Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #45 inserito:: Marzo 30, 2009, 09:15:10 am » |
|
La lunga partita a tre
di Angelo Panebianco
L'identità del nuovo partito, del Popolo della Libertà, è risultata chiaramente definita nel discorso con cui il premier Silvio Berlusconi ha concluso i lavori del congresso. Nonché nel dialogo che Berlusconi ha pubblicamente intavolato con l'altro protagonista dell'evento, il presidente della Camera Gianfranco Fini, a proposito della riforma della Costituzione. Chi pensa che il Popolo della Libertà sia solo una Forza Italia allargata ad An forse sbaglia. C'è una differenza essenziale (sul piano simbolico-identitario ma con inevitabili ricadute politiche) fra Forza Italia dal 1994 in poi e il neonato partito. Forza Italia, così come Berlusconi volle all'inizio e come ancora ribadì nella campagna elettorale del 2001, era (simbolicamente) il partito della «rivoluzione liberista»: meno tasse, meno Stato, più liberalizzazioni, più libertà di impresa. Il Popolo della Libertà si configura invece (sempre simbolicamente, ben inteso) come il partito della «riforma dello Stato»: della Costituzione, della pubblica amministrazione, eccetera.
È vero che la riforma dello Stato era comunque un elemento ben presente nell'identità di Forza Italia (Berlusconi parlava già nel 1994 di riforma dello Stato). Ed è ugualmente vero che il suo precedente governo diede vita a una profonda riforma della Costituzione poi bocciata dagli elettori in un referendum. Ma è anche vero il fatto che la riforma della Costituzione e dello Stato veniva allora invocata come strumento per una più efficace realizzazione della promessa rivoluzione liberista. Era quest'ultima la meta finale, era quest'ultima la vera ragion d'essere di Forza Italia (ricordate lo slogan «meno tasse per tutti»?) così come il suo leader la proponeva agli italiani. Non è più così nel Popolo della Libertà. La rivoluzione liberista è andata definitivamente in soffitta. E non solo perché questi tempi di crisi registrano ovunque il prepotente ritorno dello Stato. Il cambiamento era in atto da tempo. La campagna elettorale di Berlusconi nel 2008 era già molto diversa dalle sue campagne precedenti. A fare da apripista, in larga misura, era stato l'attuale ministro del Tesoro Giulio Tremonti che già da tempo proponeva una visione dei rapporti fra Stato e mercato assai lontana dal liberismo (o liberalismo economico) delle origini. Scomparsa la rivoluzione liberista, resta, e diventa costitutiva dell'identità del nuovo partito, la riforma dello Stato.
Da mezzo, da strumento, la riforma dello Stato diventa il fine. Non è casuale che Renato Brunetta sia stato il ministro più applaudito dal congresso. Come non è casuale che gran parte dell'intervento di Berlusconi abbia riguardato i temi della Costituzione, della pubblica amministrazione, della scuola, dell'università, dei servizi pubblici in genere. E, naturalmente, l'identificazione del Popolo della Libertà con la riforma dello Stato è rafforzata dal fatto di essere esso il «partito del governo», la forza di sostegno dell'azione quotidiana dell'esecutivo, nonché dei suoi progetti futuri. Si sono sprecati in questi giorni i confronti fra la Dc e il Popolo della Libertà ma si dimentica una differenza simbolica essenziale: la Dc era il gestore/custode della Costituzione e dello Stato, il Popolo della Libertà si presenta come il campione del cambiamento costituzionale e statuale. Né potrebbe essere altrimenti, essendo proprio di tutte le leadership carismatiche proporre radicali cambiamenti, mai la tranquilla gestione dell'esistente. Poi, simboli e identità a parte, c'è, naturalmente, la politica. Osservando la politica si può forse essere scettici sulla possibilità di una «stagione costituente». Richiederebbe, come ha giustamente sostenuto Fini e come Berlusconi (ma con molti distinguo) gli ha concesso, il coinvolgimento dell'opposizione.
Ma, nonostante le aperture di Massimo D'Alema, è dubbio che l'opposizione possa essere alla fine disponibile. Se non altro perché, essendo gran parte degli elettori del centrosinistra affezionata, oggi come nel '94, allo schema «Berlusconi uguale autoritarismo», difficilmente il Partito democratico potrebbe mettere la propria firma su una riforma della Costituzione che (come vuole Berlusconi) avesse, tra i suoi elementi qualificanti, il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Più che al rapporto fra maggioranza e opposizione sarà dunque alla dialettica fra Berlusconi, Fini e Bossi che occorrerà guardare per capire se e in che misura le affermazioni di principio e le rivendicazioni identitarie di oggi avranno effetti, e quali, sulla fisionomia dello Stato democratico di domani.
30 marzo 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #46 inserito:: Aprile 13, 2009, 09:33:36 am » |
|
IL NORD TRA PDL E LEGA
Che cosa chiede la classe media
di Angelo Panebianco
Come confermano le tensioni di questi giorni (decreto sicurezza, questione del referendum sulla legge elettorale) il vero tallone d'Achille dell'altrimenti fortissimo governo Berlusconi è dato dalla rivalità fra la Lega e il Popolo della libertà: una rivalità la cui posta, come si sa, è l'egemonia sul Nord e, in particolare, sul Lombardo- Veneto. In questa lotta per l'egemonia la partita che davvero conta riguarda la questione della rappresentanza politica di un insieme di ceti, sociologicamente assai articolati al loro interno, che un tempo si sarebbero detti «ceti borghesi» o classe media indipendente: piccoli e medi imprenditori, professionisti, commercianti, artigiani. E' quell'insieme di ceti da cui dipende da sempre il dinamismo economico, la ricchezza, il benessere del Lombardo-Veneto. Data l'importanza e il peso economico di queste regioni, inoltre, è evidente che chi riesce ad assumere la rappresentanza piena della classe media indipendente, e a stabilizzare il rapporto con essa, si garantisce una duratura posizione di centralità nel sistema politico italiano.
La ragione per cui la partita per l'egemonia su questi ceti si disputa solo fra Popolo della libertà e Lega, dipende dal fatto che le opposizioni, date le loro caratteristiche, non sono in grado di partecipare alla gara. Non lo è l'Udc, un partito che, tradizionalmente, ha i suoi punti di forza nel Mezzogiorno. Non lo è, per ragioni diverse, il Partito democratico. Il paradosso del Partito democratico è che mentre esso dispone al Nord di alcuni eccellenti amministratori, perfettamente in grado di dialogare con successo con la classe media indipendente, non è invece capace di farlo in quanto partito. Data la prevalente incidenza, come risulta dalla geografia sociale del voto del 2008, di lavoratori dipendenti (con una sovrarappresentazione di dipendenti pubblici) e pensionati, fra i suoi elettori, il Partito democratico è condannato, anche per la stessa provenienza sociale dei suoi iscritti e militanti, a farsi soprattutto portavoce degli interessi sociali organizzati dai sindacati, Cgil in testa, a scapito di altri interessi.
Il fallimento del progetto veltroniano, del «partito a vocazione maggioritaria », è dipeso anche dal fatto che il Pd non è riuscito a presentarsi, a nord dell'Emilia-Romagna, come un interlocutore credibile per la classe media indipendente. Solo una partita politica a due, dunque. Ma anche una partita resa assai complessa dal fatto che, per ragioni diverse, sia il Popolo della libertà che la Lega incontrano più difficoltà di quante i loro dirigenti siano disposti ad ammettere nell'assicurarsi la piena fiducia di quei ceti, nell'interpretarne le esigenze e nel tutelarne gli interessi.
Sottoposti a un regime di elevata fiscalità e penalizzati dalle inefficienze del sistema pubblico, questi ceti chiedono, da sempre, meno tasse e meno burocrazia. Oggi, pressati dalla crisi, chiedono anche sostegni e agevolazioni da parte dello Stato. Dal 1994 in poi il grosso della classe media indipendente del Nord aveva trovato in Berlusconi il proprio campione e in Forza Italia il proprio partito di riferimento.
Ma le cose sono cambiate, almeno in parte, con la nascita del Popolo della libertà. Il Popolo della libertà non è Forza Italia: la fusione fra Forza Italia e An lo ha reso di gran lunga il più forte partito nazionale ma ne ha anche meridionalizzato l'insediamento. Il baricentro del Popolo della libertà, a differenza di quello della vecchia Forza Italia, gravita oggi più verso il Sud che verso il Nord.
Per la competizione della Lega, certo, ma anche perché le politiche che possono essere proposte con successo al Sud sono diverse da quelle che possono mietere consensi al Nord.
Il successo della Lega nelle elezioni del 2008, forse, non sarebbe stato così pronunciato se non si fosse diffusa nell’elettorato la percezione di un relativo spostamento di attenzione da parte dell'allora costituendo Popolo della libertà verso altri interessi geografici e sociali. Come prova il sostanziale abbandono da parte del gruppo dirigente dell'ex Forza Italia degli antichi slogan sulla «liberazione fiscale». La meridionalizzazione non ha spezzato del tutto ma ha certamente incrinato il rapporto fra il Popolo della libertà e la classe media indipendente del Nord. E il recupero, pur possibile, si rivela comunque assai difficile.
Porte aperte per la Lega, dunque? E’ la Lega destinata a vincere definitivamente la battaglia per l'egemonia?
Così suggeriscono i sondaggi ma dei sondaggi è sempre bene diffidare. Già, perché anche la Lega deve affrontare grossi problemi se vuole diventare permanente punto di riferimento di quei ceti. Prendiamo il caso del federalismo fiscale. La Lega lo ha voluto a tutti i costi, e quale che ne sia il costo. Ma il federalismo fiscale in Italia non può che essere «solidale»: tradotto dal politichese, significa che le regioni che fanno un cattivo uso del denaro raccolto con i trasferimenti (per esempio, mantenendo in piedi sistemi sanitari inefficienti) si vedranno garantito il diritto di continuare a farne un cattivo uso.
Nessuno conosce il costo dell'operazione ma si è capito che sarà elevato. In questo caso, sarà la classe media del Nord a pagare il prezzo più alto. La Lega, la cui identità fa tutt'uno con il federalismo fiscale, potrebbe a quel punto essere additata come la vera responsabile degli effetti negativi della riforma. Ce n'è comunque abbastanza per alimentare diffidenze e sospetti verso la Lega.
La condizione della classe media indipendente settentrionale è davvero paradossale: da un lato, è corteggiatissima ma, dall'altro, fatica oggi a trovare una sicura rappresentanza delle proprie istanze. La lotta per l'egemonia sul Nord sembra destinata a durare molto a lungo.
12 aprile 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #47 inserito:: Aprile 20, 2009, 11:55:42 am » |
|
CONFERENZA DI GINEVRA
Chi è presente stavolta ha torto
di Angelo Panebianco
Si apre oggi a Ginevra, sotto i peggiori auspici, la Conferenza delle Nazioni Unite sul razzismo. Gli occidentali sono arrivati a questo appuntamento divisi. Gli Stati Uniti, Israele, il Canada, l’Australia e l'Italia hanno confermato che non parteciperanno non essendoci garanzie che la Conferenza, i cui lavori preparatori sono stati dominati dai Paesi islamici, non si risolva anche questa volta (come accadde nella precedente conferenza di Durban nel 2001) in un atto di accusa contro Israele e contro l'Occidente. Olanda e Germania hanno dato all'ultimo momento forfait. La Gran Bretagna e la Francia, invece, hanno scelto di essere presenti. Così come il Vaticano. Il presidente iraniano Ahmadinejad, già arrivato a Ginevra, è stato ricevuto con tutti gli onori dalle massime autorità elvetiche (il che ha suscitato una dura protesta di Israele) e sarà fra i primi a prendere la parola nella tribuna messagli a disposizione dall'Onu. Molte cose non vanno, evidentemente, se a una Conferenza sul razzismo, che dovrebbe essere espressione dell' impegno delle Nazioni Unite in difesa dei diritti umani, può impunemente prendere la parola un signore che ritiene la Shoah una «invenzione» e presiede un regime che ha al proprio attivo l'assassinio di centinaia di oppositori politici.
Comunque vada a finire la Conferenza, tre lezioni si possono già trarre da questa vicenda. La prima è che se l'Occidente si divide, coloro che puntano a usare le istituzioni internazionali in chiave antioccidentale hanno facile gioco. Se ci fosse stato un blocco compatto dei Paesi occidentali a difesa di principi per essi irrinunciabili, quei Paesi islamici che giocano sulle divisioni dell'Occidente avrebbero dovuto tenerne conto, e la stessa Conferenza di Ginevra avrebbe forse avuto un diverso avvio. I Paesi europei che, insieme al Vaticano, hanno scelto comunque di andare alla Conferenza forse riusciranno a impedire che essa si risolva in una Durban bis ma corrono anche un rischio: il rischio che la loro presenza contribuisca a dare legittimazione internazionale a regimi politici che fanno quotidianamente strage di diritti umani a casa loro e che non hanno le carte in regola neppure in materia di razzismo essendo noti campioni di propaganda antisemita.
La seconda lezione è che i diritti umani non possono essere facilmente separati dal contesto culturale occidentale che li ha generati. La dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948 e le tante altre dichiarazioni, convenzioni e istituzioni promotrici dei diritti umani che l'hanno seguita, erano espressioni della tradizione occidentale. Rispecchiavano il predominio politico-militare, economico e culturale, del mondo occidentale. Nel momento in cui l'Occidente perde peso politico, altri, con alle spalle altre e diverse tradizioni culturali, si impadroniscono di quelle istituzioni, e del connesso linguaggio dei diritti umani, cambiandone radicalmente l'ispirazione e il significato.
È proprio in nome dei «diritti umani» (nel senso che essi danno a queste parole) che i Paesi islamici cercano oggi di imporre a tutto l'Occidente una drastica limitazione della libertà di parola e della libertà di stampa, erigendo barriere giuridiche che rendano la religione islamica non criticabile. Hanno tentato di farlo con la risoluzione 62/154 dell'Assemblea delle Nazioni Unite. E sono tornati alla carica (salvo recedere a fronte delle proteste occidentali) nei lavori preparatori del documento che dovrà essere approvato dalla Conferenza di Ginevra. Chi pensa che i diritti umani siano «transculturali», anziché connotati culturalmente, che siano cioè un minimo comun denominatore potenzialmente in grado di essere condiviso da tutti, dovrebbe riflettere, ad esempio, su quale compatibilità possa mai esserci fra i diritti umani nel modo in cui li intendono gli occidentali e la sharia, la tradizionale legge islamica. La terza lezione che si può trarre dal pasticcio della Conferenza di Ginevra riguarda l'impossibilità di separare diritti umani e politica. A Ginevra «si fa» e «si farà» politica, ossia la questione del razzismo e dei diritti umani verrà usata come arma propagandistica ai fini della competizione di potenza e delle connesse negoziazioni politiche. Come è inevitabile che sia.
La presenza di Ahmadinejad a Ginevra, in particolare, merita attenzione. Dal suo discorso, ovviamente, nessuna persona sana di mente si attende un contributo per la «lotta contro il razzismo». Si cercherà piuttosto di capire, leggendo tra le righe, se ci sarà o no qualche segnale di disponibilità alla trattativa sul nucleare iraniano e sugli altri dossier mediorientali da parte dei settori del regime che Ahmadinejad rappresenta o se la risposta alle aperture del presidente americano Obama sia già contenuta per intero nella condanna a otto anni per spionaggio appena inflitta alla giornalista americana- iraniana Roxana Saberi. Sapendo, naturalmente, che Ahmadinejad è comunque un presidente in scadenza e che dovrà, nel giugno prossimo, affrontare il giudizio degli elettori. Un risultato (paradossale) la Conferenza sul razzismo lo ha comunque già ottenuto: ha offerto al presidente di un regime assai poco rispettoso dei diritti umani (comunque li si definisca) una tribuna internazionale da cui iniziare la sua personale campagna elettorale.
20 aprile 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #48 inserito:: Aprile 28, 2009, 05:52:16 pm » |
|
IL PREMIER FORTE E I SUOI CONTRAPPESI
I due ostacoli alle riforme
di Angelo Panebianco
Per la prima volta da quando è finita la Prima Repubblica, le celebrazioni del 25 aprile sono avvenute in un clima di concordia nazionale anziché di contrapposizioni. E’ un’ottima cosa in sé ma anche un segnale di incoraggiamento che potrebbe favorire una ripresa del dialogo fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione. Vanno in quel senso anche le parole appena pronunciate dal segretario del Pd, Dario Franceschini, il quale, riconoscendo l’errore commesso quando il centrosinistra approvò da solo la riforma del titolo quinto della Costituzione, chiede al governo di non procedere, in materia costituzionale, a colpi di maggioranza.
La ripresa del dialogo sulla riforma costituzionale, del resto, è resa necessaria dalle circostanze. Non è pensabile che si possa introdurre in Italia il federalismo fiscale (una misura che comporterà una radicale trasformazione dello Stato) senza toccare la Costituzione nei suoi rami alti, nel circuito Governo-Parlamento. E certamente, se ripresa del dialogo ci sarà, essa dovrà tenere conto dei paletti che su questo tema ha posto il Capo dello Stato nel suo intervento della scorsa settimana. Conclusa la tornata elettorale delle europee e delle amministrative è probabile che il dialogo riparta.
Nonostante la sua necessità, una convergenza maggioranza/opposizione sulla riforma della Costituzione, è tuttavia resa difficile dalla persistenza di due ostacoli. Capire quale sia la natura degli ostacoli forse non aiuterà a superarli ma potrà almeno introdurre un po’ di chiarezza nella discussione.
Il primo ostacolo è di ordine culturale. Il secondo è di ordine politico. L’ostacolo culturale riguarda il mancato accordo su cosa possa essere in Italia un «contrappeso ». Posto che la riforma della Costituzione implichi un rafforzamento del potere istituzionale del Capo del governo, quali sono i contrappesi possibili, a garanzia del fatto che un premier troppo forte non finisca per esercitare un potere incontrollato? Che sia necessario rafforzare i poteri istituzionali del premier è sempre stata un’idea condivisa da molti (era condivisa, ad esempio, dai principali schieramenti all’epoca della Bicamerale).
Nasce dalla constatazione che la Costituzione del ’48, per ragioni tante volte citate (in primis, il ricordo ancor fresco della dittatura), aveva concesso solo deboli prerogative al Capo del governo. Non ci si faccia ingannare dalla forza che concentra in sé oggi il premier Berlusconi: si tratta di una forza che ha ragioni politiche, non istituzionali. Quando Berlusconi uscirà di scena, se non saranno intervenute modifiche costituzionali, torneremo rapidamente alla regola italiana dei Capi di governo deboli (l’ultimo è stato Romano Prodi). Dunque, serve effettivamente rafforzare i poteri istituzionali del premier. Ma, allora, quali contrappesi bisogna contestualmente predisporre? Il problema può essere così riassunto: deve restare il Parlamento il principale contrappeso oppure occorre accettare un depotenziamento del ruolo del Parlamento e fare affidamento su altri contrappesi (il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale, le regioni)?
A me pare che se si vuole rafforzare i poteri istituzionali del premier occorra puntare sulla seconda alternativa. Non è possibile accrescere i poteri del premier lasciando inalterati quelli del Parlamento. Il solo caso noto di forte capo dell'esecutivo abbinato a un forte Parlamento è quello del presidenzialismo statunitense.
Ma non solo il presidenzialismo non è all'ordine del giorno in Italia. Esso è anche di difficile esportabilità (come provano i tanti fallimenti sperimentati dai presidenzialismi latinoamericani). Il semipresidenzialismo francese (quando il Presidente controlla la maggioranza parlamentare), il governo del premier britannico (finché regge l'assetto bipartitico) implicano invece che il capo dell'esecutivo, presidente o premier, domini, oltre che l'esecutivo, anche il Parlamento. Il Parlamento non è, in quei Paesi, un vero contrappeso. Diverso è il caso del Cancellierato tedesco ma solo perché il federalismo, tramite la Camera alta, contribuisce a limitare il potere del Cancelliere.
Comunque sia, è questo l'ostacolo che dovrebbe essere superato per ottenere una convergenza fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione: occorre un accordo che identifichi, in modo realistico, a quali contrappesi affidare il bilanciamento di un rafforzato potere esecutivo. Un accordo richiederebbe sia il riconoscimento da parte del centrodestra che i contrappesi sono comunque necessari sia l'abbandono da parte del centrosinistra (dove questa idea è tradizionalmente più radicata) della convinzione che il Parlamento debba restare un forte contrappeso.
Il secondo ostacolo è di ordine politico-strutturale. Nasce dall’asimmetria fra centrodestra e centrosinistra. Il centrodestra è dotato attualmente di una forte leadership. Il centrosinistra no. E' naturale, quindi, che il centrodestra sia più interessato del centrosinistra a una riforma costituzionale che rafforzi il Capo del governo. Ciò, però, non dipende solo dal fatto che il centrosinistra è oggi all'opposizione e, comprensibilmente, non vuole dare ulteriori vantaggi a Berlusconi. Data la sua incapacità di dotarsi di una leadership forte, il centrosinistra avrebbe problemi ad accrescere il potere dell'esecutivo anche se fosse maggioranza: la struttura oligarchica del centrosinistra frenerebbe il rafforzamento del potere del premier anche in quel caso (se il premier diventa troppo forte, gli oligarchi perdono potere). L'ostacolo rappresentato dall’asimmetria fra centrodestra e centrosinistra mi sembra più importante dell'ostacolo culturale.
Gli orientamenti culturali hanno certamente una loro forza autonoma ma, alla lunga, finiscono quasi sempre per piegarsi al gioco delle convenienze e degli interessi. Ancorché necessaria, una convergenza fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione sembra poco probabile finché permarrà quella cruciale asimmetria.
28 aprile 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #49 inserito:: Maggio 03, 2009, 11:40:32 am » |
|
DELARA GIUSTIZIATA IN IRAN
La sfida crudele di un regime
di Angelo Panebianco
In Iran, una giovane pittrice, Delara Darabi, è stata giustiziata per omicidio dopo un processo che Amnesty International ha giudicato non equo, non rispettoso dei diritti della difesa. Amnesty non è l’oracolo e la valutazione sui procedimenti giudiziari che comportano pene capitali è sempre controversa. Ma la notizia segue di poche settimane quella sulla condanna a otto anni «per spionaggio» alla giornalista americana-iraniana Roxana Saberi e contribuisce a ribadire la fosca reputazione del regime. Non più fosca di quella di altri regimi autoritari, naturalmente.
Ma con la differenza che l’Iran è una grande potenza regionale le cui scelte in gran parte decideranno se ci sarà pace o guerra in Medio Oriente nei prossimi anni. Sfrondata dagli usuali toni retorici, la questione della violazione sistematica dei diritti umani incide in due modi sui rapporti internazionali. Da un lato, radicalizza la distanza, culturale e psicologica, fra i regimi democratici e i regimi autoritari. Dall’altro, in caso di gravi contenziosi geo-politici, rende difficile trovare forme di risoluzione pacifica delle controversie: nessuno può fidarsi di nessuno. Ad esempio, nel caso dell’Iran e della sua volontà di diventare una potenza nucleare, a fare paura non è la bomba nucleare iraniana in sé.
A fare paura è la bomba nucleare in mano a un regime come quello degli ayatollah. Contro l’opinione di coloro che mettono sullo stesso piano i regimi autoritari e quelli democratici ricordando le magagne di questi ultimi, si può osservare che la differenza resta comunque netta. Non è che i primi violino i diritti umani e i secondi no. La differenza è che nel caso dei regimi autoritari la violazione di quei diritti è la norma, rispecchia la quotidianità dei rapporti fra potere politico e sudditi, mentre nel caso dei regimi democratici è l’eccezione. Quando una dura politica repressiva all’interno si sposa, come in Iran, a una politica estera «rivoluzionaria », a una proiezione aggressiva verso l’esterno (programma nucleare, appoggio ad Hamas e Hezbollah, aspirazione all’egemonia regionale, minacce a Israele, radicale contrapposizione ideologica all’Occidente), i margini di manovra per chi aspira a instaurare un modus vivendi con la potenza in questione diventano quasi nulli.
Persino quando ci sarebbe, come c’è nei confronti dell’Iran, l’interesse a trovare un accomodamento: contro l’Iran sarà infatti difficile stabilizzare l’Iraq, trovare soluzioni al conflitto israeliano-palestinese, concentrare ogni sforzo nella guerra afghano-pachistana. Né il pugno chiuso di Bush né (finora) la mano tesa di Obama hanno prodotto risultati. L’Iran non dà segnali di voler normalizzare i suoi rapporti con il resto del mondo. Sfortunatamente, la normalizzazione non può esserci, e non ci sarà, senza significativi cambiamenti del regime. Quanto meno, senza cambiamenti che segnalino il passaggio dalla fase rivoluzionaria (iniziata con Khomeini nel 1979 e mai terminata) a quella post-rivoluzionaria. Il giorno in cui avvenisse quel passaggio, l’inaugurazione di una politica estera più cauta e pragmatica potrebbe accompagnarsi alla decisione di migliorare l’immagine internazionale del regime. Ne conseguirebbe una minore propensione a fare uso del pugno di ferro nei confronti degli iraniani. Al momento, però, di tutto questo non c’è traccia alcuna.
03 maggio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #50 inserito:: Maggio 13, 2009, 11:15:26 am » |
|
IL PAPA E L’ISLAM, LA FORZA DI UNA SCELTA
Un dialogo senza ambiguità
Benedetto XVI è giunto oggi a Tel Aviv dopo la sua prima tappa in Giordania. Questo lungo viaggio in Terra santa del Papa avrà certamente ancora molti momenti salienti ma un primo bilancio è reso possibile dall’accoglienza che gli è stata fin qui riservata e dalle parole, forti e inequivocabili, che egli ha già pronunciato sui rapporti fra il cristianesimo, l'ebraismo e l'islam.
Il viaggio del Papa è di estrema delicatezza. Non solo perché si svolge nei luoghi che sono, oggi come mille anni fa, il terreno di incontro/scontro fra le tre religioni monoteiste. E non solo perché è proprio lì, in Medio Oriente, che si addensano, si sovrappongono e si intrecciano i più gravi elementi di conflitto che minaccino oggi la stabilità mondiale. E' di estrema delicatezza anche perché il Papa vi è giunto preceduto da una lunga scia di polemiche e incomprensioni che hanno fin qui segnato i suoi rapporti sia con l'ebraismo che con l'islam.
Sul Monte Nebo, in Giordania, Benedetto XVI ha colto l'occasione per ribadire con solennità quanto ha peraltro già detto e scritto in molte occasioni. Ha affermato con enfasi quanto speciale sia il rapporto fra cristianesimo e ebraismo, quanto «inseparabile» sia il vincolo che li unisce. Forse non tutte le incomprensioni spariranno di colpo ma sono state poste le basi per un loro superamento. Benedetto XVI ha parlato così agli ebrei ma anche, contestualmente, ai cristiani. Ha voluto dire agli uni e agli altri che anche gli ultimi detriti sopravvissuti dell'antico antigiudaismo cristiano devono essere spazzati via senza indugio dalle coscienze. Inoltre, la sua presenza in Israele oggi, nella condizione presente, vale più di mille riconoscimenti diplomatici. E' un'implicita affermazione del diritto all'esistenza dello Stato di Israele contro coloro che vorrebbero cancellarlo.
Altrettanto delicato, e forse anche più delicato, è il rapporto con l'islam. E non solo a causa degli eventi che seguirono il discorso di Ratisbona. E' più delicato anche perché il Papa è impegnato in una assai difficile e complessa operazione che investe, al tempo stesso, la sfera religiosa e quella mondana. Una operazione complessa che nasce dal riconoscimento, più volte ribadito da Benedetto XVI, che il rapporto fra il cristianesimo e l'islam è di natura diversa da quello che lega il cristianesimo e l'ebraismo. Quella relazione speciale che c'è, e va riconosciuta, fra cristianesimo ed ebraismo, non c'è, non ci può essere, fra cristianesimo e islam. Ciò che il Papa sta cercando di fare (un aspetto che era rimasto non chiarito, irrisolto, all’epoca del pontificato di Giovanni Paolo II, e anche in occasione del viaggio che quel Papa fece in Terra santa) è di togliere ogni ambiguità al dialogo con il mondo musulmano, in modo da renderlo davvero proficuo sgombrando il campo dai malintesi.
Ciò che il Papa vuol fare è di chiarire che fra cristianesimo e islam non ci può essere dialogo religioso (le due fedi sono, su questo terreno, inconciliabili) ma ci deve essere invece, fra cristiani e musulmani, un incontro inter-culturale e civile (un dialogo che potremmo anche definire laico). Anche per ribadire questo il Pontefice è rimasto in meditazione ma non ha pregato durante la sua visita alla moschea Hussein. E' un modo, l'unico modo, per spazzare via equivoci e ipocrisie rendendo possibile il rispetto reciproco e un dialogo forse foriero di buone conseguenze per le persone, cristiani e musulmani, coinvolte.
In Giordania, per lo meno, il senso della presenza del Papa sembra essere stato compreso dagli islamici che lo hanno accolto. Così come sono state comprese le parole che il Papa ha dedicato alla condanna della violenza ammantata di motivi religiosi. Benedetto XVI, naturalmente, è stato attento a non mettere a carico del solo mondo islamico (oltre a tutto, ciò non sarebbe stato nemmeno veritiero) la tentazione e la pratica della violenza. Ma è certo che le sue parole sulla violenza (così come quelle rivolte ai cristiani del Medio Oriente sul ruolo delle donne) rappresentano una sponda che il capo della cristianità ha offerto a quella parte del mondo islamico che patisce la violenza dei fondamentalisti ancor più di quanto la patiscano gli occidentali. La presenza del Papa, e i suoi atti e le sue parole, sono assai dispiaciute ai fondamentalisti, nonché a quei personaggi ambigui, di confine (il più celebre dei quali è Tariq Ramadan), che circolano e predicano in Occidente. Ed è un bene che sia così. Il viaggio del Papa può aiutare l'azione degli uomini, musulmani, ebrei o cristiani, alla ricerca di una pacifica convivenza proprio perché ricorda a tutti quanta mistificazione ci sia nell'uso a scopi politici della religione e nella violenza che quell'uso porta sempre con sé.
Angelo Panebianco 11 maggio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #51 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:02:34 am » |
|
Editoriali
LE MOSSE DI UN LEADER
Il paradosso del nuovo Fini
Il presidente della Camera Gianfranco Fini sta vivendo la fase forse più paradossale della sua carriera politica. Nel corso del tempo egli è andato sviluppando idee, sicuramente frutto di una sincera, e forse anche sofferta, maturazione personale, che oggi lo portano a differenziarsi, talvolta anche aspramente, su molti temi, dal governo e dalla maggioranza di cui fa parte. Si tratti dei modi per contrastare l’immigrazione clandestina, della questione della laicità e dei rapporti fra Stato e Chiesa, del caso Englaro o del ruolo del Parlamento, le prese di distanza di Fini dal governo ormai non si contano. Così facendo Fini ha finito per trovarsi nella curiosa situazione di essere applaudito soprattutto da quella parte del Paese che, riconoscendosi nell’opposizione, non lo voterebbe mai. Fini è un politico navigato e dunque è lecito chiedersi (anche se è difficile rispondersi): a quali elettori si rivolge, quale parte del Paese aspira a rappresentare?
La «buona politica» è, e sempre deve essere, una ben dosata combinazione di convinzione e di convenienza. Una politica senza convinzione e tutta convenienza è una politica opportunistica: è l’acqua in cui sguazzano i piccoli politici, i trasformisti di professione. Ma nemmeno una politica fatta solo di convinzione è una buona politica. Essa facilmente si riduce a testimonianza morale, a predica inutile. Il buon politico deve essere un uomo di convinzioni, comunque maturate, ma anche dotato di quel forte istinto del potere che gli permetta di costruirsi una strategia in grado di mobilitare consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza.
Le idee che oggi Fini difende sono certamente frutto di una lunga maturazione. Ad esempio, risale ormai a diversi anni fa la sua proposta (che fece infuriare il partito di cui era allora il leader, Alleanza nazionale) di concedere il voto agli immigrati. Ciò nonostante, appare assai grande la distanza fra il Fini che oggi manifesta le sue perplessità sui «respingimenti » e il Fini che ieri tuonava contro il governo Prodi, colpevole a suo giudizio di debolezza nella lotta contro l’immigrazione clandestina. La sua stessa difesa, contro l’irruenza del premier, del ruolo e delle prerogative del Parlamento, sembra qualcosa di più di una semplice difesa d’ufficio da parte del presidente della Camera. Sembra anche una forte presa di distanza dalle posizioni presidenzialiste (come tali, in Italia, sempre innervate di un certo antiparlamentarismo) che lo stesso Fini sosteneva fino a poco tempo addietro.
Si potrebbe anche guardare con simpatia, e con una certa ammirazione, un leader politico che ha avuto il coraggio di rimettersi in gioco e di rivedere criticamente tante sue posizioni precedenti. Ma resta la domanda: a quale strategia si lega questa evoluzione? Esistono nel Paese tanti potenziali elettori di centrodestra disposti a seguire Fini (contro Berlusconi e contro Bossi), attratti dalle sue idee su ciò che dovrebbe essere una destra moderna? Se quei tanti elettori ci sono, Fini avrà avuto ragione e la sua risulterà una «buona politica » (una giusta combinazione di convinzione e convenienza). Ma se non ci sono, allora anche i convinti applausi che egli oggi riceve dai giornali d’opposizione non gli serviranno a nulla. Poiché politica e testimonianza morale sono incompatibili.
di ANGELO PANEBIANCO 24 maggio 2009(ultima modifica: 25 maggio 2009)
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #52 inserito:: Giugno 07, 2009, 07:51:46 pm » |
|
Il discorso di Barack
Europa dimenticata
E’ un’ovvietà il fatto che i discorsi politici, come qualunque altro discorso, assumano significati diversi per gli ascoltatori in ragione delle differenti caratteristiche e identità degli ascoltatori stessi. Apparentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discorso può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati diversi col passar del tempo, in ragione degli eventi verificatisi dopo che quel discorso è stato pronunciato. Tutti nel mondo (sia quelli che lo hanno approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi novità contenute nel discorso pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio completamente nuovo (una nuova chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicuramente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scontro di civiltà». Ed è la stessa ragione per cui è piaciuto a tanti europei, nonché a tutta quella parte dell’America che ha votato per Obama e vuole lasciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le tensioni accumulate durante l’amministrazione Bush. Ma poiché i discorsi politici assumono sempre significati diversi a seconda dell’identità degli ascoltatori, è anche possibile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza dell’America da parte di altri settori dell’universo islamico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizionalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideologica all’Occidente, e all’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetrazione e di diffusione fra i musulmani. A quel mondo, infatti, non può sfuggire che, se Obama rappresenta, come sicuramente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui disponeva in precedenza, che avrà forse più difficoltà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volontà e le proprie soluzioni.
È possibile dunque che nei prossimi mesi si manifesti una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe rispondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di debolezza da sfruttare cinicamente. E, probabilmente, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non seguiranno alle parole. Il discorso pronunciato da Obama, fra qualche tempo, verrà riletto in un modo o in un altro a seconda di ciò che l’Amministrazione americana sarà stata in grado di fare. Obama si è assunto, certo consapevolmente, col suo discorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mondo islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella conduzione di quelle che considera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachistano). Deve, e questo è persino più difficile, rilanciare il processo di pace israeliano-palestinese.
Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi come mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloccare dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a capo del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scommessa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politica pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è così, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica radicale dello status quo mediorientale, allora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Oriente entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre.
C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragione, che Obama è, in virtù delle sue esperienze e della sua formazione, un multiculturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la categoria di Occidente e, quindi, anche il rapporto con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto constatare anche ieri in Francia durante le celebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente francese Sarkozy, centrato sui legami fra Francia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rinsaldare, Obama ha risposto con un messaggio, come sempre retoricamente abile, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiaggia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti.
Angelo Panebianco 07 giugno 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #53 inserito:: Giugno 09, 2009, 06:16:33 pm » |
|
La svolta delle città
Per aiutare i lettori ad orientarsi, di fronte ai risultati di questa tornata di elezioni, occorre prima di tutto rammentare che europee e amministrative sono fra loro diversissime. Dal punto di vista della politica interna italiana (tralascio qui gli aspetti che riguardano la composizione del Parlamento europeo) le elezioni europee sono un evento più mediatico che di sostanza. Hanno a che fare con questioni di «immagine», non con gli equilibri politici. In termini di immagine è vero che Berlusconi non ha raggiunto l’obiettivo dello «sfondamento» elettorale. Però, attenzione a non scambiare ciò per l'inizio di un declino politico. La verità è che il Popolo della Libertà, persino in elezioni «bizzarre» e anomale come quelle europee (con la loro alta astensione), mantiene sostanzialmente i suoi consensi e supera largamente il centrosinistra. E ciò accade nonostante si tratti del principale partito di governo che, in quanto tale, opera in una situazione di grave crisi economica. E che deve fronteggiare l’ascesa della Lega. Il partito di Berlusconi, in realtà, segue un trend che è generale in Europa e che vede le forze di centrodestra prevalere nettamente su quelle di centrosinistra.
La conferma viene dal voto più importante ai fini della dinamica politica interna, le amministrative. Qui si sta realizzando un netto successo del centrodestra e del suo leader Berlusconi, ottenuto in elezioni che tradizionalmente avvantaggiavano il centrosinistra. Persino nella «rossa » Firenze il Pd riesce a strappare solo un ballottaggio al Comune. Nelle amministrative, molto più che nelle europee, emergono le gravi difficoltà in cui si dibatte la principale forza di opposizione, il Partito democratico. Esso tiene a fatica nelle storiche aree del vecchio insediamento, Emilia Romagna e Toscana. Ma, per fare altri esempi importanti, viene sostanzialmente espulso definitivamente dalla Lombardia, dove perde anche storiche roccaforti come Pavia e Cremona e subisce, a Milano, il sorpasso del candidato del centrodestra Podestà sul presidente uscente della Provincia Penati. È nettamente distaccato dal centrodestra in Veneto. Arretra in Campania e perde definitivamente la Provincia di Napoli. Cala anche in altre aree di suo tradizionale insediamento come Umbria, Marche, Basilicata. Politicamente poi, la croce che il Partito democratico si è portato addosso nell’ultimo anno, Di Pietro, risulta ulteriormente appesantita. A destra, i forti successi della Lega al Nord in Province e Comuni accrescono la spinta alla competizione fra le due forze di governo, Lega e Popolo della Libertà. Si rafforzano le tendenze emerse nelle elezioni politiche del 2008. Il vero luogo della competizione è, al momento, tutto interno all’area di governo. E la cosa è preoccupante. A lungo andare, non fa bene alla democrazia la presenza di una opposizione democratica debolissima, in crisi di idee e di identità e che, troppo spesso, non sa trovare toni e argomenti che la rendano una plausibile alternativa di governo.
Angelo Panebianco 09 giugno 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #54 inserito:: Giugno 13, 2009, 09:58:19 pm » |
|
Sistema elettorale
Referendum, antidoto ai troppi partiti
Gli italiani saranno chiamati il 21 giugno a votare per un referendum che propone di modificare la legge elettorale in vigore. Come risulta dai sondaggi, tanti italiani sono ancora disinformati, non sanno nulla dei quesiti referendari. E, inoltre, una gran parte delle forze politiche li incita alla astensione. Anche in queste sfavorevoli circostanze è però giusto continuare a discuterne.
La mia prima osservazione è che diversi critici del referendum hanno avanzato una obiezione che non sembra leale. Hanno sostenuto che quello che uscirebbe da una vittoria dei «sì» nel referendum non sarebbe comunque un buon sistema elettorale. L'obiezione non mi pare leale perché in Italia non esiste l'istituto del referendum propositivo. Non si può dunque sottoporre al voto popolare il sistema elettorale che si preferisce (io, per esempio, preferisco di gran lunga i sistemi elettorali maggioritari, con collegi uninominali). Col referendum abrogativo si può solo incidere su leggi esistenti. Il referendum tenta semplicemente di migliorare quella che in tanti giudichiamo una pessima legge elettorale. Non può fare nulla di più. Per onestà nei confronti dei lettori devo precisare che mentre scrivo questo articolo mi trovo in flagrante conflitto di interessi. Faccio parte del comitato promotore del referendum e certamente intendo difendere, insieme al referendum, la coerenza e la validità della mia scelta.
Che cosa intendevano (intendevamo) fare i proponenti del referendum, soprattutto con il quesito più importante, quello che chiede di spostare dalla coalizione di partiti alla singola lista il premio di maggioranza? Intendevano (intendevamo) contrastare l'aspetto più grave e pericoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione partitica (e ricordo che fra tutti i pericoli che può correre una democrazia quelli che vengono da un eccesso di frammentazione partitica sono di gran lunga i più gravi). Ma, si obietterà: alle ultime elezioni, nonostante la legge in vigore, la frammentazione partitica è stata drasticamente ridotta. E’ vero ma la causa è stata esclusivamente una decisione politica: la scelta di Walter Veltroni di sbarazzarsi dell'antica coalizione di centrosinistra e di puntare sul «partito a vocazione maggioritaria».
Fu quella decisione che, ricompattando la sinistra (anche se non del tutto: Veltroni commise poi il gravissimo errore di allearsi con Di Pietro), obbligò anche la destra a un analogo ricompattamento (con la nascita del Popolo della Libertà). Ma ora Veltroni è fuori gioco e anche il partito a vocazione maggioritaria è stato messo in soffitta.
Alle prossime elezioni il Partito democratico tornerà, presumibilmente, a una più tradizionale politica delle alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si manifestino tendenze disgregative anche a destra). La legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica. Se non si fa qualcosa (e l'unico «qualcosa » possibile è, al momento, il referendum) il sistema politico italiano sarà di nuovo tra pochi anni, come è stato negli ultimi decenni (fino al 2008), il più frammentato dell'Europa occidentale.
Come sempre quando si ragiona di sistemi elettorali le critiche più serie e argomentate alla proposta referendaria sono state avanzate da Giovanni Sartori. Sartori fa due obiezioni. La prima: con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum un partito che raggiungesse, poniamo, solo il trenta per cento dei voti potrebbe aggiudicarsi il premio di maggioranza conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. La seconda: poiché il premio di maggioranza va alla lista più votata la legge verrebbe aggirata con la formazione di liste-arlecchino formate da tanti partiti che si metterebbero insieme solo per conquistare il premio di maggioranza e si dividerebbero di nuovo il giorno dopo le elezioni. Si tratta di obiezioni serie ma mi permetto di fare due osservazioni. La prima è che, certamente, è in teoria possibile che un partito con solo il trenta per cento dei voti conquisti il premio di maggioranza e quindi la maggioranza assoluta dei seggi. Però, questo è vero anche nel caso dei sistemi maggioritari: nulla vieta, in teoria, che un partito si aggiudichi la maggioranza dei collegi (e quindi la maggioranza dei seggi) ottenendo però, su scala nazionale, un numero di voti limitato. In un sistema maggioritario ciò può accadere se nei collegi sono presenti molti partiti. Più in generale, nei sistemi maggioritari, è quasi sempre la minoranza elettorale più forte che si aggiudica la maggioranza dei seggi.
In pratica, però, non credo che se si votasse con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum correremmo questo rischio: gli elettori sarebbero portati a concentrare i loro voti sulle due formazioni più forti (è l'effetto del cosiddetto «voto utile» o strategico). Mi azzardo addirittura a fare una previsione: se si votasse con il sistema elettorale proposto dal referendum ci sarebbe un duello all'ultimo voto fra Popolo della Libertà e Partito democratico, e il partito che fra i due uscisse perdente supererebbe comunque la soglia del quaranta per cento dei voti (per effetto, appunto, del «voto utile»).
E vengo al problema delle liste-arlecchino. Sartori ha ragione: molti piccoli partiti si aggregherebbero al carro dei due partiti più grandi. Però, la loro libertà d'azione dopo il voto verrebbe compromessa. Una cosa, per un piccolo partito, è disporre di un proprio simbolo e di autonomo finanziamento pubblico. Una cosa completamente diversa è rinunciare al simbolo (e, con esso, a un rapporto diretto, non mediato, col proprio elettorato) e dover per giunta fare i conti, per la spartizione dei finanziamenti, con il gruppo dirigente del grande partito a cui ci si è aggregati. Non credo che, dopo le elezioni, quei piccoli partiti disporrebbero ancora di molta libertà d'azione. Se così non fosse, d'altra parte, perché mai la Lega dovrebbe essere, come è, così ferocemente contraria al referendum? E perché mai Di Pietro (oggi politicamente molto più forte rispetto a quando vennero raccolte le firme del referendum) si sarebbe ora schierato per il «no» dopo avere sostenuto per tanto tempo il «sì»?
I nemici di Berlusconi temono che, con il nuovo sistema, egli possa rafforzarsi ulteriormente. Osservo che è sbagliato giudicare i sistemi elettorali alla luce di preoccupazioni politiche contingenti. Prima o poi, Berlusconi dovrà comunque lasciare il campo. Invece, il rischio, esasperato dall'attuale legge elettorale, di un'eccessiva frammentazione partitica peserà a lungo su di noi. Se non riusciremo, con il referendum, ad aiutare la classe politica a porvi rimedio.
Angelo Panebianco 13 giugno 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #55 inserito:: Giugno 23, 2009, 09:40:00 am » |
|
La prudenza e il dilemma degli Usa
IL DILEMMA DELL’OCCIDENTE
Ciò che è accaduto ha tutta l'aria di essere un salto di qualità irreversibile nel conflitto che oppone l'ala dura del regime iraniano ai riformisti. La manifestazione non autorizzata degli oppositori è stata affrontata con la violenza dagli apparati repressivi. Un attentatore kamikaze si è contemporaneamente fatto esplodere presso il mausoleo di Khomeini (e si tratta, come ognun capisce, di un fatto di grande impatto simbolico). Soprattutto, Mousavi, il candidato sconfitto alle elezioni per la Presidenza, si è ribellato apertamente alla Guida Suprema Khamenei, è sceso in piazza con gli oppositori, si è dichiarato pronto a morire e ha chiesto l'azzeramento delle elezioni («i brogli erano pianificati da mesi» ha detto). Non sappiamo come finirà questa prova di forza, anche se al momento le carte migliori (gli apparati della forza, le milizie armate) sembrano essere saldamente nelle mani di Khamenei e di Ahmadinejad. Sappiamo però che il mondo occidentale deve ora fronteggiare un terribile dilemma.
Prima che arrivassero le nuove notizie sulla prova di forza in atto a Teheran, le difficoltà di fronte a cui si trova l'Occidente erano ben illustrate da una apparente contraddizione. Nello stesso momento in cui l'Unione Europea (con fermezza) e l'Amministrazione Obama (con circospezione) condannavano i brogli elettorali e le violenze del regime contro gli oppositori, l'Italia confermava di avere invitato, in accordo con gli Stati Uniti, il ministro degli Esteri iraniano Mottaki a partecipare alla conferenza sull'Afghanistan che si terrà a Trieste, in occasione del G-8, dal 25 al 27 giugno. Cinica realpolitik?
No, la contraddizione era figlia di un dilemma autentico. Da un lato, c'è infatti la necessità di assicurarsi la collaborazione di una potenza regionale del peso dell'Iran per venire a capo della guerra in Afghanistan (e per stabilizzare l'Iraq). Dall'altro lato, c'è il fondato timore che l'evoluzione in atto in Iran, la scelta della Guida Suprema Khamenei di sostenere Ahmadinejad, e la possibile, definitiva, sconfitta delle componenti riformiste, possano irrigidire ulteriormente le posizioni internazionali del regime. Con gravissimi rischi per la pace.
Non c'è, al momento, molto che dall'esterno si possa fare per favorire un' evoluzione della politica di Teheran che sia coerente con le aspirazioni di libertà di tanti iraniani e foriera di cambiamenti nella politica estera del regime. Anzi, come è illustrato dal dibattito americano (di cui il New York Times ha dato ieri un ampio resoconto) è anche possibile che un aperto sostegno occidentale, soprattutto americano, agli oppositori di Ahmadinejad e di Khamenei possa risultare controproducente, possa essere proprio ciò che serve all'ala dura del regime per gridare al complotto internazionale e sbarazzarsi con la violenza degli oppositori.
Ciò spiegherebbe, secondo questa interpretazione, la cautela diplomatica fin qui tenuta da Obama nonostante la netta presa di posizione, quasi unanime, del Congresso a favore degli oppositori scesi in piazza a Teheran. Se la situazione precipita è difficile che Obama possa mantenere a lungo la posizione prudente assunta. Se, come allo stato degli atti sembra probabile (ma c'è sempre, in questi frangenti, la possibilità di svolte repentine e imprevedibili), il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è. Finora, gli estremismi di Ahmadinejad erano, a detta degli specialisti di politica iraniana, parzialmente frenati dalla necessità, per Khamenei, di tenere conto dell'equilibrio delle forze fra le diverse componenti del regime. Rotto quell'equilibrio, spostato definitivamente il baricentro verso l'ala dura, sarebbe difficile immaginare una politica estera iraniana meno aggressiva. Tanto più che i fallimenti economici interni richiederebbero, per essere nascosti, una escalation della conflittualità con il mondo esterno. Con ricadute sul conflitto israeliano-palestinese, sull'Iraq e su altri scacchieri. Nel suo discorso in Egitto di due settimane fa Obama ha proposto al mondo islamico di voltare pagina. Una parte di quel mondo ha accolto con favore l'invito. Ma un'altra parte no. Quel discorso, pur innovativo, aveva un punto debole. Che succede se gli «uomini di buona volontà» delle diverse civiltà e religioni non riescono a tenere sotto controllo i fanatici e i propagatori d'odio? L'universo politico (come scriveva il giurista Carl Schmitt) è in realtà un «pluriverso»: oltre che per le possibilità di compromesso lascia sempre spazio per differenze e odi irriducibili. Mentre si offre il dialogo occorre disporre anche di strategie alternative. E' il tema di una discussione che appare assai serrata all'interno dell'Amministrazione americana. Se in Iran la situazione precipita, se la fazione di Ahmadinejad, sostenuta da Khamenei, si sbarazza, anche fisicamente, degli oppositori, Obama dovrà presto dotarsi di qualche carta di riserva.
Angelo Panebianco 21 giugno 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #56 inserito:: Luglio 01, 2009, 11:11:33 am » |
|
LA CRISI DELLA SINISTRA ITALIANA
Il ventennio di rimozioni
Anatomia di una crisi
Da diversi mesi il tema rimbalza da un Paese all' altro («Le Monde », ad esempio, vi ha dedicato due dense pagine di analisi e commenti qualche giorno fa) e le elezioni europee, con i pessimi risultati conseguiti dai partiti socialisti e affini, hanno reso ancora più accesa la discussione. Non c'è praticamente forza di sinistra in Europa che non si ponga una domanda: come mai, in tempi di massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell' economia, di critica al mercato, di indebolimento della fiducia liberale nella capacità di autoregolazione dei mercati, i partiti socialisti (e affini) non riescono ad approfittarne? Non dovrebbero essere proprio i partiti socialisti, antichi alfieri dell'intervento dello Stato e dell' uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione della ricchezza, i naturali punti di riferimento politico degli elettori in questo tempo di crisi?
Il problema è assai complesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza generalema anche delle specifiche situazioni nazionali. Sul piano generale si può forse sostenere (come chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non possano approfittare della situazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro successi nel XX secolo. Nelle attuali società individualiste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non hanno più corso. In tempi di crisi, certamente, si invoca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisitamente pragmatiche (bloccare la disoccupazione, tamponare gli effetti sociali perversi della crisi). Nelle ricche società europee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socialisti offrivano come meta degna di essere perseguita in tempi di assai più rigide disuguaglianze di classe. E le destre sono oggi sufficientemente pragmatiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombranti significati ideologici.
Le risposte generali, però, corrono sempre il rischio di essere generiche. Bisogna per forza guardare anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i laburisti britannici (con la rivoluzione di Blair) e i socialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecentesche. Oggi pagano soprattutto il fatto di avere governato a lungo nella fase che ha preceduto lo scoppio della crisi.
Neppure per capire i guai della sinistra italiana, del Partito democratico, bastano le risposte generali. Anche qui bisogna tener conto delle specificità. La principale delle quali è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'accomunano ai partiti socialisti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fosse esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventare. Da quindici anni Berlusconi, con la sua presenza, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è precipitata dopo il crollo del muro di Berlino.
In tutto questo tempo, Berlusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo specchio non è in grado di riflettere alcuna immagine. Checché se ne dica, un tentativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci sono limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del leader.
Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformismi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli inopinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Berlinguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Corriere » di ieri, a chi e a che serve Berlinguer nella società attuale?
O, ancora, era davvero pensabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente alleanza con Di Pietro) potesse trovare una identità politica di ricambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse diventare competitiva con la destra, soprattutto al Nord, senza contrastare apertamente le correnti sindacali più conservatrici in materia di legislazione del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione? O che potesse acquisire credibilità a fronte del più esplosivo fenomeno del nostro tempo, l'immigrazione, innalzando solo il vessillo della «solidarietà »? Non è un caso che anche molti dei cosiddetti «giovani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una prima occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni.
La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex collaboratore di Massimo D'Alema: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione positiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità culturale e credibilità. E la caparbietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostruzione culturale e politica. Senza farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del partito o da centri di potere esterni.
Angelo Panebianco
30 giugno 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #57 inserito:: Luglio 06, 2009, 09:44:10 am » |
|
LE RESISTENZE SOCIALI E TERRITORIALI
I veri ostacoli delle riforme
Forse bisognerebbe scavare più a fondo di quanto in genere non si faccia quando ci si interroga sul perché sia così difficile per i governi italiani, di destra o di sinistra, fare riforme incisive a favore della concorrenza. Quelle mancate riforme, dopotutto, contribuiscono a spiegare due decenni di bassa crescita (in un’epoca di grande espansione dell’economia internazionale) e sappiamo che, se non si faranno, anche la ripresa potrebbe risultare difficile e stentata una volta superata la crisi mondiale. Ma, forse, quelle riforme sono rese estremamente difficili dal fatto che, se attuate, potrebbero destabilizzare la democrazia italiana e, persino, mettere a rischio la stessa unità del Paese. Insomma, c’è probabilmente qualcosa di più, dietro alle riforme mancate, della resistenza delle solite lobbies.
Sul Corriere del 28 giugno scorso Mario Monti ha elencato i settori che dovrebbero essere interessati dall’azione riformista: «... la riduzione strutturale della spesa pubblica corrente, anche attraverso la riforma delle pensioni, la formazione del capitale umano, le infrastrutture, una maggiore concorrenza per aprire i mercati e ridurre le rendite, la liberalizzazione dei servizi e specialmente dei servizi pubblici locali». Effettivamente, sappiamo che sono quelle le riforme che servirebbero per dare un nuovo slancio all’economia italiana e metterla in condizione di sfruttare al meglio le occasioni che le si presenteranno quando la crisi mondiale finirà. Ciò che invece non sappiamo, ciò che è più difficile prevedere, è quali sconvolgimenti sociali potrebbero derivare da radicali interventi riformatori in tutti quei settori.
Nonostante la tradizionale turbolenza della nostra vita politica, la società italiana, nel corso dei decenni, sembra essersi ben adattata a vivere in condizioni di bassa crescita. Al punto che la perpetuazione dei suoi equilibri, sociali e territoriali, pare dipendere ormai proprio dall’assenza di incisive riforme liberalizzatrici in una serie di settori strategici. In altri termini, secondo questa ipotesi, ciò che obbliga da decenni l’economia italiana a funzionare a basso regime è anche ciò che assicura al Paese condizioni di stabilità sociale e territoriale. In queste condizioni, tentare di dare molta più potenza alla macchina richiederebbe modificazioni drastiche e subitanee di radicatissime abitudini sociali, la messa in discussione di equilibri consolidati, la penalizzazione (almeno a breve termine) di vaste aree territoriali oggi garantite dalle rendite, grandi, piccole, e anche piccolissime, assicurate dai mercati protetti. Con conseguenze, sociali e politiche, assai poco prevedibili.
Una delle ragioni, forse la più importante, per cui la società italiana risente oggi meno di altre degli effetti della crisi mondiale, è dovuta proprio alla presenza di quei fattori che ne hanno frenato la crescita nei decenni precedenti. Dipende dal fatto che, accanto al welfare «ufficiale», quello gestito dallo stato, c’è anche un esteso welfare «occulto» che tutela tante famiglie italiane a vari livelli di reddito. Ci sono protezioni e fringe benefits assicurati ai tanti dalle innumerevoli corporazioni, le rendite garantite dalla spesa pubblica (sprechi inclusi), i benefici assicurati ai singoli dall’economia sommersa. Non casualmente, a soffrire di più a causa della crisi sono fino ad oggi quei settori della piccola impresa e del commercio (come ha osservato Dario Di Vico sul Corriere del 2 luglio) che sono tra i pochi davvero esposti alla concorrenza di mercato.
Dall’elenco di Monti estraggo il caso che conosco meglio, quello della formazione del capitale umano. E’ la questione dell’istruzione. Sarebbe auspicabile una riforma meritocratica dell’Università (Francesco Giavazzi, su questo giornale, 3 luglio) e della scuola in generale. Ed è vero che il ministro Gelmini è sinceramente interessato a farla. Ma potrà mai il Parlamento (nelle sue componenti di destra e di sinistra) consentire davvero incisive riforme meritocratiche nel settore dell’istruzione? Ne dubito. E non certo a causa della resistenza di qualche «barone» o di qualche preside di liceo. A causa del fatto, piuttosto, che verrebbero scossi equilibri territoriali, locali, consolidati.
Prendiamo il caso dell’Università. In Italia ci sono centri universitari ottimi, centri universitari così così e centri universitari pessimi. Questi ultimi godono di esteso sostegno e di granitiche complicità nelle comunità territoriali di appartenenza. Una riforma meritocratica (che, se fosse davvero tale, dirotterebbe i finanziamenti sui centri e i ricercatori migliori) li metterebbe in ginocchio. E che cosa credete che accadrebbe? Quei pessimi centri universitari sono pur sempre erogatori di stipendi e rendite, e grazie ad essi vive anche un esteso indotto cittadino. Inoltre, essi contano sulla complicità delle famiglie le quali, pagando tasse basse, assicurano comunque ai propri figli diplomi dotati di valore legale. Ci sarebbero probabilmente rivolte in stile Reggio Calabria 1970. I sindaci, i sindacati, i deputati locali (di destra e di sinistra) farebbero barriera in difesa del pessimo centro universitario minacciato.
Ciò che vale per l’istruzione vale, credo, per tutti gli altri settori che dovrebbero essere interessati da incisive riforme. In molti casi, colpire la rendita può significare mettere a rischio o, per lo meno, in grave sofferenza, anche i legami fra le diverse aree territoriali del Paese. Ciò significa che non bisogna fare quegli interventi riformatori? Bisogna farli di sicuro, a meno che non ci si rassegni definitivamente all’idea che la democrazia italiana possa reggere solo se si accettano bassi tassi di crescita (anche a crisi superata) e forse, in prospettiva, un ulteriore impoverimento complessivo. Ma bisogna anche individuare le strategie utili per attutire gli inevitabili, probabilmente fortissimi, contraccolpi.
Angelo Panebianco 06 luglio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #58 inserito:: Luglio 11, 2009, 09:15:07 am » |
|
IL G8 E LE ASPREZZE ITALIANE
La concretezza di un successo
Dal punto di vista dell’Italia, il G8 è stato un vero successo. Il nostro Paese ha svolto al meglio il suo ruolo di anfitrione e le posizioni del governo italiano su importanti dossier hanno trovato uno spazio che pochi osservatori, nei commenti della vigilia, avevano previsto.
Prima dell’incontro, molti temevano (o auspicavano, a seconda dei punti di vista) che le vicende private di Berlusconi potessero provocare qualche atto di clamorosa contestazione del primo ministro italiano da parte dell’una o l’altra delegazione. Con conseguenze pesantissime per l’Italia. Non è accaduto. In più, le autorità italiane hanno dimostrato di sapere gestire con efficacia un avvenimento complesso come il G8. Presidente della Repubblica e presidente del Consiglio si sono mossi in sintonia. E anche le opposizioni (con l’eccezione di Di Pietro) hanno mantenuto un comportamento altamente responsabile. Come il presidente della Repubblica aveva richiesto. E come è necessario quando sono in gioco gli interessi nazionali. In quei frangenti, il governo non rappresenta una parte ma l’intero. Ed è bene che così sia considerato dalle forze politiche e dai cittadini.
Anche la scelta di tenere il G8 all’Aquila si è rivelata felice. Non erano mancate le perplessità dopo la decisione di Berlusconi, all’indomani del terremoto, di spostare dalla Maddalena all’Aquila la sede del vertice. Quelle perplessità, soprattutto in riferimento alle delicate questioni della sicurezza, non apparivano infondate. Ma anche su questo piano Berlusconi ha scommesso e ha vinto. Tenere il vertice nelle zone terremotate, di fronte alla città devastata dal sisma, ha dato un segno di concretezza, di contatto con la realtà, ai colloqui su quei disastri del mondo a cui i governanti dei più importanti Paesi dovrebbero trovare rimedi.
E’ stato scritto in questi giorni che il G8 è morto, che all’Aquila se ne sono celebrati i funerali. E’ così. Il G8 non è più rappresentativo della reale distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo. Tanto è vero che lo si è dovuto aprire, anche in questa occasione, alle altre grandi potenze economiche, Cina in testa. Noi italiani, al pari degli altri europei, non possiamo rallegrarcene. Il G8 era un luogo nel quale i Paesi europei, e fra essi anche l’Italia, erano in grado di esercitare una vera influenza. Lo hanno dimostrato proprio il vertice dell’Aquila e il caso italiano. L’Italia ha avuto un ruolo centrale in questo vertice non solo dal punto di vista cerimoniale, in quanto Paese ospitante, ma anche dal punto di vista sostanziale: ad esempio, le posizioni sostenute dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti in materia di riforma delle regole del sistema finanziario hanno qui trovato sostegni e ampie convergenze.
Difficilmente, ci sarà altrettanto spazio per le posizioni dell’Italia o di altri Paesi europei nei vertici allargati (il G20) che, inevitabilmente, finiranno per sostituire del tutto il G8 nei prossimi anni. Più che il rischio c’è la certezza di un drastico indebolimento delle capacità negoziali e di una altrettanto drastica perdita di influenza dei Paesi europei, spesso fra loro litigiosi e divisi, in quei futuri consessi dominati, oltre che dagli Stati Uniti, dai colossi asiatici e da altre potenze emergenti. Per ora, gustiamoci la riuscita del vertice e la buona figura che l’Italia vi ha fatto.
Da oggi ricomincia, con le asprezze di sempre, la solita politica italiana.
Angelo Panebianco 11 luglio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #59 inserito:: Luglio 15, 2009, 10:21:24 am » |
|
CORTE SUPREMA E TRASPARENZA
Quelle domande ai giudici Usa
Come è nella tradizione della democrazia americana, l'audizione di fronte alla Commissione giustizia del Senato di Sonia Sotomayor, designata come giudice della Corte Suprema dal Presidente Obama, è stata, per lei, una prova assai dura. Ha dovuto difendere il proprio passato come giudice della Corte d'Appello federale di fronte alle domande incalzanti dei senatori. La Sotomayor è di origine ispanica. La sua affermazione secondo cui una «saggia donna ispanica» sarebbe un giudice migliore di un «uomo bianco», l'ha esposta alla accusa di alcuni senatori repubblicani di praticare una sorta di razzismo alla rovescia. La Sotomayor ha dovuto spiegare che quel discorso era solo volto a interessare alla carriera giuridica un pubblico latino giovane che, per lo più, se ne tiene lontano. Ha dovuto poi replicare all’obiezione di essere una «attivista liberal », più interessata a modificare la legge che ad applicarla. E ha dovuto render conto delle posizioni assunte in cause riguardanti dispute razziali.
La Sotomayor non è il primo giudice designato alla Corte Suprema che viene messo in graticola dai senatori e non sarà l'ultimo. L'audizione è un interrogatorio ove abbondano le domande scomode, che serve al Senato per confermare o rifiutare la designazione presidenziale del candidato (e all'opinione pubblica per valutare le qualità del giudice designato e l'operato del Senato) ed è un'istituzione cruciale della democrazia americana. Dà trasparenza al processo decisionale mediante il quale un’assemblea rappresentativa avalla o respinge la nomina di un giudice della Corte.
Per la sensibilità europeo- continentale ciò può apparire strano ma questo modo di procedere non toglie affatto prestigio alla Corte Suprema. Al contrario, lo rafforza. Le istituzioni americane sono diversissime dalle nostre. Figlie di un'altra storia e di un'altra cultura politica.
Però in quelle istituzioni c'è un insegnamento che vale anche per noi.
La nostra (europea, e italiana in particolare) è una tradizione di chiusure corporative e di mancanza di trasparenza. Basti pensare al fatto che in Italia le critiche al modus operandi della magistratura vengono spesso trattate dai suoi rappresentanti come delitti di lesa maestà, subdoli tentativi di «delegittimazione ». Oppure, si pensi a come vengono designati i giudici della Corte Costituzionale. Siamo sicuri che il prestigio della Corte verrebbe indebolito se i candidati designati dovessero affrontare pubblicamente una batteria di domande, sul modello americano, da parte del Senato?
L'America è una democrazia che combina la gelosa difesa dell'indipendenza dei giudici (a tutti i livelli) con il rifiuto dell'esistenza di caste burocratiche chiuse, impermeabili al controllo democratico. Nella tradizione europeo-continentale, invece, le magistrature sono tecno- burocrazie separate dal processo democratico.
In considerazione dell'accresciuto peso che queste tecno- burocrazie svolgono nella nostra vita associata, avvicinare un poco, su questi aspetti, le due sponde dell’Atlantico, non sarebbe forse sbagliato.
Angelo Panebianco 15 luglio 2009
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
|