra.

Premesso che l’unico modo per salvaguardare un minimo di civiltà è te­nersi abbarbicati alla pre­sunzione di non colpevo­lezza per qualunque inda­gato, resta che i discorsi che si sentono fare sanno di vecchio. Si può continua­re a guardare il dito anzi­ché la luna e raccontarsi che il problema sono le «in­filtrazioni » criminali nei partiti o il clientelismo dei politici. Ma significa pren­dersi in giro. I partiti, orga­nizzati o no, pesanti o leg­geri, sono strutture che si adattano all’ambiente. L’ambiente è il Paradiso? I partiti saranno composti da angeli. L’ambiente è l’in­ferno? Prevarranno i diavo­li. L’ambiente chiede soste­gno al mercato? E’ ciò che i partiti daranno. L’ambien­te chiede spesa pubblica e clientelismo? I partiti sod­disferanno la richiesta.

Non è dai partiti ma dal­la società che dovrebbe partire la bonifica. Il pro­blema (che sta mettendo a rischio l’unità stessa del Pa­ese) della Campania, come di vaste zone del Sud, è che non c’è più da decenni un progetto plausibile per lo sviluppo nel Mezzogior­no. Non ce l’ha la destra co­me non ce l’ha la sinistra. A meno che non si dica che il progetto per il Mez­zogiorno sia il federalismo fiscale (si può immaginare l’effetto catartico del fede­ralismo fiscale su Castel­lammare di Stabia). O la banca del Sud. O i piani per una «Lega Sud» (che sarebbe anche una buona idea ma solo se il suo slo­gan fosse «mettiamoci a fa­re denaro», ossia impegna­moci per lo sviluppo, anzi­ché «dateci i denari»).

Forse sarebbe il caso di convenire che in ampie zo­ne del Sud (non in tutte, certo) mancano attualmen­te le condizioni minime che rendono praticabile la democrazia locale (comu­nale, provinciale, forse an­che regionale) e che un commissariamento centra­le si rende, per quelle zo­ne, e per molti anni, indi­spensabile. In modo da co­ordinare interamente dal centro sia la guerra alle or­ganizzazioni criminali sia l’imposizione (per lo più, contro le classi dirigenti lo­cali) di progetti di svilup­po. Occorrerebbe un accor­do di ferro fra maggioran­za e opposizione. Siccome quell’accordo non si può fa­re, continueremo ad ascol­tare impotenti le notizie che arrivano dalla Campa­nia e da altre zone del Sud lamentando le solite infil­trazioni, la solita corruzio­ne, il solito clientelismo.

Angelo Panebianco

22 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #72 inserito:: Novembre 03, 2009, 09:57:25 am »

TIMORI DI UN ESECUTIVO FORTE

Il provincialismo che frena le riforme


C’ è la tenue possibilità, come ha os­servato Ser­gio Romano (il Corriere, 1˚novembre) che l’elezio­ne di Pier Luigi Bersani a segretario del Partito de­mocratico contribuisca a rendere meno irrespirabi­le l’aria del Paese. C’è l’inte­resse del governo ad evita­re, per il futuro, continui scontri frontali con l’oppo­sizione: la sponsorizzazio­ne della candidatura di Massimo D’Alema alla cari­ca di responsabile della po­litica estera della Unione europea è una mossa che va in quella direzione. Ma c’è anche un interesse di Bersani a superare il clima da guerra civile. Bersani, la cui tradizione politica di provenienza teneva in gran conto il realismo, sa bene che quel clima può favorire solo gli estremi­sti. Alla lunga, la «politica delle urla» danneggia le forze moderate di sinistra. Si tratta di una possibili­tà tenue. I «combattenti della guerra civile» non molleranno l’osso, hanno troppo da perdere. Se ci sa­rà, su certi temi, dialogo fra maggioranza e opposi­zione, si può scommettere che Bersani verrà accusato dai suddetti combattenti di essere un traditore.

Ma Bersani si gioca il fu­turo del Pd. Sa che deve da­re del suo partito l’immagi­ne di una «forza tranquil­la », capace di occuparsi con serietà dei problemi del Paese.
Solo così può sperare di attrarre, nel Nord d’Italia soprattutto, quella parte di elettorato che oggi non lo voterebbe ma che potrebbe domani cambiare idea, che potreb­be abbandonare il centro­destra se il Partito demo­cratico fosse capace di co­struirsi una reputazione di seria e dinamica forza ri­formista.

Per qualificare così il proprio partito Bersani de­ve cercare il dialogo con la maggioranza là dove più accentuato è l’attivismo ri­formista del governo.
La­voro, scuola- università, pubblica amministrazione sono àmbiti nei quali il go­verno, comunque si giudi­chi la sua azione, ha mo­strato una forte caratura ri­formista.
Che deve fare l’opposizione? Continuare a dire che «è tutto sbaglia­to, è tutto da rifare», oppu­re tentare di dialogare apertamente col governo cercando reali punti di in­contro per poi poter riven­dicare una parte del meri­to dei provvedimenti adot­tati?

Se sui temi suddetti, e anche su altri (per esem­pio, le questioni degli sgra­vi fiscali alle imprese o del­la potatura della spesa im­produttiva) il Pd fosse ca­pace di presentarsi con proposte costruttive ver­rebbe certo accusato di in­telligenza col nemico dai guerrafondai ma potrebbe guadagnare credibilità agli occhi dell’elettorato più centrista.

C’è poi il capitolo delle riforme istituzionali. Qui il terreno però è decisa­mente minato. Capire do­ve sono collocate le mine è importante. Sulla rifor­ma della giustizia, nono­stante l’opera, comunque preziosa, di pontieri di pre­stigio come Luciano Vio­lante, le possibilità di azio­ne bipartisan sembrano, al momento, scarse o nul­le.
È improbabile che il go­verno presenti un proget­to di riforma che possa ot­tenere l’avallo della Asso­ciazione nazionale magi­strati.
E senza quell’avallo è difficile che il Pd sia in grado di accordarsi col go­verno.

Probabilmente, la que­stione della riforma della Costituzione (tranne negli aspetti che toccano il te­ma della giustizia) divente­rà, di nuovo, come tante al­tre volte in passato, un ter­reno di seria discussione fra maggioranza e opposi­zione.

Le fondazioni che fanno ca­po a Gianfranco Fini e a Mas­simo D’Alema ci lavorano su da qualche tempo. E Violante ha ricordato i punti su cui, in Parlamento, è forse possibile trovare una intesa: «Trasfor­mare il Senato in Camera del­le Regioni, lasciare a Monteci­torio la legislazione ordinaria e il potere di dare e togliere la fiducia, ridurre il numero dei parlamentari e rafforzare i po­teri del presidente del Consi­glio » ( Il Foglio , 31 ottobre).

Pur auspicando che un’in­tesa si trovi, mi permetto di essere scettico. A meno che non cambino certe condizio­ni. Di riforma della Costitu­zione si parla dai tempi di Craxi e sono sempre falliti tut­ti i tentativi di farla. Le re­sponsabilità di questi ripetuti fallimenti non sono solo del­la classe politica. Sono anche di quelle forze, esterne alla classe politica in senso stret­to, che hanno il potere di le­gittimare oppure di delegitti­mare l’operazione di riforma. Penso, in particolare, ai pro­fessori di diritto costituziona­le. Fin quando la maggioran­za dei costituzionalisti, come fino ad oggi è stato, manterrà un atteggiamento conservato­re, le possibilità di cambia­mento consensuale della Co­stituzione continueranno ad essere ridotte. Immaginiamo che si trovi un accordo sui punti indicati da Violante, ivi compreso il più controverso: il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Non ci sarebbe immediatamente una straordinaria mobilitazio­ne di costituzionalisti di pre­stigio contro la «deriva auto­ritaria », contro il «fascismo alle porte»? E quella mobilita­zione, sfruttata dalle forze po­litiche e dai giornali contrari all’accordo, non avrebbe un potente effetto delegittiman­te sull’intera operazione? Co­sì è stato in passato. Perché le cose dovrebbero oggi cam­biare?

In una eccellente ricostru­zione- analisi della vicenda che apparirà sul numero di novembre di Le nuove ragio­ni del socialismo (e la cui let­tura consiglio a quei politici, di maggioranza e di opposi­zione, che vogliano seriamen­te imbarcarsi nell’impresa), Augusto Barbera mostra be­nissimo quanto il provinciali­smo, l’incapacità di confron­tarsi con le esperienze costi­tuzionali europee — britanni­ca, spagnola, tedesca — pesi sui pregiudizi, non solo dei politici, ma anche di molti co­stituzionalisti.
Fare le rifor­me costituzionali non è solo una questione affidata alle possibilità di accordo fra maggioranza e opposizione. È anche una questione di ag­gregazione di consenso fra coloro che sono ritenuti com­petenti e legittimati a dire la loro sull’argomento.

Convincere la cultura costi­tuzionalista del Paese che la democrazia richiede governi istituzionalmente forti è un lavoraccio: troppi costituzio­nalisti pensano ancora il con­trario. Ma è un lavoraccio ne­cessario, se si vuole arrivare a risultati. Altrimenti, la ripre­sa del dialogo sulle riforme costituzionali sarà solo, co­me altre volte, una scusa per instaurare, per qualche me­se, un clima meno avvelena­to fra le forze politiche. Me­glio di niente. Ma troppo po­co, forse, per le esigenze del Paese.

Angelo Panebianco

03 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 09, 2009, 11:36:23 am »

 SE VAN ROMPUY GUIDERA’ L’EUROPA

Il presidente sconosciuto


Dal trattato di Li­sbona, ora che con la ratifica della Repubbli­ca Ceca è caduto l'ultimo ostacolo formale che ne impediva la messa in ope­ra, nessuno si aspetta mi­racoli. Ma ci si aspetta che arresti la crisi delle istitu­zioni europee iniziata con la mancata ratifica del trat­tato costituzionale a segui­to dei referendum france­se e olandese del 2005 e il contraccolpo che ne è se­guito: la marcata «rinazio­nalizzazione » della politi­ca europea, il passaggio a una fase in cui i governi europei, con le loro specifi­che esigenze, hanno occu­pato tutta la scena. Dalle disposizioni del trattato ci si attende più forza per le istituzioni dell’Unione e più efficienza per i suoi processi decisionali. Ci si aspetta, più in generale, condizioni favorevoli al riavvio del processo di in­tegrazione.

Ma l'Unione, anche con il nuovo trattato, resta un sistema complesso nel quale elementi di sovrana­zionalità e potere degli Sta­ti sono obbligati a convive­re. E la loro convivenza comporta inevitabilmente difficoltà e incongruenze. Come mostrano le stesse dinamiche connesse alla «partita» delle nomine previste dal trattato di Li­sbona: la nomina del presi­dente del Consiglio euro­peo e quella dell'Alto rap­presentante dell'Unione per gli affari esteri e la poli­tica della sicurezza. In en­trambi i casi, anche se in modo diverso, si pone il problema della ricerca di un difficile equilibrio fra esigenze nazionali (dei sin­goli Stati) ed esigenze eu­ropee (dell'Unione nel suo complesso). La principale esigenza europea è che le cariche di presidente e di responsabile della politica estera si consolidino e ac­quistino col tempo cre­scente prestigio: in una pa­rola, che si «istituzionaliz­zino ». L'inizio è decisivo. Una falsa partenza (per esempio, dovuta alla scel­ta di candidati di basso profilo) potrebbe compro­mettere l'operazione, to­gliere forza alle cariche previste dal trattato. Il pro­blema è se, e fino a che punto, l'esigenza europea si concilia con le esigenze nazionali, i calcoli e le aspettative dei governi più coinvolti in questa partita. Prendiamo il caso della presidenza del Consiglio europeo. C'è (o c'era) sul tavolo un'unica candidatu­ra di grande prestigio, quella di Tony Blair. Ma è traballante o forse già tra­montata e va rafforzando­si l’ipotesi di una guida af­fidata all’attuale primo mi­nistro belga Herman van Rompuy. Blair ha, o aveva, profilo e statura giusti per dare forza e slancio alla Presidenza del Consiglio. Ma poi ci sono le esigenze nazionali, non necessaria­mente congruenti con l'in­teresse europeo. A parte la convenienza dei conserva­tori britannici, probabili vincitori delle prossime elezioni, a non avere un av­versario politico interno come Blair alla testa dell' Unione, c'è la più generale circostanza che i governi dei grandi Stati possono preferire per quella carica uomini di più bassa statu­ra politica: qualche rispet­tabile figura sconosciuta ai più, troppo debole per dare lustro alla carica ma malleabile e disposta a se­guire docilmente le istru­zioni dei governi che più contano in Europa.

Anche nel caso della nomina del re­sponsabile della politica estera il proble­ma della composizione fra interessi nazio­nali e interesse europeo si pone. Ma in modo diverso rispetto al caso precedente: qui sono in campo solo nomi di prestigio. Noi italiani siamo direttamente coinvolti in questa partita in virtù della scelta del governo Berlusconi di appoggiare la can­didatura di Massimo D’Alema. Una candi­datura forte anche in Europa, per la statu­ra del personaggio (già primo ministro e poi ministro degli Esteri nell’ultimo gover­no Prodi). Alla candidatura di D’Alema si contrap­pone, fino a ora, solo quella dell’attuale ministro degli Esteri britannico David Mi­liband. È evidente dove stia, nel caso della candidatura di D’Alema, l’interesse nazio­nale italiano così come le nostre principa­li forze lo interpretano: non solo si ottie­ne per un prestigioso politico italiano una carica così importante ma, in più, la sponsorizzazione del governo, se l’opera­zione andasse in porto, avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra maggioranza e opposizione.

C’è poi, anche in questo caso, l’interes­se europeo. Esso può essere soddisfatto dall’alto profilo dei candidati. Ma dal pun­to di vista europeo, c’è un ulteriore proble­ma: come la politica estera dell’Unione verrebbe influenzata dalla scelta dell’uno o dell’altro? L’Alto rappresentante ha in­fatti, almeno sulla carta, considerevoli po­teri. Può incidere davvero (anche se, natu­ralmente, sempre coordinandosi con i go­verni che contano) sulle scelte dell’Unio­ne. E i dossier su cui dovrà lavorare sono davvero delicati: rapporti con gli Stati Uni­ti, rapporti con la Russia, e tutte le esplosi­ve questioni mediorientali. Sia D’Alema che Miliband sono politici di razza, non banderuole, e conosciamo i loro convincimenti. È presumibile che la politica estera della Ue risulterebbe par­zialmente diversa a seconda che l’uno o l’altro divenisse «ministro degli Esteri» europeo.

Sono note, ad esempio, certe riserve che la candidatura di D’Alema suscita in Italia e fuori d’Italia, non certo per la per­sona (il cui valore è considerato fuori di­scussione) ma per un aspetto, soprattut­to, della sua passata esperienza di mini­stro degli Esteri: la sua politica di allora per il Medio Oriente, il suo filo arabismo, e la sua posizione meno comprensiva per le ragioni di Israele che per quelle dei suoi nemici. D’altra parte anche per Mili­band non mancano le riserve, se non al­tro data la tradizionale posizione della Gran Bretagna, critica di molti aspetti del­la costruzione europea. Sarebbe utile se i diversi candidati per le cariche in gioco fossero chiamati a esporre preventivamente di fronte all’opi­nione pubblica europea le loro intenzioni sulle più delicate questioni che ha di fron­te a sé la Ue. Ciò aiuterebbe forse a trova­re il giusto equilibrio fra i legittimi inte­ressi nazionali e l’altrettanto legittima esi­genza degli europei di conoscere quale politica i prescelti contribuirebbero a co­struire.

Angelo Panebianco

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« Risposta #74 inserito:: Novembre 18, 2009, 04:44:46 pm »

PERCHE’ PREOCCUPA L’ANNUNCIO SPAGNOLO

Se l’Islam diventa partito


La politica demo­cratica è struttu­ralmente vincola­ta a un orizzonte di breve periodo. La natu­ra del sistema democrati­co spinge gli uomini poli­tici ad occuparsi solo dei problemi che agitano il presente. Le altre grane, quelle che già si intravedo­no ma che ci arriveranno addosso solo domani o dopodomani non posso­no essere prese in consi­derazione. A differenza di ciò che fa la migliore me­dicina, la politica demo­cratica non si occupa di prevenzione. Se così non fosse, una notizia appena giunta dalla Spagna do­vrebbe provocare grandi discussioni entro le classi politiche di tutti i Paesi eu­ropei, Italia inclusa. La no­tizia è che, come era pri­ma o poi inevitabile che accadesse, c’è già su piaz­za un partito islamico che scalda i muscoli, che è pronto a presentarsi con le sue insegne nella com­petizione elettorale di un Paese europeo. Si tratta del Prune, un partito fon­dato da un noto intellet­tuale marocchino, da an­ni residente in Spagna, Mustafá Bakkach.
Ufficial­mente, il suo intento pro­grammatico è di ispirarsi all’islam per contribuire alla rigenerazione morale della Spagna. In realtà, cercherà di difendere e diffondere l’identità isla­mica. Avrà il suo battesi­mo elettorale nelle elezio­ni amministrative del 2011. Se otterrà un succes­so, come è possibile, solle­verà un’onda (ce lo dico­no i flussi migratori e la demografia) che attraver­serà l’intera Europa. L’ef­fetto imitativo sarà poten­te e partiti islamici si for­meranno probabilmente in molti Paesi europei.
A quel punto, la strada della auspicata «integrazione» di tanti musulmani che ri­siedono in Europa diven­terà molto ripida e imper­via. Perché? Perché la scel­ta del partito islamico è la scelta identitaria, la scelta della separazione, dell’au­to- ghettizzazione. Si po­trebbe anche dire, para­dossalmente, che quando nasceranno i partiti isla­mici sarà possibile valuta­re davvero quale sia, per ciascun Paese europeo, il reale tasso di integrazio­ne dei musulmani. Per­ché è evidente che il mu­sulmano integrato (per fortuna, ce ne sono già moltissimi), quello che vi­ve quietamente la sua fe­de e non ha rivendicazio­ni identitario-religiose da avanzare nei confronti del­la società europea in cui risiede e lavora, non vote­rà per il partito islamico. A votarlo però saranno co­munque molti altri, sia per adesione spontanea (in nome di un senso di separatezza identitaria) sia a causa della pressio­ne degli ambienti musul­mani che frequentano.

Al pari del partito isla­mico spagnolo, si capisce, ogni futuro partito islami­co europeo dichiarerà (e non ci sarà ragione di cre­dere il contrario) di rifiu­tare la violenza. Non po­trà infatti rischiare (pena il fallimento del progetto politico) vicinanze o con­taminazioni con cellule terroriste più o meno atti­ve o più o meno dormien­ti in Europa. Ma ciò non toglie che l’ideologia dei partiti islamici sarà co­munque quella tradiziona­lista/ fondamentalista.

Sarà l’ideologia della cosiddetta Rinascita islamica, impregnata di valori antioccidentali e, alla luce del metro di giudizio europeo, illiberali. Si tratterà di forze illiberali che useranno la politica per strappare nuovi spazi, risorse e mezzi di indottrinamento e propaganda. Per questo, il loro ingresso nel mercato politico-elettorale europeo bloccherà o ritarderà a lungo l'integrazione di tanti musulmani. Che fare? La politica democratica non può facilmente difendersi da questa insidia. Però le possibilità di successo o di insuccesso dei partiti islamici nei vari Paesi europei dipenderanno da un insieme di condizioni.

Conteranno certamente anche le maggiori o minori chances che ciascun singolo musulmano avrà di ben inserirsi nel lavoro, e di poter accedere, per sé e per la propria famiglia, a condizioni di benessere (ma guai a credere che basti solo questo per annullare le spinte identitarie). Conteranno anche, e forse soprattutto, le caratteristiche istituzionali dei vari Paesi europei. Si difenderanno meglio, io credo, le democrazie dotate di sistemi elettorali maggioritari (che rendono difficile l’ingresso di nuovi partiti) rispetto a quelle che usano l’una o l’altra variante del sistema proporzionale.

La Gran Bretagna ha commesso errori colossali con la sua politica verso l’immigrazione musulmana. Il suo scriteriato «multiculturalismo» ha finito per consegnare all’Islam, e anche all’Islam più radicale, importanti porzioni del suo territorio urbano (al punto che oggi la Gran Bretagna deve persino fronteggiare il fenomeno dei numerosi cittadini britannici, di lingua inglese, che combattono in Afghanistan insieme ai loro correligionari talebani). Tuttavia, quegli errori sono forse ancora rimediabili. Il sistema maggioritario rende infatti molto difficile l’ingresso nel mercato politico britannico di un partito islamico. Diverso è il caso dei Paesi ove vige la proporzionale nell’una o nell'altra variante: l'ingresso è relativamente facile e la politica delle alleanze e delle coalizioni, tipicamente associata ai sistemi proporzionali, garantisce influenza e potere anche a piccoli partiti. Una circostanza che i futuri partiti islamici potranno sfruttare a proprio vantaggio. Da antico, e non pentito, sostenitore del sistema maggioritario penso che quella qui descritta rappresenti una ragione in più per adottarlo.

Angelo Panebianco

18 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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