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Autore Discussione: Guido Santevecchi. Se la Cina meno forte fa paura  (Letto 1996 volte)
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« inserito:: Luglio 30, 2015, 10:21:25 pm »

Il crollo in Borsa
Se la Cina meno forte fa paura

Di Guido Santevecchi

«Il ritorno della débâcle!»: è la frase scelta dall’agenzia Xinhua, voce del governo cinese, per descrivere la giornata in Borsa a Shanghai. L’indice principale ha perso l’8,48 per cento, la seduta peggiore dal febbraio 2007, quando stava cominciando la grande crisi finanziaria internazionale. Un lunedì nerissimo, con oltre 1.700 titoli caduti del 10%, il limite massimo che in Cina fa scattare la sospensione. Che cosa sta succedendo nel mercato azionario della seconda economia del mondo? E quanto dobbiamo preoccuparci per un contagio cinese alle nostre economie ancora sofferenti?

Per dodici mesi di fila, dal giugno del 2014, la Borsa di Shanghai aveva continuato a segnare record, salendo del 150 per cento, mentre i giornali controllati dal partito comunista invitavano gli investitori a scommettere sul Toro inarrestabile. E decine di milioni di piccoli risparmiatori, la nuova classe media della Repubblica Popolare, hanno continuato a credere alle rassicurazioni del partito anche quando a metà del mese scorso Shanghai e la Borsa secondaria di Shenzhen hanno cominciato a ridimensionarsi e loro a soffrire. Sono seguite tre settimane di picchiata che hanno bruciato il 30% dei guadagni (oltre tre trilioni di dollari di capitalizzazione).

Nella seconda settimana di luglio il governo ha deciso di intervenire, cercando di dominare il mercato. Lo Stato ha sostenuto la Borsa con liquidità per 200 miliardi di dollari e una serie di misure che dovevano alzare una diga: metà dei titoli sospesi, divieto ai grandi azionisti di vendere le loro partecipazioni per sei mesi, la polizia mandata a caccia degli speculatori. Per tre settimane la strategia ha funzionato e Shanghai ha recuperato il 16%. Il tentativo cinese di ingabbiare il mercato ha suscitato molte critiche internazionali, ma forse servirebbe più pragmatismo, perché se si inceppa il motore di Pechino, invece di ricevere la grande massa di prodotti made in China, il resto del mondo dovrebbe fare i conti con un’altra forma di esportazione: la recessione.

Il nuovo crollo della Borsa apre infatti un grande dubbio: il gruppo dirigente di Pechino, noto per la sua efficienza tecnocratica, è caduto in trappola ed è sull’orlo di una sconfitta umiliante e di una crisi profonda? Sarebbe la prima volta da quando Deng Xiaoping lanciò all’inizio degli anni 80 l’apertura al «mercato con caratteristiche cinesi». L’altra ipotesi è che il presidente Xi Jinping e il suo primo ministro Li Keqiang abbiano deciso di ridurre il sostegno statale e vedere se la Borsa è in grado di reggersi da sola (seguendo la lezione dei professori del libero mercato a ogni costo). Una scommessa rischiosa.

Gli economisti internazionali sono divisi in due partiti: da anni molti prevedono che l’economia cinese dovrà precipitare, perché mai nella storia si sono registrati quasi quattro decenni di crescita continua. E in effetti la Cina ha già rallentato drasticamente: l’ultimo anno di crescita a due cifre, 14%, è stato il 2007 (proprio quando la Borsa di Shanghai subì il suo giorno peggiore). Ora l’obiettivo fissato dal governo è «intorno al 7%» e il presidente Xi spiega da mesi che questa è la «nuova normalità», perché la Cina deve ristrutturare il suo sistema, da Fabbrica del Mondo drogata da continui investimenti a società di consumi interni. Economisti come Jim O’Neill, che coniò l’acronimo «Bric», credono ancora in questa Cina normale ma stabile nella sua progressione.

Nei primi sei mesi del 2015 il Pil è salito del 7%, secondo i piani. Ma ci sono dati deludenti, come quello degli utili industrial i scesi dello 0,3% a giugno rispetto a un anno fa e ora la disfatta della Borsa. Il partito di quelli che prevedono l’atterraggio duro per Pechino aspetta di poter finalmente pronunciare la frase fatidica: «Noi lo avevamo detto».

In attesa che le previsioni di sventura si avverino, bisogna ricordare che il Pil cinese oggi vale oltre 10 mila miliardi di dollari e un 7% significa molto più del 14% del 2007, quando il Pil era a 3.500 miliardi. E poi, prima di rallegrarsi per l’eventuale scacco matto inflitto dal mercato ai dirigenti di questa economia con «caratteristiche socialiste», è meglio considerare che nel 2014 la Cina ha rappresentato il 38 per cento della crescita mondiale: un atterraggio brusco della sua economia riporterebbe il sistema globalizzato in recessione.

La possibilità che la Borsa di Shanghai viva altre giornate nere è a un passo. Ieri gli analisti di Pechino parlavano di panico, descrivevano lo stato d’animo dei piccoli investitori disperati con uno dei tanti proverbi locali: «Volano via come gli uccelli del bosco che hanno sentito il rumore di una freccia scoccata». In questa situazione c’è anche un aspetto di politica interna da considerare: si calcola che novanta milioni di cinesi abbiano investito i loro risparmi in Borsa e ora li vedono evaporare. Sono giovani della nuova classe media o anziani che si sono logorati nelle fabbriche e nei cantieri negli scorsi quarant’anni per costruire il sogno cinese. Se Xi Jinping non saprà o non vorrà soccorrere questa gente, potrebbe perdere la sua credibilità. E una destabilizzazione economica, sociale e politica della Cina non farebbe bene al mondo globalizzato.

28 luglio 2015 (modifica il 28 luglio 2015 | 07:11)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_28/borsa-cina-3972c1ae-34e6-11e5-984f-1e10ffe171ae.shtml
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