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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160704 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 30, 2009, 09:15:10 am »

La lunga partita a tre


di Angelo Panebianco


L'identità del nuovo partito, del Popolo della Libertà, è risultata chiaramente definita nel discorso con cui il premier Silvio Berlusconi ha concluso i lavori del congresso. Nonché nel dialogo che Berlusconi ha pubblicamente intavolato con l'altro protagonista dell'evento, il presidente della Camera Gianfranco Fini, a proposito della riforma della Costituzione. Chi pensa che il Popolo della Libertà sia solo una Forza Italia allargata ad An forse sbaglia. C'è una differenza essenziale (sul piano simbolico-identitario ma con inevitabili ricadute politiche) fra Forza Italia dal 1994 in poi e il neonato partito. Forza Italia, così come Berlusconi volle all'inizio e come ancora ribadì nella campagna elettorale del 2001, era (simbolicamente) il partito della «rivoluzione liberista»: meno tasse, meno Stato, più liberalizzazioni, più libertà di impresa. Il Popolo della Libertà si configura invece (sempre simbolicamente, ben inteso) come il partito della «riforma dello Stato»: della Costituzione, della pubblica amministrazione, eccetera.

È vero che la riforma dello Stato era comunque un elemento ben presente nell'identità di Forza Italia (Berlusconi parlava già nel 1994 di riforma dello Stato). Ed è ugualmente vero che il suo precedente governo diede vita a una profonda riforma della Costituzione poi bocciata dagli elettori in un referendum. Ma è anche vero il fatto che la riforma della Costituzione e dello Stato veniva allora invocata come strumento per una più efficace realizzazione della promessa rivoluzione liberista. Era quest'ultima la meta finale, era quest'ultima la vera ragion d'essere di Forza Italia (ricordate lo slogan «meno tasse per tutti»?) così come il suo leader la proponeva agli italiani. Non è più così nel Popolo della Libertà. La rivoluzione liberista è andata definitivamente in soffitta. E non solo perché questi tempi di crisi registrano ovunque il prepotente ritorno dello Stato. Il cambiamento era in atto da tempo. La campagna elettorale di Berlusconi nel 2008 era già molto diversa dalle sue campagne precedenti. A fare da apripista, in larga misura, era stato l'attuale ministro del Tesoro Giulio Tremonti che già da tempo proponeva una visione dei rapporti fra Stato e mercato assai lontana dal liberismo (o liberalismo economico) delle origini. Scomparsa la rivoluzione liberista, resta, e diventa costitutiva dell'identità del nuovo partito, la riforma dello Stato.

Da mezzo, da strumento, la riforma dello Stato diventa il fine. Non è casuale che Renato Brunetta sia stato il ministro più applaudito dal congresso. Come non è casuale che gran parte dell'intervento di Berlusconi abbia riguardato i temi della Costituzione, della pubblica amministrazione, della scuola, dell'università, dei servizi pubblici in genere. E, naturalmente, l'identificazione del Popolo della Libertà con la riforma dello Stato è rafforzata dal fatto di essere esso il «partito del governo», la forza di sostegno dell'azione quotidiana dell'esecutivo, nonché dei suoi progetti futuri. Si sono sprecati in questi giorni i confronti fra la Dc e il Popolo della Libertà ma si dimentica una differenza simbolica essenziale: la Dc era il gestore/custode della Costituzione e dello Stato, il Popolo della Libertà si presenta come il campione del cambiamento costituzionale e statuale. Né potrebbe essere altrimenti, essendo proprio di tutte le leadership carismatiche proporre radicali cambiamenti, mai la tranquilla gestione dell'esistente. Poi, simboli e identità a parte, c'è, naturalmente, la politica. Osservando la politica si può forse essere scettici sulla possibilità di una «stagione costituente». Richiederebbe, come ha giustamente sostenuto Fini e come Berlusconi (ma con molti distinguo) gli ha concesso, il coinvolgimento dell'opposizione.

Ma, nonostante le aperture di Massimo D'Alema, è dubbio che l'opposizione possa essere alla fine disponibile. Se non altro perché, essendo gran parte degli elettori del centrosinistra affezionata, oggi come nel '94, allo schema «Berlusconi uguale autoritarismo», difficilmente il Partito democratico potrebbe mettere la propria firma su una riforma della Costituzione che (come vuole Berlusconi) avesse, tra i suoi elementi qualificanti, il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Più che al rapporto fra maggioranza e opposizione sarà dunque alla dialettica fra Berlusconi, Fini e Bossi che occorrerà guardare per capire se e in che misura le affermazioni di principio e le rivendicazioni identitarie di oggi avranno effetti, e quali, sulla fisionomia dello Stato democratico di domani.

30 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #46 inserito:: Aprile 13, 2009, 09:33:36 am »

IL NORD TRA PDL E LEGA

Che cosa chiede la classe media


di Angelo Panebianco


Come conferma­no le tensioni di questi giorni (de­creto sicurezza, questione del referen­dum sulla legge elettora­le) il vero tallone d'Achil­le dell'altrimenti fortissi­mo governo Berlusconi è dato dalla rivalità fra la Lega e il Popolo della li­bertà: una rivalità la cui posta, come si sa, è l'ege­monia sul Nord e, in par­ticolare, sul Lombar­do- Veneto. In questa lot­ta per l'egemonia la parti­ta che davvero conta ri­guarda la questione della rappresentanza politica di un insieme di ceti, so­ciologicamente assai arti­colati al loro interno, che un tempo si sarebbero detti «ceti borghesi» o classe media indipenden­te: piccoli e medi impren­ditori, professionisti, commercianti, artigiani. E' quell'insieme di ceti da cui dipende da sempre il dinamismo economico, la ricchezza, il benessere del Lombardo-Veneto. Data l'importanza e il pe­so economico di queste regioni, inoltre, è eviden­te che chi riesce ad assu­mere la rappresentanza piena della classe media indipendente, e a stabiliz­zare il rapporto con essa, si garantisce una duratu­ra posizione di centralità nel sistema politico italia­no.

La ragione per cui la partita per l'egemonia su questi ceti si disputa solo fra Popolo della libertà e Lega, dipende dal fatto che le opposizioni, date le loro caratteristiche, non sono in grado di par­tecipare alla gara. Non lo è l'Udc, un partito che, tradizionalmente, ha i suoi punti di forza nel Mezzogiorno. Non lo è, per ragioni diverse, il Par­tito democratico. Il para­dosso del Partito demo­cratico è che mentre esso dispone al Nord di alcuni eccellenti amministrato­ri, perfettamente in gra­do di dialogare con suc­cesso con la classe media indipendente, non è inve­ce capace di farlo in quan­to partito. Data la preva­lente incidenza, come ri­sulta dalla geografia so­ciale del voto del 2008, di lavoratori dipendenti (con una sovrarappresen­tazione di dipendenti pubblici) e pensionati, fra i suoi elettori, il Parti­to democratico è condan­nato, anche per la stessa provenienza sociale dei suoi iscritti e militanti, a farsi soprattutto portavo­ce degli interessi sociali organizzati dai sindacati, Cgil in testa, a scapito di altri interessi.

Il fallimento del proget­to veltroniano, del «parti­to a vocazione maggiori­taria », è dipeso anche dal fatto che il Pd non è riu­scito a presentarsi, a nord dell'Emilia-Roma­gna, come un interlocuto­re credibile per la classe media indipendente. So­lo una partita politica a due, dunque. Ma anche una partita resa assai complessa dal fatto che, per ragioni diverse, sia il Popolo della libertà che la Lega incontrano più difficoltà di quante i loro dirigenti siano disposti ad ammettere nell'assicu­rarsi la piena fiducia di quei ceti, nell'interpretar­ne le esigenze e nel tute­larne gli interessi.

Sottoposti a un regime di elevata fiscalità e pena­lizzati dalle inefficienze del sistema pubblico, questi ceti chiedono, da sempre, meno tasse e me­no burocrazia. Oggi, pres­sati dalla crisi, chiedono anche sostegni e agevola­zioni da parte dello Stato. Dal 1994 in poi il grosso della classe media indi­pendente del Nord aveva trovato in Berlusconi il proprio campione e in Forza Italia il proprio par­tito di riferimento.

Ma le cose sono cambiate, almeno in parte, con la nascita del Popolo della liber­tà. Il Popolo della libertà non è Forza Ita­lia: la fusione fra Forza Italia e An lo ha reso di gran lunga il più forte partito na­zionale ma ne ha anche meridionalizzato l'insediamento. Il baricentro del Popolo della libertà, a differenza di quello della vecchia Forza Italia, gravita oggi più verso il Sud che verso il Nord.

Per la competizione della Lega, certo, ma anche perché le politiche che posso­no essere proposte con successo al Sud sono diverse da quelle che possono miete­re consensi al Nord.

Il successo della Lega nelle elezioni del 2008, forse, non sarebbe stato così pro­nunciato se non si fosse diffusa nell’elet­torato la percezione di un relativo sposta­mento di attenzione da parte dell'allora costituendo Popolo della libertà verso al­tri interessi geografici e sociali. Come pro­va il sostanziale abbandono da parte del gruppo dirigente dell'ex Forza Italia degli antichi slogan sulla «liberazione fiscale». La meridionalizzazione non ha spezzato del tutto ma ha certamente incrinato il rapporto fra il Popolo della libertà e la classe media indipendente del Nord. E il recupero, pur possibile, si rivela comun­que assai difficile.

Porte aperte per la Lega, dunque? E’ la Lega destinata a vincere definitivamente la battaglia per l'egemonia?

Così suggeriscono i sondaggi ma dei sondaggi è sempre bene diffidare. Già, perché anche la Lega deve affrontare gros­si problemi se vuole diventare permanen­te punto di riferimento di quei ceti. Pren­diamo il caso del federalismo fiscale. La Lega lo ha voluto a tutti i costi, e quale che ne sia il costo. Ma il federalismo fisca­le in Italia non può che essere «solidale»: tradotto dal politichese, significa che le regioni che fanno un cattivo uso del dena­ro raccolto con i trasferimenti (per esem­pio, mantenendo in piedi sistemi sanitari inefficienti) si vedranno garantito il dirit­to di continuare a farne un cattivo uso.

Nessuno conosce il costo dell'operazio­ne ma si è capito che sarà elevato. In que­sto caso, sarà la classe media del Nord a pagare il prezzo più alto. La Lega, la cui identità fa tutt'uno con il federalismo fi­scale, potrebbe a quel punto essere addi­tata come la vera responsabile degli effet­ti negativi della riforma. Ce n'è comun­que abbastanza per alimentare diffidenze e sospetti verso la Lega.

La condizione della classe media indi­pendente settentrionale è davvero para­dossale: da un lato, è corteggiatissima ma, dall'altro, fatica oggi a trovare una si­cura rappresentanza delle proprie istan­ze. La lotta per l'egemonia sul Nord sem­bra destinata a durare molto a lungo.


12 aprile 2009
da corriere.it

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« Risposta #47 inserito:: Aprile 20, 2009, 11:55:42 am »

CONFERENZA DI GINEVRA

Chi è presente stavolta ha torto


di Angelo Panebianco


Si apre oggi a Gine­vra, sotto i peggiori auspici, la Confe­renza delle Nazioni Unite sul razzismo. Gli oc­cidentali sono arrivati a questo appuntamento di­visi. Gli Stati Uniti, Israele, il Canada, l’Australia e l'Ita­lia hanno confermato che non parteciperanno non essendoci garanzie che la Conferenza, i cui lavori preparatori sono stati do­minati dai Paesi islamici, non si risolva anche que­sta volta (come accadde nella precedente conferen­za di Durban nel 2001) in un atto di accusa contro Israele e contro l'Occiden­te. Olanda e Germania hanno dato all'ultimo mo­mento forfait. La Gran Bre­tagna e la Francia, invece, hanno scelto di essere pre­senti. Così come il Vatica­no. Il presidente iraniano Ahmadinejad, già arrivato a Ginevra, è stato ricevuto con tutti gli onori dalle massime autorità elveti­che (il che ha suscitato una dura protesta di Israe­le) e sarà fra i primi a pren­dere la parola nella tribu­na messagli a disposizio­ne dall'Onu. Molte cose non vanno, evidentemen­te, se a una Conferenza sul razzismo, che dovreb­be essere espressione dell' impegno delle Nazioni Unite in difesa dei diritti umani, può impunemen­te prendere la parola un si­gnore che ritiene la Shoah una «invenzione» e presie­de un regime che ha al proprio attivo l'assassinio di centinaia di oppositori politici.

Comunque vada a fini­re la Conferenza, tre lezio­ni si possono già trarre da questa vicenda. La prima è che se l'Occidente si divi­de, coloro che puntano a usare le istituzioni interna­zionali in chiave antiocci­dentale hanno facile gio­co. Se ci fosse stato un blocco compatto dei Paesi occidentali a difesa di principi per essi irrinun­ciabili, quei Paesi islamici che giocano sulle divisio­ni dell'Occidente avrebbe­ro dovuto tenerne conto, e la stessa Conferenza di Ginevra avrebbe forse avu­to un diverso avvio. I Paesi europei che, insieme al Va­ticano, hanno scelto co­munque di andare alla Conferenza forse riusci­ranno a impedire che essa si risolva in una Durban bis ma corrono anche un rischio: il rischio che la lo­ro presenza contribuisca a dare legittimazione inter­nazionale a regimi politici che fanno quotidianamen­te strage di diritti umani a casa loro e che non hanno le carte in regola neppure in materia di razzismo es­sendo noti campioni di propaganda antisemita.

La seconda lezione è che i diritti umani non possono essere facilmen­te separati dal contesto culturale occidentale che li ha generati. La dichiara­zione dei diritti dell'uomo del 1948 e le tante altre di­chiarazioni, convenzioni e istituzioni promotrici dei diritti umani che l'hanno seguita, erano espressioni della tradizione occidenta­le. Rispecchiavano il pre­dominio politico-militare, economico e culturale, del mondo occidentale. Nel momento in cui l'Occi­dente perde peso politico, altri, con alle spalle altre e diverse tradizioni cultura­li, si impadroniscono di quelle istituzioni, e del connesso linguaggio dei diritti umani, cambiando­ne radicalmente l'ispira­zione e il significato.

È proprio in nome dei «diritti umani» (nel senso che essi danno a queste parole) che i Paesi islamici cercano oggi di imporre a tutto l'Occidente una drastica limitazione della libertà di parola e della li­bertà di stampa, erigendo barriere giuridiche che rendano la religio­ne islamica non criticabile. Hanno tentato di farlo con la risoluzione 62/154 dell'Assemblea delle Nazioni Unite. E sono tornati alla carica (salvo recedere a fronte delle proteste occidentali) nei lavori prepara­tori del documento che dovrà essere approvato dalla Conferenza di Ginevra. Chi pensa che i diritti umani siano «transculturali», anzi­ché connotati culturalmente, che siano cioè un minimo comun de­nominatore potenzialmente in grado di essere condiviso da tutti, do­vrebbe riflettere, ad esempio, su quale compatibilità possa mai esser­ci fra i diritti umani nel modo in cui li intendono gli occidentali e la sharia, la tradizionale legge islamica. La terza lezione che si può trar­re dal pasticcio della Conferenza di Ginevra riguarda l'impossibilità di separare diritti umani e politica. A Ginevra «si fa» e «si farà» poli­tica, ossia la questione del razzismo e dei diritti umani verrà usata come arma propagandistica ai fini della competizione di potenza e delle connesse negoziazioni politiche. Come è inevitabile che sia.

La presenza di Ahmadinejad a Ginevra, in particolare, merita at­tenzione. Dal suo discorso, ovviamente, nessuna persona sana di mente si attende un contributo per la «lotta contro il razzismo». Si cercherà piuttosto di capire, leggendo tra le righe, se ci sarà o no qualche segnale di disponibilità alla trattativa sul nucleare iraniano e sugli altri dossier mediorientali da parte dei settori del regime che Ahmadinejad rappresenta o se la risposta alle aperture del presiden­te americano Obama sia già contenuta per intero nella condanna a otto anni per spionaggio appena inflitta alla giornalista america­na- iraniana Roxana Saberi. Sapendo, naturalmente, che Ahmadi­nejad è comunque un presidente in scadenza e che dovrà, nel giu­gno prossimo, affrontare il giudizio degli elettori. Un risultato (para­dossale) la Conferenza sul razzismo lo ha comunque già ottenuto: ha offerto al presidente di un regime assai poco rispettoso dei diritti umani (comunque li si definisca) una tribuna internazionale da cui iniziare la sua personale campagna elettorale.


20 aprile 2009


  da corriere.it
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« Risposta #48 inserito:: Aprile 28, 2009, 05:52:16 pm »

IL PREMIER FORTE E I SUOI CONTRAPPESI

I due ostacoli alle riforme


di Angelo Panebianco


Per la prima volta da quando è finita la Prima Repubbli­ca, le celebrazioni del 25 aprile sono avvenu­te in un clima di concor­dia nazionale anziché di contrapposizioni. E’ un’ot­tima cosa in sé ma anche un segnale di incoraggia­mento che potrebbe favo­rire una ripresa del dialo­go fra maggioranza e op­posizione sulla riforma della Costituzione. Vanno in quel senso anche le pa­role appena pronunciate dal segretario del Pd, Da­rio Franceschini, il quale, riconoscendo l’errore commesso quando il cen­trosinistra approvò da so­lo la riforma del titolo quinto della Costituzio­ne, chiede al governo di non procedere, in mate­ria costituzionale, a colpi di maggioranza.

La ripresa del dialogo sulla riforma costituziona­le, del resto, è resa neces­saria dalle circostanze. Non è pensabile che si possa introdurre in Italia il federalismo fiscale (una misura che compor­terà una radicale trasfor­mazione dello Stato) sen­za toccare la Costituzione nei suoi rami alti, nel cir­cuito Governo-Parlamen­to. E certamente, se ripre­sa del dialogo ci sarà, es­sa dovrà tenere conto dei paletti che su questo te­ma ha posto il Capo dello Stato nel suo intervento della scorsa settimana. Conclusa la tornata eletto­rale delle europee e delle amministrative è probabi­le che il dialogo riparta.

Nonostante la sua ne­cessità, una convergenza maggioranza/opposizio­ne sulla riforma della Co­stituzione, è tuttavia resa difficile dalla persistenza di due ostacoli. Capire quale sia la natura degli ostacoli forse non aiuterà a superarli ma potrà alme­no introdurre un po’ di chiarezza nella discussio­ne.

Il primo ostacolo è di ordine culturale. Il secon­do è di ordine politico.
L’ostacolo culturale ri­guarda il mancato accor­do su cosa possa essere in Italia un «contrappe­so ». Posto che la riforma della Costituzione impli­chi un rafforzamento del potere istituzionale del Capo del governo, quali sono i contrappesi possi­bili, a garanzia del fatto che un premier troppo forte non finisca per eser­citare un potere incontrol­lato? Che sia necessario rafforzare i poteri istitu­zionali del premier è sem­pre stata un’idea condivi­sa da molti (era condivi­sa, ad esempio, dai princi­pali schieramenti all’epo­ca della Bicamerale).

Nasce dalla constatazio­ne che la Costituzione del ’48, per ragioni tante vol­te citate (in primis, il ri­cordo ancor fresco della dittatura), aveva conces­so solo deboli prerogati­ve al Capo del governo. Non ci si faccia ingannare dalla forza che concentra in sé oggi il premier Ber­lusconi: si tratta di una forza che ha ragioni politi­che, non istituzionali. Quando Berlusconi usci­rà di scena, se non saran­no intervenute modifiche costituzionali, torneremo rapidamente alla regola italiana dei Capi di gover­no deboli (l’ultimo è stato Romano Prodi). Dunque, serve effettivamente raf­forzare i poteri istituzio­nali del premier. Ma, allo­ra, quali contrappesi biso­gna contestualmente pre­disporre? Il problema può essere così riassunto: deve restare il Parlamen­to il principale contrappe­so oppure occorre accetta­re un depotenziamento del ruolo del Parlamento e fare affidamento su altri contrappesi (il Presiden­te della Repubblica, la Corte Costituzionale, le re­gioni)?

A me pare che se si vuole rafforzare i poteri istituzionali del premier occorra puntare sulla seconda alternativa.
Non è possibile accrescere i poteri del premier lasciando inalterati quelli del Parlamento. Il solo caso noto di forte capo dell'esecutivo abbinato a un forte Parlamento è quello del presidenzialismo statunitense.

Ma non solo il presidenzialismo non è all'ordine del giorno in Italia. Esso è anche di difficile esportabilità (come provano i tanti fallimenti sperimentati dai presidenzialismi latinoamericani).
Il semipresidenzialismo francese (quando il Presidente controlla la maggioranza parlamentare), il governo del premier britannico (finché regge l'assetto bipartitico) implicano invece che il capo dell'esecutivo, presidente o premier, domini, oltre che l'esecutivo, anche il Parlamento. Il Parlamento non è, in quei Paesi, un vero contrappeso.
Diverso è il caso del Cancellierato tedesco ma solo perché il federalismo, tramite la Camera alta, contribuisce a limitare il potere del Cancelliere.

Comunque sia, è questo l'ostacolo che dovrebbe essere superato per ottenere una convergenza fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione: occorre un accordo che identifichi, in modo realistico, a quali contrappesi affidare il bilanciamento di un rafforzato potere esecutivo.
Un accordo richiederebbe sia il riconoscimento da parte del centrodestra che i contrappesi sono comunque necessari sia l'abbandono da parte del centrosinistra (dove questa idea è tradizionalmente più radicata) della convinzione che il Parlamento debba restare un forte contrappeso.

Il secondo ostacolo è di ordine politico-strutturale. Nasce dall’asimmetria fra centrodestra e centrosinistra. Il centrodestra è dotato attualmente di una forte leadership.
Il centrosinistra no. E' naturale, quindi, che il centrodestra sia più interessato del centrosinistra a una riforma costituzionale che rafforzi il Capo del governo. Ciò, però, non dipende solo dal fatto che il centrosinistra è oggi all'opposizione e, comprensibilmente, non vuole dare ulteriori vantaggi a Berlusconi. Data la sua incapacità di dotarsi di una leadership forte, il centrosinistra avrebbe problemi ad accrescere il potere dell'esecutivo anche se fosse maggioranza: la struttura oligarchica del centrosinistra frenerebbe il rafforzamento del potere del premier anche in quel caso (se il premier diventa troppo forte, gli oligarchi perdono potere).
L'ostacolo rappresentato dall’asimmetria fra centrodestra e centrosinistra mi sembra più importante dell'ostacolo culturale.

Gli orientamenti culturali hanno certamente una loro forza autonoma ma, alla lunga, finiscono quasi sempre per piegarsi al gioco delle convenienze e degli interessi. Ancorché necessaria, una convergenza fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione sembra poco probabile finché permarrà quella cruciale asimmetria.

28 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 03, 2009, 11:40:32 am »

DELARA GIUSTIZIATA IN IRAN


La sfida crudele di un regime


di Angelo Panebianco


In Iran, una giovane pittrice, Delara Darabi, è stata giustiziata per omicidio dopo un processo che Amnesty International ha giudicato non equo, non rispettoso dei diritti della difesa. Amnesty non è l’oracolo e la valutazione sui procedimenti giudiziari che comportano pene capitali è sempre controversa. Ma la notizia segue di poche settimane quella sulla condanna a otto anni «per spionaggio» alla giornalista americana-iraniana Roxana Saberi e contribuisce a ribadire la fosca reputazione del regime. Non più fosca di quella di altri regimi autoritari, naturalmente.

Ma con la differenza che l’Iran è una grande potenza regionale le cui scelte in gran parte decideranno se ci sarà pace o guerra in Medio Oriente nei prossimi anni. Sfrondata dagli usuali toni retorici, la questione della violazione sistematica dei diritti umani incide in due modi sui rapporti internazionali. Da un lato, radicalizza la distanza, culturale e psicologica, fra i regimi democratici e i regimi autoritari. Dall’altro, in caso di gravi contenziosi geo-politici, rende difficile trovare forme di risoluzione pacifica delle controversie: nessuno può fidarsi di nessuno. Ad esempio, nel caso dell’Iran e della sua volontà di diventare una potenza nucleare, a fare paura non è la bomba nucleare iraniana in sé.

A fare paura è la bomba nucleare in mano a un regime come quello degli ayatollah. Contro l’opinione di coloro che mettono sullo stesso piano i regimi autoritari e quelli democratici ricordando le magagne di questi ultimi, si può osservare che la differenza resta comunque netta. Non è che i primi violino i diritti umani e i secondi no. La differenza è che nel caso dei regimi autoritari la violazione di quei diritti è la norma, rispecchia la quotidianità dei rapporti fra potere politico e sudditi, mentre nel caso dei regimi democratici è l’eccezione. Quando una dura politica repressiva all’interno si sposa, come in Iran, a una politica estera «rivoluzionaria », a una proiezione aggressiva verso l’esterno (programma nucleare, appoggio ad Hamas e Hezbollah, aspirazione all’egemonia regionale, minacce a Israele, radicale contrapposizione ideologica all’Occidente), i margini di manovra per chi aspira a instaurare un modus vivendi con la potenza in questione diventano quasi nulli.

Persino quando ci sarebbe, come c’è nei confronti dell’Iran, l’interesse a trovare un accomodamento: contro l’Iran sarà infatti difficile stabilizzare l’Iraq, trovare soluzioni al conflitto israeliano-palestinese, concentrare ogni sforzo nella guerra afghano-pachistana. Né il pugno chiuso di Bush né (finora) la mano tesa di Obama hanno prodotto risultati. L’Iran non dà segnali di voler normalizzare i suoi rapporti con il resto del mondo. Sfortunatamente, la normalizzazione non può esserci, e non ci sarà, senza significativi cambiamenti del regime. Quanto meno, senza cambiamenti che segnalino il passaggio dalla fase rivoluzionaria (iniziata con Khomeini nel 1979 e mai terminata) a quella post-rivoluzionaria. Il giorno in cui avvenisse quel passaggio, l’inaugurazione di una politica estera più cauta e pragmatica potrebbe accompagnarsi alla decisione di migliorare l’immagine internazionale del regime. Ne conseguirebbe una minore propensione a fare uso del pugno di ferro nei confronti degli iraniani. Al momento, però, di tutto questo non c’è traccia alcuna.

03 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #50 inserito:: Maggio 13, 2009, 11:15:26 am »

IL PAPA E L’ISLAM, LA FORZA DI UNA SCELTA

Un dialogo senza ambiguità


Benedetto XVI è giunto oggi a Tel Aviv dopo la sua prima tappa in Giordania. Questo lungo viaggio in Terra santa del Papa avrà certamente an­cora molti momenti sa­lienti ma un primo bilan­cio è reso possibile dal­l’accoglienza che gli è sta­ta fin qui riservata e dalle parole, forti e inequivoca­bili, che egli ha già pro­nunciato sui rapporti fra il cristianesimo, l'ebrai­smo e l'islam.

Il viaggio del Papa è di estrema delicatezza. Non solo perché si svolge nei luoghi che sono, oggi co­me mille anni fa, il terre­no di incontro/scontro fra le tre religioni mono­teiste. E non solo perché è proprio lì, in Medio Oriente, che si addensa­no, si sovrappongono e si intrecciano i più gravi ele­menti di conflitto che mi­naccino oggi la stabilità mondiale. E' di estrema delicatezza anche perché il Papa vi è giunto prece­duto da una lunga scia di polemiche e incompren­sioni che hanno fin qui se­gnato i suoi rapporti sia con l'ebraismo che con l'islam.

Sul Monte Nebo, in Giordania, Benedetto XVI ha colto l'occasione per ri­badire con solennità quanto ha peraltro già detto e scritto in molte oc­casioni. Ha affermato con enfasi quanto speciale sia il rapporto fra cristianesi­mo e ebraismo, quanto «inseparabile» sia il vin­colo che li unisce. Forse non tutte le incompren­sioni spariranno di colpo ma sono state poste le ba­si per un loro superamen­to. Benedetto XVI ha par­lato così agli ebrei ma an­che, contestualmente, ai cristiani. Ha voluto dire agli uni e agli altri che an­che gli ultimi detriti so­pravvissuti dell'antico an­tigiudaismo cristiano de­vono essere spazzati via senza indugio dalle co­scienze. Inoltre, la sua presenza in Israele oggi, nella condizione presen­te, vale più di mille rico­noscimenti diplomatici. E' un'implicita affermazio­ne del diritto all'esistenza dello Stato di Israele con­tro coloro che vorrebbero cancellarlo.

Altrettanto delicato, e forse anche più delicato, è il rapporto con l'islam. E non solo a causa degli eventi che seguirono il di­scorso di Ratisbona. E' più delicato anche per­ché il Papa è impegnato in una assai difficile e complessa operazione che investe, al tempo stes­so, la sfera religiosa e quella mondana. Una ope­razione complessa che na­sce dal riconoscimento, più volte ribadito da Bene­detto XVI, che il rapporto fra il cristianesimo e l'islam è di natura diversa da quello che lega il cri­stianesimo e l'ebraismo. Quella relazione speciale che c'è, e va riconosciuta, fra cristianesimo ed ebrai­smo, non c'è, non ci può essere, fra cristianesimo e islam. Ciò che il Papa sta cercando di fare (un aspetto che era rimasto non chiarito, irrisolto, al­l’epoca del pontificato di Giovanni Paolo II, e an­che in occasione del viag­gio che quel Papa fece in Terra santa) è di togliere ogni ambiguità al dialogo con il mondo musulma­no, in modo da renderlo davvero proficuo sgom­brando il campo dai ma­lintesi.

Ciò che il Papa vuol fare è di chiarire che fra cristianesimo e islam non ci può essere dialogo religioso (le due fedi sono, su questo terreno, inconciliabili) ma ci deve essere invece, fra cristiani e musulmani, un incontro inter-culturale e civile (un dialogo che potremmo anche definire laico). Anche per ribadire questo il Pontefice è rimasto in meditazione ma non ha pregato durante la sua visita alla moschea Hussein. E' un mo­do, l'unico modo, per spazzare via equivoci e ipocrisie rendendo possibile il rispetto reciproco e un dialogo forse foriero di buone conseguenze per le persone, cristiani e musulmani, coinvolte.

In Giordania, per lo meno, il senso della presenza del Papa sembra essere stato compre­so dagli islamici che lo hanno accolto. Così come sono state comprese le parole che il Papa ha dedicato alla condanna della violenza ammantata di motivi religiosi. Benedet­to XVI, naturalmente, è stato attento a non mettere a carico del solo mondo islamico (oltre a tutto, ciò non sarebbe stato nemmeno veritiero) la tentazione e la pratica della violenza. Ma è certo che le sue parole sulla violenza (così come quelle rivolte ai cristia­ni del Medio Oriente sul ruolo delle donne) rappresentano una sponda che il capo della cristianità ha offerto a quella parte del mondo islamico che patisce la violenza dei fondamentalisti ancor più di quanto la patiscano gli occidentali.
La presenza del Papa, e i suoi atti e le sue parole, sono assai dispiaciute ai fondamentalisti, nonché a quei personaggi ambigui, di confine (il più celebre dei quali è Tariq Ramadan), che circola­no e predicano in Occidente. Ed è un bene che sia così. Il viaggio del Papa può aiutare l'azione degli uomini, musulmani, ebrei o cristiani, alla ricerca di una pacifica convi­venza proprio perché ricorda a tutti quanta mistificazione ci sia nell'uso a scopi politici della religione e nella violenza che quell'uso porta sempre con sé.


Angelo Panebianco
11 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:02:34 am »

Editoriali           

LE MOSSE DI UN LEADER


Il paradosso del nuovo Fini


Il presidente della Camera Gianfranco Fini sta vivendo la fase forse più paradossale della sua carriera politica. Nel corso del tempo egli è andato sviluppando idee, sicuramente frutto di una sincera, e forse anche sofferta, maturazione personale, che oggi lo portano a differenziarsi, talvolta anche aspramente, su molti temi, dal governo e dalla maggioranza di cui fa parte. Si tratti dei modi per contrastare l’immigrazione clandestina, della questione della laicità e dei rapporti fra Stato e Chiesa, del caso Englaro o del ruolo del Parlamento, le prese di distanza di Fini dal governo ormai non si contano. Così facendo Fini ha finito per trovarsi nella curiosa situazione di essere applaudito soprattutto da quella parte del Paese che, riconoscendosi nell’opposizione, non lo voterebbe mai. Fini è un politico navigato e dunque è lecito chiedersi (anche se è difficile rispondersi): a quali elettori si rivolge, quale parte del Paese aspira a rappresentare?

La «buona politica» è, e sempre deve essere, una ben dosata combinazione di convinzione e di convenienza. Una politica senza convinzione e tutta convenienza è una politica opportunistica: è l’acqua in cui sguazzano i piccoli politici, i trasformisti di professione. Ma nemmeno una politica fatta solo di convinzione è una buona politica. Essa facilmente si riduce a testimonianza morale, a predica inutile. Il buon politico deve essere un uomo di convinzioni, comunque maturate, ma anche dotato di quel forte istinto del potere che gli permetta di costruirsi una strategia in grado di mobilitare consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza.

Le idee che oggi Fini difende sono certamente frutto di una lunga maturazione. Ad esempio, risale ormai a diversi anni fa la sua proposta (che fece infuriare il partito di cui era allora il leader, Alleanza nazionale) di concedere il voto agli immigrati. Ciò nonostante, appare assai grande la distanza fra il Fini che oggi manifesta le sue perplessità sui «respingimenti » e il Fini che ieri tuonava contro il governo Prodi, colpevole a suo giudizio di debolezza nella lotta contro l’immigrazione clandestina. La sua stessa difesa, contro l’irruenza del premier, del ruolo e delle prerogative del Parlamento, sembra qualcosa di più di una semplice difesa d’ufficio da parte del presidente della Camera. Sembra anche una forte presa di distanza dalle posizioni presidenzialiste (come tali, in Italia, sempre innervate di un certo antiparlamentarismo) che lo stesso Fini sosteneva fino a poco tempo addietro.

Si potrebbe anche guardare con simpatia, e con una certa ammirazione, un leader politico che ha avuto il coraggio di rimettersi in gioco e di rivedere criticamente tante sue posizioni precedenti. Ma resta la domanda: a quale strategia si lega questa evoluzione? Esistono nel Paese tanti potenziali elettori di centrodestra disposti a seguire Fini (contro Berlusconi e contro Bossi), attratti dalle sue idee su ciò che dovrebbe essere una destra moderna? Se quei tanti elettori ci sono, Fini avrà avuto ragione e la sua risulterà una «buona politica » (una giusta combinazione di convinzione e convenienza). Ma se non ci sono, allora anche i convinti applausi che egli oggi riceve dai giornali d’opposizione non gli serviranno a nulla. Poiché politica e testimonianza morale sono incompatibili.

di ANGELO PANEBIANCO
24 maggio 2009(ultima modifica: 25 maggio 2009)

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« Risposta #52 inserito:: Giugno 07, 2009, 07:51:46 pm »

Il discorso di Barack

Europa dimenticata


E’ un’ovvietà il fatto che i di­scorsi politici, come qualun­que altro discorso, assu­mano significati diversi per gli ascoltatori in ragio­ne delle differenti caratte­ristiche e identità degli ascoltatori stessi. Appa­rentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discor­so può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati di­versi col passar del tem­po, in ragione degli even­ti verificatisi dopo che quel discorso è stato pro­nunciato. Tutti nel mon­do (sia quelli che lo han­no approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi no­vità contenute nel discor­so pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio comple­tamente nuovo (una nuo­va chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicura­mente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scon­tro di civiltà». Ed è la stes­sa ragione per cui è pia­ciuto a tanti europei, non­ché a tutta quella parte dell’America che ha vota­to per Obama e vuole la­sciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le ten­sioni accumulate durante l’amministrazione Bush.
 
Ma poiché i discorsi poli­tici assumono sempre si­gnificati diversi a secon­da dell’identità degli ascoltatori, è anche possi­bile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza del­l’America da parte di altri settori dell’universo isla­mico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizio­nalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideo­logica all’Occidente, e al­l’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetra­zione e di diffusione fra i musulmani. A quel mon­do, infatti, non può sfug­gire che, se Obama rap­presenta, come sicura­mente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui di­sponeva in precedenza, che avrà forse più difficol­tà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volon­tà e le proprie soluzioni.

È possibile dunque che nei prossimi mesi si mani­festi una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe ri­spondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di de­bolezza da sfruttare cini­camente. E, probabilmen­te, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non se­guiranno alle parole. Il di­scorso pronunciato da Obama, fra qualche tem­po, verrà riletto in un mo­do o in un altro a seconda di ciò che l’Amministra­zione americana sarà sta­ta in grado di fare. Oba­ma si è assunto, certo con­sapevolmente, col suo di­scorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mon­do islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella con­duzione di quelle che con­sidera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachi­stano). Deve, e questo è persino più difficile, rilan­ciare il processo di pace israeliano-palestinese.

Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi co­me mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloc­care dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a ca­po del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scom­messa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politi­ca pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è co­sì, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica ra­dicale dello status quo mediorientale, al­lora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Orien­te entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre.

C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragio­ne, che Obama è, in virtù delle sue espe­rienze e della sua formazione, un multi­culturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la catego­ria di Occidente e, quindi, anche il rappor­to con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto con­statare anche ieri in Francia durante le ce­lebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente fran­cese Sarkozy, centrato sui legami fra Fran­cia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rin­saldare, Obama ha risposto con un mes­saggio, come sempre retoricamente abi­le, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiag­gia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti.


Angelo Panebianco
07 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #53 inserito:: Giugno 09, 2009, 06:16:33 pm »

La svolta delle città


Per aiutare i lettori ad orientarsi, di fronte ai risultati di questa tornata di elezioni, occorre prima di tutto rammentare che europee e amministrative sono fra loro diversissime. Dal punto di vista della politica interna italiana (tralascio qui gli aspetti che riguardano la composizione del Parlamento europeo) le elezioni europee sono un evento più mediatico che di sostanza. Hanno a che fare con questioni di «immagine», non con gli equilibri politici. In termini di immagine è vero che Berlusconi non ha raggiunto l’obiettivo dello «sfondamento» elettorale. Però, attenzione a non scambiare ciò per l'inizio di un declino politico. La verità è che il Popolo della Libertà, persino in elezioni «bizzarre» e anomale come quelle europee (con la loro alta astensione), mantiene sostanzialmente i suoi consensi e supera largamente il centrosinistra. E ciò accade nonostante si tratti del principale partito di governo che, in quanto tale, opera in una situazione di grave crisi economica. E che deve fronteggiare l’ascesa della Lega. Il partito di Berlusconi, in realtà, segue un trend che è generale in Europa e che vede le forze di centrodestra prevalere nettamente su quelle di centrosinistra.

La conferma viene dal voto più importante ai fini della dinamica politica interna, le amministrative. Qui si sta realizzando un netto successo del centrodestra e del suo leader Berlusconi, ottenuto in elezioni che tradizionalmente avvantaggiavano il centrosinistra. Persino nella «rossa » Firenze il Pd riesce a strappare solo un ballottaggio al Comune. Nelle amministrative, molto più che nelle europee, emergono le gravi difficoltà in cui si dibatte la principale forza di opposizione, il Partito democratico. Esso tiene a fatica nelle storiche aree del vecchio insediamento, Emilia Romagna e Toscana. Ma, per fare altri esempi importanti, viene sostanzialmente espulso definitivamente dalla Lombardia, dove perde anche storiche roccaforti come Pavia e Cremona e subisce, a Milano, il sorpasso del candidato del centrodestra Podestà sul presidente uscente della Provincia Penati. È nettamente distaccato dal centrodestra in Veneto. Arretra in Campania e perde definitivamente la Provincia di Napoli. Cala anche in altre aree di suo tradizionale insediamento come Umbria, Marche, Basilicata. Politicamente poi, la croce che il Partito democratico si è portato addosso nell’ultimo anno, Di Pietro, risulta ulteriormente appesantita. A destra, i forti successi della Lega al Nord in Province e Comuni accrescono la spinta alla competizione fra le due forze di governo, Lega e Popolo della Libertà. Si rafforzano le tendenze emerse nelle elezioni politiche del 2008. Il vero luogo della competizione è, al momento, tutto interno all’area di governo. E la cosa è preoccupante. A lungo andare, non fa bene alla democrazia la presenza di una opposizione democratica debolissima, in crisi di idee e di identità e che, troppo spesso, non sa trovare toni e argomenti che la rendano una plausibile alternativa di governo.

Angelo Panebianco
09 giugno 2009

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« Risposta #54 inserito:: Giugno 13, 2009, 09:58:19 pm »

Sistema elettorale

Referendum, antidoto ai troppi partiti


Gli italiani saranno chiamati il 21 giugno a votare per un referendum che propone di modificare la legge elettorale in vigore. Come risulta dai sondaggi, tanti italiani sono ancora disinformati, non sanno nulla dei quesiti referendari. E, inoltre, una gran parte delle forze politiche li incita alla astensione. Anche in queste sfavorevoli circostanze è però giusto continuare a discuterne.

La mia prima osservazione è che diversi criti­ci del referendum hanno avanzato una obiezio­ne che non sembra leale. Hanno sostenuto che quello che uscirebbe da una vittoria dei «sì» nel referendum non sarebbe comunque un buon si­stema elettorale. L'obiezione non mi pare leale perché in Italia non esiste l'istituto del referen­dum propositivo. Non si può dunque sottoporre al voto popolare il sistema elettorale che si prefe­risce (io, per esempio, preferisco di gran lunga i sistemi elettorali maggioritari, con collegi uni­nominali). Col referendum abrogativo si può so­lo incidere su leggi esistenti. Il referendum ten­ta semplicemente di migliorare quella che in tanti giudichiamo una pessima legge elettorale. Non può fare nulla di più. Per onestà nei con­fronti dei lettori devo precisare che mentre scri­vo questo articolo mi trovo in flagrante conflitto di interessi. Faccio parte del comitato promoto­re del referendum e certamente intendo difen­dere, insieme al referendum, la coerenza e la va­lidità della mia scelta.

Che cosa intendevano (intendevamo) fare i proponenti del referendum, soprattutto con il quesito più importante, quello che chiede di spostare dalla coalizione di partiti alla singola lista il premio di maggioranza? Intendevano (in­tendevamo) contrastare l'aspetto più grave e pe­ricoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione partitica (e ricordo che fra tutti i pericoli che può correre una democrazia quelli che vengono da un eccesso di frammentazione partitica sono di gran lunga i più gravi). Ma, si obietterà: alle ultime elezioni, nonostante la leg­ge in vigore, la frammentazione partitica è stata drasticamente ridotta. E’ vero ma la causa è sta­ta esclusivamente una decisione politica: la scel­ta di Walter Veltroni di sbarazzarsi dell'antica co­alizione di centrosinistra e di puntare sul «parti­to a vocazione maggioritaria».

Fu quella decisione che, ricompattando la si­nistra (anche se non del tutto: Veltroni commi­se poi il gravissimo errore di allearsi con Di Pie­tro), obbligò anche la destra a un analogo ricom­pattamento (con la nascita del Popolo della Li­bertà). Ma ora Veltroni è fuori gioco e anche il partito a vocazione maggioritaria è stato messo in soffitta.

Alle prossime elezioni il Partito democratico tornerà, presumibilmente, a una più tradiziona­le politica delle alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si manifestino tendenze di­sgregative anche a destra). La legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica. Se non si fa qualcosa (e l'unico «qual­cosa » possibile è, al momento, il referendum) il sistema politico italiano sarà di nuovo tra pochi anni, come è stato negli ultimi decenni (fino al 2008), il più frammentato dell'Europa occidenta­le.

Come sempre quando si ragiona di sistemi elettorali le critiche più serie e argomentate alla proposta referendaria sono state avanzate da Giovanni Sartori. Sartori fa due obiezioni. La pri­ma: con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum un partito che raggiungesse, ponia­mo, solo il trenta per cento dei voti potrebbe ag­giudicarsi il premio di maggioranza conquistan­do la maggioranza assoluta dei seggi. La secon­da: poiché il premio di maggioranza va alla lista più votata la legge verrebbe aggirata con la for­mazione di liste-arlecchino formate da tanti par­titi che si metterebbero insieme solo per conqui­stare il premio di maggioranza e si dividerebbe­ro di nuovo il giorno dopo le elezioni. Si tratta di obiezioni serie ma mi permetto di fare due osservazioni. La prima è che, certamente, è in teoria possibile che un partito con solo il trenta per cento dei voti conquisti il premio di maggio­ranza e quindi la maggioranza assoluta dei seg­gi. Però, questo è vero anche nel caso dei siste­mi maggioritari: nulla vieta, in teoria, che un partito si aggiudichi la maggioranza dei collegi (e quindi la maggioranza dei seggi) ottenendo però, su scala nazionale, un numero di voti limi­tato. In un sistema maggioritario ciò può accade­re se nei collegi sono presenti molti partiti. Più in generale, nei sistemi maggioritari, è quasi sempre la minoranza elettorale più forte che si aggiudica la maggioranza dei seggi.

In pratica, però, non credo che se si votasse con il sistema elettorale che uscirebbe dal refe­rendum correremmo questo rischio: gli elettori sarebbero portati a concentrare i loro voti sulle due formazioni più forti (è l'effetto del cosiddet­to «voto utile» o strategico). Mi azzardo addirit­tura a fare una previsione: se si votasse con il sistema elettorale proposto dal referendum ci sarebbe un duello all'ultimo voto fra Popolo del­la Libertà e Partito democratico, e il partito che fra i due uscisse perdente supererebbe comun­que la soglia del quaranta per cento dei voti (per effetto, appunto, del «voto utile»).

E vengo al problema delle liste-arlecchino. Sartori ha ragione: molti piccoli partiti si aggre­gherebbero al carro dei due partiti più grandi. Però, la loro libertà d'azione dopo il voto verreb­be compromessa. Una cosa, per un piccolo parti­to, è disporre di un proprio simbolo e di autono­mo finanziamento pubblico. Una cosa completa­mente diversa è rinunciare al simbolo (e, con es­so, a un rapporto diretto, non mediato, col pro­prio elettorato) e dover per giunta fare i conti, per la spartizione dei finanziamenti, con il grup­po dirigente del grande partito a cui ci si è aggre­gati. Non credo che, dopo le elezioni, quei picco­li partiti disporrebbero ancora di molta libertà d'azione. Se così non fosse, d'altra parte, perché mai la Lega dovrebbe essere, come è, così feroce­mente contraria al referendum? E perché mai Di Pietro (oggi politicamente molto più forte ri­spetto a quando vennero raccolte le firme del referendum) si sarebbe ora schierato per il «no» dopo avere sostenuto per tanto tempo il «sì»?

I nemici di Berlusconi temono che, con il nuo­vo sistema, egli possa rafforzarsi ulteriormente. Osservo che è sbagliato giudicare i sistemi elet­torali alla luce di preoccupazioni politiche con­tingenti. Prima o poi, Berlusconi dovrà comun­que lasciare il campo. Invece, il rischio, esaspe­rato dall'attuale legge elettorale, di un'eccessiva frammentazione partitica peserà a lungo su di noi. Se non riusciremo, con il referendum, ad aiutare la classe politica a porvi rimedio.


Angelo Panebianco
13 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 23, 2009, 09:40:00 am »

La prudenza e il dilemma degli Usa

IL DILEMMA DELL’OCCIDENTE


Ciò che è accaduto ha tutta l'aria di essere un salto di qualità irreversibile nel conflitto che oppone l'ala dura del regime iraniano ai riformisti. La manifestazione non autorizzata degli oppositori è stata affrontata con la violenza dagli apparati repressivi. Un attentatore kamikaze si è contemporaneamente fatto esplodere presso il mausoleo di Khomeini (e si tratta, come ognun capisce, di un fatto di grande impatto simbolico). Soprattutto, Mousavi, il candidato sconfitto alle elezioni per la Presidenza, si è ribellato apertamente alla Guida Suprema Khamenei, è sceso in piazza con gli oppositori, si è dichiarato pronto a morire e ha chiesto l'azzeramento delle elezioni («i brogli erano pianificati da mesi» ha detto). Non sappiamo come finirà questa prova di forza, anche se al momento le carte migliori (gli apparati della forza, le milizie armate) sembrano essere saldamente nelle mani di Khamenei e di Ahmadinejad. Sappiamo però che il mondo occidentale deve ora fronteggiare un terribile dilemma.

Prima che arrivassero le nuove notizie sulla prova di forza in atto a Teheran, le difficoltà di fronte a cui si trova l'Occidente erano ben illustrate da una apparente contraddizione. Nello stesso momento in cui l'Unione Europea (con fermezza) e l'Amministrazione Obama (con circospezione) condannavano i brogli elettorali e le violenze del regime contro gli oppositori, l'Italia confermava di avere invitato, in accordo con gli Stati Uniti, il ministro degli Esteri iraniano Mottaki a partecipare alla conferenza sull'Afghanistan che si terrà a Trieste, in occasione del G-8, dal 25 al 27 giugno. Cinica realpolitik?

No, la contraddizione era figlia di un dilemma autentico. Da un lato, c'è infatti la necessità di assicurarsi la collaborazione di una potenza regionale del peso dell'Iran per venire a capo della guerra in Afghanistan (e per stabilizzare l'Iraq). Dall'altro lato, c'è il fondato timore che l'evoluzione in atto in Iran, la scelta della Guida Suprema Khamenei di sostenere Ahmadinejad, e la possibile, definitiva, sconfitta delle componenti riformiste, possano irrigidire ulteriormente le posizioni internazionali del regime. Con gravissimi rischi per la pace.

Non c'è, al momento, molto che dall'esterno si possa fare per favorire un' evoluzione della politica di Teheran che sia coerente con le aspirazioni di libertà di tanti iraniani e foriera di cambiamenti nella politica estera del regime. Anzi, come è illustrato dal dibattito americano (di cui il New York Times ha dato ieri un ampio resoconto) è anche possibile che un aperto sostegno occidentale, soprattutto americano, agli oppositori di Ahmadinejad e di Khamenei possa risultare controproducente, possa essere proprio ciò che serve all'ala dura del regime per gridare al complotto internazionale e sbarazzarsi con la violenza degli oppositori.

Ciò spiegherebbe, secondo questa interpretazione, la cautela diplomatica fin qui tenuta da Obama nonostante la netta presa di posizione, quasi unanime, del Congresso a favore degli oppositori scesi in piazza a Teheran. Se la situazione precipita è difficile che Obama possa mantenere a lungo la posizione prudente assunta. Se, come allo stato degli atti sembra probabile (ma c'è sempre, in questi frangenti, la possibilità di svolte repentine e imprevedibili), il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è. Finora, gli estremismi di Ahmadinejad erano, a detta degli specialisti di politica iraniana, parzialmente frenati dalla necessità, per Khamenei, di tenere conto dell'equilibrio delle forze fra le diverse componenti del regime. Rotto quell'equilibrio, spostato definitivamente il baricentro verso l'ala dura, sarebbe difficile immaginare una politica estera iraniana meno aggressiva. Tanto più che i fallimenti economici interni richiederebbero, per essere nascosti, una escalation della conflittualità con il mondo esterno. Con ricadute sul conflitto israeliano-palestinese, sull'Iraq e su altri scacchieri. Nel suo discorso in Egitto di due settimane fa Obama ha proposto al mondo islamico di voltare pagina. Una parte di quel mondo ha accolto con favore l'invito. Ma un'altra parte no. Quel discorso, pur innovativo, aveva un punto debole. Che succede se gli «uomini di buona volontà» delle diverse civiltà e religioni non riescono a tenere sotto controllo i fanatici e i propagatori d'odio? L'universo politico (come scriveva il giurista Carl Schmitt) è in realtà un «pluriverso»: oltre che per le possibilità di compromesso lascia sempre spazio per differenze e odi irriducibili. Mentre si offre il dialogo occorre disporre anche di strategie alternative. E' il tema di una discussione che appare assai serrata all'interno dell'Amministrazione americana. Se in Iran la situazione precipita, se la fazione di Ahmadinejad, sostenuta da Khamenei, si sbarazza, anche fisicamente, degli oppositori, Obama dovrà presto dotarsi di qualche carta di riserva.

Angelo Panebianco
21 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #56 inserito:: Luglio 01, 2009, 11:11:33 am »

LA CRISI DELLA SINISTRA ITALIANA

Il ventennio di rimozioni

Anatomia di una crisi


Da diversi mesi il tema rimbalza da un Paese all' altro («Le Monde », ad esempio, vi ha dedicato due dense pagine di analisi e commenti qualche giorno fa) e le elezioni europee, con i pessimi risultati conseguiti dai partiti socialisti e affini, hanno reso ancora più accesa la discussione. Non c'è praticamente forza di sinistra in Europa che non si ponga una domanda: come mai, in tempi di massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell' economia, di critica al mercato, di indebolimento della fiducia liberale nella capacità di autoregolazione dei mercati, i partiti socialisti (e affini) non riescono ad approfittarne? Non dovrebbero essere proprio i partiti socialisti, antichi alfieri dell'intervento dello Stato e dell' uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione della ricchezza, i naturali punti di riferimento politico degli elettori in questo tempo di crisi?

Il problema è assai complesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza generalema anche delle specifiche situazioni nazionali. Sul piano generale si può forse sostenere (come chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non possano approfittare della situazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro successi nel XX secolo. Nelle attuali società individualiste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non hanno più corso. In tempi di crisi, certamente, si invoca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisitamente pragmatiche (bloccare la disoccupazione, tamponare gli effetti sociali perversi della crisi). Nelle ricche società europee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socialisti offrivano come meta degna di essere perseguita in tempi di assai più rigide disuguaglianze di classe. E le destre sono oggi sufficientemente pragmatiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombranti significati ideologici.

Le risposte generali, però, corrono sempre il rischio di essere generiche. Bisogna per forza guardare anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i laburisti britannici (con la rivoluzione di Blair) e i socialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecentesche. Oggi pagano soprattutto il fatto di avere governato a lungo nella fase che ha preceduto lo scoppio della crisi.

Neppure per capire i guai della sinistra italiana, del Partito democratico, bastano le risposte generali. Anche qui bisogna tener conto delle specificità. La principale delle quali è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'accomunano ai partiti socialisti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fosse esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventare. Da quindici anni Berlusconi, con la sua presenza, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è precipitata dopo il crollo del muro di Berlino.

In tutto questo tempo, Berlusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo specchio non è in grado di riflettere alcuna immagine. Checché se ne dica, un tentativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci sono limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del leader.

Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformismi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli inopinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Berlinguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Corriere » di ieri, a chi e a che serve Berlinguer nella società attuale?

O, ancora, era davvero pensabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente alleanza con Di Pietro) potesse trovare una identità politica di ricambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse diventare competitiva con la destra, soprattutto al Nord, senza contrastare apertamente le correnti sindacali più conservatrici in materia di legislazione del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione? O che potesse acquisire credibilità a fronte del più esplosivo fenomeno del nostro tempo, l'immigrazione, innalzando solo il vessillo della «solidarietà »? Non è un caso che anche molti dei cosiddetti «giovani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una prima occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni.

La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex collaboratore di Massimo D'Alema: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione positiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità culturale e credibilità. E la caparbietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostruzione culturale e politica. Senza farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del partito o da centri di potere esterni.

Angelo Panebianco

30 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #57 inserito:: Luglio 06, 2009, 09:44:10 am »

LE RESISTENZE SOCIALI E TERRITORIALI

I veri ostacoli delle riforme


Forse bisognereb­be scavare più a fondo di quanto in genere non si faccia quando ci si interro­ga sul perché sia così diffi­cile per i governi italiani, di destra o di sinistra, fare riforme incisive a favore della concorrenza. Quelle mancate riforme, dopotut­to, contribuiscono a spie­gare due decenni di bassa crescita (in un’epoca di grande espansione del­l’economia internaziona­le) e sappiamo che, se non si faranno, anche la ri­presa potrebbe risultare difficile e stentata una vol­ta superata la crisi mon­diale. Ma, forse, quelle ri­forme sono rese estrema­mente difficili dal fatto che, se attuate, potrebbe­ro destabilizzare la demo­crazia italiana e, persino, mettere a rischio la stessa unità del Paese. Insom­ma, c’è probabilmente qualcosa di più, dietro al­le riforme mancate, della resistenza delle solite lob­bies.

Sul Corriere del 28 giu­gno scorso Mario Monti ha elencato i settori che dovrebbero essere interes­sati dall’azione riformista: «... la riduzione struttura­le della spesa pubblica corrente, anche attraver­so la riforma delle pensio­ni, la formazione del capi­tale umano, le infrastrut­ture, una maggiore con­correnza per aprire i mer­cati e ridurre le rendite, la liberalizzazione dei servi­zi e specialmente dei ser­vizi pubblici locali». Effet­tivamente, sappiamo che sono quelle le riforme che servirebbero per dare un nuovo slancio all’eco­nomia italiana e metterla in condizione di sfruttare al meglio le occasioni che le si presenteranno quan­do la crisi mondiale fini­rà. Ciò che invece non sap­piamo, ciò che è più diffi­cile prevedere, è quali sconvolgimenti sociali po­trebbero derivare da radi­cali interventi riformatori in tutti quei settori.

Nonostante la tradizio­nale turbolenza della no­stra vita politica, la socie­tà italiana, nel corso dei decenni, sembra essersi ben adattata a vivere in condizioni di bassa cresci­ta. Al punto che la perpe­tuazione dei suoi equili­bri, sociali e territoriali, pare dipendere ormai pro­prio dall’assenza di incisi­ve riforme liberalizzatrici in una serie di settori stra­tegici. In altri termini, se­condo questa ipotesi, ciò che obbliga da decenni l’economia italiana a fun­zionare a basso regime è anche ciò che assicura al Paese condizioni di stabi­lità sociale e territoriale. In queste condizioni, ten­tare di dare molta più po­tenza alla macchina richie­derebbe modificazioni drastiche e subitanee di radicatissime abitudini so­ciali, la messa in discus­sione di equilibri consoli­dati, la penalizzazione (al­meno a breve termine) di vaste aree territoriali oggi garantite dalle rendite, grandi, piccole, e anche piccolissime, assicurate dai mercati protetti. Con conseguenze, sociali e po­litiche, assai poco prevedi­bili.

Una delle ragioni, forse la più importante, per cui la società italiana risente oggi meno di altre degli effetti della crisi mondia­le, è dovuta proprio alla presenza di quei fattori che ne hanno frenato la crescita nei decenni prece­denti. Dipende dal fatto che, accanto al welfare «ufficiale», quello gestito dallo stato, c’è anche un esteso welfare «occulto» che tutela tante famiglie italiane a vari livelli di reddito. Ci sono protezioni e fringe benefits assicurati ai tanti dalle innumerevoli corporazioni, le rendite garantite dalla spesa pubblica (sprechi inclusi), i benefici assicurati ai singoli dall’economia sommersa. Non casualmente, a soffrire di più a causa della crisi sono fino ad oggi quei settori della piccola impresa e del commercio (come ha osservato Dario Di Vico sul Corriere del 2 luglio) che sono tra i pochi davvero esposti alla concorrenza di mercato.

Dall’elenco di Monti estraggo il caso che conosco meglio, quello della formazione del capitale umano. E’ la questione dell’istruzione. Sarebbe auspicabile una riforma meritocratica dell’Università (Francesco Giavazzi, su questo giornale, 3 luglio) e della scuola in generale. Ed è vero che il ministro Gelmini è sinceramente interessato a farla. Ma potrà mai il Parlamento (nelle sue componenti di destra e di sinistra) consentire davvero incisive riforme meritocratiche nel settore dell’istruzione? Ne dubito. E non certo a causa della resistenza di qualche «barone» o di qualche preside di liceo. A causa del fatto, piuttosto, che verrebbero scossi equilibri territoriali, locali, consolidati.

Prendiamo il caso dell’Università. In Italia ci sono centri universitari ottimi, centri universitari così così e centri universitari pessimi. Questi ultimi godono di esteso sostegno e di granitiche complicità nelle comunità territoriali di appartenenza. Una riforma meritocratica (che, se fosse davvero tale, dirotterebbe i finanziamenti sui centri e i ricercatori migliori) li metterebbe in ginocchio. E che cosa credete che accadrebbe? Quei pessimi centri universitari sono pur sempre erogatori di stipendi e rendite, e grazie ad essi vive anche un esteso indotto cittadino. Inoltre, essi contano sulla complicità delle famiglie le quali, pagando tasse basse, assicurano comunque ai propri figli diplomi dotati di valore legale. Ci sarebbero probabilmente rivolte in stile Reggio Calabria 1970. I sindaci, i sindacati, i deputati locali (di destra e di sinistra) farebbero barriera in difesa del pessimo centro universitario minacciato.

Ciò che vale per l’istruzione vale, credo, per tutti gli altri settori che dovrebbero essere interessati da incisive riforme. In molti casi, colpire la rendita può significare mettere a rischio o, per lo meno, in grave sofferenza, anche i legami fra le diverse aree territoriali del Paese. Ciò significa che non bisogna fare quegli interventi riformatori? Bisogna farli di sicuro, a meno che non ci si rassegni definitivamente all’idea che la democrazia italiana possa reggere solo se si accettano bassi tassi di crescita (anche a crisi superata) e forse, in prospettiva, un ulteriore impoverimento complessivo. Ma bisogna anche individuare le strategie utili per attutire gli inevitabili, probabilmente fortissimi, contraccolpi.

Angelo Panebianco
06 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #58 inserito:: Luglio 11, 2009, 09:15:07 am »

IL G8 E LE ASPREZZE ITALIANE

La concretezza di un successo


Dal punto di vista dell’Italia, il G8 è stato un vero successo. Il no­stro Paese ha svolto al me­glio il suo ruolo di anfitrio­ne e le posizioni del gover­no italiano su importanti dossier hanno trovato uno spazio che pochi osservato­ri, nei commenti della vigi­lia, avevano previsto.

Prima dell’incontro, mol­ti temevano (o auspicava­no, a seconda dei punti di vista) che le vicende priva­te di Berlusconi potessero provocare qualche atto di clamorosa contestazione del primo ministro italiano da parte dell’una o l’altra delegazione. Con conse­guenze pesantissime per l’Italia. Non è accaduto. In più, le autorità italiane han­no dimostrato di sapere ge­stire con efficacia un avve­nimento complesso come il G8. Presidente della Re­pubblica e presidente del Consiglio si sono mossi in sintonia. E anche le opposi­zioni (con l’eccezione di Di Pietro) hanno mantenuto un comportamento alta­mente responsabile. Come il presidente della Repub­blica aveva richiesto. E co­me è necessario quando so­no in gioco gli interessi na­zionali. In quei frangenti, il governo non rappresenta una parte ma l’intero. Ed è bene che così sia considera­to dalle forze politiche e dai cittadini.

Anche la scelta di tenere il G8 all’Aquila si è rivelata felice. Non erano mancate le perplessità dopo la deci­sione di Berlusconi, all’in­domani del terremoto, di spostare dalla Maddalena all’Aquila la sede del verti­ce. Quelle perplessità, so­prattutto in riferimento al­le delicate questioni della sicurezza, non apparivano infondate. Ma anche su questo piano Berlusconi ha scommesso e ha vinto. Tenere il vertice nelle zone terremotate, di fronte alla città devastata dal sisma, ha dato un segno di concre­tezza, di contatto con la re­altà, ai colloqui su quei di­sastri del mondo a cui i go­vernanti dei più importan­ti Paesi dovrebbero trovare rimedi.

E’ stato scritto in questi giorni che il G8 è morto, che all’Aquila se ne sono ce­lebrati i funerali. E’ così. Il G8 non è più rappresentati­vo della reale distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo. Tanto è vero che lo si è dovuto aprire, anche in questa occasione, alle altre grandi potenze economiche, Cina in testa. Noi italiani, al pari degli al­tri europei, non possiamo rallegrarcene. Il G8 era un luogo nel quale i Paesi eu­ropei, e fra essi anche l’Ita­lia, erano in grado di eserci­tare una vera influenza. Lo hanno dimostrato proprio il vertice dell’Aquila e il ca­so italiano. L’Italia ha avuto un ruolo centrale in questo vertice non solo dal punto di vista cerimoniale, in quanto Paese ospitante, ma anche dal punto di vi­sta sostanziale: ad esem­pio, le posizioni sostenute dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti in materia di riforma delle regole del sistema finanziario hanno qui trovato sostegni e am­pie convergenze.

Difficilmente, ci sarà al­trettanto spazio per le posi­zioni dell’Italia o di altri Pa­esi europei nei vertici allar­gati (il G20) che, inevitabil­mente, finiranno per sosti­tuire del tutto il G8 nei prossimi anni. Più che il ri­schio c’è la certezza di un drastico indebolimento delle capacità negoziali e di una altrettanto drastica perdita di influenza dei Pa­esi europei, spesso fra loro litigiosi e divisi, in quei fu­turi consessi dominati, ol­tre che dagli Stati Uniti, dai colossi asiatici e da altre po­tenze emergenti. Per ora, gustiamoci la riuscita del vertice e la buo­na figura che l’Italia vi ha fatto.

Da oggi ricomincia, con le asprezze di sempre, la solita politica italiana.


Angelo Panebianco
11 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #59 inserito:: Luglio 15, 2009, 10:21:24 am »

CORTE SUPREMA E TRASPARENZA

Quelle domande ai giudici Usa


Come è nella tradizione della democrazia americana, l'audizione di fronte alla Commissione giustizia del Senato di Sonia Sotomayor, designata come giudice della Corte Suprema dal Presidente Obama, è stata, per lei, una prova assai dura. Ha dovuto difendere il proprio passato come giudice della Corte d'Appello federale di fronte alle domande incalzanti dei senatori. La Sotomayor è di origine ispanica. La sua affermazione secondo cui una «saggia donna ispanica» sarebbe un giudice migliore di un «uomo bianco», l'ha esposta alla accusa di alcuni senatori repubblicani di praticare una sorta di razzismo alla rovescia. La Sotomayor ha dovuto spiegare che quel discorso era solo volto a interessare alla carriera giuridica un pubblico latino giovane che, per lo più, se ne tiene lontano. Ha dovuto poi replicare all’obiezione di essere una «attivista liberal », più interessata a modificare la legge che ad applicarla. E ha dovuto render conto delle posizioni assunte in cause riguardanti dispute razziali.

La Sotomayor non è il primo giudice designato alla Corte Suprema che viene messo in graticola dai senatori e non sarà l'ultimo. L'audizione è un interrogatorio ove abbondano le domande scomode, che serve al Senato per confermare o rifiutare la designazione presidenziale del candidato (e all'opinione pubblica per valutare le qualità del giudice designato e l'operato del Senato) ed è un'istituzione cruciale della democrazia americana. Dà trasparenza al processo decisionale mediante il quale un’assemblea rappresentativa avalla o respinge la nomina di un giudice della Corte.

Per la sensibilità europeo- continentale ciò può apparire strano ma questo modo di procedere non toglie affatto prestigio alla Corte Suprema. Al contrario, lo rafforza. Le istituzioni americane sono diversissime dalle nostre. Figlie di un'altra storia e di un'altra cultura politica.

Però in quelle istituzioni c'è un insegnamento che vale anche per noi.

La nostra (europea, e italiana in particolare) è una tradizione di chiusure corporative e di mancanza di trasparenza. Basti pensare al fatto che in Italia le critiche al modus operandi della magistratura vengono spesso trattate dai suoi rappresentanti come delitti di lesa maestà, subdoli tentativi di «delegittimazione ». Oppure, si pensi a come vengono designati i giudici della Corte Costituzionale. Siamo sicuri che il prestigio della Corte verrebbe indebolito se i candidati designati dovessero affrontare pubblicamente una batteria di domande, sul modello americano, da parte del Senato?

L'America è una democrazia che combina la gelosa difesa dell'indipendenza dei giudici (a tutti i livelli) con il rifiuto dell'esistenza di caste burocratiche chiuse, impermeabili al controllo democratico. Nella tradizione europeo-continentale, invece, le magistrature sono tecno- burocrazie separate dal processo democratico.

In considerazione dell'accresciuto peso che queste tecno- burocrazie svolgono nella nostra vita associata, avvicinare un poco, su questi aspetti, le due sponde dell’Atlantico, non sarebbe forse sbagliato.

Angelo Panebianco
15 luglio 2009

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