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Autore Discussione: Giovanni SARTORI. Politologo fuori dagli schemi  (Letto 83913 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 07, 2008, 01:07:01 am »

FAME E DEMOGRAFIA

La coperta è più corta


di Giovanni Sartori


D’un tratto abbiamo scoperto che nel mondo c'è molta gente che muore di fame. Eppure si sapeva da tempo. Sei anni fa contestavo i dati Fao (Food and Agricultural 0rganization delle Nazioni Unite) la cui previsione era che nel 2030 il numero delle persone che soffrono la fame sarebbe stato dimezzato e scrivevo così: «La semplice verità è che la fame sta vincendo perché ci rifiutiamo di ammettere che la soluzione non è di aumentare il cibo ma di diminuire le nascite, e cioè le bocche da sfamare. La Fao, la Chiesa e altri ancora si ostinano a credere che 6-8 miliardi di persone consentano uno sviluppo ancora sostenibile. No. Più mangianti si traducono oggi in più affamati. I 30 mila bambini che muoiono di fame ogni giorno li ha sulla coscienza chi li fa nascere» (Corriere del 9 giugno 2002).

Da allora provo ogni tanto a ricordare che alla origine di tutti i nostri mali, ivi incluso il disastro ecologico, sta l'esplosione demografica. Agli inizi del secolo scorso eravamo 1.500 milioni; oggi siamo 6.500 milioni (tuttora in crescita di 60 milioni l'anno). Ma è un predicare al vento. Sul punto si è creato un blocco mentale. L'argomento è tabù, è religiosamente scorrettissimo e proprio non se ne deve parlare. E così continuiamo a essere impegnati in una rincorsa inevitabilmente perdente, insensata e anche suicida. Tornando agli affamati, sei anni fa erano stimati in 800 milioni; oggi si può prevedere che arriveranno a 2 miliardi e passa.

Sono stime che sottintendono una vera e propria «strage » in corso, che non ha fatto notizia finché avveniva in ordine sparso. E’ quando una carestia arriva nelle città che diventa visibile e minacciosa. Ed è nelle città del mondo in via di sviluppo (come si diceva) che oggi manca il grano, manca il riso, manca il mais. Perché? Di colpo si scopre che la colpa è dei biocarburanti che sottraggono terreno agricolo alle coltivazioni alimentari. In verità il Brasile va quasi tutto a biocarburanti e in trent'anni nessun premio Nobel (in economia sono tantissimi) ha avvertito il pericolo. Ma ora che l'America si è messa a incentivare l'etanolo, ecco il colpevole: la politica energetica di Washington e la speculazione che si concentra a Chicago. Sulla speculazione (che c'è) mi limito a osservare che presuppone che un bene diventi raro. Sull'acqua di mare non ci sarà mai speculazione.

Quindi la speculazione non è all'origine del problema. Il problema è che le risorse petrolifere sono in diminuzione e soprattutto sempre più a rischio. Se l'America restasse a secco sarebbe una catastrofe (anche per tutto l'Occidente) rispetto alla quale la crisi del 1929 sarebbe una inezia. La situazione è, allora, che per 6-7 miliardi di persone la coperta è corta. Per rimediare, tutti cercano di tirarla a sé. E così per turare una falla ne apriamo un'altra. Quando la coperta è sempre più corta, l'unica soluzione è di ridurre il numero di chi ne deve essere coperto e protetto. In attesa ogni egoismo è sacro, e cioè il diritto di sopravvivere è eguale per tutti. Pertanto trovo insensato e irresponsabile dichiarare che alienare i terreni dalla produzione agricola «è un crimine contro l'umanità» (così le Nazioni Unite per bocca di Jean Ziegler, riecheggiato con mia sorpresa anche da Tremonti). Per un problema terribilmente serio, occorre essere seri.

06 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:37:26 pm »

La coperta troppo corta


di Giovanni Sartori


La grande carnevalata della Fao si è chiusa il 6 giugno (dopo avere intasato Roma per tre giorni) con la risibile e irresponsabile promessa di vincere la fame nel mondo entro il 2050. Speriamo che prima venga chiusa la Fao. Perché i discorsi seri si fanno altrove: tra poco, il 16 e 17 giugno, al convegno indetto dalla fondazione Aurelio Peccei per celebrare il 40˚anniversario del Club di Roma. Siccome risulta che moltissimi italiani non sanno nemmeno che cosa festeggiano il 2 Giugno, ricorderò che Peccei fu il primo «profeta » della impossibilità di una crescita illimitata del pianeta Terra, così come due secoli fa il bravo abate Malthus fu il primo a intravedere la «bomba demografica ». Oggi Malthus viene molto irriso da chi non lo ha letto. Eppure in principio aveva ragione. Calcolò che mentre la popolazione poteva crescere in progressione geometrica (1, 2, 4, Fico, la produzione agricola può solo crescere in progressione aritmetica (1, 2, 3, 4). Ma Malthus non riteneva che questa crescita geometrica della popolazione sarebbe mai avvenuta: lo impediva, appunto, la fame. D'altra parte il suo Saggio sul principio di popolazione usciva nel 1798, prima della rivoluzione industriale. Ed è l'agricoltura meccanizzata, che Malthus non poteva prevedere, che ha rinviato di due secoli la resa dei conti. Ma ora ci siamo.

La preoccupazione di Peccei e del Club di Roma fu diversa: segnalava l'imminente venir meno delle risorse naturali, e segnatamente del petrolio. Si capisce, consumiamo troppo perché siamo in troppi. Ma nel 1972, quando uscì il primo rapporto, I limiti dello sviluppo, la popolazione mondiale era di 3 miliardi e 850 milioni. Vi rendete conto? In meno di quaranta anni si è quasi raddoppiata. Così oggi la preoccupazione primaria diventa quella del riscaldamento della Terra e dell'impazzimento del clima. Riscaldamento perché? Anche se è vero che la Terra ha sempre avuto cicli di glaciazione seguiti da riscaldamenti, una stragrande maggioranza di esperti ritiene che nessun ciclo astronomico possa spiegare la velocità, intensità e frequenza delle nostre variazioni climatiche; e dunque ritiene che il disastro ecologico che ci aspetta sia causato dall'uomo e dal sovraffollamento del nostro pianeta. Non occorre una intelligenza straordinaria per capire che tutti i suddetti fattori — popolazione, esaurimento delle materie prime (e dell'acqua), sconquasso del clima — afferiscono al problema della fame. Ma gli intelligentoni delle Nazioni Unite, della Fao, e anche dei media, preferiscono scoprire, invece, che la colpa è dei biocarburanti che tolgono terreno alla agricoltura alimentare. Ma se senza mangiare si muore, anche senza petrolio si muore. L'agricoltura è meccanizzata, e cioè va a nafta; e così i pescherecci e le navi che trasportano il cibo. Alla fin fine nel nostro mondo tutto richiede energia largamente generata dal petrolio. Scrivevo poco fa che oramai viviamo su una coperta troppo corta che se tirata da una parte lascia scoperta un'altra parte. Con questo giochino non si risolve nulla e si aggravano i problemi.

16 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:44:42 pm »

Editoriali       

IL DILEMMA DEI DEMOCRATICI

Saper fare l'opposizione


di Giovanni Sartori


L’opposizione muro contro muro, sempre, ad ogni costo, del Prodi-pensiero sembrava relegata al passato. Purtroppo sembra riemergere. Per colpa di chi? Questa volta di Berlusconi. È lui che dopo un felice esordio rompe il tessuto del dialogo ricadendo nell’antico vizio di usare il potere a proprio vantaggio, di tutelare i suoi interessi privati in atti di ufficio. Berlusconi quando si occupa di se stesso è sempre risolutissimo, si appella sempre alla volontà popolare, e oggi al fatto di essere sostenuto da un consenso del 60 e passa per cento. Ma il consenso elettorale non è un consenso «specifico », ma un consenso all’ingrosso. E il punto è se l’elettorato berlusconiano si rende conto della gravità del caso. Provo a spiegarlo con esempi. Mettiamo che Tizio sia proprietario di una banca, e che come tale stabilisca di poter prelevare quanti soldi vuole. Va bene? No, non va bene.

Poniamo che Caio sia capo della polizia, che uccida la moglie e che stabilisca che la polizia non può indagare su di lui. Va bene? Direi di no.

Tornando a Berlusconi, lui è capo del governo e come tale vuole essere intoccabile. Ha ragione? Vediamo. L’immunità dei parlamentari è un istituto antico che si afferma, nelle monarchie assolute, per proteggerli dal sovrano. Giusto. Oggi, peraltro, i monarchi assoluti non esistono più. Così la protezione è diminuita: è fornita dalla autorizzazione a procedere. Che però al Cavaliere non serve, visto che il processo che lo preoccupa (il caso Mills) andrà a sentenza tra pochi mesi.

Pertanto chiede, per salvare se stesso, un emendamento che rischia di mandare al macero fino a 100 mila procedimenti; e qui siamo davvero fuori proporzione. Non contento, il Nostro riesuma anche la ex Schifani per blindarsi senza fine. Questo secondo provvedimento prevede l’immunità nell’esercizio delle proprie funzioni per 19 casi, incluso ovviamente il suo. E tutti sanno che dopo Palazzo Chigi Berlusconi conta subito di salire per sette anni al Quirinale. Se non siamo ancora a una immunità a vita, siamo nei paraggi. In frangenti come questi, una opposizione «responsabile » (così, bene, Piero Ostellino) cosa può fare per rendersi efficace, il più efficace possibile? Deve presentare contro- progetti che obblighino la maggioranza a discuterli.

Nel caso del primo emendamento il suggerimento ragionevole per alleggerire un carico di arretrati giudiziari che è davvero irragionevole, è di accantonare tutti i procedimenti inutili, inutili perché finirebbero in prescrizione. E nel secondo caso la controproposta ragionevole potrebbe essere di concedere l’immunità a tutti i parlamentari che la richiedono, a patto, però, di non essere rieleggibili alla scadenza del loro mandato fino alla sentenza definitiva del procedimento a loro carico. Perché nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono, appunto, i dittatori. Solo loro, vorrei sperare.

Leggo che il presidente Napolitano è irritato e molto perplesso. Ne ha ben donde. Il «pacchetto sicurezza » gli sta bene; ma deve inghiottire per questo anche il «pacchettino» salva- Berlusconi? Il suo predecessore, presidente Ciampi, non usò mai — per negare al governo l’autorizzazione a procedere —l’art. 87 della Costituzione; e così fu poi tutto un cedere.

Napolitano ha davvero motivo di meditare a fondo.

21 giugno 2008


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« Risposta #18 inserito:: Luglio 06, 2008, 09:34:12 pm »

IL PREMIER E LA MAGGIORANZA

Gli onorevoli in soggezione


di Giovanni Sartori


Nell'ultima campagna elettorale Veltroni ha combattuto un anonimo, un avversario senza nome e cognome. Ha malamente perso (anche per questo, ritengo). È vero che uno dei tantissimi difetti della politica italiana è la eccessiva personalizzazione del potere, il potere che addirittura coincide con una persona. Ma l'occasione per dimostrare che non deve essere così non è una contesa elettorale. Ciò premesso, il fatto resta che gli italiani oramai si dividono (asimmetricamente) tra berlusconiani e no. Da un lato c'è sempre e soltanto Berlusconi; dall'altro ci sono stati Prodi, D'Alema, Amato, Rutelli, Veltroni, tutti in transito e sempre in contesa tra loro. Dunque un polo coincide con una persona. Il che equivale a dire che non riusciamo più a separare i problemi come tali da una persona che li impersona.

Questa eccessiva personalizzazione è, a mio avviso, dannosissima; e per contrastarla inventerò qui un nome finto: Silvio Arcore. Il premier Arcore in questo momento è furioso. Dopo aver vinto tre elezioni ancora non è riuscito a saldare i conti con la magistratura. È ancora imputato nel processo Mills che andrà a sentenza prima della prescrizione; e per di più teme altri scherzi che ne ostacolino, a suo tempo, il disegno di salire al Quirinale. E così vara con urgenza una legge «blocca processi» che ferma per un anno tutti i procedimenti che prevedono pene massime al di sotto dei dieci anni (nel caso Mills sarebbero sei); e per ogni evenienza interpola, nel «pacchetto sicurezza» al quale gli italiani tengono, una coda estranea (il lodo Alfano) che rende Arcore intoccabile fino all'aprile 2013, e probabilmente oltre. Ora, se davvero si trattasse del signor Arcore, quasi tutti direbbero che le due escogitazioni sono pessime, e che servono soltanto a lui. Invece il nostro Silvio sostiene che sono necessarie e nell'interesse di tutti. Ammettiamo che siano necessarie. Anche così si potrebbe sicuramente far meglio.

Una legge che diminuisce il carico degli arretrati giudiziari ci vuole. Ma dovrebbe cancellare i processi inutili, tali perché destinati a finire nel macero delle prescrizioni. Ma no. No perché, così riformulata, la legge non salverebbe il premier Arcore. Anche se una sua eventuale condanna in una sentenza di primo grado gli lascia dieci anni e passa di ricorsi e di appelli, il Nostro antepone il suo interesse e prestigio privati a quello di far funzionare la macchina della giustizia. E considerazioni analoghe (la mia è sul Corriere del 21 giugno) si possono fare sull'immunità. Eppure la maggioranza parlamentare di Arcore fa quadrato (superbulgaro, senza nemmeno un dissenso) nel sostenere che le due proposte in questione sono nell'interesse generale, nell'interesse di tutti. È vero: anche Arcore ne beneficia, ma soltanto perché lui è uno dei tutti. Le cose che mi spaventano sono oramai parecchie; ma il livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato in questa occasione da una maggioranza dei nostri «onorevoli» (sic) mi spaventa più di tutto. Altro che bipartitismo compiuto! Qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti. Cavour diceva: meglio una Camera che un'anticamera. Ma quando un'anticamera si sovrappone alla Camera, non so più cosa sia peggio.

05 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 29, 2008, 06:26:44 pm »

GLI ERRORI DA EVITARE

Governare senza sondaggi


di Giovanni Sartori


Tra poco anche la politica andrà in vacanza. Sarà, per Silvio Berlusconi, la prima vacanza tranquilla. Perché ha finalmente sistemato tutti i suoi interessi privati (da quelli del suo impero mediatico a quelli delle sue residue pendenze giudiziarie). Finalmente il Nostro è un uomo libero, libero di mostrare la sua bravura come uomo di governo, la sua statura di statista. Finora Berlusconi si è molto regolato, nel suo passato governare, sui sondaggi di opinione. Così fanno un po' tutti; ma nessuno quanto lui. Ecco allora la domanda: un governo molto (moltissimo) guidato dai sondaggi può essere un buon governo?

Dipende da come i sondaggi vengono letti. Il più delle volte, male. E il punto è che il territorio coperto dai sondaggi è molto più piccolo del territorio, dell'ambito, che i governi debbono coprire. Che lo vogliano o no.

I sondaggi rilevano — tra le tante cose—i pareri e le priorità dell'«uomo comune» difeso e elogiato negli anni Quaranta da Karl Friedrich (un importante costituzionalista di allora). Il che già indica quale ne sia la gittata. Ma vediamo meglio distinguendo fra tre contesti. In primo luogo il contesto dei tutti. In questo contesto i sondaggi mettono in evidenza l'esperienza quotidiana, e quindi più frequente, dell'uomo comune: la spesa per mangiare, il costo della vita, il peso delle tasse e simili. Queste priorità sono ovvie; ma i sondaggi le misurano, e per ciò stesso ne precisano l'importanza, il «peso».

In secondo luogo ci sono le cose che fanno infuriare soltanto porzioni (più o meno estese) della popolazione: la lentezza della burocrazia, la paralisi della giustizia, lo sfascio della scuola e della sanità, l'insufficienza delle infrastrutture e simili. Ma siccome non si dà mai il caso che tutti abbiano cause in corso (anche se gli italiani che aspettano giustizia sono più di 7 milioni), che non tutti sono simultaneamente a scuola, che non tutti sono malati, ecco che i valori percentuali di questi casi scendono. Ma sarebbe una cattiva lettura dei dati ricavarne che per gli italiani quei problemi siano poco rilevanti. La differenza rilevata dai sondaggi riguarda solo la frequenza con la quale ciascuno di noi «batte la testa», in concreto, in queste disfunzioni.

In terzo luogo ci sono i problemi che per il grosso pubblico sono «astratti », e che non capisce finché la tegola non gli cade sulla testa. L'uomo comune non afferra che le disfunzioni di cui sopra dipendono da una macchina istituzionale che a sua volta non funziona. E afferra ancor meno i problemi in arrivo, i problemi del futuro (anche se prossimo). L'acqua, la benzina, l'elettricità e anche i prodotti alimentari stanno già diventando insufficienti; ma acqua, benzina, energia gli mancano soltanto quando di fatto mancano; non prima e purtroppo non a tempo. Dal che consegue che i sondaggi sottostimano alla grande il problema ecologico che è, invece, il più grave di tutti.

E' proprio per questo che un governante che asseconda e ascolta soltanto i sondaggi è un pessimo governante. Il non-fare perché «tanto agli italiani non interessa» è un non-fare vergognosamente irresponsabile. Ci sono tantissime cose che un buon governo deve fare (per essere buono) a prescindere dai sondaggi.

29 luglio 2008

da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Agosto 02, 2008, 03:26:32 pm »

IL DIBATTITO SU ELUANA

Vita artificiale e libertà di scelta


di Giovanni Sartori


Tutto è cominciato con l'Enciclica del 1968 Humanae Vitae di Paolo VI. A 40 anni esatti di distanza, l'altro giorno il Corriere ha accolto nella sua pubblicità la «Lettera aperta al Papa» del movimento dei Catholics for Choice (il diritto di scegliere) sottoscritta da un centinaio di organizzazioni cattoliche di tutto il mondo. L'esordio della Lettera è duro: «Le gerarchie cattoliche hanno fondato sulla Humanae Vitae la politica di opposizione alla contraccezione». Politica, continua la Lettera, «che ha avuto effetti catastrofici sui poveri, ha messo in pericolo la vita delle donne ed esposto milioni di persone al rischio di contrarre l'Hiv». Ma il testo si ferma su questo problema ignorando il crescendo successivo. Con Wojtyla e Ratzinger la contraccezione e l'aborto vengono condannate allo stesso titolo. Ma perché? Con quale logica? La contraccezione— lo dice la parola— impedisce la concezione. E prevenire una gravidanza non è «uccidere», non è interrompere una gravidanza (aborto). Vorrei che qualcuno mi dimostrasse il contrario.

Un altro passo in avanti consiste nell'asserire che l'embrione è già vita umana. Per dimostrarlo la Chiesa dovrebbe distinguere tra «vita» e «vita umana», e provare che le caratteristiche della seconda sono già presenti nell'embrione. In passato, e con San Tommaso, la vita dell'uomo era contraddistinta dalla presenza dell'«anima razionale». Ma quest'ultima, per Tommaso, arrivava «tardi», in vicinanza della nascita e non certo dell'embrione. Teologicamente parlando l'ostacolo è grosso, e Wojtyla lo supera dimenticandosi dell'anima e citando la scienza. Così: «La scienza ha ormai dimostrato che l'embrione è un individuo umano che possiede fin dalla fecondazione la propria identità». Ma la scienza può soltanto attestare che l'embrione è programmato per diventare, dopo 9 mesi, un individuo umano ma non che lo è già sub specie di embrione. Anche se un uovo diventerà una gallina non è gallina finchè resta uovo; né io, mangiando un uovo, divento assassino di una gallina. Dunque, in teoria qualsiasi vita è intoccabile (anche quella dei pidocchi o delle zanzare), visto che la Chiesa spesso e volentieri confonde tra qualsiasi vita e vita specificamente umana.

In pratica, però, la vita intoccabile è solo la vita dell'uomo. Ma ecco ancora un ulteriore salto in avanti. Finora la vita umana era intoccabile «in entrata» (aborto) e anche «in pre-entrata» (contraccettivi); ma «in uscita» le persone erano lasciate libere di morire. Beninteso, non di suicidarsi ma di morire «naturalmente». Ma siccome la scienza ha inventato la sopravvivenza artificiale, ecco che oggi la Chiesa nega il diritto di morire anche a chi, come essere umano, è già morto. L'ultimo caso è quello di Eluana Englaro, in coma profondo da addirittura 16 anni. A questo punto i genitori chiedono che venga staccata dal macchinario che la tiene in vita (in vita vegetale) e due tribunali (Cassazione e Corte d’appello) consentono. Apriti cielo! A distanza di pochi giorni il pg di Milano blocca. Il che implica che dovrebbe intervenire il Parlamento.

Sì, il Parlamento si dovrebbe svegliare nel consentire il «testamento biologico» di ciascuno di noi quando siamo ancora sani di corpo e di mente. Anche il legislatore «papista» lo potrebbe benissimo fare in tutta coerenza, visto che Wojtyla si era rimesso alla scienza per stabilire quando comincia la vita. E la scienza stabilisce che una persona è morta quando il suo cervello è morto, quando l'elettroencefalogramma è piatto e non rileva più onde magnetiche cerebrali. Punto e finito lì. Per me. Ma non per la deputata azzurra Isabella Bertolini la cui mozione, sostenuta da 80 firme di neo-sanfedisti, chiede che il governo introduca «il divieto di qualunque atto che legittimi pratiche eutanasiche o di morte indotta». Non facciamo finta di non capire. Questo testo impedirebbe il «testamento biologico». Già consentito negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, agli italiani non lo si vuole consentire. Poveri noi, e intanto povera Eluana.

02 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 17, 2008, 01:44:22 am »

ECOLOGIA E POLITICA

Verdi fasulli governo sordo


di Giovanni Sartori


Verde è il colore emblematico della natura. Emperrocché chi si dichiara «verde» si dovrebbe occupare della natura. Ma i Verdi italiani sono anch’essi all’italiana. Sono una costola mal riuscita del ’68 e sono restati alla «piccola natura» di quaranta anni fa. Da allora la natura è diventata «grande» e ricomprende tutto l’ambiente nel quale viviamo e tutte le risorse che ci danno da vivere. La differenza tra la natura in piccolo e la natura in grande è tanta che per designare la seconda usiamo la parola ecologia (e la nozione di ecosistema).

Ma i nostri Verdi all’ecologia non sono mai arrivati. Non sono nemmeno mai arrivati a combattere efficacemente gli incendi dolosi dei nostri boschi. Il governo Berlusconi ha soppresso il ministero della Sanità e salvato il ministero dell’Ambiente. Chissà perché. Ma certo non perché il gran capo dia importanza all’ecologia. Come si ricava dal fatto che all’Ambiente ha insediato la leggiadra onorevole Prestigiacomo, che sinora non ha battuto colpo e che ha fatto notizia solo perché il suo è l’unico dicastero che sfida Brunetta e non riduce l’assenteismo. Il timore è, allora, che anche dal governo in carica di ecologia sentiremo parlare poco e fare ancora meno. Eppure la domanda che oramai si pone in tutto l’Occidente è: come va la salute della Terra? Domanda alla quale quasi tutti (salvo i silenziosissimi italiani) rispondono: maluccio, e anzi ancor peggio del previsto.

Finora nelle previsioni dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), una delle fonti più autorevoli sul cambiamento climatico, prevaleva, per così dire, l’ottimismo: da oggi al 2100 un aumento di temperatura di 2 gradi. Ma le ultime rilevazioni indicano un’accelerazione crescente nello scioglimento dei ghiacci del Polo Nord che lascia prevedere un riscaldamento, davvero catastrofico, che potrebbe arrivare a sei gradi. La gente fa spallucce. Pensano che se avremo più caldo i nostri figli e nipoti lo combatteranno con l’aria condizionata e sopravviveranno lo stesso. Sbagliato. Se nel 2100 fossimo 9 miliardi (come sembra che il Vaticano e chi raccomanda «più figli » si augurino), in tal caso mancherebbe l’energia per raffreddarsi. E poi il punto non è questo. E’ che per il pianeta Terra già quattro gradi in più farebbero crescere il livello dei mari di 5 metri (addio Venezia), creerebbero enormi zone desertificate nelle fasce che sono oggi di clima temperato (Italia inclusa), falcerebbero la vita animale e vegetale (e addio anche alla foresta Amazzonica).

E’ esatto parlare di catastrofe? Per un’anima sensibile, sì. Eppure i nostri governanti — tutti — dormono della grossa. Se la cavano — irresponsabilmente— con il vile argomento che l’ecologia non interessa. Certo, anche l’acqua non interessa finché c’è; anche l’aria non interessa finché è respirabile; e anche le carestie non interessano finché non ci ammazzano. Rispetto agli accordi di Kyoto eravamo tenuti a ridurre le nostre emissioni di gas serra del 6,5%; invece le abbiamo aumentate del 13%. Che fare? Svegliarsi. Per una volta i cittadini siano migliori dei loro governi.

15 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Ottobre 03, 2008, 09:11:33 am »

DALL'ALITALIA A PUTIN

La scomparsa del buon senso


di Giovanni Sartori


Quel «buon senso» che fa dire e fare «cose sensate» è oramai un caro estinto soppiantato dall'insensato, dall'insensatezza e dal «dementismo » (ahimè, una demenza giovanile assai più che senile). Chi ha ucciso il buon senso? E perché? Lo dirò man mano. Intanto illustriamo il problema con due casi esemplari di insensatezza: nel nostro piccolo, il lungamente perseguito e pressoché riuscito suicidio dell'Alitalia; e, nel più grande mondo circostante, il crescente, e anch'esso insensato, «rigelo » nei rapporti tra Washington e Mosca.
Quella dell'Alitalia era una morte preannunziata — e anche più che meritata — da almeno un decennio. Né sarebbe stato un suicidio inedito. Negli Stati Uniti la Twa (Trans World Airlines) è stata uccisa proprio dal suo personale di volo; e fu anche fatta tranquillamente fallire, come si fa nei Paesi seri. In Europa, e più di recente, alcune rispettabili compagnie di bandiera, come la Swissair e la Sabena, sono come qualmente passate in altre mani. Anche la Svizzera avrebbe avuto come noi l'alibi del turismo; ma che io sappia nessuno l'ha invocato e i turisti, mi dicono, ci sono ancora.


Allora, chi ha messo in testa ai nostri piloti e alle vociferose hostess che ancora l'altro giorno esultavano gridando «meglio falliti che in mano ai banditi » (leggi: Colaninno) che Alitalia era una vacca sacra, una voragine mangiasoldi che però nessuno avrebbe osato toccare? Forse nessuno. Forse tra le nostre aquile e aquilette «selvagge» non ci sono più teste in grado di usare la testa. Certo è che fino alla ventitreesima ora dell'ultimo giorno chi ha pensato (male) per tutti è stata la casta dei piloti, l'Anpac; ben assistita, si intende, dalla Cgil e altri protettori politici. E ancor più certo è che il buon senso avrebbe affrontato e risolto il caso Alitalia da gran tempo. Se, appunto, il buonsenso esistesse ancora.
L'altro caso, dicevo, è quello del deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Russia. Era inevitabile? No. A mio avviso era evitabile e assolutamente da evitare. E la colpa di chi è? Per Salomone sarebbe stata per metà di Bush e per metà di Putin. Per il grosso degli occidentali è soprattutto di Putin. Per i meno, che mi includono, la colpa è invece soprattutto di Bush e dell'«ideologismo democratico» che oggi imperversa incorporato nell'altrettanto imperversante contesto del politicamente corretto.


Sia chiaro: la teoria della democrazia liberale non è, in quanto tale, un'ideologia, visto che è una teoria che ha funzionato in pratica, che si è realizzata nel mondo reale, mentre le ideologie sono (come le utopie che le hanno precedute) teorie senza pratica che clamorosamente falliscono nell'attuazione (vedi per tutti l'Urss), e che sopravvivono come fedi, come un pensiero che nessuno ripensa più, come un ex pensiero fossilizzato. Dunque la teoria della democrazia è una cosa, e l'ideologismo democratico che è esploso nel '68 e che ne proviene, è tutt'altra cosa. La prima ha fatto le democrazie, la seconda semmai le disfa.
Ciò premesso, oggi l'urgenza è di stabilire e ristabilire senza paraocchi ideologici la realtà dei fatti, la realtà della «forza delle cose». E il fatto è che il mondo nel quale stiamo vivendo è il mondo più pericoloso nel quale l'uomo sia mai vissuto.


In parte perché stanno proliferando armi di distruzione di massa che ci potrebbero sterminare tutti; e in parte perché la dissennata crescita della popolazione (che il buon senso anche a questo effetto avrebbe dovuto impedire) ha innescato una sequela di altre crisi: dell'acqua che manca, del clima, delle risorse energetiche. E quest'ultima è la crisi più esplosiva del momento, visto che sta ridisegnando la mappa del potere mondiale tra chi dispone di petrolio e di gas e chi no. Gli Stati Uniti di petrolio ne hanno poco, l'Europa quasi punto. Invece la Russia ne ha. Ne hanno anche, si sa, il Venezuela, la Nigeria, l'Iran e alcuni Stati arabi del Medio Oriente; ma sono tutti Stati o traballanti o ostili e infidi. Il buon senso suggerisce, allora, che la Russia di Putin è, per l'Occidente, un alleato indispensabile. Se Putin venisse indispettito oltre misura, potrebbe chiudere i suoi rubinetti e l'Europa sarebbe in ginocchio in due mesi, gli Stati Uniti in gravi difficoltà entro sei.


Eppure il presidente Bush sta facendo di tutto per indispettirlo. È lui che per primo ha violato le intese indebitamente consentendo l'indipendenza del Kosovo; è lui che si propone di avvicinare i suoi missili intercettori ai confini della Russia, è lui che vuole incorporare nella Nato i Paesi dell'Europa orientale, è infine lui che sotto sotto ha incoraggiato la Georgia a sfidare Putin. Insomma Bush si comporta come se lui fosse il gatto e Putin il topo. L'acume di Bush mi è sempre sfuggito. Ma quando ho conosciuto Condoleezza Rice in panni accademici, lei era davvero intelligente (a detta di tutti).
Pertanto quando una decina di giorni fa ha dichiarato che la crisi del Caucaso lascia la Russia «isolata e irrilevante» sono restato di stucco. Possibile che il potere logori anche l'intelligenza delle donne? Davvero gli Stati Uniti credono di poter condizionare Putin con rappresaglie finanziarie e bloccandone l'ingresso nell'Ocse e nel Wto? Eccezion fatta per il formidabile potere deterrente del suo arsenale atomico, a tutti gli altri effetti gli Stati Uniti sono oramai, al cospetto della Russia (e anche della Cina) una tigre di carta.
E questa è la realtà.


Beninteso io rispetto e mi sento anche debitore dello zelo missionario degli americani atteso a promuovere la democrazia nel mondo. Ma sono spaventato da uno zelo missionario che cade in mano a un «ideologismo democratico» di marca Sessantottina che, appunto, stravolge ogni buon senso.


03 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 11, 2008, 05:56:44 pm »

I GRANDI DELLA TERRA

Buonsenso e cretinismo


di Giovanni Sartori


Il tema del buonsenso del quale scrivevo venerdì della settimana scorsa ha stuzzicato parecchi lettori. Uno mi chiede se una persona intelligente senza buonsenso equivale a un cretino. Un altro se il buonsenso è l'antidoto contro la stupidità. Un terzo se la scomparsa del buonsenso comporta l'ascesa inarrestabile del cretinismo. Infine, il buonsenso è saggezza e, viceversa, la saggezza è buonsenso? Sono tutte domande belline.
L'intelligenza è difficilissima da definire. La parola viene dal latino intelligere e quindi indica, etimologicamente, una capacità di capire. Il che, però, non stabilisce criteri per accertarla. In pratica, in tutti i rami del sapere e anche della expertise, l'intelligenza viene attribuita o negata dai peers, dagli esperti e studiosi dello stesso ambito di competenze. Non sarà un grande criterio (anche nel sapere ci sono fame scroccate e riconoscimenti ingiustamente negati), ma certo non possiamo accettare il genio che stabilisce da sé, bontà sua, di essere tale. Qui, però, non interessa l'intelligenza speculativa che originariamente era l'intelligere del filosofo, di chi «ama il sapere». Qui interessa l'intelligenza pratica che si cimenta con il fare e con i fatti. Ed è questa intelligenza «terra terra» che si avvicina molto a un'intelligenza del buonsenso.


Il maggiore costituzionalista inglese dell'Ottocento, Walter Bagehot, spiegava che il sistema di governo del suo Paese si fondava sulla «stupidità deferente» degli inglesi. Forzando quel testo mi azzarderei a dire che una deferential stupidity è, può essere, una forma di intelligenza pratica. Se sai di non sapere, se sai di non capire, è intelligente essere deferenti. Invece assistiamo sempre più a un crescendo di «ignoranza armata», e così di un'arroganza dell' ignoranza, che rappresenta un perfetto e devastante cretinismo pratico. Passo così a rispondere ai quesiti iniziali. Sì, a mio avviso una persona intelligente senza buonsenso si trasforma facilmente in un cretino, s'intende, un cretino pratico. Sì, il buonsenso può correggere la stupidità e aiuta a «scretinizzare» i cretini. Sì, la scomparsa del buonsenso prefigura un mondo sempre più popolato da stupidi la cui caratteristica, scriveva giocosamente Carlo Cipolla, è di non fare soltanto il male proprio ma anche il male altrui. E, infine, ancora sì alla quarta domanda: il buonsenso è tale perché incorpora saggezza, la saggezza che le società prelitterate trasmettevano sotto forma di proverbi.


Nel pezzo di venerdì i due esempi di insensatezza erano l'Alitalia e il «rigelo » dei rapporti tra Bush e Putin. Vedi caso, l'indomani cadeva il 40mo anniversario dell'enciclica Humanae Vitae, e papa Ratzinger ha colto l'occasione per ribadire il suo drastico No ai contraccettivi. Un No il cui terrorizzante risvolto è il Sì all'esplosione demografica che ci sta travolgendo, e con noi il pianeta Terra. Sul punto, e sulla dubbia teologia che sostiene questo inedito «furore » della chiesa cattolica (e di nessun'altra) ho scritto più volte. Dirò solo, qui, che considero in ogni caso quel No un'estrema, colossale violazione di ogni buon senso. Come San Tommaso, io credo in una ratio confortata fide e diffido dalla fede senza ratio.


11 ottobre 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Ottobre 11, 2008, 05:59:15 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #24 inserito:: Ottobre 16, 2008, 06:56:50 pm »

Le previsioni fallite


di Giovanni Sartori


Sulla pericolosissima crisi economica in corso finora non ho fiatato. Aspettavo lumi dagli economisti. Speravo, tra l'altro, in un loro mea culpa.

Perché il fatto è che il grosso della loro disciplina non ha previsto la catastrofe in arrivo. Era impossibile prevederla? Balle.
Non solo era prevedibilissima, ma il punto di principio è che una scienza economica che non sa prevedere è una scienza da poco, quasi da punto.

Science for what? Un sapere «pratico» che consiglia male e che prevede altrettanto male, produce guai o comunque ci lascia nei guai.

Molti economisti se la cavano scaricando la colpa sul liberismo «selvaggio » che ha predicato la deregulation, l'abbattimento delle regole. A suo tempo — e cioè in tempo — scrivevo che se le regole sono malfatte, allora sono regole da eliminare; ma «sregolare» è solo un rimedio a breve, e un vuoto di regole non toglie che dobbiamo avere regole. Anzi, oggi, le regole ridiventano più necessarie che mai. Le banche non sorvegliate sono libere di fallire a danno dei loro depositanti. Il mercato finanziario è sempre più infestato da imbroglioni che vanno imbrigliati. L'alternativa non è tra intervenire o no, ma tra capacità di «buon intervento» o no.

Leggo che le crisi finanziarie sono intrinseche al capitalismo, che pensare di eliminare il rischio è una sciocchezza e che per ogni regola esiste un modo di aggirarla. Ma spero proprio che non sia così. Il mercato è un meccanismo che, per esistere e funzionare, deve essere protetto da leggi che vietano i monopoli e che puniscono i falsi garantendo la autenticità delle merci. Addio mercato se io posso impunemente spacciare per oro un qualsiasi metallo giallo. Così come vanno controllate le medicine e, oramai, persino la produzione industriale del cibo. Pertanto l'argomento «fatta la legge trovato l'inganno» è suicida. Né ritengo che i collassi «alla 29» siano fisiologici. Siccome il sistema di mercato è un automatismo che procede per auto-correzione, è normale che il suo andamento sia ciclico e che includa recessioni. Ma se un sistema di mercato che si auto-distrugge facendo collassare tutto il sistema economico fosse «normale», allora siamo al cospetto di un sistema mal congegnato.

Torno al quesito che è la madre di tutti gli altri: perché gli economisti non hanno adeguatamente previsto e denunciato la follia dei subprime, dei mutui senza sufficiente copertura? Sono quei prestiti che hanno scavato la voragine nella quale stiamo ora affondando. Eppure tutti zitti e pronti a bere la favola (all'oppio) dei «derivati», e cioè che il rischio veniva minimizzato distribuendolo a tutti in tutto il mondo. Ovviamente (al solito, elementare buon senso) può essere così solo se il «debito cattivo » non diventa gigantesco. Invece nessuno lo ha controllato, è diventato gigantesco, e così siamo tutti a rischio.

Dunque — lo ripeto — quel che è successo era facilmente prevedibile. Io mi sono spaventato quando ho vissuto (negli Stati Uniti) il bombardamento delle offerte di credito facile, troppo facile. Ma ora sono gli economisti che non si sono spaventati a tempo e che devono fare l'esame di coscienza e rivedere le proprie bucce. Perché chi non sa prevedere, nemmeno sa prevenire.


16 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 19, 2008, 04:35:10 pm »

L'intervento

Meglio intendersi sulle previsioni


Caso vuole che ho fatto appena in tempo a scrivere che gli economisti, e per essi la scienza dell'economia, non hanno saputo prevedere (e quindi prevenire) la crisi che ci sta travolgendo, ed ecco che veniamo inondati dalla scoperta di autori e scritti che — a detta soprattutto dei librai, ma anche delle gonfiature dei media— l'avrebbero invece prevista. È proprio così? No, non è affatto così.

Tutto dipende da cosa si intende per «previsione». Tutti noi cerchiamo, nel nostro piccolo, di «vedere prima» tutto il tempo: anche il mio gatto sa prevedere le mie mosse. Ma la previsione scientifica è un'altra cosa. Nelle scienze sociali (e anche l'economia lo è) la parola acquista un significato tecnico diverso dal significato della conversazione comune. E per avere validità e credibilità cognitiva, il prevedere deve essere formulato così: dato un ben circoscritto e precisato progetto di intervento, quale ne sarà precisamente l'effetto? Riuscirà come previsto o no? Se no, perché no? Nel settore di mia competenza, per esempio, ho meticolosamente previsto che il sistema elettorale che scherzosamente battezzai Mattarellum non avrebbe prodotto gli effetti previsti (mal previsti) ma anzi effetti contrari. E mi propongo di procedere con lo stesso metodo sul federalismo quando finalmente sapremo con precisione come sarà congegnato e con quali presunti costi e benefici. Invece — ho scritto l'altro giorno — nessun economista di rilievo ha davvero visto in tempo e capito a fondo i fatti e misfatti di Wall Street. Mi sono sbagliato?

La rassegna di venerdì di Massimo Gaggi sui tardivi successi in libreria di autori dichiarati «profetici» mi dà ancora più ragione di quanto io meriti. Intanto, non è vero che il neo-Nobel Paul Krugman abbia mai previsto la crisi in corso. Poco male, anche perché Krugman non è nemmeno un economista riconosciuto come tale. Il male è, però, che nemmeno uno dei Nobel davvero meritevoli del premio abbia mai previsto (nel significato scientifico del termine) quel che stava ineluttabilmente per accadere. I nomi ricordati da Gaggi sono tutti di eminentissimi mezzi-busti della finanza, degli affari, dell'avvocatura e della politica; ma non includono, anche a prescindere dai Nobel, nessun economista di prestigio, se per economista si intendono i professori a pieno titolo che insegnano la materia nelle Università, e se per prestigio si intende non solo il riconoscimento accademico ma anche una influenza extra-accademica. Allora? Allora la tesi che ho sostenuto sulla cattiva salute dell'economia come scienza, non è in alcun modo smentita dalla tardiva riscoperta (commerciale) di «profeti» che tutt'al più hanno ben fiutato il vento. Perché resta vero che gli economisti importanti e di indubbia capacità professionale non hanno visto in tempo (secondo i canoni delle previsioni scientifiche) le disastrose conseguenze dei crediti sub-prime e di tutte le diavolerie di contorno; a cominciare dai credit default swaps che qui non voglio nemmeno spiegare per paura che se ne giovi qualche furbetto nostrano.

Giovanni Sartori
19 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 29, 2008, 03:43:50 pm »

POLITICA E AMBIENTE

Evviva noi crepi il mondo


di Giovanni Sartori


Sono arrivate le vacche magre (magrissime) ed è purtroppo tempo di «tagli», di tagli al borsellino e alle spese. I tagli nessuno li vuole (quantomeno per sé). Ma siccome sono inevitabili, avrei giurato che i primi sarebbero stati a carico dell'ecologia. Vedete come è facile essere profeti? E' stato proprio così.
Sulla salute del pianeta Terra noi facciamo da sempre gli struzzi. L'Italia ha sottoscritto a suo tempo gli accordi di Kyoto che ci imponevano di ridurre le emissioni di C02 — tra il 1990 e il 2012 — del 6.5%. Noi invece le emissioni di gas serra le abbiamo tranquillamente aumentate accumulando così un debito di circa 1,5 miliardi. Dunque, fin qui niente tagli, o meglio, siamo morosi e ci proponiamo di non pagare.
Dopodiché abbiamo annunciato che l'accordo europeo per il 2012-2020 che abbiamo testé firmato in gennaio (che prevede una riduzione delle emissioni del 20%) non ci sta più bene. Ipse dixit (Berlusconi): «Non possiamo, in un momento di crisi, caricarci il costo di qualcosa di irragionevole».
Irragionevole? Intendiamoci: sin dall'inizio abbiamo tutti detto che le riduzioni di Kyoto erano insufficienti, insufficientissime. Ma bisognava pur cominciare, soprattutto a sensibilizzare l'opinione pubblica. Resta l'obiezione seria che senza Usa, Cina e India (che hanno rifiutato gli accordi di Kyoto) non si arriva a risolvere nulla. Vero. Ma gli Stati Uniti si sono già ravveduti, e a dispetto del «texano tossico» (il presidente Bush) fanno già più e meglio di noi. Quanto a India e Cina, saranno i primi a essere drammaticamente puniti per il loro «sacro egoismo» (visto che sono i Paesi di gran lunga più fragili e più esposti al collasso climatico).

Il discorso è, allora, che siamo arrivati a essere più di 6 miliardi e mezzo di abitanti su un pianetino che oramai è come una casa pericolante, in imminente pericolo di crollo. Per le singole abitazioni di solito intervengono i pompieri che le fanno sgomberare. Ma il pianeta Terra non può essere salvato così. Non abbiamo a disposizione un pianetone contiguo dove ci possiamo trasferire. Se c'è dunque una priorità assoluta, inderogabile, e non differibile è questa. Lo sottolinea con allarme quasi tutto il sapere scientifico. Ma la nostra ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo ha ricevuto i suoi ordini e va all' assalto. L'accordo post-Kyoto sulla futura politica ecologica europea non è più accettabile. Chiediamo la dilazione di un anno (per quanti anni?), la diminuzione del nostro onere (che la nostra ministro ha artificiosamente esagerato), e un ricalcolo dei costi-benefici (perché ora e non quando abbiamo firmato?). Insomma, siamo alle solite. Siamo sleali, infidi, e facciamo i furbacchioni.
Allora, la nostra prima decapitazione sarà sui costi che ci dovrebbero consentire — si spera — di sopravvivere come genere umano. Eppure il nostro Paese è tuttora sovraccarico di «grasso » parassitario. Intanto alleva e lascia prosperare una mafia che è davvero una micidiale sanguisuga. Inoltre abbiamo una pubblica amministrazione elefantiaca, e una scuola (mi dispiace ammetterlo) con troppi insegnanti. Anche sull'Università chi è senza peccato scagli la prima pietra. Sì, mancano i soldi per la ricerca: ma intanto abbiamo moltiplicato docenti di materie ridicole e anche una miriade di piccole università cartacee e scadenti. E che dire, infine, degli sperperi clientelari di moltissime amministrazioni locali? Presidente Berlusconi, di «grasso» in giro ce n'è tantissimo. Ma è più comodo non scontentare nessuno a danno del futuro dei ragazzi di oggi.


29 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Dicembre 31, 2008, 12:11:09 pm »

L'IMPORTANZA DI CREARE RICCHEZZA

L'idea dei soldi come manna


di Giovanni Sartori



Il 2009 sarà il primo anno — temo — di una tempesta economica perfetta.

Una tempesta perfetta destinata a durare finché non torneremo a capire come nasce il denaro, cosa fa ricchezza.

Grazie a una scuola che non è più magistra vitae, i giovani non lo sanno di certo. Per loro è come se piovesse dal cielo come la manna. Per loro il denaro ci deve essere e basta. Ma è così, purtroppo, anche per i non-più-giovani. Nell'ottica di quasi tutti la ricchezza c'è, così come c'è l'aria o il mare. Se manca è perché è maldistribuita e perché se la mangiano i ricchi. E nemmeno i ricchi, o quantomeno gli straricchi, ne sanno di più. I Berlusconi del mondo sanno benissimo fare i soldi per sé; ma perché i soldi ci siano, e come e da cosa zampillino, non è un problema che li interessi.
L'economia come scienza ha cominciato a deragliare con la sua politicizzazione diciamo di sinistra: una politicizzazione che la induce ad anteporre il problema della distribuzione della ricchezza al problema della creazione della ricchezza e, in questo solco, anche a confondere i due problemi. Ed è questa confusione che ha allevato una opinione pubblica graniticamente convinta del fatto che la ricchezza ci sia (come ci sono, che so, le piante), e che il guaio sta in come viene distribuita, cioè maldistribuita.

Ora, che la distribuzione della ricchezza sia per lo più iniqua, moralmente inaccettabile e spesso anche economicamente dannosa, è un fatto. Un fatto che però non autorizza a confondere tra la grandezza della torta e la sua divisione in fette. Perché non è in alcun modo vero che la ridistribuzione della ricchezza produca ricchezza. Anzi, se la mettiamo così, è più probabile che produca povertà.

In prospettiva — e la prospettiva ci vuole — fino alla rivoluzione industriale del primissimo Ottocento l'economia è stata prevalentemente agricola, e quindi una economia di sostentamento. Dopo la lunga stagnazione medievale il primo accumulo di ricchezza avviene con il commercio e con le città marinare (per esempio, Venezia) nelle quali è fiorito. Ma la ricchezza prodotta dalla società pre-industriale fu ricchezza da consumare (in palazzi, chiese e, s'intende, in bella vita per i pochissimi che ne disponevano), non ricchezza da accumulare per investimento, e quindi ricchezza in denaro da investire nel processo economico. Pertanto fino alla rivoluzione industriale, che è poi la rivoluzione della macchina che moltiplica a dismisura il lavoro manuale, l'uomo è vissuto in grande povertà. Il tepore del benessere si affacciò, nel contesto dello Stato territoriale nel suo complesso, soltanto nel corso dell'Ottocento. Ma sino al Novecento, talvolta inoltrato, l'uomo occidentale non ha conosciuto la società opulenta, la cosiddetta società del benessere. Che da noi è durata soltanto una cinquantina d'anni. Per dire come si fa presto a diventare viziati.

Come e quando usciremo dalla gravissima recessione nella quale siamo peccaminosamente incappati nessuno lo sa. Il punto da capire sin d'ora è che il diritto a qualcosa sussiste solo se c'è la cosa. Il diritto di mangiare presuppone che ci sia cibo. E il «diritto ai soldi» presuppone che i soldi vengano creati.

31 dicembre 2008
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 24, 2009, 04:32:58 pm »

GOVERNO E CRISI

L'incudine e il martello

di Giovanni Sartori


Non deve sfuggire che le esternazioni del 15 gennaio di Tremonti svelano le difficoltà nelle quali si dibatte.
Il nostro si trova tra l'incudine e il martello. L'incudine è la realtà di una gravissima crisi economica.
Il martello è il suo boss, Berlusconi, che invece gronda ottimismo e gli ordina di spendere per salvare la sua popolarità.

E così Tremonti si divincola tra dire il vero e esternare assurdità. È vero che «nessuno spiega qual è la causa che ha determinato la crisi». Sì — soggiungo — nessuno lo spiega perché dovrebbero spiegarlo gli economisti, che se ne guardano bene dal momento che non l'hanno prevista, che certo non l'hanno impedita, e che semmai l'hanno avallata partecipando alla pappatoria. Di vero Tremonti ha anche detto che questa crisi non è di tipo ciclico, che «stiamo attraversando una terra ignota», e che non ne conosciamo le cure. Difatti stiamo navigando a vista, nebulosamente consigliati da liberisti che si affidano troppo ai miracoli del mercato e, diciamo, da «regolisti » che non sanno che pesci, pardon, che regole pigliare.

Fin qui Tremonti ha ragione. Ma non riesco a seguirlo quando pasticcia tra previsioni e ipotesi, e si lascia scappare di bocca che oggi il prevedere è «un mestiere da astrologi». Asserire che il sole non sorgerà domani è una previsione o una ipotesi? Risposta: è soltanto una ipotesi sballata smentita da miliardi di miliardi di prove contrarie. Certo non è una previsione nel significato tecnico del termine; e questo perché non è sostenuta da prove. Per la stessa ragione chiromanti, astrologi e simili non prevedono un bel nulla, e cioè non hanno credibilità scientifica, credibilità «provabile». Ma, dicevo, capisco perché Tremonti si debba divincolare. Non solo non può smentire l'inossidabile ottimismo del Cavaliere, ma gli viene imposto di spendere soldi che teme di non poter racimolare. Oggi, è vero, tutti i governi democratici si sentono costretti a spendere indebitandosi. C'è chi se lo può permettere, e chi meno. Il nostro Paese, con il colossale debito pubblico nel quale si culla da gran tempo, i soldi li trova con difficoltà. Il che mi riporta al tema da me trattato a fine anno su chi e che cosa produce soldi, produce ricchezza.

A questo proposito su Repubblica Giorgio Ruffolo mi dà ragione sul problema da me sollevato, ma torto sulla colpa della sinistra di anteporre il problema della distribuzione a quello della creazione della ricchezza. In verità il mio discorso è tutto a futura memoria. Quindi emendo il mio dire così: finché le vacche sono grasse è giusto che la sinistra si preoccupi di distribuire; ma quando le vacche diventano magrissime anche la sinistra deve rifare i suoi conti. Ma il problema, aggiungo, non è tanto della sinistra in generale, ma ancor più del nostro sindacalismo. Che da un lato si permette una frammentazione selvaggia e inaccettabile, e che dall'altro esibisce sindacati che hanno la fortuna- sfortuna di essere i più forti e, contestualmente, i meno riformisti (nel senso socialdemocratico del termine) dell'Occidente. Ma noi abbiamo ancora un sindacalismo invecchiato che nella Cgil non dimentica le sue origini barricadiere e comuniste, e dedito soprattutto a salvare il posto di lavoro dei «vecchi», di chi il posto di lavoro lo ha già. Anche su questo fronte, allora, siamo assai malmessi. Tremonti ha ragione di essere spaventato.

24 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 27, 2009, 10:26:23 am »

LE RADICI DEL TRACOLLO DEL PD

Una sconfitta cercata a lungo


di Giovanni Sartori


Povera sinistra. Peggio messa di come è non potrebbe. E l'onda lunga che l’ha portata al tracollo viene da lontano, da molto più lontano di quanto i commentatori ricordino.

L’altro giorno l’elezione di Dario Franceschini a nuovo segretario del Pd è stata una decisione sensata e forse l’unica possibile. Ma il salvataggio viene rinviato a elezioni primarie che dovrebbero spazzare via la vecchia nomenklatura e miracolosamente scoprire nuovi leader. Le primarie sono state una fissazione di Prodi; e sinora si sono rivelate un enorme dispendio di energie senza frutto, che non hanno fondato o rifondato un bel nulla. Per carità, riproviamo ancora. Ma non illudiamoci che scoprano ignoti né quello che non c’è. A oggi ogni capopartito ha allevato i suoi e cioè potenziato la sua fazione, la sua corrente, promuovendo gli obbedienti (anche se deficienti) e cacciando gli indipendenti (anche se intelligenti). Pertanto la crisi di leadership della sinistra è una realtà dietro la quale non è detto che si nascondano geni incompresi, geni repressi.

Il guaio risale al fatto che per una trentina di anni abbiamo avuto la più grande sinistra dell’Occidente, che era però egemonizzata dal Pci e forgiata dallo stalinismo di Palmiro Togliatti. Non era una sinistra addestrata a pensare con la sua testa, ma invece ingabbiata nel preconfezionato di un dogmatismo ideologico. Caduta la patria sovietica, quel pensare e pensarsi che altrove ha rifondato la sinistra su basi socialdemocratiche da noi non si è risvegliato. La fede comunista si è semplicemente trasformata in un puro e semplice cinismo di potere; e il non pensare ideologico, il sonno dogmatico del marxismo, si è semplicemente trasformato nella sconnessa brodaglia del «politicamente corretto». Una brodaglia nella quale anche il semplice buonsenso brilla per la sua assenza.

Dunque la malattia è grave e di vecchia data. Una malattia che coinvolge anche — passando al versante pratico del problema — l’erosione dei bacini elettorali tradizionali della sinistra. In passato la sinistra era, in tutta semplicità, il partito del proletariato operaio. Quel proletariato non esiste più. Lo ha sostituito un sindacalismo che in passato obbediva al partito, ma che ora lo condiziona. Domanda: il collateralismo o condizionamento sindacale conviene davvero, oggi, alla «sinistra di governo » (come diceva Veltroni)? Ne dubito. La Cgil è oramai un sindacato antiquato «di piazza e di sciopero», abbandonato dai giovani, che rappresenta i pensionati (la maggioranza dei suoi tesserati), che difende gli sprechi e anche i fannulloni. E siccome siamo al cospetto di una gravissima crisi economica, la sinistra non la può fronteggiare appesantita dalla palla al piede della Cgil. O così mi pare.

Altra domanda, questa volta sul collateralismo (dico così per dire) con la magistratura. Fermo restando che l’indipendenza del potere giudiziario è sacrosanta, il fatto resta che gli italiani sono indignati per la sua lentezza e inefficienza. Prodi si vanta di avere vinto due elezioni. Allora ci spieghi perché, in vittoria, non abbia alzato un dito per aiutare e anche costringere la giustizia a funzionare. La sinistra fa bene a difendere il potere giudiziario dagli assalti interessati di Berlusconi. Ma fa male a non difendere un cittadino così mal servito da una giustizia, diciamolo pure, ingiusta.

25 febbraio 2009
da corriere.it
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