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Autore Discussione: RICCARDO BARENGHI.  (Letto 19210 volte)
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« inserito:: Ottobre 28, 2007, 09:45:06 am »

28/10/2007
 
Ma Walter pensa già al dopo
 
RICCARDO BARENGHI

 
L’era Veltroni comincia da Prodi, anzi dalla fine di Prodi. Dalla fine del suo discorso - uno dei discorsi più impegnati del premier - e dalla fine del suo governo, che tutti danno per imminente anche se nessuno sa quando l’evento accadrà. Qui alla Fiera di Milano, il presidente del Consiglio si è infatti giocato le sue ultime (o penultime) cartucce, chiamando a raccolta il Partito democratico che tanto ha voluto, invitandolo, anzi quasi obbligandolo, a sostenere il suo governo «fino a che morte non li separi». Elencando con una certa fermezza tutto quello che il suo esecutivo ha fatto e riducendo i problemi che ha, il fatto che sia sull’orlo del tracollo un giorno sì e l’altro pure, a semplici problemi di ordinaria amministrazione. Insomma, il mio governo esiste grazie a voi e voi esistete grazie al mio governo. Un destino comune.

Non la pensa così il leader del Pd, e alla sua maniera l’ha fatto capire chiaramente. Lui già guarda oltre Prodi e oltre l’attuale governo, al quale ha ovviamente assicurato tutto il sostegno possibile. In molti passaggi dei suoi due discorsi si capiva benissimo che Veltroni ha un progetto ambizioso, a lungo termine. Che non è solo quello di costruire un partito totalmente nuovo (nella sua organizzazione, nei suoi metodi, nella scelta dei dirigenti), ma anche quello di non inchiodarsi alla vita dell’attuale governo. In altre e poche parole, se Prodi cade Veltroni e il Pd non muoiono con lui. Tutt’altro. Se Prodi cade, Veltroni e il suo Pd non solo continueranno a vivere ma probabilmente tenteranno anche di evitare le elezioni anticipate. Tenteranno cioè - e questo il segretario l’ha detto esplicitamente - di riformare la Costituzione, abolire il bicameralismo, ridurre il numero dei parlamentari, cambiare la legge elettorale. Insieme alle forze dell’attuale opposizione. Il che significa, anche se lui non l’ha detto chiaramente - e non poteva farlo con Prodi seduto lì a pochi metri - che se l’esecutivo dovesse non farcela, Veltroni dirà sì a un altro governo, magari istituzionale, magari tecnico, non si sa. Comunque un qualcosa che non porti il Paese alle urne in queste condizioni ma riesca a risistemare il quadro, e poi si vede.

Un discorso analogo a quelli che in queste settimane si sentono fare da diversi leader politici, da Rutelli a Bertinotti, da D’Alema a Casini. E anche da chi in politica non è impegnato direttamente, come il presidente di Confindustria, Luca di Montezemolo. Il quale ieri è entrato con una certa forza - magari anche al di là delle sue intenzioni - in quello che stava accadendo alla Costituente del partito democratico. La bordata che ha riservato «ai governi che non riescono a governare da dodici anni», è suonata più come una polemica contro Prodi che non contro Berlusconi, essendo il primo in carica e l’altro no (e infatti il premier gli ha risposto molto seccato). Ma soprattutto è apparsa come una sorta di investitura per Veltroni: Walter pensaci tu.

E lui ci pensa, eccome se ci pensa. È qui per questo, è qui perché è stato eletto da tre milioni di italiani e intende usare fino in fondo il consenso che ha ottenuto. Vuole sbaraccare la forma partito novecentesca, pensa che sia anacronistica un’organizzazione basata sugli iscritti, vuole un rapporto diretto tra leader e popolo, immagina elezioni primarie su locali e nazionali. Non vuole inchiodarsi alle attuali alleanze ma gli piacerebbe scomporre e ricomporre il quadro politico, vorrebbe una legge elettorale maggioritaria ma capisce che deve mediare su una sorta di modello tedesco all’italiana, spinto in questa direzione dai suoi compagni di partito (D’Alema e Rutelli ma non Prodi), dai suoi attuali alleati della sinistra (Bertinotti) e anche dalle forze più piccole del centrodestra (Casini e Bossi).

Che abbia ragione o torto, non importa. Si potrà discutere se queste sue idee siano giuste o sbagliate, e soprattutto se avranno mai la possibilità di concretizzarsi. Per dirne una sola, un Pd a vocazione maggioritaria, ossia vicino al 40% di elettori, dove andrebbe a prendere i voti: alla sua sinistra è improbabile, alla sua destra è difficile. Dunque, dove? Ma adesso la questione è un’altra, ossia che con Veltroni è cominciato sul serio il dopo-Prodi. Nonostante Prodi.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 17, 2008, 03:16:04 pm »

17/1/2008
 
Gli applausi affrettati della casta
 
RICCARDO BARENGHI

 
La notizia che fa più impressione - politicamente parlando - non è l’arresto di Sandra Mastella e di altre 23 persone. E neanche l’indagine a carico del ministro della Giustizia, di cui si è saputo solo nel pomeriggio. È invece la reazione che tutto questo ha suscitato nel mondo politico, a destra, al centro e a sinistra.

L’applauso bipartisan che ha salutato il furioso e anche commosso discorso di Mastella contro la magistratura, gli interventi che si sono succeduti in aula, la preghiera che tutti - a cominciare da Prodi e a finire con Rifondazione, che ha corretto il tiro solo dopo l’intervento di Bertinotti dal Venezuela - hanno rivolto al ministro affinché restasse al suo posto, dimostrano una cosa sola: guai a chi tocca la casta della politica.

La quale si difende senza neanche aspettare qualche ora per capire meglio che cosa stia succedendo, si ribella e spara a zero contro i giudici senza aver letto le carte (dalle quali si spera che arrivino ipotesi di reato più solide della concussione nei confronti di Bassolino).

Senza informarsi. A prescindere. Fa quadrato, si schiera a difesa del suo esponente sotto accusa (peraltro ieri mattina era sotto accusa solo sua moglie), arriva fino al punto di respingere dimissioni indispensabili, anzi doverose, da parte del responsabile della Giustizia.

Eppure chiunque con un minimo di buon senso sa che Mastella non poteva restare al suo posto mentre il suo partito, la sua famiglia e lui direttamente venivano colpiti dalla giustizia stessa, fosse stato ministro dei Beni culturali ancora ancora...

Ma questo semplice buon senso politico non ha minimamente sfiorato i nostri uomini di governo e di maggioranza: un coro di dichiarazioni, un pellegrinaggio di solidarietà, una sequela di telefonate sono arrivate a Mastella. Non stiamo parlando di solidarietà umana, ché quella non si nega a nessuno: bensì di quella politica (e di governo). E se l’opposizione non sorprende, visto che al centrodestra le toghe non sono mai piaciute (mentre dall’altra parte sì), e visto pure che un’occasione del genere per acchiapparsi Mastella e chiudere così l’era Prodi non si presenta tutti giorni, la domanda va rivolta al premier. Perché ha respinto le dimissioni di un suo ministro che evidentemente non può più svolgere serenamente le sue funzioni, se non diventando ostaggio dei magistrati che lo indagano (e viceversa)? E perché tutto il centrosinistra, escluso Di Pietro, ha seguito il suo premier su una strada che rischia di trasformarsi in un vicolo cieco?

La risposta non è solo quella più evidente, appunto la casta che difende se stessa. Qui entra in gioco un altro fattore, ossia la vita del governo. La paura, diciamo pure il terrore, che Mastella approfittasse della contingenza per chiudere la sua avventura con il centrosinistra, ha scatenato una reazione istintiva, primordiale: primum sopravvivere. E allora non importa la morale, l’etica, l’immagine peraltro già logora che si trasmette al Paese e alla propria opinione pubblica. Non importa nemmeno il rispetto della regola elementare che il centrosinistra sbandiera contro Berlusconi solo quando gli fa comodo: il conflitto di interessi. Che in questo caso, al di là di quelle che siano le sue colpe (se ci sono), Mastella incarna in un sol uomo. Importa solo restare dove si sta, ad ogni costo, nonostante tutto e tutti. Sempre meno credibili, sempre più deboli e sempre più esposti al rischio di crollare da un minuto all’altro.

Sarebbe facile dire che se un comportamento del genere l’avesse tenuto il governo Berlusconi, l’opposizione di allora avrebbe occupato il Parlamento, sarebbe scesa in piazza, si sarebbe appellata al Presidente della Repubblica, avrebbe gridato al colpo di Stato. Ma si sa che l’abito fa il monaco, in politica purtroppo non conta la coerenza bensì il ruolo che in quel dato momento si ricopre e il potere che si gestisce. Anche se questo modo di fare può provocare - e probabilmente provocherà - una reazione di disgusto in gran parte degli elettori del centrosinistra. Che oggi hanno tutto il diritto di chiedersi dove si trovi sul serio l’antipolitica: nel Paese o nel Palazzo?

 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Marzo 07, 2009, 10:50:42 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 17, 2008, 09:13:55 am »

16/5/2008
 
Un punto per Tremonti
 
 
 
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Bisognava aspettare Giulio Tremonti per riuscire ad ascoltare qualcosa di sinistra, o quantomeno di buonsenso progressista da un ministro dell’Economia.

Eppure il centrosinistra ha governato questo Paese per sette anni, e di ministri intelligenti, capaci e anche progressisti ne ha avuti addirittura quattro (Ciampi, Amato, Visco e Padoa-Schioppa). Ma non è mai successo che uno di loro dicesse quel che Tremonti ha avuto il coraggio di dire ancor prima di essere entrato nel pieno delle sue funzioni. Ossia il coraggio di dire che i sacrifici stavolta toccano alle banche, ai petrolieri e ai supermanager che guadagnano cifre da capogiro.

Demagogia, facile populismo, parole al vento alle quali non seguiranno i fatti? Può darsi, magari il neo responsabile dei conti pubblici non riuscirà a fare quel che ha detto, probabilmente le lobby si muoveranno (si stanno già muovendo) con tutte le loro armate per impedire questo «esproprio proletario» ai loro danni. Ma intanto Tremonti l’ha detto, e non è un caso che nel suo mirino siano finiti due settori (banche e petrolieri) tra i più discussi del capitalismo. Quelli che fanno soldi con i soldi (degli altri) o con il bisogno primario di tutti gli italiani di muoversi, produrre e far muovere le merci. E insieme con loro, quei grandi gestori delle imprese che, pur non essendo affatto parassitari, guadagnano cifre poco sostenibili per l’opinione pubblica.

Ci voleva molto per i ministri dell’altro campo dire una cosa analoga, dodici anni fa (entrata nell’euro pagata a caro prezzo da tutti gli italiani), dieci anni fa quando si trattava di consolidare il rientro dal deficit, otto anni fa quando bisognava prepararsi alle elezioni del 2001 (perdute). O due anni fa quando le tasse sono invece state aumentate per tutti (tranne che per le banche e i petrolieri)? Purtroppo sì, ci voleva molto. Ci voleva uno sforzo titanico per vincere la paura della propria ombra.

Pensate a quale putiferio si sarebbe scatenato, alle reazioni violente di tutta l’opposizione (magari anche dello stesso Tremonti), quelle di molti opinion makers che su giornali e televisioni si sarebbero indignati contro il «dirigismo comunista che vuole tarpare le ali al capitalismo dinamico», che non ha il coraggio di tagliare la spesa pubblica, di licenziare i fannulloni, che vuole colpire i ricchi per ragioni ideologiche, e così facendo provoca recessione e deprime i consumi...

Ma oggi nessuno osa prendersela con Tremonti per queste stesse ragioni, certo non lo si può accusare di essere un bolscevico, al massimo un colbertista no global. E allora applausi e apprezzamenti, finalmente qualcuno che ha il coraggio di colpire chi non è mai stato colpito. Ce l’avessero avuto i suoi predecessori di centrosinistra questo stesso coraggio forse oggi, chissà, Berlusconi non avrebbe vinto le elezioni. Perché magari alcuni milioni di elettori che avevano votato per quella parte politica si sarebbero sentiti rappresentati dai loro eletti e forse, chissà, anche una parte di quelli del centrodestra, ché pure loro fanno mutui, pure loro pagano benzina e gasolio sempre più cari, pure molti di loro non amano chi si arricchisce senza sforzo.

Invece niente, poche parole, pochissimi fatti (la lotta all’evasione fiscale ne è forse l’unico esempio), nessuna suggestione ideale, programmatica, alla fine politica. Potevano quantomeno provarci e pure se non ci fossero riusciti sarebbe stato quantomeno apprezzato il tentativo. Macché, troppo attenti a non farsi sparare addosso, spasmodicamente sensibili a qualsiasi refolo provenisse da quei settori del capitalismo che li guardavano con sospetto, tragicamente tremebondi di fronte a ogni articolo di fondo uscisse sui giornali, troppo legati psicologicamente al loro passato per non avere paura che qualcuno glielo ributtasse addosso. Basti ripensare a cosa è accaduto dopo quell’infelice e goliardico manifesto di Rifondazione - «Anche i ricchi piangano» - dentro l’Unione: prese di distanza, critiche impietose, condanne morali: noi non vogliamo far piangere nessuno, per carità, ma far ridere tutti. Invece piansero tutti (tranne le banche e i petrolieri) e tra una lacrima e l’altra votarono per Berlusconi (e per Tremonti).
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 24, 2008, 06:21:50 pm »

24/8/2008
 
Il silenzio dei politici
 

 
RICCARDO BARENGHI
 
Quando la politica si assenta, per distrazione o per opportunismo, per interesse o perché è troppo concentrata su se stessa, qualcun altro fa il suo mestiere. Nella storia è successo molte volte. Spesso sono stati i militari a prendere il suo posto.

L’hanno fatto occupando il potere e dando vita a dittature più o meno sanguinose. Altre volte, per esempio quindici anni fa in Italia, sono stati i magistrati a colmare quel vuoto che la politica aveva creato. Altre volte è successo che invece fossero le persone, organizzate in movimenti sociali, a fare il mestiere che avrebbero dovuto fare i loro rappresentanti eletti in parlamento o al governo.

Ma non era mai successo quel che è accaduto ieri. E cioè che i politici, gli uomini di governo venissero sostituiti da tre atleti. Una schermitrice e due canoisti che hanno avuto il coraggio di dire quel che avrebbe dovuto dire il nostro governo. Parole e gesti semplici di solidarietà al Dalai Lama e al popolo tibetano. Semplici ma importanti, pesanti, politicamente rilevanti proprio perché pronunciate in Cina, il Paese che quel popolo perseguita da anni. E infatti i cinesi non hanno per niente gradito l’«ingerenza».

Non ci voleva un grande sforzo da parte di Berlusconi per dire quel che ieri hanno detto i nostri tre atleti, in fondo la questione dei diritti umani, anzi della libertà tout court, dovrebbe essere il patrimonio culturale del nostro premier, tanto che così ha chiamato il suo partito. E allora perché è rimasto in silenzio, perché non ha fatto come i suoi colleghi (anche di fede politica) Bush e Sarkozy che hanno accusato la Cina di violare i diritti umani direttamente da Pechino? La risposta è stata tanto banale quanto disarmante: la politica non deve sovrapporsi allo sport. Peccato che invece lo sport si sia sovrapposto alla politica, lasciando il re nudo di fronte al suo specchio.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 02, 2008, 03:36:53 pm »

2/9/2008
 
Legge e ordine anche per l'ultrà
 
 
 
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Si chiama calcio, o meglio tifo violento, il primo incidente politico e di immagine del governo Berlusconi. Ci aveva abituato male, il nuovo premier, l’emergenza rifiuti risolta in poche settimane, la legge finanziaria approvata in un batter d’occhio, l’Alitalia risolta (risolta?) in tre mesi, il lodo Alfano approvato nonostante le proteste dell’opposizione (proteste peraltro più che timide) e inserito nel decreto sicurezza che manda i soldati per le strade, aggrava lo status dei clandestini e concede più poteri a prefetti e sindaci per «ripulire» le città. Tutti provvedimenti discutibili e che infatti sono stati e sono discussi, ma che senza dubbio hanno dato ai primi cento giorni del nuovo esecutivo quello sprint inusuale nella storia della nostra politica.

Peccato che l’altro ieri questo stesso governo sia scivolato proprio sul tema a lui più caro, quello che è stato il suo atout in campagna elettorale, che gli ha consentito di sconfiggere un centrosinistra accusato di condiscendenza se non di lassismo nei confronti dei criminali o presunti tali. La sicurezza dei cittadini, da difendere contro chiunque la metta in pericolo, siano essi criminali incalliti o immigrati clandestini la cui colpa principale è spesso e volentieri solo quella di essere appunto clandestini.

O nomadi che chiedono l’elemosina e magari rubacchiano pure, bambini rom a cui vanno prese le impronte digitali, spacciatori di droga ma anche ragazzi che fumano spinelli, stupratori ma anche chi commette atti osceni in luogo pubblico. E così ci siamo trovati sindaci più realisti del re che per compiacere il ministro Maroni hanno previsto multe salatissime anche per chi si scambia un bacio in pubblico, cammina per strada in bikini o dà del cibo ai piccioni...

Insomma legge e ordine, pugno di ferro, tolleranza zero. E’ una linea politica molto chiara, si può condividere o no ma comunque è una scelta che può anche dare i suoi risultati. Certamente popolare, nonostante i prezzi molto elevati che implica dal punto di vista del diritto, delle garanzie per gli accusati e della vita sociale. Nella nostra epoca, la paura - o il fantasma della paura agitato ad hoc - paga, produce consenso, rafforza chi garantisce o quantomeno promette sicurezza. Ma allora va applicata a tutti, tifosi compresi. Invece abbiamo assistito a uno spettacolo che nessuno avrebbe voluto vedere e che il governo - qualsiasi governo ma soprattutto questo - avrebbe dovuto impedire che andasse in scena. Millecinquecento ultras scatenati che occupano un treno, costringono i passeggeri a scendere, saccheggiano, devastano, minacciano. E alla fine vengono pure scortati allo stadio per assistere al secondo tempo della partita.

Il giorno dopo, cioè ieri, è stato ovviamente il giorno della condanna e dello sdegno, delle promesse che «mai più accadrà», del «basta con le trasferte delle tifoserie violente» e così via. Già viste, già sentite, ripetute come un disco rotto da qualsiasi governo si sia succeduto negli ultimi vent’anni. Poi però non cambia nulla, le violenze da stadio o da treno o da autogrill si susseguono campionato dopo campionato, domenica dopo domenica. Chissà perché? Forse perché i tifosi, anche quelli violenti, soprattutto quelli violenti, sono organizzati, sono protetti dalle società di calcio, sono quelli che seguono e sostengono la squadra ovunque giochi, quelli che se si mettono di traverso possono costringere un presidente a licenziare un allenatore, a vendere un giocatore, a cambiare i suoi piani aziendali, possono obbligare un arbitro a sospendere una partita (il derby Roma-Lazio del 2004). Sono insomma un pezzo di quel potere forte denominato calcio.

Scusate la demagogia, ma è troppo facile fare i forti con i deboli, appunto i clandestini, i nomadi, i ragazzini che fumano hashish. E i deboli con i forti: che in Italia non sono solo gli ultras e quel grande business parasportivo che li protegge, ma anche i grandi evasori fiscali, i finanzieri che detengono enormi patrimoni sui quali pagano tasse bassissime, i costruttori e gli industriali che non rispettano le norme di sicurezza (sicurezza appunto) provocando la morte di tre o quattro operai al giorno. E che all’estero si chiamano Usa, Cina e Russia: qualcuno ha mai sentito Berlusconi protestare con Washington per la pena di morte, con Pechino per i diritti umani calpestati, con Mosca per il suo smisurato espansionismo militare?
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 04, 2008, 12:04:31 pm »

4/9/2008
 
I politici e l'ebbrezza del volo
 
 
 
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Esiste la destra, esiste la sinistra? Esistono gli imprenditori di sinistra, i governatori di sinistra, i sindaci di destra? Esisterebbero, sono esistiti o forse hanno fatto finta di esistere. Ma da quando Berlusconi è riuscito a mettere in pista la sua nuova Alitalia, non esistono più. Il nuovo presidente della compagnia l’ha spiegato con chiarezza nei giorni scorsi: gli affari non sono né di destra né di sinistra, e io faccio affari, faccio l’imprenditore, dunque o cambio mestiere oppure entro in gioco.

Dopo di che, Colaninno continuerà pure a votare per il Pd, forse, chissà, ma questo non significa nulla. Così come non significa nulla che il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, sia un uomo del Partito democratico: lui comunque annuncia che vuole entrare nell’affare, metterci dei soldi, acquistare delle azioni (nonostante la sua Regione abbia un deficit enorme e debba chiudere tre ospedali). E se Veltroni giudica molto negativamente tutta questa storia, definendola una compagnia di bandierina, poco importa: Marrazzo vuole metterci anche la sua, di bandierina.

Dalla parte opposta, invece, il sindaco di Milano, Letizia Moratti, considera la sua bandierina troppo piccola. E in un’intervista al nostro giornale spiega perché. Non le interessa se l’operazione sia stata decisa dal suo governo, dal suo partito, dal suo premier: le interessa salvaguardare i suoi aeroporti, Malpensa in particolare, che subirebbero una penalizzazione a beneficio del concorrente Fiumicino (vedi Marrazzo). E se Berlusconi considera invece un grande colpo politico, economico e di immagine tutta l’operazione, la resurrezione dell’Alitalia come metafora della resurrezione del Paese, poco importa: gli interessi di Milano vengono prima di tutto il resto.

Qui non siamo nella sfera dei collaborazionisti politici, quelli che per ragioni appunto politiche, quando ci sono, oppure, più spesso, per motivi che riguardano il loro ruolo, la loro visibilità, il bisogno impellente di non uscire di scena (Giuliano Amato è l’ultimo caso) passano da una parte all’altra senza soluzione di continuità. Il discorso Alitalia è diverso, e più interessante. Perché illumina quella che si chiama crisi della politica, incapace non solo di rispondere alle domande di chi le chiede risposte – i normali cittadini - ma anche di tenere assieme la sua opinione pubblica. La sua classe dirigente.

Se Colaninno pensasse a se stesso non solo come a un imprenditore ma anche come un pezzo di classe dirigente del centrosinistra, non avrebbe accettato l’offerta di Berlusconi: a costo di perdere un’occasione d’affari. E lo stesso discorso vale per Marrazzo e per Moratti. Ma la colpa in fondo non è loro, e non è neanche dei soldi che fanno girare il mondo. Non importa più a nessuno ormai che quell’affare, quella operazione economica, quel business abbia l’impronta di Berlusconi o di Veltroni, importa che sia efficace, che generi profitti, produca potere e, nel migliore dei casi, posti di lavoro, cioè un consenso per essere rieletti, cioè ancora potere, ancora affari, ancora profitti...

Non stiamo parlando di etica del capitalismo, Dio ce ne guardi, ma di quello che una volta era la politica e che adesso non è più. E se c’è dorme. Perché se basta l’Alitalia a scompaginare gli schieramenti, significa che questi schieramenti non hanno più nulla che li tenga insieme. Idee comuni, valori, una volta si sarebbe detto ideologie, chiamiamole visioni del mondo. Niente, tutto finito, scomparso. Anzi meglio: volato via.
 
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:04:49 pm »

12/12/2008 (21:0) - UN'INIZIATIVA PER RILANCIARE L'OPPOSIZIONE

La sinistra dissidente adesso s’inventa le primarie delle idee
 
«Così gli elettori possono esprimere i loro desideri»


RICCARDO BARENGHI
ROMA


Compagni si vota. Ma non su un leader, un candidato, un sindaco, un partito, un governo. Si vota su cosa debba essere la sinistra. «Per me la sinistra è...». Questa la domanda che apre l’inedita stagione delle primarie delle idee, che verrà lanciata domani dall’Associazione per la sinistra al teatro Ambra Jovinelli di Roma. I militanti, gli iscritti, gli elettori, chiunque potrà decidere se per lui la sinistra è «speranza di trasformazione» oppure «lacità» oppure deve «mettere al centro lavoratrici e lavoratori» oppure «prendersi cura dell’abitare» oppure «praticare il principio di uguaglianza» oppure «essere amica delle famiglie come luogo di relazione e affetti» (e qui voterebbe sì anche Casini). Fino alla lettera Z del questionario che viene lasciata in bianco per un pensierino libero: «Scrivi tu qui l’idea che non hai trovato nella scheda».

Naturalmente una risposta non esclude l’altra, si tratta di metterle in ordine di importanza. E magari anche di aggiungerne qualcuna leggermente meno banale, che qui sembra di tornare al Catalano dei tempi di Renzo Arbore: «E’ meglio un giornata di sole che una di pioggia...». L’idea comunque è originale, nessuno infatti l’aveva mai avuta. Invece stavolta la minoranza di Rifondazione che fa capo a Nichi Vendola (e a Bertinotti, Giordano, Migliore), insieme alla Sinistra democratica di Fava e Mussi, a una parte dei Verdi (spaccati anche loro), ha deciso di buttarsi in questa nuova avventura. Si voterà fino a febbraio, nelle speranze dei promotori dovrebbe uscirne fuori l’identikit di una nuova sinistra, un nuovo partito insomma, senza l’aggettivo comunista, la falce e il martello (ma una domanda su questo non c’è...). E che loro stessi vorrebbero far nascere.

Ma non subito, non domani, anche se l’appuntamento è di quelli che segnano un punto di non ritorno soprattutto per coloro che sono ancora dentro il Prc. I quali ormai da mesi stanno giocando una partita su due tavoli: restano nel Partito di Paolo Ferrero e contemporaneamente si muovono come se ne fossero fuori, con l’esplicita intenzione di fondarne un altro insieme appunto agli altri pezzi sparsi della sinistra radicale uscita frantumata dalle elezioni. E questa idea delle primarie tematiche non è altro che un’accelerazione verso quella scissione che prima o poi dovrebbe avverarsi. Difficile però che avvenga prima delle elezioni europee, visto che lo stesso Bertinotti ha avvertito i suoi: «E se poi noi prendiamo la metà dei voti di Rifondazione, che facciamo, moriamo prima di nascere? Meglio - ha aggiunto ieri – un cartello elettorale di tutte le sinistre».

Il nuovo soggetto, come lo chiamano, può attendere. Dunque le due anime del Prc saranno ancora condannate a convivere, seppur odiandosi a viso aperto. Tanto che i dirigenti della minoranza non hanno neanche più una stanza dove lavorare, l’ex leader Franco Giordano è costretto a bivaccare nei corridoi. A meno che non succeda che al Comitato politico di domani e domenica non venga approvato un ordine del giorno in cui si intima al quotidiano «Liberazione» di adeguare la sua linea a quella del Partito. La cosa è molto probabile, lo stesso Ferrero l’ha annunciata. E ha anche dichiarato che non è più tollerabile che il suo giornale si occupi di Luxuria all’Isola dei famosi e non dei suoi incontri con il leader della sinistra tedesca Oskar Lafontaine.

Ma un tale ordine del giorno preluderebbe al siluramento del direttore Piero Sansonetti, il quale non ci pensa neanche lontanamente a ubbidire al segretario: «La linea del giornale la fa il direttore, dunque se la volete cambiare, cambiate il direttore». E a quel punto la minoranza di Vendola farebbe una battaglia all’ultimo sangue per difenderlo, anche minacciando di andarsene seduta stante. Ma Ferrero non si preoccupa più di tanto e sta già cercando il sostituto di Sansonetti, la sua idea è di trasformare «Liberazione» in una sorta di «Libero» di sinistra: «Un giornale popolare che si occupi dei problemi sociali della gente, il carovita, la crisi, i salari, la sanità...». Il nuovo direttore dovrebbe essere un esterno al partito, un giornalista di sinistra ma un outsider. Qualche contatto l’ha già avuto in giro, anche con persone del «manifesto», ma finora il nome non c’è (e se c’è non lo rivelano). Nel frattempo, mentre quel che resta di Rifondazione si agita e si dilania, l’ultimo sondaggio gli attribuisce il 2,2 per cento.
 
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 21, 2008, 11:55:29 am »

21/12/2008
 
Elogio di Fini
 
RICCARDO BARENGHI
 

C’è un leader di sinistra nel centrodestra e si chiama Gianfranco Fini. Può apparire un paradosso ma non lo è se diamo al concetto di sinistra un senso più ampio di quello storicamente determinato. Non è di sinistra, Fini, se pensiamo a Carlo Marx e a tutte le evoluzioni e le applicazioni che il suo pensiero ha avuto nel corso del secolo scorso. Non lo è se pensiamo al modello di produzione, al superamento del capitalismo (che lui non ha alcuna intenzione di superare). Non lo è se ragioniamo sulla rivoluzione proletaria e lo scontro di classe. E non lo è, né potrebbe esserlo, per altre mille ragioni.

Ma lo è invece quando discutiamo di alcune delle questioni che sono oggi all’ordine del giorno del nostro dibattito: politico, storico e culturale. Valori e idee che servono (o servirebbero) a modernizzare il nostro Paese. Quando il Presidente della Camera sottolinea le responsabilità del Vaticano nel non essersi opposto adeguatamente alle leggi razziali, varate dal regime che fu idealmente suo, fa un doppio strappo: con la sua storia e con l’ideologia del suo schieramento per cui guai a chi tocca la Chiesa cattolica (la quale non a caso si è inviperita). Quando propone e ripropone il voto agli immigrati, l’ultima volta ieri per gli studenti stranieri, fa un altro doppio strappo: con la sua cultura d’origine e con quella dominante (soprattutto a destra ma non solo) che giudica queste persone come un utile usa-e-getta. E quando interviene sul caso di Eluana Englaro, auspicando una legge sul testamento biologico, compie un terzo doppio strappo: con i dirigenti e gli elettori del suo ex Partito (non tutti, si spera) e con quelli della maggioranza e del governo (anche qui non tutti), insomma con il senso o luogo comune che governa il centrodestra. E, ovviamente, scontentando di nuovo il Vaticano.

Altri esempi si potrebbero aggiungere, come il suo intervento sulla riforma della giustizia che deve essere bipartisan, quello sul caso Villari che deve essere risolto con le buone o con le cattive, quello sulla questione morale che attanaglia il Pd: «Sbaglia chi pensa di salvarsi mentre altri naufragano». Sono gesti importanti anche questi ma in fondo riconducibili al suo ruolo istituzionale. Gli altri invece danno l’idea di un personaggio che nel corso degli anni ha seriamente riflettuto sul suo passato, prendendone vieppiù le distanze. Con qualche uscita politico-mediatica che ha fatto notizia, il fascismo male assoluto, le visite al Museo della Shoah di Gerusalemme e ad Auschwitz, ma soprattutto dando l’impressione di un uomo che si preoccupa dei problemi futuri cercando di affrontarli liberandosi dal peso della sua storia, della cultura, dell’ideologia, dei valori, insomma di tutto quello che rappresenta la formazione di un uomo politico. Con laicità insomma, nel metodo e nel merito.

Certo, uno può chiedersi quanta buona fede ci sia in questa sua evoluzione, se lo faccia perché ci crede sul serio o solo per ritagliarsi un ruolo politico, oggi nel dialogo con l’opposizione e domani quando si porrà il problema di sostituire Berlusconi. Si può anche ricordare che spesso e volentieri, quando poi il premier lo ha richiamato all’ordine, Fini si è adeguato. Ma in politica le cose marciano e cambiano anche attraverso stop and go. Un passo indietro per farne due avanti: non lo disse proprio Lenin?

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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 31, 2008, 12:15:24 pm »

31/12/2008
 
Hamas, dilemma italiano
 
RICCARDO BARENGHI
 

Se fossi un ebreo che vive a Gerusalemme non so se tratterei con Hamas, e se fossi un palestinese che vive a Gaza non so se tratterei con Israele. Forse, se fossi l’uno farei la guerra all’altro, e viceversa. Anche sapendo che quella guerra non porterebbe a nulla, anzi peggio: porterebbe, come ha portato finora e continuerà a portare nel futuro, ad altre guerre, morti, feriti, distruzioni, odio su odio. E però, neanche i periodi di pace, o meglio di tregua che si sono succeduti in questi decenni hanno mai portato a una soluzione definitiva, decente, concordata, accettabile per tutti. C’è sempre stato qualcuno, da una parte o dall’altra, che ha ricominciato a sparare, ad ammazzare ammazzandosi, a bombardare postazioni militari e case di civili. E così via, in un circolo infernale dal quale non s’è mai usciti nonostante i tentativi di alcuni leader (Rabin e Arafat) di farla finita con la guerra infinita. E allora, che fare?

Facile parlare da lontano, schierarsi, criticare quello o quell’altro, invocare il cessate il fuoco. Facile, e sacrosanto, sostenere che Israele ha diritto a vivere in pace senza subire una minaccia perenne che gli pende sulla testa dall’interno dei Territori palestinesi e dai Paesi arabi che lo circondano. Facile, e sacrosanto, battersi perché i palestinesi abbiano la loro terra dove possano circolare liberamente, lavorare, insomma vivere senza oppressioni militari. Facile ma inutile finché non saranno i protagonisti dello scontro a decidere se vogliono continuare all’infinito a scannarsi oppure tentare un’altra strada.

E qui nasce la questione che in queste ore fa discutere il mondo: trattare o non trattare con Hamas. In altre parole: Israele deve accettare che Hamas sia anche un interlocutore politico oppure è solo un nemico da abbattere con la forza, costi quel che costi? Il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, propende per la seconda ipotesi, seppur invocando la cessazione dei raid. Secondo lui, Hamas è un’organizzazione terroristica, quindi nessuna trattativa. Diversa l’opinione del suo predecessore, Massimo D’Alema, il quale ricorda che Hamas ha vinto le elezioni, che gode di consenso tra i palestinesi, che è un’organizzazione non solo militare ma anche sociale. Di conseguenza, «non ci si può illudere di arrivare a una pace senza negoziare con Hamas». (Analogo discorso fece in Libano, e la sua foto a braccetto col ministro Hezbollah in mezzo alle macerie provocò parecchie polemiche).

Si tratta di un problema che il mondo politico ha dovuto affrontare decine, centinaia di volte dall’antichità ai giorni nostri. Dando naturalmente risposte diverse caso per caso, perché è ovvio che se uno dei due contendenti ha la certezza di sconfiggere militarmente il nemico, procede su quella strada. E alla fine, dopo averlo battuto, lo costringe ad arrendersi. Giulio Cesare lo fece con i Galli, gli alleati lo fecero con Hitler e Mussolini, gli algerini con i francesi, i vietnamiti con gli americani. Può essere una soluzione, lo è stata nel passato.

Ma non può esserlo oggi. Per la semplice ragione che nessuno può cacciare via il nemico, perché il nemico non è questo o quel governo, questo o quel dittatore, non è un esercito invasore che si può costringere al ritiro. Ma è un popolo, anzi due, che vivono uno accanto all’altro, sullo stesso territorio, nel medesimo Paese. E nessun cittadino ebreo accetterà mai di vivere una vita nel terrore, come nessun palestinese accetterà mai di vivere sotto un’umiliazione perenne. E più sono umiliati, bombardati, uccisi, più i palestinesi diventano integralisti, terroristi, cattivi. Hamas non è uno scherzo del destino, una coincidenza, un fungo spuntato per caso. È il prodotto di una storia provocata da entrambi i nemici. Nessuno è così stupido da sostenere che la colpa sia solo di Israele, degli americani o di tutto l’Occidente. La colpa è anche di quei palestinesi che si sono arresi all’odio, quindi all’integralismo e infine al terrorismo. E che si sono via via moltiplicati, per dieci, cento, mille. Ma oramai è evidente che per ogni miliziano, dirigente, capo militare o semplice simpatizzante di Hamas ucciso (per non parlare dei civili) ce n’è un altro o due o tre pronti a prendere il suo posto. Questo è il circolo mostruoso che si può spezzare forse - forse - solo trattando col nemico: vent’anni fa si chiamava Arafat, oggi si chiama Hamas.
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 18, 2009, 10:56:59 am »

18/2/2009 (7:15) - ANALISI

Il partito riformista mai stato riformista

Gli errori del capo, ma anche troppe idee inconciliabili

RICCARDO BARENGHI
ROMA


Il fallimento di Walter Veltroni come leader del Partito democratico non può essere spiegato solo con i suoi limiti personali e politici, che pure non sono mancati. Sarebbe miope se i dirigenti del Pd pensassero che morto un Papa se ne fa un altro e così la nave va a gonfie vele. Non è così perché il fallimento non si chiama Veltroni ma appunto Partito democratico. Quel Partito di cui il leader dimissionario è stato l’interprete più fedele, e che non poteva essere molto diverso da quello che è stato e che, infatti, Veltroni ha perfettamente incarnato. Un Partito sarebbe una associazione di persone che hanno più o meno le stesse idee sul mondo, e questo il Pd non lo è mai diventato. Perché quelli che lo dirigono, quelli che lo sostengono e quelli che lo votano hanno opinioni molto diverse, spesso anche opposte, su ogni singola questione. Dall’economia al lavoro, dalla giustizia alla bioetica, dalle alleanze fino al tipo di opposizione da fare. Negli scorsi anni, e ancora oggi, ci hanno spiegato che il Pd è nato per unire i riformisti, quindi che si tratta del più grande Partito riformista presente in Europa, un esperimento unico nel suo genere che mette insieme le due grandi culture uscite dal Novecento. Peccato però che queste due grandi culture (insieme alle mille culturine che si sono manifestate via via) abbiano dimostrato la loro incapacità di stare insieme. Un tempo i riformisti si contrapponevano ai rivoluzionari, loro sostenevano un cambiamento graduale e progressivo della società, gli altri la presa del Palazzo d’Inverno, un atto violento che rovesciasse il regime. Ma i rivoluzionari si sono estinti da tempo, mentre i riformisti continuano a chiamarsi così rivendicando un concetto che però suona vuoto, tanto vuoto che ognuno è libero di interpretarlo a modo suo.

E’ più riformista stare con la Cgil che sciopera o con la Cisl che firma il contratto di Berlusconi? E’ più riformista una legge sul testamento biologico come la vuole Ignazio Marino o come la vogliono Rutelli e la Binetti? Chi è il vero riformista, quello che sta con Di Pietro, quello che sta con Casini o quello che riscopre Bertinotti? E in Europa, con quali riformisti finiranno i riformisti del Pd, con i socialisti, con qualcun altro o da soli? La storia del Pd, per quanto breve, è stracolma di esempi che dimostrano come la scelta (che della politica è l’essenza) sia diventata una non scelta. Il famoso «ma anche» di Veltroni non è un suo vezzo ma esattamente una linea: stiamo con gli operai ma anche con i padroni, vogliamo il dialogo con Berlusconi ma anche salvare l’Italia da Berlusconi, siamo alleati di Di Pietro ma anche contro di lui, stiamo con i magistrati ma anche contro di loro, vogliamo costruire il partito del nord ma anche quello del sud... La colpa di tutto questo non è solo dell’ex segretario. Certo, lui ci ha messo la sua natura, il suo essere buonista, diciamo anche troppo ecumenico, amplificando a dismisura questa tendenza a tenere insieme tutto e il contrario di tutto. Ma oggi che lui lascia, sarebbe forse il caso di riflettere su quello che resta.

E, soprattutto, se conviene farlo restare. In poche e brutali parole: non sarebbe meglio che le due grandi culture presenti nel Pd, quella laica e socialista da un lato e quella cattolico-democratica dall’altro, si separassero per poi allearsi quando serve, le elezioni politiche e l’eventuale governo del Paese? Dicono di no, dicono che non si può tornare a Ds e Margherita, che sarebbe un fallimento epocale, D’Alema e Veltroni hanno definito quest’ipotesi una «fesseria». Una fesseria di cui però si parla ormai da molti mesi e che quindi tanto fessa non deve essere.

E infatti non lo è. Soprattutto guardando il bilancio di questo Partito che doveva essere la grande novità politica del nostro Paese e che invece si è rivelato molto al di sotto della sua scommessa. E non perché l’idea non fosse suggestiva ma proprio perché la pratica non ha funzionato, le idee non si sono accordate, le ambizioni personali hanno prevalso, le incapacità di direzione sono risultate evidenti e l’impossibilità di scegliere è stata la bussola che ha «guidato» il Pd. Forse, chissà, due barche più piccole invece di una grande ma sgangherata, due equipaggi coesi invece di una ciurma ingovernabile, due timonieri che sanno navigare e che magari riescono anche a raccogliere qualche naufrago alla deriva, potrebbero anche riportare il centrosinistra italiano in porto. Ovviamente dopo una lunga e burrascosa traversata.

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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 18, 2009, 10:57:47 am »

17/2/2009 (17:51) - DEMOCRATICI NEL CAOS

Veltroni e il Pd: 16 mesi di leadership

Il segretario lascia dopo 5 sconfitte

ROMA

Alla fine Walter Veltroni ha lasciato la guida del Pd, dopo sedici mesi al timone della formazione politica erede dell’esperienza ulivista, che poco meno di due anni fa era stata battezzata come la novità più rilevante nel panorama politico italiano.

Un addio ai vertici del Pd che ha avuto come causa scatenante la secca sconfitta patita dal candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione Sardegna Renato Soru che pure con le sue dimissioni nel novembre dello scorso anno aveva creato non pochi problemi allo stesso centrosinistra, poi ricompattatosi per necessità sul nome dell’ex Governatore sardo.

Walter Veltroni, 54 anni, era stato eletto segretario del Partito democratico il 14 ottobre 2007, raccogliendo il 76 per cento dei consensi nelle primarie del partito. Dopo la caduta del secondo governo Prodi è diventato il candidato premier della coalizione Pd-Italia dei valori alle politiche dell’aprile 2008, dove è stato sconfitto da Silvio Berlusconi. In precedenza era stato eletto per due volte sindaco di Roma, la prima volta nel 2001 e poi nel 2006. Nel febbraio del 2008 si era dimesso dal Campidoglio per candidarsi alle elezioni politiche. Veltroni era stato anche segretario dei Democratici di sinistra dall’ottobre 1998 all’aprile 2001, vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni culturali del primo governo Prodi.

Dopo la sconfitta elettorale alle ultime politiche Veltroni aveva varato il governo ombra del Pd, sul modello anglosassone dello "shadow cabinet". Giornalista, nel 1992 venne nominato direttore de L’Unità, incarico che tiene fino al 1996. Figlio del giornalista e dirigente Rai Vittorio, Walter Veltroni comincia la sua carriera politica nella Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI). Nel 1976 è eletto consigliere comunale di Roma nelle liste del PCI, incarico che mantiene per cinque anni. Nel 1987 viene eletto deputato ed entra in Parlamento. Dal 1988 fa parte del comitato centrale del PCI. Il cinema ha sempre avuto un ruolo importante per Walter Veltroni, che ha voluto la Festa Internazionale del Cinema di Roma, la cui prima edizione si è svolta nell’ottobre del 2006.

La leadership di Veltroni non ha portato fortuna nè al Pd nè al centrosinistra. L’annus horribilis ha fatto registrare per il Pd di Veltroni 5 sconfitte su 5 tornate elettorali. Ad aprile 2008 la sconfitta alle politiche: Pdl e Lega ottengono la maggioranza assoluta dei seggi sia alla Camera sia al Senato. Sempre nell’aprile 2008 le elezioni regionali e amministrative danno la vittoria al centrodestra che strappa al centrosinistra la regione Friuli Venezia Giulia, la provincia di Foggia ed i comuni di Roma e Brescia (il centrosinistra strappa al centrodestra solo i comuni di Vicenza e Sondrio). Nel giugno 2008 il centrodestra fa cappotto (8 a 0) alle provinciali siciliane (le province di Enna, Siracusa e Caltanissetta passano dal centrosinistra al centrodestra). Nel dicembre 2008 la regione Abruzzo cambia colore politico: dalla Presidenza del Turco si passa ad una Presidenza Pdl. Infine ieri il risultato della Sardegna: Soru perde la Presidenza della regione a favore di Cappellacci.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:46:04 am »

28/2/2009
 
La strategia del Dalemone

 
RICCARDO BARENGHI
 

Il progetto ce l’hanno ben chiaro in testa. I protagonisti sono gli ex diessini del Partito democratico, in particolare D’Alema e quelli a lui più vicini. E il Piano che hanno studiato a tavolino, una volta si sarebbe chiamato un «dalemone», si svilupperà nei prossimi sette-otto mesi. Che poi vada in porto, è tutt’altro discorso: i dalemoni, come si è visto nel passato, erano tanto perfetti in teoria quanto fallimentari in pratica.

In ogni caso il Piano prevede che al momento si stia tutti intorno a Franceschini, lasciandogli anche una certa autonomia di iniziativa, non mettendogli i bastoni tra le ruote, non comportandosi come si è fatto con Veltroni che qualsiasi cosa dicesse o facesse non andava bene. Non a caso ieri D’Alema ha dichiarato che il Pd «sta facendo ottimamente il suo lavoro», una frase che con Veltroni non si era neanche sognato di dire. Ma ora il discorso è diverso, e anche quando Franceschini dice cose non condivisibili o si lascia trascinare dal «ma anche» come ha fatto recentemente sul testamento biologico e sulla legge antisciopero, nessun problema. Si fa finta di essere d’accordo ché adesso non è il momento di riaprire battaglie interne. Il segretario deve arrivare con una certa tranquillità alle prossime sfide elettorali, e tutti cercheranno di collaborare, di fare il possibile perché il risultato non sia troppo negativo, insomma siamo sulla stessa barca e cerchiamo di non farla affondare.

Ma tutti sanno che le elezioni andranno male, lo stesso Piero Fassino, durante l’Assemblea costituente di sabato scorso, ci spiegava che «a me le europee preoccupano meno delle amministrative, dove noi partiamo altissimi, su 5000 comuni ne governiamo 3800... è evidente che ne perderemo moltissimi e dunque la sconfitta sarà sotto gli occhi di tutti. Basterà confrontare le tabelle». È una delle ragioni per cui non era questo il momento adatto per prendersi la guida del Pd. L’altra, spiega sempre Fassino, «perché era giusto che adesso toccasse a un leader con un’altra cultura e un’altra storia politica. Poi in autunno, al congresso, il discorso può cambiare...».

Tradotto in poche e ciniche parole, significa che Franceschini ballerà una sola estate, caricandosi sulle spalle il probabile tracollo elettorale, per poi passare la mano. Ovviamente lui non è un ingenuo, conosce la politica e pure i suoi polli, dunque è perfettamente consapevole del gioco che si sta facendo. E ne è anche partecipe, preparando un suo futuro da ex segretario ma con un ruolo importante nel Partito.

Succederà allora, o almeno dovrebbe succedere secondo il dalemone, che dopo il risultato elettorale il Pd entrerà in una fortissima fibrillazione, magari qualcuno (Rutelli, la Binetti, altri) se ne andrà fondando con Casini una nuova forza di centro che guarda a sinistra (per ora), liberando così il campo del Pd da zavorre troppo moderate. Ci sarà la festa del partito, le interviste sui giornali, il lavorio nelle periferie - peraltro già cominciato - per preparare la riscossa degli ex comunisti. I quali, com’è noto, rappresentano almeno i due terzi del Partito democratico, dunque hanno tutti i numeri in regola per poterne rivendicare la leadership, la linea politica, la gestione. E così faranno, o almeno vorrebbero fare, vincendo il congresso, candidando uno di loro alle primarie, forse Bersani, forse Anna Finocchiaro, forse Cuperlo, e risolvendo in questo modo quell’«amalgama mal riuscito» che è stato finora il Pd secondo la definizione dello stesso D’Alema. Ne uscirebbe fuori un partito più spostato a sinistra, che rimette al centro i suoi 150 anni di storia (come ripete Bersani), che insomma diventerebbe nei fatti una forza socialdemocratica europea. Ma senza chiamarsi così, e senza neanche esserlo fino in fondo, ché altrimenti quegli ex dc che non andrebbero mai con Casini (Rosi Bindi, Marini, lo stesso Franceschini) non potrebbero neanche rimanere nel Pd.

Dunque un nuovo-vecchio partito che metterebbe nel conto la perdita di una sua parte, anche elettorale, quella appunto più moderata, scommettendo però sul recupero di quel popolo di sinistra che si aggira sbandato per il paese e cerca una casa abitabile. È insomma il classico passo indietro oggi per farne due avanti domani, come scrisse Lenin che infatti poi fece la rivoluzione. Resta da vedere se sia D’Alema il nostro Lenin.

da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 03, 2009, 05:15:21 pm »

3/3/2009
 
Sebben che sian romeni
 
RICCARDO BARENGHI
 
Una regola basilare di qualsiasi società fondata sullo Stato di diritto si chiama garantismo. E fin qui non ci piove. Solo che se facciamo un passo in più, oggi, in Italia, nel clima che ormai si è creato, rischiamo la più profonda impopolarità. Però lo facciamo lo stesso, per dire che anche i romeni hanno diritto a essere garantiti. Addirittura quei romeni accusati e arrestati per stupro. Quelli della Caffarella, quelli di Primavalle e chiunque altro sia stato o sarà incriminato di qualsiasi reato. Al di là del fatto che siano innocenti o colpevoli - e al momento ci sono molti dubbi che i due accusati dell’orrendo stupro su una ragazza di 14 anni abbiano commesso quel reato, anche se uno dei due è indicato come responsabile di un altro stupro - la regola deve valere per tutti. Italiani, romeni, albanesi, tunisini e via dicendo. Fino alla prova definitiva della loro colpevolezza, si tratta di persone (persone) innocenti. E possono avere qualsiasi faccia truce, qualsiasi espressione poco raccomandabile, possono frequentare i peggiori bassifondi della città, ma sempre innocenti sono fino a che non si dimostra il contrario.

Sebben che son romeni, insomma, sebbene cioè si tratti ormai della popolazione che nel cosiddetto immaginario collettivo suscita più paura, più repulsione e provochi l’istinto primordiale del nemico da sconfiggere o cacciare, sebbene tutto questo, sempre di persone stiamo parlando che potrebbero anche essere innocenti accusati ingiustamente. Ora, figuriamoci, sappiamo benissimo che nelle statistiche della criminalità importata nel nostro Paese, i romeni non sono certo tra gli ultimi. Anzi. Ma proprio per questo, ancora di più vale il discorso. Perché se ci facciamo trascinare dal nostro terrore per il romeno, e lasciamo che le indagini, gli arresti, i processi, insomma la giustizia faccia non il suo corso previsto dalla Costituzione ma vada avanti sull’onda dell’emotività pubblica, allora un domani saranno guai per tutti. Anche per noi italiani. Se poi in questo quadro già piuttosto preoccupante ci mettiamo pure le ronde in arrivo, lo scenario che si prospetta non è certo tranquillizzante.

Possiamo prevedere, senza grandi rischi di sbagliare, che saranno proprio i romeni (seguiti dagli albanesi, i tunisini, i neri, gli immigrati in genere) quelli più «segnalati» dalle squadre di cittadini perbene chiamati a vigilare sulla nostra sicurezza. Ma quanti di loro risulteranno poi innocenti, gente che magari beveva una birra per strada, discuteva, scherzava rumorosamente, o forse litigava pure? Quanti di loro saranno costretti a passare una notte in Questura cercando, faticosamente, di dimostrare la loro estraneità a qualsiasi azione criminale? E alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione? Domande retoriche, risposte scontate. E evidente che più l’emergenza stupri cresce nella percezione dell’opinione pubblica, più bisognerebbe avere la capacità di tenere a freno le emozioni. Soprattutto se si è chiamati a responsabilità di qualsiasi genere, dal governo fino all’ultimo poliziotto, fino all’ultimo rondista.

E fino a qualsiasi cittadino si trovi sulla scena di un delitto sentendosi magari sicuro di riconoscere quel romeno piuttosto che quell’altro. Non è facile riconoscere una persona intravista nella notte e che magari assomiglia a tanti suoi connazionali. Già si sente in giro la frase «quello ha la faccia da romeno» (chi si ricorda lo straordinario libro-inchiesta del tedesco Wallraff Günter, «Faccia da turco»?). Si dovrebbe allora pensarci due volte prima di accusare qualcun altro, si dovrebbero vagliare tutti gli indizi, una, dieci, cento volte, prima di arrestare qualcuno. E si dovrebbe anche stare attenti - noi che facciamo informazione - a come pubblicare queste notizie, con quale enfasi, quali certezze, quale rilievo, quali e quanti dubbi. Tanto più se si tratta di romeni: un aggettivo che purtroppo è diventato sinonimo di criminale.

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« Risposta #13 inserito:: Marzo 20, 2009, 03:06:03 pm »

20/3/2009
 
Tre giorni un processo
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Abituati ai processi italiani, interminabili, farraginosi, ai loro riti, alle udienze che si susseguono per anni, ai rinvii da un mese all’altro per qualsiasi ragione o pretesto o futile eccezione della difesa, o magari perché il giudice di turno non ha molta voglia di lavorare, si resta colpiti da quello che è successo in Austria. In tre giorni di dibattimento (preceduti però da un anno di istruttoria) si è arrivati alla sentenza di ergastolo per l’imputato, padre carnefice e infanticida.

Non solo, si resta colpiti anche dalla civiltà con cui i mass media hanno seguito il processo. Nessun giornale, nessuna televisione, nessun sito Internet, nessun mezzo di comunicazione si è insomma lasciato prendere dal gusto del particolare macabro, neanche un piccolo brano del video di accusa della vittima è uscito dalle aule giudiziarie per essere sbattuto su qualche schermo e magari sezionato e «commentato» dagli invitati d’occasione, psicologi, politici, giornalisti. E questo non solo grazie alla deontologia professionale dimostrata dai nostri colleghi austriaci, ma anche grazie al fatto che nessun giudice o avvocato o cancelliere abbia «passato» alla stampa le informazioni che dovevano restare riservate e che tali sono rimaste. E questo è indubbiamente un esempio di civiltà dell’informazione.

Ma è un giusto processo quello che si conclude in tre giorni? Anche se l’imputato ha confessato, malgrado la schiacciante testimonianza della figlia, nonostante insomma l’evidenza dei fatti oltre ogni ragionevole dubbio, è questo l’esempio che si dovrebbe seguire? In altre parole, hanno fatto bene gli avvocati difensori a rinunciare al loro mestiere, visto che il loro assistito era inchiodato da prove schiaccianti e dalla sua stessa confessione? Oppure avrebbero comunque dovuto difenderlo sollevando eccezioni, chiedendo perizie su perizie, insomma allungando i tempi e fornendo quanto più materiale possibile nella speranza di ottenere almeno uno sconto di pena?

È una domanda che chiama in causa il rispetto delle garanzie e dei diritti degli imputati, anche rei confessi. Anzi, di più: chiama in causa la stessa concezione del processo e del ruolo della difesa.

È evidente che un processo troppo lungo, come la stragrande maggioranza di quelli che si svolgono in Italia, rischia spesso di essere un processo ingiusto perché alla fine la stessa condanna può essere superata dalla prescrizione o comunque annacquata dal tempo che è passato. Non a caso si discute da anni di certezza della pena senza che però questa certezza diventi mai certa. Di contro, un processo troppo breve rischia di essere sommario, hai visto mai che un domani si scoprisse qualcosa di nuovo (l’altro ieri in Inghilterra un uomo è risultato innocente dopo 27 anni di carcere grazie alla prova del Dna).

Se dunque l’eccessiva brevità dei processi resta una questione controversa, così come controversa è la loro eccessiva lungaggine (e su questo noi dovremmo fare non uno ma dieci passi in avanti), quello che ci sembra indiscutibile è la civiltà mediatica che ha accompagnato la vicenda austriaca. Pensate se fosse successo qui da noi, cosa saremmo stati capaci di mettere in piazza, cioè sui giornali e soprattutto in televisione. Da Erika e Omar (Novi Ligure), a Annamaria Franzoni (Cogne), da Andrea Stasi (Garlasco) a Amanda Knox (Perugia), non ci siamo persi neanche un particolare, una macchia di sangue, una lacrima, un urlo di dolore, un pigiama, un pezzo di cervello sul soffitto... Nulla è stato risparmiato alle vittime e ai carnefici di quei delitti, tutto è stato dato in pasto a un’opinione pubblica (chiamiamola così) affamata di mostruosità. Dicono che si trattava del diritto di cronaca. Fesserie: i mass media austriaci hanno dimostrato che quel diritto si può esercitare egregiamente senza sconfinare nella morbosità.
 
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 26, 2009, 09:12:49 am »

26/4/2009
 
Il Cavaliere senza avversari
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Anche, persino, financo, addirittura, infine... pure il 25 Aprile è diventato suo. La Festa della liberazione ieri si è trasformata nella festa di Berlusconi, nel suo ennesimo trionfo mediatico e politico. Dopo la vittoria elettorale dell’anno sorso, la pulizia di Napoli dai rifiuti, la gestione del terremoto con la sua presenza costante, gli applausi ricevuti dalle vittime del sisma (di solito i governanti venivano fischiati), dopo l’idea del G8 all’Aquila (riuscirà a portare Obama e gli altri leader del mondo tra i sinistrati), adesso anche una ricorrenza storicamente di sinistra, un appuntamento che nel ’94 segnò l’inizio della fine del suo breve governo, il primo con dentro ministri ex fascisti, adesso anche questa è diventata berlusconiana. Grazie a lui, ovviamente, che è stato finalmente - dopo 14 anni di colpevole assenza - presente sulla scena, e grazie anche al discorso che ha fatto. Intelligente, bisogna ammetterlo, capace di riconoscere addirittura (addirittura per lui) i meriti dei comunisti che tanto odia, in grado di distinguere tra chi combatteva dalla parte giusta e chi da quella sbagliata.

Evitando insomma di mettere tutti sullo stesso piano perché in quel caso - anche lui se n’è reso conto - non esistevano due ragioni e due torti. Ma anche grazie al suo antagonista politico: Franceschini gli ha lanciato un invito che assomigliava a una sfida e gli è tornato indietro un boomerang.

Ora, quanta strumentalità ci sia in questa mossa di Berlusconi lo vedremo nel futuro, intanto dovrebbe dar retta proprio a Franceschini che gli chiede di mettere il veto al progetto di legge che equipara partigiani e repubblichini. Vedremo se lo farà. Decisamente strumentale appare invece la sua proposta di cambiare nome alla festa, e non certo perché il concetto di libertà non sia adeguato, anzi semmai comprende in se stesso quello della liberazione. Ma perché si tratta con tutta evidenza di voler segnare, anche semanticamente, uno strappo col significato che finora ha avuto quest’appuntamento, un significato troppo di sinistra (per lui). E poi perché, diciamolo francamente, la libertà è diventata, almeno in teoria, la sua bandiera, il suo partito così si chiama, dunque suonerebbe male, diciamo che sarebbe insomma troppo smaccato rinominare il 25 Aprile a sua immagine e somiglianza.

Ma si tratta di particolari, la sostanza è che l’epoca in cui viviamo è ormai scandita da lui, dalle sue iniziative, dalle sue vittorie, dalle sue trovate.
Dicono che il suo prossimo obiettivo sia il Quirinale, tanto che il discorso di ieri a molti è suonato «presidenziale». Può darsi, ma può anche essere che invece lui non abbia alcuna intenzione di farsi rinchiudere al Colle senza poteri, quantomeno dovrebbe prima riuscire a cambiare la Costituzione per instaurare anche in Italia una sorta di presidenzialismo. Oppure, più facilmente, potrebbe puntare a cambiare la Costituzione nei fatti, a cominciare dalle elezioni europee: se ottenesse, come è probabile che accada, una sorta di plebiscito popolare (si presenta in tutte le circoscrizioni, saranno milioni e milioni le preferenze per lui), a quel punto diventerebbe più di un presidente del Consiglio, più di un capo di Stato, sarebbe in poche parole l’uomo solo al comando.

E tutto questo anche a causa dell’assenza o dell’incapacità dell’opposizione che c’è. La quale è costretta o a seguire l’antiberlusconismo di Di Pietro, che però ha una sua efficacia anche a sinistra (e lo si vedrà dai risultati elettorali), oppure ad affidarsi alle improvvisate e improvvide iniziative del segretario del Pd. Che per alcune settimane ha ripetuto come un disco rotto che Berlusconi non doveva candidarsi senza rendersi conto che agli italiani non gliene frega assolutamente nulla, poi è passato a battere sul tasto della data del referendum e suoi relativi costi, anche qui senza capire il disinteresse dell’opinione pubblica nonché il disastroso esito che avrebbe per il suo partito un’eventuale vittoria dei sì. Infine ha tirato fuori il coniglio del 25 Aprile, sfidando Berlusconi a partecipare alle celebrazioni.

Geniale.

Il premier ha colto la palla al balzo, ci è andato, anzi è andato tra le macerie di Onna, ha fatto un discorso equilibrato ed egemone, appunto presidenziale, si è assicurato i titoli dei telegiornali di ieri e dei giornali di oggi, oltre ovviamente all’apprezzamento degli italiani, anche di molti tra quelli che non lo amano.

A questo punto, o Franceschini ripensa e cambia radicalmente la sua strategia, oppure va fino in fondo sulla strada imboccata: invita Berlusconi al Primo Maggio, convince gli elettori di centrosinistra a votare per lui e infine lo fa eleggere per acclamazione leader del Pd.

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