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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 157944 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Maggio 20, 2013, 11:56:09 pm »

LA LUNGA «GUERRA CIVILE» ITALIANA

UN ARMISTIZIO INDISPENSABILE


Può essere il governo Letta lo strumento per chiudere venti anni di una «guerra civile» come ha auspicato due giorni fa Berlusconi? Ci sono ostacoli pesanti. Ma anche qualche motivo di speranza. Gli ostacoli sono di due tipi. Alcuni hanno a che fare con la congiuntura politica, altri con certe caratteristiche del Paese.

La coincidenza fra la nascita del governo e l'arrivo a sentenza dei processi a Berlusconi ha subito colpito l'esecutivo accrescendo le fibrillazioni all'interno dei due alleati/nemici che lo sostengono, Pdl e Pd. C'è poi, anche a prescindere dai processi, la crisi del Pd: le sue convulsioni si scaricano (dichiarazione del Pd Zanda sulla ineleggibilità di Berlusconi) e continueranno ogni giorno a scaricarsi sul governo. Né si sa ancora se il traghettatore Epifani potrà scongiurare il rischio scissione. Poiché è evidente che una parte di quel partito anela solo a cambiare cavallo e ad abbracciare i 5 Stelle. Se la crisi del Pd si aggravasse ulteriormente, il governo Letta finirebbe in malo modo e la previsione di Beppe Grillo avrebbe qualche chance di diventare realtà: il futuro bipolarismo potrebbe vedere da una parte il centrodestra e dall'altra i 5 Stelle. Tutto meno che uno scenario di pacificazione.

Oltre a ragioni contingenti ci sono anche ragioni più profonde che hanno fin qui reso la lotta politica in Italia (rovesciando la formula di Clausewitz) «la continuazione della guerra con altri mezzi», una guerra civile fredda. Non è detto che quando Berlusconi lascerà il campo, il conflitto fra destra e sinistra in Italia potrà assumere toni e modi meno esasperati, propri della normale dialettica democratica. Può essere che berlusconismo e antiberlusconismo siano stati fin qui, almeno in parte, uno schermo che ci ha nascosto una faccia del problema. Grattando la superficie, dietro il «Berlusconi sì/Berlusconi no» su cui siamo inchiodati da venti anni, possiamo scoprire i solchi che dividono alcune «tribù sociali» italiane. Si considerino i due grandi blocchi del lavoro dipendente (soprattutto pubblico) e del lavoro autonomo. Prima dell'ingresso in scena di Grillo, questi due blocchi sono stati soprattutto serbatoi di voti, rispettivamente, della sinistra e della destra. L'ostilità che li divide è antica. Per tanti lavoratori dipendenti il lavoro autonomo è sinonimo di evasione fiscale e i lavoratori autonomi sono, in gran parte, «ladri». Sono tanti quelli che descrivono gli autonomi (per lo più elettori di destra) come un branco di approfittatori e disonesti. I lavoratori autonomi, a loro volta, pensano ogni male di tanti impiegati pubblici (per lo più, elettori di sinistra): parassiti e mangiatori a ufo.

Sono stereotipi antichi. Ma il bipolarismo li ha esasperati collegando più strettamente di quanto non avvenisse nella Prima Repubblica - dove la divisione era attutita grazie all'interclassismo democristiano - le due opposte tribù (dipendenti pubblici/autonomi) ai due opposti schieramenti politici.

Se poi a questa contrapposizione, di interessi e ideologica, fra gruppi occupazionali, sommiamo le divisioni regionali (Nord/Sud) ecco comporsi un quadro di ostilità incrociate, radicate e, a tratti, anche feroci. Queste divisioni, se la politica non riuscirà a rimuovere certi fattori che alimentano le tensioni, continueranno a esasperare la lotta politica in Italia. Con o senza Berlusconi.

C'è però anche qualche elemento di speranza. Dipende, paradossalmente, proprio dalla gravità della crisi, dal fatto che siamo in presenza di una emergenza economica e politica molto grave. Sono le situazioni di emergenza quelle che a volte suscitano energie inaspettate. Soprattutto, sono quelle situazioni che spingono talvolta gli uomini di governo a rischiare, a impegnarsi in azioni innovative, azioni che non intraprenderebbero in tempi normali. Essi potrebbero fare leva su alcuni punti di forza del Paese. Il quadro non è solo a tinte scure. C'è, per cominciare, il tessuto della provincia italiana, soprattutto in certe zone. Molto meno disgregato di ciò che appare se si osserva solo la vita pubblica delle grandi città. Ci sono risorse, anche di coesione sociale, che la crisi non è ancora riuscita a intaccare e che una politica saggia può valorizzare e utilizzare.

Ma si pensi anche alla divisione, sopra richiamata, fra lavoro dipendente pubblico e lavoro autonomo. La politica, con le mosse giuste, può renderla meno esasperata. Occorre una fiscalità meno vessatoria e una riduzione del carico burocratico per venire incontro alle esigenze del lavoro autonomo. E occorre intervenire sulla macchina dello Stato anche per consentire alla parte di dipendenti pubblici che aspira a lavorare in modo decoroso la possibilità di farlo. È difficile ma non impossibile. Per riuscirci bisogna mettere alla frusta quell'alta dirigenza che è stata corresponsabile, insieme alla politica, dei malanni che affliggono l'amministrazione. Se non lo si fa in una situazione di emergenza quando sarà mai possibile? E occorre infine che la politica trovi il coraggio per fare le necessarie innovazioni istituzionali e mettere così in sicurezza la democrazia. Le forze che vi si oppongono sono potenti.

C'è in questo Paese una radicata e diffusa cultura politica per la quale cambiare la Costituzione è sinonimo di «golpe», di svolta autoritaria e reazionaria. Quel fine giurista che è Gustavo Zagrebelsky (vedi la sua intervista di ieri a la Repubblica ) è forse il più autorevole portavoce di quella tendenza. Pensare, come egli pensa, che riformare seriamente la Costituzione (per esempio, in senso presidenziale) significhi «normalizzare» l'Italia al servizio di non meglio specificate oligarchie, comporta la richiesta che nulla di serio si faccia per salvare la democrazia italiana. Significa, se quella tendenza conservatrice prevalesse, condannare il Paese alla paralisi e a un declino politico garantito. Pochi, nel mondo, scommetterebbero sull'Italia. Siamo tenuti a farlo noi.

Angelo Panebianco

19 maggio 2013 | 8:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_19/un-armistizio-indispensabile-panebianco_a87af51a-c04b-11e2-9979-2bdfd7767391.shtml
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« Risposta #196 inserito:: Maggio 25, 2013, 05:58:57 pm »

CASO RENZI E FINANZIAMENTI PUBBLICI

Sguardi rivolti al passato

Matteo Renzi avrebbe potuto essere - e potrebbe essere ancora, se commettesse meno errori - la novità della politica italiana. È l'unico che, sulla carta, possiede il carisma per riassorbire la sfida grillina, l'unico che potrebbe impedire lo sfaldamento del Partito democratico e la conseguente affermazione di un inedito bipolarismo fra i 5 Stelle e il centrodestra. E' l'unico che potrebbe, per la prima volta nella sua storia ultrasecolare, dare una identità stabilmente riformista a una sinistra da sempre condizionata, quando non dominata, da correnti massimaliste.
Le condizioni sono cambiate rispetto a quando, solo pochi mesi fa, Renzi sfidò Bersani nelle primarie. Allora il Pd era ancora un partito sicuro di sé, orgoglioso delle proprie radici, di una storia che risaliva alla Prima Repubblica.

Un partito che, con la segreteria Bersani, aveva messo brutalmente da parte, trattandolo come un mero incidente di percorso, il tentativo di Walter Veltroni, primo segretario del Partito democratico, di introdurre una certa discon- tinuità e un po' di innovazione nella sinistra italiana. In quel momento i sondaggi davano ragione a Bersani e alla sua linea all'insegna della continuità con il passato. Renzi, vissuto dai militanti come un corpo estraneo, e una minaccia alla tradizione e alla loro stessa identità, e percepito dall'apparato di partito come un pericolo mortale, non avrebbe potuto vincere quelle primarie neppure se le regole elettorali fossero state per lui meno penalizzanti.

Lo scenario ora è assai diverso. Il partito è a pezzi, vicino all'implosione. Adesso sì che Renzi potrebbe prenderselo, sicuro di essere accolto come un salvatore anche da molti di coloro che, all'epoca delle primarie, lo trattavano da «destro», da «berlusconiano». Come tutte le organizzazioni anche i partiti, quando è a rischio la loro sopravvivenza, sono pronti a gettarsi fra le braccia di un messia che mostri di conoscere quale sia la via d'uscita dall'inferno. Se non ora quando?
Ma Renzi, incomprensibilmente, non ci sta. Si dichiara non interessato alla leadership del partito. In molti lo abbiamo ascoltato con una certa curiosità alcuni giorni fa a Porta a Porta . Il suo eloquio brillante e veloce non riusciva a nascondere la debolezza della sua posizione. Ad esempio, non puoi dire che non conta chi controlla il partito ma conta che il partito non sia autoreferenziale (come spesso accade ai partiti caratterizzati dalla presenza di consistenti apparati) e che, pertanto, per rinnovarlo, occorra eliminare il finanziamento pubblico. Non puoi dirlo senza cadere in una vistosa contraddizione. Il finanziamento pubblico, grazie al quale si sono fin qui riprodotti gli apparati, si mantiene per il fatto che quegli apparati riescono di solito a procurarsi leadership compiacenti, che li tutelino. Se vuoi ridimensionare l'apparato (che consideri una causa dell'autorefe- renzialità) eliminando il finanziamento pubblico, devi impadronirti del partito. Probabilmente lo si vedrà fra breve, quando cominceranno le sorde resistenze parlamentari contro la proposta del governo tesa ad abolire il finanziamento pubblico.

Il Partito democratico è, soprattutto, la sua segreteria e la sua tesoreria. Se non ti prendi segreteria e tesoreria sei destinato a contare poco o nulla.

È singolare che una leadership che si presenta come innovatrice si saldi poi a una strategia che fa tanto Prima Repubblica. Una strategia del tipo: a me il governo, a voi il partito. Come nella vecchia Dc: la segreteria all'esponente della fazione A, Palazzo Chigi all'esponente della fazione B.
Si noti la differenza fra la posizione di Renzi oggi e quella che fu di Romano Prodi negli anni Novanta, ai tempi dell'Ulivo. Prodi fu il candidato al governo di una coalizione i cui partiti egli non controllava. Ma Prodi era giunto a quella posizione «dall'esterno», non veniva (a differenza di Renzi) da battaglie condotte dentro il principale partito della coalizione. Era un uomo allora spendibile contro Berlusconi per il suo profilo di tecnico di area con un prestigio acquisito nei posti di responsabilità occupati. E in ogni caso, con l'Ulivo, Prodi riuscì a essere, per un certo periodo, il leader di governo più adatto per la sinistra nella (allora) nuova età bipolare.
Renzi ha tutt'altra storia (viene dalla politica di partito) e agisce in tutt'altra congiuntura. Una congiuntura nella quale non c'è più la coalizione che sorresse Prodi, e in cui il rischio che si corre è quello del definitivo ritorno (ma senza più i solidi partiti di allora) alle logiche politiche da Prima Repubblica. L'attuale strategia di Renzi, se non cambierà, sembra fatta per contribuire a quel ritorno, non per impedirlo.

Forse serve altro. Serve un Renzi che (come fece il suo modello Tony Blair) si impadronisca del partito, lo trasformi, anche a costo di pagare il prezzo di una scissione a sinistra, per farne il docile strumento di una politica innovatrice, e dopo (e soltanto dopo) si candidi alla guida del governo. Oltre a tutto, tale scelta sarebbe la più coerente con la suggestione maggioritaria e presidenzialista («eleggiamo il sindaco d'Italia») che Renzi accarezza. L'errore, se di un errore si tratta, sta nel contrasto fra il messaggio e la strategia, fra ciò che Renzi propone e ciò che fa (o non fa). Nell'Italia dei mille paradossi accade spesso che il ritorno al passato venga spacciato per una grande novità. Sarebbe una occasione sprecata, e non solo per il Pd, se, alla fine, dovessimo archiviare sotto questa voce anche il caso di Matteo Renzi.

Angelo Panebianco

25 maggio 2013 | 7:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_25/panebianco-sguardi-rivolti-al-passato_e6040dfc-c4f8-11e2-896c-3db9fdd7e316.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Maggio 27, 2013, 04:58:20 pm »

CASO RENZI E FINANZIAMENTI PUBBLICI

Sguardi rivolti al passato


Matteo Renzi avrebbe potuto essere - e potrebbe essere ancora, se commettesse meno errori - la novità della politica italiana. È l'unico che, sulla carta, possiede il carisma per riassorbire la sfida grillina, l'unico che potrebbe impedire lo sfaldamento del Partito democratico e la conseguente affermazione di un inedito bipolarismo fra i 5 Stelle e il centrodestra. E' l'unico che potrebbe, per la prima volta nella sua storia ultrasecolare, dare una identità stabilmente riformista a una sinistra da sempre condizionata, quando non dominata, da correnti massimaliste.
Le condizioni sono cambiate rispetto a quando, solo pochi mesi fa, Renzi sfidò Bersani nelle primarie. Allora il Pd era ancora un partito sicuro di sé, orgoglioso delle proprie radici, di una storia che risaliva alla Prima Repubblica.

Un partito che, con la segreteria Bersani, aveva messo brutalmente da parte, trattandolo come un mero incidente di percorso, il tentativo di Walter Veltroni, primo segretario del Partito democratico, di introdurre una certa discon- tinuità e un po' di innovazione nella sinistra italiana. In quel momento i sondaggi davano ragione a Bersani e alla sua linea all'insegna della continuità con il passato. Renzi, vissuto dai militanti come un corpo estraneo, e una minaccia alla tradizione e alla loro stessa identità, e percepito dall'apparato di partito come un pericolo mortale, non avrebbe potuto vincere quelle primarie neppure se le regole elettorali fossero state per lui meno penalizzanti.

Lo scenario ora è assai diverso. Il partito è a pezzi, vicino all'implosione. Adesso sì che Renzi potrebbe prenderselo, sicuro di essere accolto come un salvatore anche da molti di coloro che, all'epoca delle primarie, lo trattavano da «destro», da «berlusconiano». Come tutte le organizzazioni anche i partiti, quando è a rischio la loro sopravvivenza, sono pronti a gettarsi fra le braccia di un messia che mostri di conoscere quale sia la via d'uscita dall'inferno. Se non ora quando?
Ma Renzi, incomprensibilmente, non ci sta. Si dichiara non interessato alla leadership del partito. In molti lo abbiamo ascoltato con una certa curiosità alcuni giorni fa a Porta a Porta . Il suo eloquio brillante e veloce non riusciva a nascondere la debolezza della sua posizione. Ad esempio, non puoi dire che non conta chi controlla il partito ma conta che il partito non sia autoreferenziale (come spesso accade ai partiti caratterizzati dalla presenza di consistenti apparati) e che, pertanto, per rinnovarlo, occorra eliminare il finanziamento pubblico. Non puoi dirlo senza cadere in una vistosa contraddizione. Il finanziamento pubblico, grazie al quale si sono fin qui riprodotti gli apparati, si mantiene per il fatto che quegli apparati riescono di solito a procurarsi leadership compiacenti, che li tutelino. Se vuoi ridimensionare l'apparato (che consideri una causa dell'autorefe- renzialità) eliminando il finanziamento pubblico, devi impadronirti del partito. Probabilmente lo si vedrà fra breve, quando cominceranno le sorde resistenze parlamentari contro la proposta del governo tesa ad abolire il finanziamento pubblico.

Il Partito democratico è, soprattutto, la sua segreteria e la sua tesoreria. Se non ti prendi segreteria e tesoreria sei destinato a contare poco o nulla.
È singolare che una leadership che si presenta come innovatrice si saldi poi a una strategia che fa tanto Prima Repubblica. Una strategia del tipo: a me il governo, a voi il partito. Come nella vecchia Dc: la segreteria all'esponente della fazione A, Palazzo Chigi all'esponente della fazione B.
Si noti la differenza fra la posizione di Renzi oggi e quella che fu di Romano Prodi negli anni Novanta, ai tempi dell'Ulivo. Prodi fu il candidato al governo di una coalizione i cui partiti egli non controllava. Ma Prodi era giunto a quella posizione «dall'esterno», non veniva (a differenza di Renzi) da battaglie condotte dentro il principale partito della coalizione. Era un uomo allora spendibile contro Berlusconi per il suo profilo di tecnico di area con un prestigio acquisito nei posti di responsabilità occupati. E in ogni caso, con l'Ulivo, Prodi riuscì a essere, per un certo periodo, il leader di governo più adatto per la sinistra nella (allora) nuova età bipolare.
Renzi ha tutt'altra storia (viene dalla politica di partito) e agisce in tutt'altra congiuntura. Una congiuntura nella quale non c'è più la coalizione che sorresse Prodi, e in cui il rischio che si corre è quello del definitivo ritorno (ma senza più i solidi partiti di allora) alle logiche politiche da Prima Repubblica. L'attuale strategia di Renzi, se non cambierà, sembra fatta per contribuire a quel ritorno, non per impedirlo.

Forse serve altro. Serve un Renzi che (come fece il suo modello Tony Blair) si impadronisca del partito, lo trasformi, anche a costo di pagare il prezzo di una scissione a sinistra, per farne il docile strumento di una politica innovatrice, e dopo (e soltanto dopo) si candidi alla guida del governo. Oltre a tutto, tale scelta sarebbe la più coerente con la suggestione maggioritaria e presidenzialista («eleggiamo il sindaco d'Italia») che Renzi accarezza. L'errore, se di un errore si tratta, sta nel contrasto fra il messaggio e la strategia, fra ciò che Renzi propone e ciò che fa (o non fa). Nell'Italia dei mille paradossi accade spesso che il ritorno al passato venga spacciato per una grande novità. Sarebbe una occasione sprecata, e non solo per il Pd, se, alla fine, dovessimo archiviare sotto questa voce anche il caso di Matteo Renzi.

Angelo Panebianco

25 maggio 2013 | 16:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_25/panebianco-sguardi-rivolti-al-passato_e6040dfc-c4f8-11e2-896c-3db9fdd7e316.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Giugno 06, 2013, 03:12:11 pm »

SOSTEGNO PUBBLICO (QUALE?) E PRIVATO

Il salario della politica

La questione finanziamento è viziata da un eccesso di ideologia: così è difficile il contributo volontario del cittadino ai partiti


Quando si dice che in tutta Europa esistono finanziamenti pubblici ai partiti si dice solo mezza verità. Bisogna aggiungere che noi ne abbiamo fatto un uso particolarmente sciagurato (si veda l’ottima analisi di Sergio Rizzo sul Corriere di ieri a pagina 9). E che in quasi tutti quei Paesi il finanziamento pubblico si accompagna a un sistema ben disciplinato e legittimato (accettato dai cittadini) di finanziamenti volontari privati. Non avendo mai avuto un rapporto «laico», pragmatico, non ideologico, con il ruolo politico del denaro, siamo riusciti a fare del finanziamento della politica un mezzo di delegittimazione della democrazia.

Ora c’è l’obbligo di rimediare ma le resistenze sono formidabili. Nel disegno di legge del governo ci sono cose buone e meno buone. Il rischio è che al termine dell’iter parlamentare diventino pessime le cose meno buone e inefficaci quelle buone.

È buono che si prevedano agevolazioni fiscali per i contributi volontari. Incentivare tali contributi significa favorire una forma di partecipazione che avvicina il cittadino alla politica. I contributi volontari sono anche una valida misura della popolarità di cui gode ciascun partito. D’altra parte, è vero anche che occorre fissare un tetto alle donazioni (su questo punto quelli del Pdl non possono fare troppo i furbi). Solo con tetti alle donazioni si chiude la bocca a quelli che paventano lo strapotere dei più ricchi.

Vanno benissimo anche le agevolazioni statali indirette (bollette telefoniche, spazi in tv, eccetera). Ma poiché il diavolo si nasconde nei dettagli, bisognerà vedere quale sarà la formulazione finale. La cosa non buona, anzi pessima, riguarda la destinazione del 2 per mille imposta anche ai contribuenti che non esprimano preferenze. È un modo per mantenere in vita, surrettiziamente, il finanziamento pubblico centralizzato. Il più grave problema del finanziamento pubblico centralizzato è che esso concentra una grande massa di denaro nelle mani di pochissimi (coloro che controllano le tesorerie centrali dei partiti) dando così a piccole oligarchie i mezzi per riprodursi indefinitamente sbaragliando qualunque avversario. C’è differenza fra dare alla democrazia le risorse necessarie al suo funzionamento e permettere a piccoli gruppi di fare il bello e il cattivo tempo con i soldi del contribuente.

Se si pensa che un sistema di agevolazioni e di contributi privati non sia sufficiente per finanziare la politica allora si ricorra anche a forme «vere», non truffaldine, di rimborsi: l’eletto documenti le sue spese elettorali e riceva direttamente dallo Stato (senza la mediazione della tesoreria di partito) un parziale rimborso.

In un Paese in cui la questione del finanziamento della politica è sempre stata viziata da un eccesso di ideologia (e di ipocrisia, che ne è la compagna inseparabile) è difficile mettere in moto quella sanissima forma di partecipazione che è il contributo volontario del cittadino al partito che preferisce e che di per sé rafforza la democrazia.

Naturalmente, quando si parla di denaro e politica tutto si tiene. Non è possibile far decollare un sistema trasparente di finanziamenti volontari alla politica, senza dare anche un efficace statuto legale all’attività lobbistica. Una attività da sempre criminalizzata da coloro (esistono ancora, e sono tanti, in barba alle lezioni del Novecento) che continuano ad avversare il capitalismo di mercato. L’attività lobbistica va disciplinata. È il solo modo per legittimarla.

Angelo Panebianco

3 giugno 2013 | 14:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_03/salario-politica-sostegno-pubblico-privato-panebianco_e576c144-cc06-11e2-baa8-7c6869fac9d2.shtml
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« Risposta #199 inserito:: Giugno 16, 2013, 10:05:59 am »

ILLUDERSI CHE BERLINO CAMBI LINEA

La coscienza del più forte


È possibile che il processo alla Bce - perché di questo, in realtà, si tratta - che si sta svolgendo a Karlsruhe, sede della Corte costituzionale tedesca, si concluda con una assoluzione. È possibile cioè che la Corte alla fine respinga il ricorso per incostituzionalità contro le omt ( outright monetary transactions ), l'acquisto di titoli pubblici dei Paesi in difficoltà ideato e realizzato da Mario Draghi. Se così non fosse l'euro entrerebbe probabilmente in una crisi irreversibile e difficilmente la Corte tedesca vorrebbe intitolarsene la paternità. Ma il fatto stesso che quel procedimento sia iniziato la dice lunga sullo stato di salute (pessimo) dell'Europa.

Ne avremo quasi certamente un'ulteriore dimostrazione l'anno prossimo, al momento delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Ci si aspetta, per quella occasione, una valanga di voti ai tanti movimenti antieuropei che si agitano in tutta l'Unione. Il genio «nazionalista» (antieuropeo) è uscito dalla lampada e sarà difficile imprigionarlo di nuovo. A meno di un miracolo, a meno che, nel frattempo, l'Europa sperimenti una forte ripresa economica, della quale però non si vedono le condizioni.

Per oltre cinquanta anni (almeno fino al referendum francese del 2005 che disse no al trattato costituzionale) il processo di integrazione europea si era retto su, ed era stato alimentato da, la fiducia reciproca fra i partner. C'era sempre chi voleva accelerare e chi frenava, si confrontavano sempre interpretazioni e aspirazioni più federaliste e interpretazioni e aspirazioni più stataliste, in difesa della sovranità nazionale (Francia). Ma nessuno dubitava del fatto che l'integrazione europea fosse comunque un «gioco a somma positiva», in cui tutti avevano qualcosa da guadagnare.

Adesso non è più così. La fiducia è in larga misura svanita, oggi l'Europa è vista da tanti come un «gioco a somma zero» (qualcuno guadagna e qualcuno perde). Non importa che sia vero o no. Importa che tanti lo credano. Come si ricostituisce la fiducia? Come si rimette il genio nazionalista dentro la lampada? Nessuno lo sa.

Certo è che mentre un tempo l'Europa era una faccenda di cui si occupavano solo le élites (le opinioni pubbliche praticavano il silenzio/assenso, accettavano l'Europa senza fiatare perché ne traevano benefici), ora il gioco è radicalmente cambiato, ora le opinioni pubbliche sono diventate parte integrante, e attiva, attivissima, del processo. E le élites devono tenerne conto. Per mesi e mesi ci siamo sentiti dire che, per affrontare i nodi più gravi, occorreva aspettare le elezioni politiche in Germania (settembre 2013). Perché solo dopo le elezioni, la Merkel (o il suo avversario socialdemocratico se dovesse vincerle) avrà i margini di manovra sufficienti per allentare il rigore, per ridare all'Europa del Sud la possibilità di praticare politiche di sviluppo.

Ma dove sta scritto? Perché mai ciò dovrebbe accadere? Perché la Merkel, o chi per lei, dovrebbe essere disposta, una volta riconfermata nel ruolo di Cancelliere, a sfidare l'impopolarità, a entrare in conflitto con il nazionalismo economico che permea tanta parte dell'opinione pubblica tedesca? La fine della fiducia significa questo: i tedeschi (l'opinione pubblica tedesca) non vogliono che i «loro soldi» servano per togliere dai guai gli spendaccioni europei mediterranei. Gli europei del Sud, a loro volta, ce l'hanno a morte con una Germania che, secondo loro, li strangola, pur ottenendo dall'euro i maggiori vantaggi. E il bello, o il brutto, è che tutti hanno un po' di ragione.

Occorrerebbe un piano B. Ma nessuno ce l'ha. L'Italia e altri Paesi potrebbero minacciare l'uscita dall'euro? Ma le minacce che non possono essere attuate (per eccesso di costi, anche politici) sono, per definizione, poco credibili. Battere i pugni sul tavolo è giusto, cercare di formare in Europa coalizioni per condizionare la Germania, pure. Ma è difficile che si possa fare di più. Tutto ciò che si può portare a casa in questo modo, in termini di allentamento dei vincoli che ci soffocano, sarà naturalmente benvenuto. Ma occorrerà giocare soprattutto su risorse interne, su riduzioni della spesa e dei vincoli burocratici, per ridare respiro all'economia. E bisognerà investire di più su autonomi rapporti esterni che consentano all'Italia di svolgere un ruolo strategico di Paese-cerniera, sul piano economico come su quello politico, fra le più vicine aree extraeuropee e il mondo occidentale.

Possiamo girarci intorno quanto vogliamo ma, pur con tutto il male che c'è da dire sugli spendaccioni europei del Sud, il nostro Paese in testa, l'epicentro della crisi europea risiede in Germania. Il Paese più forte dell'Europa non è interessato a svolgere un ruolo di leadership. Non credo ci sia, come invece molti credono, un perverso piano tedesco per dominare l'Europa provocando scientemente la deindustrializzazione dell'Italia e di altri Paesi. Più semplicemente, la Germania non intende assumersi, oltre agli onori, anche gli oneri della leadership.
Per questo suonano ingenui e un po' patetici gli appelli alla unità politica europea. L'unificazione politica italiana e quella tedesca del XIX secolo avvennero perché Piemonte e Prussia scelsero di unire i due Paesi. La Germania non è oggi disposta a fare qualcosa di simile in Europa.

Angelo Panebianco

15 giugno 2013 | 8:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_15/coscienza-forte_18c1b640-d575-11e2-becd-8fd8278f5bec.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Giugno 30, 2013, 04:43:00 pm »

GLI OSTACOLI INVISIBILI DEL GOVERNO

LA PIÙ LARGA OPPOSIZIONE


Ormai il problema si è palesato in tutta la sua gravità. Il governo delle larghe intese appare al momento incapace di aggredire, con la forza necessaria, gli ostacoli che impediscono la ripresa economica, sembra impossibilitato a bloccare la discesa dell'Italia lungo la china della recessione e dell'impoverimento. I provvedimenti fino ad ora presi sono per lo più buoni ma insufficienti. Non certo per carenze personali del presidente del Consiglio o dei principali ministri ma perché i vincoli che incombono sull'azione del governo sono stringenti e soffocanti. E la tecnica del rinvio, dall'Iva all'Imu, come tanti hanno già osservato, non risolve alcun problema.

Tenere i conti in ordine rilanciando la crescita si potrebbe ma solo se si affrontasse il nodo della riduzione della spesa pubblica. Solo da lì potrebbero venire le risorse necessarie per abbassare la pressione fiscale, rilanciando consumi e investimenti. Che fine hanno fatto, si chiedeva Sergio Rizzo sul Corriere di ieri, privatizzazioni, dismissioni del patrimonio pubblico, spending review , introduzione di prezzi standard nel servizio sanitario, eccetera? Il governo non solo è impossibilitato a fare tutto ciò che occorrerebbe per rilanciare la crescita ma non riesce nemmeno a scongiurare definitivamente ulteriori aumenti delle tasse. Perché? Per due ragioni. La prima ha a che fare con la capacità di resistenza e di veto di tutti gli interessi abbarbicati intorno alla spesa pubblica, nazionale e locale. A cominciare dall'interesse alla opacità del proprio agire dei vertici dell'Amministrazione. Scandalizzarsi per ciò che ha detto Renato Brunetta sul ministero dell'Economia fa sorridere. Si è sempre saputo che non ci sono mai state trasparenza e chiarezza in materia di conti dello Stato. E perché dovrebbero esserci? Chiarezza, trasparenza, semplificazione amministrativa, eccetera, sono tutte cose incompatibili con la discrezionalità e l'arbitrarietà a cui l'Amministrazione è abituata. E la loro assenza crea ostacoli quasi insormontabili che bloccano la possibilità di azioni efficaci di riduzione e razionalizzazione della spesa.

Né i governi Berlusconi, che avevano promesso sfracelli, né i governi di centrosinistra sono mai riusciti a venirne a capo. E ha combinato ben poco anche il governo Monti che, per lo meno, avrebbe potuto sfruttare la pressione generata dall'emergenza finanziaria, dall'attacco speculativo dei mercati. Perché il governo Letta dovrebbe riuscire dove hanno fallito tutti i suoi predecessori?

Ma la macchina dello Stato sarebbe riformabile e la spesa pubblica si potrebbe ridurre - dirà qualcuno - se solo ci fosse, finalmente, la volontà politica. E qui entra in gioco la seconda causa che rende così stringenti i vincoli sul governo: è data dal fatto che l'esecutivo non può contare, per vincere le resistenze corporative, sulla coesione delle forze parlamentari che formalmente lo sostengono. C'è una ragione di fondo, antica, legata alla natura del nostro sistema politico-istituzionale e una ragione contingente. Si sbagliava Enrico Berlinguer quando, proponendo il compromesso storico, sosteneva che in Italia non si governa con il cinquantun per cento. Non basta nemmeno l'ottanta per cento.

Per l'eccesso di poteri di veto esistenti dentro e fuori il Parlamento, e ad ogni livello del nostro sistema istituzionale, i governi, non importa quanto ampia sia la loro base di sostegno parlamentare, non riescono mai a mettere insieme la forza necessaria per fare politiche innovative, incisive e durevoli. Questo è un sistema costruito per premiare l'immobilismo, non l'azione.

C'è poi una ragione contingente: lo stato di marasma in cui si trovano, per ragioni diverse, i due principali partiti che sostengono il governo. Se il Pdl risente degli effetti delle condanne di Berlusconi e dei crescenti mal di pancia del suo elettorato, il Pd non sta affatto meglio. Le sorde lotte senza quartiere che si combattono al suo interno fra sostenitori convinti e sostenitori tiepidi del governo Letta e fra amici e nemici di Matteo Renzi, si ripercuotono continuamente sull'azione dell'esecutivo. Il pasticcio che ha portato al rinvio della decisione definitiva sull'acquisto dei cacciabombardieri F35 è ampiamente spiegabile come un effetto di quelle lotte.
Se il governo decidesse di impegnarsi in un ambizioso piano di riduzione della spesa pubblica (e di connesso abbassamento della pressione fiscale), che probabilità avrebbe, in queste condizioni, di portarlo a compimento? Come potrebbe impedire al Parlamento di annullare i suoi sforzi?

Eppure, a dispetto dei santi, il governo Letta dovrà per forza, prima o poi, rompere gli indugi e scegliere di volare alto. È sempre meglio cadere sul campo con onore, lasciando agli altri la responsabilità politica di abbatterti, piuttosto che adottare un profilo basso nella speranza (quasi sempre infondata) di garantirsi in questo modo una lunga vita.

Angelo Panebianco

29 giugno 2013 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_29/piu-larga-opzione_9b57fda2-e075-11e2-aa9b-d132be5871d0.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Luglio 07, 2013, 11:24:22 am »

NON SOFFIARE SUL FUOCO TRA EUROPA E USA

Una relazione indispensabile


Per chi crede che la storia si riduca a una successione di complotti, la crisi dei rapporti euro-americani innescata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio statunitense ai danni dell'Europa, è solo una conferma. Per i patiti dei complotti, cinesi e russi hanno manovrato la marionetta Snowden per mettere nei guai Obama e suscitare un'ondata di sdegno antiamericano in Europa. L'obiettivo? Compromettere le trattative per l'accordo di libero scambio fra Stati Uniti e Europa, la Ttip (Transatlantic trade and investment partnership) un accordo che, in prospettiva, potrebbe dare un salutare colpo di frusta all'economia euro-atlantica ma anche, forse, contribuire a falsificare le più cupe profezie sul «declino dell'Occidente» e l'inarrestabile ascesa dell'Oriente. Per chi non crede alle teorie del complotto, semplicemente, Snowden e le sue rivelazioni sono un regalo del cielo, una opportunità insperata, che russi e cinesi hanno sfruttato e sfruttano.
La condotta giusta da tenere è quella indicata dal nostro ministro degli Esteri, Emma Bonino: da un lato, esigere con fermezza spiegazioni dall'Amministrazione Obama e, dall'altro, tenere a bada coloro che soffiano sul fuoco per aggravare la crisi in atto nei rapporti euro-americani. Una crisi che, probabilmente, prima o poi, verrà in qualche modo ufficialmente superata (tutti hanno troppo da perdere), ma che lascerà comunque dietro di sé una scia di veleni. Rendendo ancora più difficile di quanto già non apparisse in partenza (prima delle rivelazioni di Snowden) portare a compimento l'accordo sulla Ttip.
Ricordiamo cosa è in gioco e anche perché un fallimento dell'accordo sarebbe assai gradito alle potenze extraoccidentali. In gioco, prima di tutto, c'è lo slancio che l'accordo potrebbe dare all'economia euro-americana. Gli economisti calcolano quanti posti di lavoro in più, e quanti punti in percentuale del Pil in più, la costruzione di un mercato unico (o di qualcosa che, per lo meno, vi si avvicini) frutterebbe sia agli europei che agli americani. Ma al di là delle previsioni sui numeri ci sarebbe soprattutto un effetto psicologico le cui conseguenze economiche non possono essere quantificate in anticipo. Come ha scritto, fra gli altri, Giuliano Amato ( Il Sole 24 Ore , 23 giugno), l'accordo creerebbe un clima di fiducia e di ottimismo generalizzati, spingerebbe centinaia e centinaia di operatori economici ad allargare i loro orizzonti, a scommettere sul futuro. In breve, potrebbe rinvigorire i languenti «spiriti animali» del capitalismo occidentale.
I probabili effetti economici positivi avrebbero potenti ripercussioni politiche. L'area euro-atlantica riacquisterebbe, nei tanti tavoli ove deve trattare con la Cina, con la Russia e le altre potenze già emerse o emergenti, una forza che negli ultimi anni ha perduto.
Si consideri anche un altro aspetto. Obama è il presidente degli Stati Uniti culturalmente più lontano dall'Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma anche lui ha constatato quanto inconcludente sia stata una politica che, mentre snobbava i vecchi alleati europei, privilegiava il rapporto con le potenze autoritarie (Cina) o semi-autoritarie (Russia) nella speranza di stabilire durevoli relazioni di cooperazione e di fiducia.
Giocava l'errata convinzione che la natura dei regimi politici (o dei movimenti politici: vedi l'atteggiamento verso i Fratelli Musulmani egiziani) sia irrilevante ai fini della cooperazione internazionale. Ma non lo è. Già prima del caso Snowden, la tensione fra gli Stati Uniti e la Russia di Putin era arrivata alle stelle (Siria, scudo missilistico in Europa, eccetera). Ed è ormai chiaro che le relazioni con la Cina sono destinate a diventare sempre più competitive e tese.
Riaprire agli europei era dunque, per Obama, necessario. Da qui il progetto della Ttip. Un progetto con tanti nemici su entrambe le sponde dell'Atlantico. Nemici economici: coloro che, nei vari comparti (industria culturale, agricoltura, eccetera), guadagnano dal mantenimento di barriere. Nemici burocratici: le amministrazioni nazionali che difendono una discrezionalità e una capacità di regolazione che verrebbero indebolite dal mercato unico. Nemici politici: un mondo variopinto che comprende gli isolazionisti statunitensi e i tanti antiamericani per principio sparsi per il Vecchio Continente. Il presidente Hollande, campione del protezionismo culturale francese, e uno dei più zelanti nel minacciare di affondare l'accordo, coltiva con evidente tenerezza questi diversi tipi di nemici.
Obama riapre all'Europa e poi scivola sul Datagate. Dovrà ricucire e rassicurare. Ma anche agli europei non conviene esasperare troppo i toni. Perché se Obama, alla fine, ha scoperto che gli Stati Uniti non possono fare a meno dell'Europa, di sicuro gli europei non possono fare a meno dell'America. Per tre ragioni. La prima ha a che fare con la sicurezza: senza la cooperazione americana, l'Europa non è in grado di proteggersi dalle minacce (terroristiche in primo luogo). La seconda è che l'Europa, contando sulle proprie sole forze, non ha saputo fare di meglio che incartarsi politicamente rischiando l'autodistruzione. Se la storia degli ultimi sessanta anni insegna qualcosa, essa mostra che quando la comunità euro-atlantica è coesa anche l'integrazione europea si rafforza. Quando i legami euro-atlantici si sfilacciano, i rapporti interni alla Unione europea seguono la stessa sorte.
La terza ragione è geopolitica. Nel mondo si giocano complesse partite per il potere e l'egemonia internazionale. Rilanciare la comunità euroatlantica, facendo leva sull'accordo per il libero scambio, è, anche per l'Europa, il solo modo disponibile per partecipare a quelle partite con qualche buona carta in mano.

Angelo Panebianco

5 luglio 2013 | 7:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_05/una-relazione-indispensabile-angelo-panebianco_8a4b9b5c-e52c-11e2-8d17-dd9f75fbf0e3.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Luglio 14, 2013, 11:37:58 pm »

IL PESO ABNORME DELLA BUROCRAZIA

La ragnatela del non fare


All'apparenza non ci sono spiragli. Il processo di affondamento dell'economia italiana non appare arrestabile. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ( Corriere , 12 luglio) hanno ben riassunto la situazione. Per bloccare il declino occorrerebbe tagliare tasse e spesa pubblica. Invece, la spesa continua a crescere e le tasse pure. La società affonda lentamente, imprigionata in un triangolo della morte ai cui tre lati stanno, rispettivamente, le tasse, già altissime, in aumento, la spesa pubblica in aumento e la burocratizzazione (l'oppressione del corpo sociale mediante soffocanti lacci e lacciuoli regolamentari), anch'essa in aumento. Quest'ultimo aspetto, la burocratizzazione, merita uguale attenzione degli altri due (tasse e ampiezza della spesa pubblica) con cui ha una stretta connessione.

Al centro del triangolo c'è un ragno velenoso, forse immortale, quasi certamente immodificabile: la macchina amministrativa pubblica in tutte le sue ramificazioni, centrali, periferiche, eccetera. Una macchina che, mentre impone le sue regole asfissianti al corpo sociale, blocca (coadiuvata da magistrature amministrative che sono, anch'esse, organi vitali dello stesso ragno) ogni possibilità di rovesciare il trend di espansione della spesa pubblica e delle tasse. Spesa pubblica e tasse che forniscono il nutrimento al ragno.

Guardiamo al terzo lato del triangolo, la burocratizzazione. Tutti protestano da anni, in tutti i comparti sociali, per l'eccesso di burocrazia, nessuno riesce a fare niente per limitarla: a ogni passo che, con grandi sforzi, viene fatto per semplificare, ne seguono dieci che ricomplicano di nuovo tutto. La burocratizzazione crea una ragnatela normativa che, mentre soffoca la società, funziona da rete di protezione contro qualunque velleità di tagliare o razionalizzare la spesa. In ogni settore della vita sociale c'è stata, c'è, continuerà a esserci, una proliferazione continua di norme ingarbugliate che appaiono prive scopo, di razionalità e di logica alle vittime ma che uno scopo ce l'hanno: servono all'autoriproduzione degli apparati burocratici. Si pensi a tutti gli interventi amministrativi in quel ramo che potremmo chiamare «industria della lotta agli abusi».

Ampia parte delle normative da cui siamo torturati è prodotta in nome della lotta contro potenziali abusi. Peccato che ottenga esiti opposti. Perché i furbastri e i maneggioni non sono affatto intimiditi da procedure astruse (anzi, sguazzano meglio quanto più regole e procedure sono complicate). Tutti gli altri invece ne sono oppressi e angariati.

Ad alimentare la burocratizzazione che colpisce e avvolge nelle sue spire imprese, università, professioni, eccetera, ci sono interessi e mentalità. Gli interessi sono tanti. Come ha osservato Mario Deaglio ( La Stampa , 10 luglio), più complesse sono regole e procedure, più contenziosi ci sono e più lavoro c'è per ogni tipo di mediatori professionali (avvocati, commercialisti, eccetera). E ci sono, soprattutto, gli interessi dei burocrati e dei loro uffici che dimostrano così di essere vivi e indispensabili nel ruolo di «controllori» del corpo sociale. Tutto ciò comporta, per le vittime, costi materiali altissimi e un enorme spreco di tempo e di energie. Denaro, tempo e energie distolte dalle altre attività.

Oltre agli interessi, ci sono le mentalità, forgiate da competenze e esperienze. Nessuno ne avrà mai la forza politica ma sarebbe vitale eliminare il predominio dei giuristi nell'amministrazione. Occorrerebbe impedire a chiunque di accedere ai livelli medio-superiori di una qualsivoglia amministrazione pubblica nazionale o locale (e anche delle magistrature amministrative, dal Consiglio di Stato alla Corte dei conti) se dotato solo di una formazione giuridica. Servirebbero invece specialisti addestrati a valutare l'impatto - effetti e costi economici e sociali - di qualunque norma e procedura. Specialisti nel semplificare anziché nel complicare. Meglio se potessero anche vantare lunghi soggiorni di formazione presso altre amministrazioni pubbliche europee e occidentali.
Irrealizzabili fantasie, naturalmente.

La macchina amministrativa è così potente (la sua forza sta nella impersonalità: non c'è una testa che possa essere tagliata) da farsi beffe di qualunque denuncia e di qualunque protesta. La politica (non fa differenza che al governo ci sia Berlusconi oppure Monti oppure Letta) è impotente. Anche ammesso che abbia voglia di provarsi a rimediare, può ben poco contro la forza del ragno. I politici, in realtà, sono un po' complici e un po' ostaggi. Per governare (per quel poco che possono governare) hanno bisogno di non inimicarsi l'amministrazione, e soprattutto i suoi vertici. I politici contano, ma meno di quanto pensi il grande pubblico. Funzionano però benissimo come parafulmini. Gli attacchi ai politici di governo per tutto ciò che non riescono a fare non sfiorano nemmeno la macchina amministrativa sottostante, la quale procede, indifferente a tutto e a tutti, con i suoi ritmi, le sue inerzie, le sue opacità, le sue regole interne. L'importante è che nessuno riesca a mettere zeppe capaci di invertire la tendenza della spesa pubblica a crescere (spingendo così sempre più in alto i livelli di tassazione) o a spezzare le catene burocratiche che opprimono la società.

Il sociologo Max Weber, all'inizio del Novecento, pensava alla burocrazia come a una «gabbia d'acciaio» che avrebbe alla fine prodotto la pietrificazione delle società occidentali, ne avrebbe prosciugato ogni energia, ne avrebbe svuotato l'anima. In quei termini, la profezia di Weber non si è ancora realizzata. In Italia, però, i segnali ci sono tutti.

14 luglio 2013 | 8:50
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Angelo Panebianco

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_14/burocrazia-peso-enorme_9a20bc7e-ec4d-11e2-b462-40c7a026889e.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Luglio 22, 2013, 08:33:22 am »

KAZAKISTAN, ABU OMAR, MARÒ E F35

La credibilità di un Paese

Angelo Panebianco

La spiacevole e assai imbarazzante vicenda kazaka si chiude nell'unico modo ragionevole. Senza l'affondamento del governo. Manca ancora un passo: l'allontanamento dell'ambasciatore kazako. Spenti i riflettori, del caso e delle sue ramificazioni (che si intuiscono complesse), dovranno poi continuare ad occuparsene governo e diplomazia.

Nel mezzo della crisi kazaka c'è stata per un momento la possibilità che un'altra tegola cadesse sulla testa del governo. A causa dell'arresto a Panama dell'agente Cia Robert Seldon Lady, condannato a nove anni dalla magistratura italiana per il sequestro di Abu Omar. Erano di nuovo a rischio le relazioni fra Stati Uniti e Italia. Crisi scongiurata: gli americani si sono fatti consegnare dai panamensi il loro agente, e Roma ne ha preso atto con amarezza ufficiale (ma, c'è da scommettere, con intimo sollievo). L'insegnamento delle due, diversissime, vicende, è che puoi farti piccolo quanto vuoi ma la politica internazionale è sempre in grado di scovarti e di trascinarti nei suoi vortici. A maggior ragione se, a causa della tua natura (per lo stato delle tue istituzioni e gli orientamenti della tua opinione pubblica) non sei attrezzato a fronteggiare con efficacia ed energia le crisi che, in un modo o nell'altro, investono la sicurezza nazionale.
Come nella vicenda dei marò in India anche in quella dell'incidente kazako, si è detto - e i commenti internazionali confermano - che la «credibilità» internazionale dell'Italia è stata colpita. Vero, ma non bisogna fermarsi alla superficie. La credibilità di un Paese è questione complessa. E gli incidenti suddetti sono la spia di qualcos'altro, di una debolezza internazionale dell'Italia che dipende dal suo disordine interno.
La credibilità di un Paese democratico è affidata a un insieme di fattori: finanza pubblica in ordine, istituzioni solide, forte leadership di governo, sistema partitico non frammentato e quindi meno soggetto a spinte demagogiche. E apparati burocratici che si sentono controllati da governi forti e si regolano di conseguenza. E anche dal fatto che, nelle situazioni di crisi internazionale, quando entrano in gioco questioni di sicurezza, le istituzioni pubbliche riescono (almeno nella maggioranza dei casi) a fare gioco di squadra, spingendo l'opinione pubblica a fare altrettanto.

Si considerino due vicende con risvolti internazionali e di sicurezza assai importanti. Hanno in comune con il pasticcio kazako, il danno procurato al nostro ruolo in un sistema di relazioni interstatali. Il rinvio voluto dal Parlamento (duramente contestato dal Consiglio di Difesa) della decisione di acquisto degli F35, è stato un'altra dimostrazione che una politica invertebrata, frammentata, e deficitaria di leadership, mette continuamente a rischio la «credibilità» internazionale del Paese. Poiché il messaggio è stato: una parte non irrilevante del Parlamento e della opinione pubblica non sa che farsene di una difesa aerea né è interessata a mantenere gli impegni presi con i nostri partner (per non parlare delle negative ricadute aziendali e occupazionali).

Oppure si prenda la questione che si trascina da anni, e che l'arresto di Robert Seldon Lady ha riportato di attualità, dei conflitti fra governi e magistratura sulla vicenda Abu Omar. Un lunghissimo braccio di ferro ha visto contrapposti i governi italiani (che insistevano nel porre il segreto di Stato) e la magistratura che, alla fine, è riuscita a condannare gli agenti Cia, l'ex capo del Sismi Nicola Pollari e altri agenti italiani. Ma perché i governi (da Prodi a Berlusconi a Monti) hanno per tanto tempo, strenuamente, difeso il segreto di Stato contro richieste e sentenze della magistratura? Perché erano spregiatori dello stato di diritto? Perché amavano i rapimenti illegali? Oppure perché i governi sanno che ci sono delicate questioni di sicurezza che non possono essere lasciate interamente nelle mani dei tribunali ordinari? Non è forse la stessa ragione per la quale Obama, rimangiandosi una promessa elettorale, non è mai riuscito a chiudere Guantanamo?

Un Paese di frontiera come l'Italia, esposto a possibili minacce terroriste, ha bisogno di non compromettere i propri rapporti con gli Stati Uniti, di contare sulla collaborazione della intelligence americana e di non mettere a rischio l'operatività dei propri servizi di sicurezza. Era il problema sotteso a quel lungo braccio di ferro. Per inciso, a proposito di minacce terroriste, se qualcuno crede che le recenti vicende mediorientali (dall'Egitto alla Siria) non creeranno grandi rischi per la sicurezza qui in Europa, ha il diritto di crederlo ma solo se non ha, a qualsiasi titolo, una responsabilità pubblica.

L'Italia non gode più, come durante la Guerra fredda, di una rendita di posizione. Non è più indispensabile per i suoi alleati. Adesso la fiducia di cui ha bisogno per provvedere alla propria sicurezza se la deve guadagnare con fatica. Con la credibilità appunto, che è soprattutto la capacità di coltivare alleanze e mantenere impegni. Per non parlare del fatto che un Paese non credibile, e con scarso interesse per la propria sicurezza, invoglia assai poco eventuali investitori a rischiarvi i propri soldi.

C'è chi pensa che i principi (così come essi li interpretano) della democrazia siano l'unica cosa che conta e al diavolo la sicurezza. Non pensano che ci si debba sforzare, a causa dei pericoli internazionali, di mantenere un equilibrio precario e fragile fra esigenze diverse e, talora, contrapposte. Non si chiedono mai che fine farebbe la democrazia un minuto dopo che fosse venuta meno la sicurezza.

21 luglio 2013 | 12:03
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http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_21/credibilita-di-un-paese-panebianco_d6623000-f1ca-11e2-9522-c5658930a7bc.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:44:35 am »

L'INOSSIDABILE PARTITO ANTICRESCITA

La spesa facile che non indigna

Angelo Panebianco

Le reazioni del partito della spesa pubblica di fronte alla affermazione di buon senso, e inoppugnabilmente vera, del viceministro all'Economia Stefano Fassina secondo cui esiste, accanto a una evasione indotta da avidità e mancanza di senso civico, anche una evasione fiscale «di sopravvivenza», sembrano dettate dall'arroganza: quella tipica arroganza che è propria di chi, ritenendosi fortissimo, può permettersi il lusso di ringhiare davanti a qualche timido distinguo dalla linea dominante e vincente.

C'è il forte sospetto che sia ormai inutile continuare a ripetere, come facciamo da anni, la solita litania: «Bisogna ridurre la spesa pubblica al fine di abbassare le tasse e rilanciare così la crescita».

Il partito della spesa pubblica non ha alcun interesse alla crescita perché non può accettare che spese e tasse scendano. Fino a oggi, quel partito si è rivelato fortissimo, imbattibile. Ci sono due possibili spiegazioni, non necessariamente incompatibili fra loro, di tale imbattibilità. La prima ha a che fare con le «quantità» e la seconda con la «qualità». La spiegazione quantitativa dice che i numeri sono a favore del partito della spesa pubblica: coloro che vivono di spesa sopravanzano ogni altro gruppo e rappresentano, sul piano elettorale, una «minoranza di blocco» ai cui veti nessun governo, quale che ne sia il colore, può resistere. La spiegazione qualitativa fa riferimento all'esistenza di «cani da guardia», di istituzioni strategicamente collocate che si sono assunte il compito di salvaguardare gli interessi facenti capo al partito della spesa pubblica. Per esempio, guardando a certe sentenze della Corte costituzionale, si può essere colti dal sospetto che sia addirittura «incostituzionale» ridurre la spesa pubblica (e quindi le tasse), ossia che, per il nostro ordinamento, quelle due grandezze possano solo crescere, mai diminuire. Più in generale, c'è una intera infrastruttura amministrativa (alta burocrazia, magistrature amministrative) che regge e dà continuità alla azione dello Stato, che sembra chiusa a riccio nella difesa di un equilibrio politico e sociale fondato sulla incomprimibilità della spesa e su tasse altissime. La debolezza della politica fa poi il resto, rende impossibili interventi capaci di vincere le resistenze burocratiche e lobbistiche e invertire la rotta.

Lorenzo Bini Smaghi (Corriere , 27 luglio) ha osservato che nella lettera della Bce all'Italia di due anni fa si chiedevano riforme strutturali (tese appunto a ridurre la spesa pubblica). Non potendo, non volendo, o non sapendo, fare quelle riforme, noi rispondemmo aumentando le tasse e perciò spingendo ancor di più il Paese nella spirale della depressione.

Sulla carta, il governo Monti era nella condizione migliore per ridurre la spesa. Per sua natura, non dipendeva dal consenso elettorale e, inoltre, avrebbe potuto imporre le riforme ai partiti sfruttando la condizione d'emergenza in cui si trovava il Paese.

Perché non ci riuscì? Perché accrebbe ulteriormente una pressione fiscale già altissima? Non è forse perché gli ostacoli erano talmente grandi, e le forze contrarie così potenti, da non poter prendere in considerazione alcuna altra linea di condotta se non quella che venne effettivamente perseguita?

Sarebbe bello vivere in un Paese fondato su un regime di tasse basse ove non esistesse l'evasione da sopravvivenza e dove fosse possibile scaricare uguale riprovazione morale sugli evasori fiscali e su coloro che fanno un uso non strettamente necessario, non giustificato dalla funzione sociale assolta, dei soldi pubblici. Viviamo invece in un Paese in cui spese e tasse si rincorrono senza fine lungo una strada in salita. Sorvegliate amorevolmente da cani da guardia indifferenti alla decadenza economica del Paese. Ai membri del partito della spesa pubblica bisognerebbe dire: grazie a voi siamo oberati di tasse e non intravvediamo un bel futuro per i nostri figli. Abbiate almeno la decenza di non ringhiare.

28 luglio 2013 | 8:40
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http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_28/spesa-facile-non-ci-indigna_da1bf4b2-f74f-11e2-a852-8fa32bcbd2fe.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Agosto 06, 2013, 11:48:35 am »

GIUSTIZIA, QUALI INTERVENTI SONO POSSIBILI

La riforma più difficile

Così come non c'è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa.

Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po' per antiberlusconismo, un po' perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po' perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra.

Ma lo squilibrio di potenza c'è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l'ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani.

Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest'ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio.

La magistratura è l'unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare - ma solo se i magistrati acconsentiranno - interventi volti ad introdurre un po' più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell'accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia».

Il problema va aggredito da un'altra prospettiva. C'è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l'azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell'area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica).

Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci.

Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l'impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri.

Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali.

6 agosto 2013 | 7:50
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_06/la-riforma-piu-difficile-angelo-panebianco_8847e070-fe5b-11e2-9e44-1a79176af940.shtml
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« Risposta #206 inserito:: Agosto 13, 2013, 12:20:42 pm »

IL PD E L'ASSENZA DI IDEE FORTI DI GOVERNO

Un partito senza leader


È paradossale che la decapitazione giudiziaria del suo storico avversario non stia al momento portando frutti al Partito democratico. Berlusconi continua ad essere il protagonista principale di questa stagione. La vicenda Imu è esemplare. Quando il premier Letta dice che solo se il suo governo durerà si eviterà il pagamento delle prossime rate dell'Imu sulla prima casa, sta ricordando al Pdl che non gli conviene tirare la corda, ma sta anche implicitamente riconoscendo che l'agenda politica del governo è dettata, in larghissima misura, da Berlusconi.
La capacità di individuare di volta in volta la battaglia politica dirimente, quella che sposta i consensi, è come il coraggio di Don Abbondio: uno non se la può dare. O la si possiede già oppure niente. Mentre Berlusconi, in un Paese di proprietari di case, agita la questione dell'Imu sia per le sue immediate conseguenze pratiche (per le tasche degli italiani) che per i suoi significati simbolici (la riduzione delle tasse come leva per il rilancio della economia), il Partito democratico si limita a balbettii sul problema del «lavoro», apparendo così una sbiadita fotocopia della Cgil. Poiché i posti di lavoro non li può creare lo Stato, parlare di lavoro significa parlare di crescita. Ma il Pd non riesce ad avere idee-forza sulla crescita da comunicare con efficacia al Paese.

Naturalmente, ciò è in larga misura conseguenza delle sue divisioni interne, del fatto che, a tanti mesi di distanza dalla sconfitta di Bersani, non è ancora riuscito a trovare un nuovo baricentro politico. È dunque alla sfida per la leadership nel Pd che bisogna guardare per capire come evolveranno le sue scelte programmatiche e i suoi rapporti col governo. È ormai chiaro che Matteo Renzi e Enrico Letta (quale che sarà la formula della partecipazione di quest'ultimo) ne saranno i protagonisti principali. È, per certi aspetti, una buona notizia. Non vengono dall'esperienza comunista (anche se non potranno mai ignorare il ruolo di coloro che da lì provengono), non sono appesantiti da quel fardello. Anche se difficile in pratica, i due potrebbero essere tentati di cercare un accordo. Sarebbe una buona cosa per certi versi e cattiva per altri. Sarebbe una buona cosa per il fatto che essi sembrano avere virtù e difetti opposti e potrebbero compensarsi. Letta appare, fra i due, il più solido, il più attrezzato culturalmente e politicamente, ma è anche frenato da un eccesso di prudenza (in tempi in cui servirebbero audacia e inventiva). Renzi appare meno solido ma è un comunicatore nato, ha coraggio da vendere, e dispone di quella spregiudicatezza che è necessaria alla leadership.

Un accordo fra i due sarebbe però anche, da un altro punto di vista, una cattiva cosa. Metterebbe capo a una diarchia, per sua natura instabile, in un'epoca in cui i partiti hanno bisogno di un (solo) leader su cui investire: uno che ci metta la faccia da solo. In ogni caso, soltanto quando le lotte interne al Pd cesseranno, quando ci sarà un vincitore, quel partito potrà darsi un profilo politico e una piattaforma che lo rendano di nuovo elettoralmente appetibile.

Chi si interroga sul futuro del Pd dovrebbe anche tenere d'occhio le partite su legge elettorale e riforme istituzionali. Poiché la politica non può essere divisa in compartimenti stagni, quelle partite (ad esempio, una nuova legge elettorale, incidendo sulle potenziali alleanze, potrebbe favorire l'uno o l'altro candidato) influenzeranno la competizione per la leadership dentro il Partito democratico.

13 agosto 2013 | 8:27
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_13/un-partito-senza-leader-angelo-panebianco_9ddde79c-03d1-11e3-b7de-a2b03b792de4.shtml
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« Risposta #207 inserito:: Agosto 31, 2013, 05:14:34 pm »

SIRIA, IL NO INGLESE ISOLA L'AMERICA

La fragilità delle potenze


Il no del Parlamento britannico a un intervento militare del Regno Unito in Siria rende il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ancora più solo, e più debole, di fronte alla decisione che (forse) sta per prendere. C'è un solo argomento forte a favore dell'intervento militare americano in Siria. Ma ce ne sono tanti altri a sfavore. L'argomento a favore è che, a causa degli errori commessi nel corso del tempo, se Obama rinunciasse ad attaccare la Siria azzererebbe la già scarsa credibilità degli Stati Uniti. Gli avversari, dall'Iran alla Russia, e gli alleati, dalla Turchia all'Arabia Saudita, lo aspettano al varco, vogliono vedere se l'America è ormai solo una tigre di carta. Quando, non sapendo che pesci pigliare in Siria, e per procrastinare le decisioni, Obama dichiarò che non avrebbe tollerato l'uso di armi chimiche, si mise nelle mani di Assad, il dittatore siriano. L'uso del gas c'è stato (o così sembra) e Obama adesso non sa come fare a tirarsi indietro. Si aggiunga che la vicenda egiziana è stata per l'Amministrazione una bruciante sconfitta diplomatica. Obama ha il problema di ricostruire almeno un po' della perduta credibilità.

A fronte di questo argomento a favore dell'intervento, ce n'è una lista intera che lo sconsiglierebbe. Cominciamo dal più importante. Le guerre devono avere chiari obiettivi politici. E qui l'obiettivo proprio non si vede. Non è vero che l'attacco americano in Siria andrebbe collocato nell'ambito delle cosiddette «guerre umanitarie» come la Somalia (1992-93) e il Kosovo (1999). Le guerre solo umanitarie non sono mai esistite. In Somalia (senza successo: l'America fu costretta al ritiro) e in Kosovo, gli Stati Uniti intervennero non solo per salvare popolazioni ma anche con un obiettivo politico: l'unica superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda mandava a dire alle teste calde sparse per il mondo che essa non avrebbe tollerato il caos. Ricondurre all'ordine, con la forza delle armi, singole situazioni locali era un mezzo per bloccare le minacce all'ordine internazionale. Ma in Siria non c'è un ordine locale da ricostituire, la situazione è sfuggita di mano. In Siria si affrontano bande di tagliagole. Un intervento militare contro una delle bande in lotta o rafforza la banda contrapposta, magari portandola alla vittoria, o accresce ancor di più il caos e il numero di vittime. Fare guerre in cui non possono esserci chiari obiettivi è un errore. Persino nella guerra di Libia francesi e inglesi un obiettivo politico lo avevano: sottrarre agli italiani l'influenza sul Paese.

Si aggiunga che l'opinione pubblica americana è contraria all'intervento. Una democrazia che va alla guerra senza avere dietro di sé l'opinione pubblica è indebolita in partenza. Basta un «incidente», per esempio un massacro non voluto di civili, o un attentato di risposta che uccida un certo numero dei propri soldati, e subito i governanti della democrazia in guerra si trovano in gravi difficoltà a casa propria.
C'è poi il fatto che nelle guerre è difficile calibrare la forza e prevederne gli effetti. L'intervento americano in Siria dovrebbe essere così efficace da rappresentare una vera punizione per il regime siriano (e un deterrente contro futuri usi del gas) ma non così efficace da aprire la strada alla vittoria dei suoi nemici. Più facile a dirsi che a farsi. A meno che Obama (senza dichiararlo) non stia pensando a un regime change, l'eliminazione di Assad e la sua cricca, magari per compiacere sauditi e turchi. Per cosa? Per consegnare il potere ad Al Qaeda e ad altri gruppi jihadisti?

L'America avrebbe dovuto decidere il che fare in Siria molto tempo fa, nella fase iniziale della guerra civile. Se fosse intervenuta allora avrebbe potuto esercitare una influenza forte sui ribelli, e avrebbe potuto colpire, oltre che il regime, anche le formazioni qaediste prima che consolidassero il loro controllo su importanti porzioni del territorio. Oppure, avrebbe potuto dichiarare subito, senza ambiguità, che in uno scontro fra il radicalismo sunnita e quello sciita non aveva intenzione di prendere partito. Da più parti si è accusato di cinismo il politologo Edward Luttwak per il quale non conviene all'Occidente schierarsi. Ma in politica internazionale la scelta, per lo più, non è fra il bene e il male ma fra un male minore e un male maggiore.

In Siria l'Iran si sta dissanguando e, finché Assad resiste, la partita per l'egemonia regionale fra iraniani e sauditi resterà aperta. Così come la competizione sotterranea fra le potenze sunnite: con la Turchia e il Qatar che appoggiano, anche in Siria, i Fratelli Musulmani, e i sauditi schierati con i salafiti. Prima o poi, se l'equilibrio non verrà alterato sui campi di battaglia, dovrà essere siglato un armistizio. Non è forse l'unica soluzione possibile? Per non parlare delle imprevedibili ripercussioni di un intervento americano in Siria sugli equilibri libanesi, giordani, iracheni, o sulla competizione fra pragmatici e intransigenti entro la classe dirigente iraniana.

Sembra saggia la decisione dell'Italia di tenersi fuori, di non accodarsi, questa volta, ai soliti francesi (sempre a caccia della Grandeur , soprattutto quando i sondaggi sono sfavorevoli al presidente in carica). Secondo un vecchio adagio, sono due le ragioni per le quali un uomo (o un gruppo di uomini e donne) fa qualcosa: una buona ragione e la ragione vera. La «buona ragione» dell'Italia è il richiamo all'Onu e alla cosiddetta legalità internazionale. La «ragione vera» è che il disastrato governo delle larghe intese non reggerebbe a un intervento militare. Per una volta, la ragione vera del non intervento italiano sembra stare dalla parte della ragione.

31 agosto 2013 | 8:42
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_31/fraglta-potenze_b64a9ffe-11f6-11e3-a57a-42cc40af828f.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Settembre 06, 2013, 09:22:36 am »

MATTEO RENZI SENZA RIVALI NEL PD

Il soccorso al vincitore


Fa impressione osservare una slavina di queste proporzioni, vedere un partito quasi al completo, salvo un po' di irriducibili, precipitarsi sotto le ali di un politico che, solo pochi mesi prima, era stato trattato da tanti come un corpo estraneo, un «infiltrato» della destra. Matteo Renzi ha già vinto il prossimo congresso facendosi consacrare leader, con un bagno di folla, in una regione, l'Emilia Romagna, che mantiene un peso decisivo negli equilibri interni al Partito democratico e che, nelle primarie dello scorso anno, aveva (secondo copione) incoronato Bersani.

Ciò fa impressione ma non stupisce. È la reazione all'inatteso fallimento di Bersani, andato alle elezioni in nome della tradizione, della continuità. È normale che, dopo una grande delusione, un partito allo sbando si aggrappi a una nuova leadership , accetti il ricambio rifiutato in precedenza. Resta da vedere se il ricambio produrrà anche un effettivo rinnovamento identitario e delle politiche del partito. L'effetto slavina, o effetto bandwagoning (con quasi tutti che saltano sul carro del vincitore), è per Renzi un'arma a doppio taglio. Lo innalza irresistibilmente agli onori della leadership ma esercita su di lui anche una pressione tesa a fargli abbandonare, o a diluire, quelli che, nelle primarie dello scorso anno, erano risultati gli aspetti più innovativi della sua proposta.

Conosciamo il Renzi 1, il novello Davide che fece la campagna delle primarie contro il vecchio apparato e le sue logore parole d'ordine. Ma non conosciamo ancora il Renzi 2, il futuro leader del partito. Non sappiamo quali compromessi dovrà accettare. E poiché non è chiaro quanto il Renzi 2 sarà diverso dal Renzi 1, non è nemmeno possibile immaginare quanto rinnovamento ci sarà davvero. Non sappiamo insomma se l'innovazione batterà il trasformismo (di quelli che si sono precipitati sul carro) o se il trasformismo neutralizzerà l'innovazione. Ha ragione Walter Veltroni quando mette in guardia Renzi: un eccesso di consensi nasconde insidie che potrebbero palesarsi presto.

Renzi ha un partito da ricostruire. Un partito che per lungo tempo ha tenuto a bada le proprie divisioni interne, e nascosto il proprio conservatorismo, usando il mastice dell'antiberlusconismo (uno spiacevole effetto collaterale è stato l'eccessivo spazio che il partito ha dato per anni ad orientamenti forcaioli in materia di giustizia). Un partito, inoltre, che a causa della sua debolezza, si è abituato ad essere largamente etero-diretto nelle sue politiche: dai giornali d'area, dalla Cgil, da settori della magistratura. Al punto che non è sempre stato chiaro quale ne fosse il «vero» gruppo dirigente.

È un partito siffatto che Renzi dovrà governare e rigenerare. Da qui il dilemma: se Renzi si allontanerà troppo dalle sue posizioni originarie incontrerà poche resistenze interne, almeno nella prima fase, ma la sua azione risulterà alla fine poco incisiva. Se, al contrario, sceglierà di restare fedele a se stesso, incontrerà resistenze molto più forti, fronteggerà conflitti acuti, ma avrà anche qualche chance in più di cambiare il partito.
In ogni caso, gli irriducibili, i nostalgici, si rassegnino. Nelle attuali condizioni della competizione democratica, un partito non può che essere la struttura di supporto di un leader. Forse Renzi non riuscirà a rinnovare in profondità il partito ma, per lo meno, distruggerà qualche mito, svecchierà almeno un po' una cultura politica da sempre troppo diffidente verso le leadership individuali.

6 settembre 2013 | 8:10
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_06/soccorso-al-vincitore-panebianco_622a764c-16b5-11e3-b8be-7779aaf9a586.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Settembre 17, 2013, 11:10:10 pm »

VICENDA ILVA E DECRESCITA INFELICE

Tanti saluti all'industria

La vicenda dell'Ilva è un disastro in sé e l'ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.

Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.

La vicenda dell'Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l'esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.

Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l'esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell'Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.

Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l'industria in quanto tale come una minaccia per l'ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall'inquinamento) l'ecologismo è diventato un'arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull'ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l'industria italiana.

15 settembre 2013 | 9:38
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_15/tanti-saluti-industria_a1759114-1dcd-11e3-a7f1-b3455c27218c.shtml
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