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Autore Discussione: Giovanni SARTORI. Politologo fuori dagli schemi  (Letto 83408 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 05, 2009, 03:25:37 pm »


«Ecco perché mi fidanzo a 80 anni»

Il politologo di fama internazionale racconta come ha conosciuto Isabella Gherardi, pittrice e fotografa
 

Isabella Gherardi e Giovanni Sartori sono una coppia nuova. Lei artista, pittrice e fotografa molto apprezzata fuori e dentro Italia, autrice di eterei, fantasmagorici nudi di donna, tutti occhi grandi e pubi scurissimi; lui, politologo tra i più letti e studiati al mondo, arcigno censore dei mali delle istituzioni patrie, editorialista rispettato e temuto, professore a Firenze, la sua città, poi a Stanford, Yale, Harvard, alla Columbia University di New York, nove lauree honoris causa…

Sartori: «Dica pure quanti anni ho, così siamo a posto…».
Ma forse non è elegante.
S.: «Tanto è su tutte le mie biografie».
Ottantacinque anni.
S.: «Esagerato : non ancora».
Professore, ma com’è andata?
S.: «Ah, non guardi me. E si ricordi: io sulla mia vita privata racconto solo bugie».
E va bene. Isabella, com’è andata?
Gherardi: «La prima volta che ci siamo visti, tre anni fa...».
S.: «Ma secondo me erano trenta», levandosi e mettendosi in continuazione gli occhiali.
Allora è vero, che racconta bugie!
Isabella Gherardi butta indietro la testa, ride: «Diciamo qualche anno fa… È stato alla presentazione di un libro. Io ero molto curiosa di incontrarlo, sentivo tutte le signore che cinguettavano: “Come è fascinoso il professore, come è  fascinoso il professore…Però tutto finì lì».
Perché anche Sartori, come molti uomini di età importante, esercitano un fascino tutto particolare sulle donne assai più giovani di loro. Lei come se lo spiega?
G.: «Io posso dirle che lui mi ha affascinato con la sua intelligenza, la sua carica vitale, il suo modo rigoroso di pensare, la capacità di attrarti e di tenerti legata a sé con la parola e il ragionamento. Senza contare le sue fulminati battute».
S.: «Concordo, he he…».
Dicono che gli intellettuali siano tutti vanitosi. Lei si considera vanitoso, professor Sartori?
S.: «Io? Molto. A Carnevale mi travesto sempre da tacchino e faccio la ruota».
G.: «Come dice il critico d’arte Achille Bonito Oliva: “La vanità è il pret à porter del narcisismo”».
S.: «…però credo che l’arma seduttoria per eccellenza, per un uomo, sia la persistenza».
Prendere la donna per sfinimento.
 G.: «Non sono d’accordo. Io non cederei mai a una persona che mi corteggia in maniera ossessiva».
E infatti nel vostro caso è avvenuto il contrario, mi sembra.L’iniziativa è partita da Isabella.
S.: «Ma io non ho detto di me stesso di essere persistente e insistente con le donne. Però ho molti amici che sono così. E poi il fatto è che molte donne soffrono di tempo vuoto. Lo spasimante lo riempie».
E allora come fa a riscuotere tanto successo con le donne?
S.: «Tanto mica tanto. La mia forza resta che non mi preoccupo della mia età».
Sono curioso di sapere cos’ha trovato il professor Sartori nell’architetto-pittrice-fotografa Isabella Gherardi, che gli ha stravolto la vita.
S.: «La prima cosa è che Isabella ha la sua vita e il suo lavoro (oltre ad essere una gran bella donna). Io sono terrorizzato dalle donne che dopo aver prodotto e allevato i loro figli non sanno più cosa fare. Aggiungo che Isabella legge moltissimo.Che lei sapesse chi era Samuel Johnson poteva anche capitare; in fondo Johnson è stato una delle personalità di maggiore spicco del Settecento inglese. Ma che avesse letto la sua biografia scritta da James Boswell, mi ha lasciato di stucco. Un giorno, poi, a tavola, le ho detto che io ero “apoto” e Isabella non ha fatto la faccia inebetita che fa lei in questo momento».
Confesso che mi sento preso in castagna.
S.: «Viene dal greco antico. Significa “colui che non beve”.Fu un conio di Papini e Prezzolini».
Capito. Tutto questo, però, è capitato quando? Poi che è successo?
G.: «L’anno scorso, a maggio, ho proposto al Corriere della Sera, edizione di Firenze, per il quale curo una rubrica, di fotografare il professor Sartori insieme ad altri uomini che secondo me incarnano una certa idea di eleganza. E quando mi sono trovata faccia a faccia con lui, sa cosa mi ha detto ? “Signorina, qui a Firenze non ho molto mercato. A New York, invece …”. E mi ha piantata lì».
S.: «Non è che proprio non avessi mercato, a Firenze. Solo che a New York, con l’appartamento situato al ventisettesimo piano e una vista quasi a trecentosessanta gradi, con affaccio sul Central Park, il “mercato” era più ampio».
G.: «Poi a Settembre l’ho incontrato di nuovo a New York, dove mi ero recata per fare delle interviste fra cui la sua. Volevo scrivere un articolo su alcuni personaggi e gli oggetti per loro più importanti. Così scoprii che Sartori aveva un tavolo straordinario al quale è molto legato.E per fotografarlo andai nella sua casa di New York».
Un tavolo?
S.: «Il mio tavolo da lavoro preferito, un pezzo del Settecento, molto stretto e lungo circa tre metri».
Galeotto fu il tavolo, quindi.
G.: «Eh sì, forse è stato tutto merito di quel tavolo. Comunque ci siamo messi insieme alla fine dell’ autunno».
 
Giovanni Sartori e Isabella Gherardi (foto di Adolfo Franzò per «A») 
Ma come vivono insieme un politologo di fama mondiale e un’artista fuori dagli schemi? Cosa imparate l’uno dall’altra?
S.: «Lei mi mette a soqquadro la giornata, mi sposta tutto. Però fa dei quadri che mi incantano e allietano la casa. Questo qui», indica un enorme acquerello di Isabella che sembra un autoritratto, con gli occhi grandissimi, la bocca socchiusa, «è quello che mi piace più di tutti».
G.: «Noi siamo anche caratterialmente diversi. Lui è posato, metodico, razionale. Io sono uno spirito inquieto, impulsivo, mi piace improvvisare. E questa diversità ci compensa e ci arricchisce».
Veniamo ai giovani-vecchi in politica, professore.
S.: «Non se ne salva uno. Evitiamo di fare nomi, ma oggi, a destra come a sinistra non vedo proprio nessuna personalità di spessore, non uno statista in pectore. Niente».
Nemmeno nella storia passata c’è stato qualcuno che ha saputo fare qualcosa di buono?
Mentre il professore ci pensa, Isabella butta là: «Forse Craxi, i primi tempi».
S.: «Craxi era personalmente arrogante e antipatico, ma ebbe il merito di emancipare il partito socialista dalla sudditanza al Pci. Solo che dopo è rimasto invischiato nei meccanismi dei soldi e del potere».
Pensa anche lei che in Italia ci sia una dittatura strisciante?
S.: «Storicamente la dittatura ha sempre comportato la trasformazione dell’assetto istituzionale, come successe con Mussolini e Hitler. Berlusconi, invece, non ha bisogno di cambiare la Carta costituzionale, la sua strategia è quella di occupare tutti i posti di comando. No, il suo sistema di potere lo definirei piuttosto una sorta di sultanato, con tanto di harem e di corte. Come spiego nell’ultima raccolta per Laterza, dei miei editoriali sul Corriere, che si intitola appunto Il Sultanato” di prossima pubblicazione a marzo».
E io che speravo di chiudere l’intervista con un messaggio positivo, professore. Come facciamo?
S.: «Facciamo concludere a Isabella».
Allora parliamo di arte. È possibile che la crisi in cui ci stiamo dibattendo, alla fine aiuterà a riscoprire l’arte in sé e non come business legato alle quotazioni di mercato?
G.: «Io credo di sì. E credo anche che stiano per finire certi stereotipi di una certa accademia, legati a presunte correnti artistiche di sinistra o di destra. Credo, insomma, che de-ideologizzata e de-mercantizzata, l’arte tornerà forse ad essere la pura espressione del sentimento e dell’idea».
Avete progetti per il futuro?
S.: «Vuol sapere se c’è aria di matrimonio? Ci penseremo nei prossimi decenni».

Mario Prignano
05 marzo 2009

da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 08, 2009, 03:52:16 pm »

SCIOPERI E REGOLE

Libertà di sopruso


di Giovanni Sartori


Quasi da sempre il diritto di sciopero è stato abusato dagli scioperanti e tollerato oltre ogni misura da tutti i nostri governi. Ora il governo Berlusconi si propone di disciplinarlo. È una decisione tempestiva e più che mai necessaria, visto che ci aspettano tempi durissimi di dilagante disoccupazione e, di riflesso, di esasperato «ribellismo» con blocchi di strade, ferrovie, aeroporti e anche di servizi pubblici: blocchi che saranno «cattivi», carichi di rabbia e infiammati dalla disperazione. Come qualsiasi indovino avrebbe indovinato, a Epifani, e con lui alla Cgil, la cosa non piace per niente. Tra le sue tante obiezioni emerge la tesi che il diritto di sciopero è una «libertà fondamentale».

Sì, nei limiti; ma assolutamente no fuori limiti. La regola fondante di tutte le libertà è che la mia libertà non deve danneggiare né ostacolare la libertà di nessun altro. Cioè, la mia libertà è delimitata dalla libertà degli altri (e viceversa). Dal che si ricava che uno sciopero dei servizi o dei trasporti è una patente violazione dei diritti di libertà di tutti. Lo sciopero nasce, nell’800, nelle fabbriche, e in quel contesto il danno è tra le parti in causa, tra un prestatore d’opera e il suo datore di lavoro. Invece nell’odierno andazzo italico il cittadino diventa ostaggio, e anche vittima, di un conflitto che non lo riguarda. Libertà o sopruso? A me sembra libertà di sopruso. Tantovero che negli Stati Uniti lo sciopero dei servizi (ivi inclusi i trasporti) è quasi sempre vietato, e che i conflitti di questo tipo sono sottoposti ad arbitrato obbligatorio.

Ricordo due casi. Nel 1981 i controllori del traffico aereo, forti della loro insostituibilità (così credevano), sfidarono il divieto di sciopero. Il presidente Reagan li licenziò tutti in tronco, e non mi risulta che furono mai reintegrati. Certo è che da allora nessuno si è riprovato. L’altro caso, quello della City Transit Authority di New York che ogni giorno fa entrare e uscire da Manhattan 7,5 milioni di passeggeri, è del 20 dicembre 2005. Quello sciopero, che era appunto illegale, non durò nemmeno due giorni. Il pomeriggio del 20 il giudice competente (proprio non siamo in Italia) impose al sindacato una multa di un milione di dollari al giorno. Il sindacato capitolò subito. Invece il nostro legislatore prevede multe individuali. Campa cavallo.

Tornando in patria, sulla proposta che uno sciopero debba essere proclamato da un sindacato rappresentativo del 51 per cento della categoria in agitazione, Epifani obietta così: «Ma perché può scioperare il 51 per cento e il 49 no? Che senso ha?». La risposta è facile: ha esattamente lo stesso senso di tutte le decisioni prese a maggioranza. Quando poi votiamo con il principio maggioritario in collegi uninominali, può persino accadere che il primo, il più votato, prenda tutto (il seggio) con meno del 40 per cento dei voti. È la regola maggioritaria, bellezza. Sono tutte cose che Epifani sa benissimo. Proprio per questo mi sconcerta che qui il Nostro si atteggi a difensore dei suoi «nanetti», del pulviscolo dei micidiali sindacati autonomi (spesso di quattro gatti) che ci affliggono. Emi sembra un pessimo segno, perché gli scioperi selvaggi e le occupazioni non aiuteranno in alcun modo la crisi economica, ma anzi la aggraveranno. Essendo noi già malati gravi.

08 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 13, 2009, 03:49:23 pm »

LA SINISTRA IN CRISI

Due tipi di partito


di Giovanni Sartori


C’è il partito elettoralistico che esiste per vincere le elezioni e catturare il governo, e all’altro estremo esiste il «partito testimone» che si costituisce per affermare valori etico-politici e, appunto, dare testimonianza di una buona città politica. Questo secondo tipo di partito sa di non essere maggioritario, ma non se ne cruccia più di tanto. Se la sua volta verrà, tanto meglio; ma se non viene non è la fine del mondo. Forse il tempo è galantuomo. Diamo tempo al tempo. Dopo la recente rovinosa esperienza del governo Prodi la sinistra torna a scoprire che il nostro Paese non ha mai avuto una maggioranza di elettorato di sinistra. Certo, non l’hai mai avuta con il Pc. Ma nel 1994 la sinistra (l’allora Pds di Occhetto) e Forza Italia di Berlusconi fecero quasi pari (alla Camera). Oggi non più. Oggi il distacco è fortissimo.

Perché? Una bella domanda sulla quale ognuno dirà la sua. La mia è che la sinistra ha commesso sbagli colossali, con D’Alema che avrebbe regalato a Berlusconi l’impero della tv (tutta quanta), e con Prodi che si è ossessivamente dedicato alla creazione di un partito «contro natura» tra cattolici di sinistra e sinistra «dura» e laica. La legge vigente sul conflitto di interessi che in sostanza consente a Berlusconi non solo di essere il monopolista di tutta la tv privata ma anche, quando vince le elezioni, di controllare a suo piacimento tutta la tv pubblica, è la legge Frattini (oggi ricompensato con il ministero degli Esteri). Ora, la sinistra poteva benissimo approvare, tra il 1995 e il 1998, una legge che invece bloccava Berlusconi. Non l’ha fatto. Il testo c’era (steso dal senatore Passigli), era ben disegnato e fu approvato dal Senato nel 1995. Decadde per lo scioglimento anticipato della legislatura, ma fu subito ripresentato dal centrosinistra nel 1996. Dopodiché niente. Niente anche se allora esisteva una sicura maggioranza (ci stava anche la Lega) per vararlo. Non avevo mai capito, confesso, questa stupefacente inazione.

L’arcano è stato poi inopinatamente svelato da Violante, che nel 2002 era capogruppo Ds a Montecitorio, con questa dichiarazione: nel 1994 a Berlusconi «è stata data la garanzia piena che non gli sarebbero state toccate le televisioni ». Garanzia da chi? I sospetti possono soltanto convergere su D’Alema, a quel tempo segretario del Pds. (Per la precisione, la citazione è del Corriere del 1˚Marzo 2002; e lo stesso si legge su La Repubblica). Dunque l’inerzia della XIII legislatura è oramai spiegata; resta però da spiegare come mai D’Alema (o se no chi?) abbia condannato la sinistra a restare a terra «senza voce». Quanto a Prodi, ho sempre obiettato alle «fusioni a freddo». I partiti si fondono solo se vengono drammaticamente sconfitti alle elezioni; altrimenti gli apparati e le posizioni di potere di due partiti sopravvivono e si contrastano nel partito unificato (a chiacchiere), con il bel risultato di perdere elettori cattolici al centro ed elettori di sinistra a sinistra. E in questi frangenti Franceschini ha in mente di impegnarsi a corpo morto nelle Europee, invece di defilarsi impegnandosi nel ridare pulizia e serietà al partito «testimone» (altro che a «vocazione maggioritaria »!) che si trova a dover gestire.

13 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Aprile 24, 2009, 10:30:45 am »

ECOLOGIA & ECONOMIA

Una terra verde produce meglio


di Giovanni Sartori


La Terra come sta? Di recente abbiamo avuto tanti terribili dispiaceri — dal terremoto all’Aquila alla depressione economica globale—che lo stato di salute del nostro pianetino (che diventa tanto più piccolo quanto più i suoi abitanti diventano numerosi) è stato quasi dimenticato. Il 22 aprile è stata celebrata, nel mondo, la «giornata della Terra». Da noi questa celebrazione è passata quasi inosservata. L’importante notizia resta che, dopo le sciagurate presidenze Bush, gli Stati Uniti di Obama si stanno rapidamente sensibilizzando anche al problema ecologico. E un po’ anche la nostra Confindustria (Marcegaglia dixit).

Ma è proprio vero che il surriscaldamento del nostro pianetino sia opera dell’uomo, che sia colpa nostra? Il sempre più sparuto plotone di scienziati che lo nega pur sempre ammette che le emissioni inquinanti dell’uomo contribuiscono, nell’ordine di almeno un 25%, all’effetto serra e quindi alla alterazione del clima. Anche se così fosse (e per i più così non è) in ogni caso non vedo perché non ci si debba impegnare a oltranza nel combattere la catastrofe climatica che ci minaccia. Ciò premesso, il problema non è solo il clima. E’ anche che manca, e mancherà sempre più, l’acqua potabile, o comunque l’acqua per l’agricoltura. Dal che consegue che nelle zone povere e sovrappopolate mancherà il cibo, e quindi che in Africa, India e anche in Cina incombe la minaccia di terribili carestie. Non basta.

Un ulteriore problema è che per sopravvivere in tanti, in troppi, abbiamo sempre più bisogno di energia, mentre le nostre riserve di energia (a cominciare dal petrolio) sono in via di esaurimento; e non ci sarà, temo, vento o sole che bastino per soddisfare la fame di energia dei sette miliardi di esseri umani ai quali presto arriveremo, per non parlare dei nove miliardi stimati da infauste previsioni. Tutti i suddetti problemi non esisterebbero se fossimo ancora i tre miliardi di quando io nascevo. Il che equivale a dire che la popolazione della Terra non deve crescere ma diminuire. Elementare, mi sembra. Ma per la Chiesa l’argomento è tabù. E anche il grosso degli economisti ha sinora puntato su uno «sviluppismo » (arricchismo?) infinito, come se noi vivessimo in uno spazio illimitato provvisto di risorse inesauribili. Il guaio è che da gran tempo gli economisti leggono solo se stessi e che si sono chiusi anche loro nella propria nicchia specialistica.

Così come i giuristi evadono dai problemi della realtà dichiarandoli extra-giuridici, alla stessa stregua gli economisti eliminano i problemi che non sanno o non vogliono affrontare sotto la voce externalities, di effetti esterni che non li riguardano. Vedi caso, tra queste externalities c’è l’inquinamento dell’atmosfera e dell’acqua, la deforestazione selvaggia che desertifica il suolo e, insomma, tutti i problemi posti dal tracollo ecologico. Eppure è di tutta evidenza che il danno ambientale già prodotto è enorme e che comporterà costi enormi di riparazione e di ripristino. Ammesso che non sia già troppo tardi. Dio non voglia.

E’ vero che al momento l’emissione dei gas inquinanti sta calando; ma è perché siamo in una recessione che chiude industrie. E un male che ne scaccia un altro non è la soluzione del problema. Per questo rispetto la soluzione è di capire che l’avvenire dello sviluppo industriale è la sua riconversione in un’economia «verde» di risparmio energetico.

24 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Maggio 17, 2009, 11:24:40 am »

LEGGE ELETTORALE

Gli esiti nocivi del referendum


Tra poco saremo chiamati a votare parecchio. Ma il voto che sin d’ora accende gli animi e fa più discutere è sul referendum Guzzetta-Segni in calenda­rio per il 21 giugno: un refe­rendum che modifica il si­stema elettorale in vigore, il giustamente malfamato Porcellum. Per l’esattezza i quesiti referendari sono due. Il secondo propone di vietare le candidature mul­tiple, e questa proposta è sacrosanta. Però il quesito importante è il primo, che mantiene il premio di mag­gioranza ma lo attribuisce soltanto alla lista vincente e non più alla coalizione vincente. Di questa propo­sta 1) si deve dire bene, 2) si può aggiungere che è inutile, ma 3) si deve an­che dire che è pessima.

Bene perché il Porcel­lum esibiva un controsen­so, il controsenso di predi­sporre uno sbarramento (alla Camera il 4% per un partito, il 10 per una coali­zione) e di consentire al tempo stesso coalizioni che lo avrebbero scavalca­to. Per esempio, cinque «nanetti» del 2% cadauno si potevano alleare e così beffare la barriera.

Il che non toglie, però, che il divieto di coalizioni previsto dal referendum fosse inutile. Inutile per­ché la legge parla di «liste» e non di partiti, e quindi quel divieto sarebbe stato aggirato dall’invenzione, per le elezioni, di due «li­stoni » acchiappatutti al co­perto dei quali restavano e sarebbero riemersi i partiti di prima. Insomma, fatta la legge, trovato l’inganno. In­ganno lucidamente previ­sto da Franceschini, allora presidente dei deputati Ds, che a quel tempo era evi­dentemente ancora lucido. Pessima. Pessima per­ché si tratta davvero di un premio di maggioranza truffaldino e distorcente. Il professor Guzzetta lo pote­va tranquillamente cancel­lare. Non lo ha fatto. Pecca­to.

Un premio di maggio­ranza non è truffaldino (co­me non lo fu all’inizio de­gli anni Cinquanta) quan­do rinforza una vera mag­gioranza, e cioè quando ri­chiede, per scattare, che la coalizione vincente arrivi almeno al 50% del voto. In­vece il premio previsto dal referendum scatta in ogni caso, e così trasforma in maggioranza la maggiore minoranza. Anche se, per esempio, il Pdl ottenesse al­le prossime elezioni soltan­to il 30% dei voti, otterreb­be lo stesso alla Camera il 55% dei seggi. Già lo scrive­vo in data 1 novembre 2006: il rischio più grave è che «un partito di maggio­ranza relativa possa vince­re il premio senza aggregar­si con nessuno e così con­seguire una maggioranza assoluta tutto da solo: il che prefigura, in ipotesi, un inedito strapotere di Berlusconi». Purtroppo l’ipotesi di allora è la certez­za di oggi.

Che fare? Si avverta: il si­stema elettorale, in Italia, è stabilito con legge ordina­ria a maggioranza sempli­ce. Pertanto non è espres­sione di una volontà popo­lare ma di una normale vo­lontà parlamentare. Ma se sottoposto a referendum, allora ottiene un rinforzo di legittimità. Nel caso in esame, se vinceranno i No (il rifiuto delle modifiche referendarie) allora si po­trà dire che il popolo italia­no vuole il Porcellum così come è. Se invece vincesse­ro i Sì, allora si dirà che la sovranità popolare vuole una maggioranza ope legis.

E in entrambi i casi ci do­vremo tenere questa mani­polazione truffaldina a lun­go.
Allora, che fare? Perso­nalmente io non voterò. Non per indifferenza o pi­grizia, ma perché rifiuto di conferire legittimità a due soluzioni che sono entram­be nocive. Non sarà, que­sta, una soluzione brillan­te. Ma è forse il male mino­re.


Giovanni Sartori

17 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #35 inserito:: Giugno 15, 2009, 11:43:27 am »

IMMIGRAZIONE E DIRITTO D’ASILO

Il pozzo senza fondo

di  Giovanni Sartori


Per chi non lo sapes­se, il pozzo di San Patrizio è un pozzo senza fondo, e quin­di un pozzo che non si riempie mai. Finora risulta­va che la terra fosse un pia­neta tondo e racchiuso in se stesso. Ma per i «popola­zionisti » e per chi si occu­pa di migrazioni di massa è, si direbbe, un pozzo di San Patrizio. Siamo più di 7 miliardi? Nessun proble­ma, il pozzo li ingurgita tut­ti. Sarebbe lo stesso se fossi­mo 77 miliardi: provvede­rebbe sempre San Patrizio. Un Santo del VI secolo che la Chiesa dovrebbe rivaluta­re.

Ma procediamo con ordi­ne. Di recente Alberto Ron­chey ricordava su queste co­lonne che un secolo fa gli africani erano 170 milioni, mentre oggi si ritiene che siano 930 milioni. La sola Nigeria potrebbe arrivare, nel 2050, a 260 milioni di abitanti; e le Nazioni Unite stimano che Paesi come l’Etiopia, il Congo e il Su­dan, già stremati da ricor­renti carestie, rischiano di raddoppiare, entro il 2050, la loro popolazione. E men­tre la popolazione cresce a dismisura, le risorse ali­mentari del continente afri­cano sono state malamente dilapidate dall’erosione del suolo e dalla desertificazio­ne.

Questi sono, all’ingros­so, i numeri della «pressio­ne dell’Africa» richiamata da Ronchey, che è la pres­sione a noi più vicina e quindi più minacciosa. Una pressione che si ascrive alla categoria degli «eco-profu­ghi », e correlativamente de­gli «eco-rifugiati». Che fa­re? Come accoglierli? Fino­ra si è parlato di diritto di asilo. Ora si comincia a par­lare di «profughi ambienta­li ». La prima categoria è im­propria e difficile da accer­tare, mentre la seconda è davvero troppo larga, trop­po onnicapiente: presuppo­ne che il mondo sia quel pozzo di San Patrizio che non è.

Il diritto di asilo è stato, nei millenni, una protezio­ne, una immunità religiosa dalla «vendetta del san­gue » (i parenti di un ucci­so, o simili) per chi si rifu­giava in un luogo sacro. Questo asilo trova la sua massima espansione nel­l’Europa medievale, per poi venir meno. E il punto è che l’asilo non è mai stato riconosciuto come «dirit­to » di intere comunità e tanto meno per motivi poli­tici. Pertanto il diritto di asi­lo concepito come titolo di entrata in un Paese per i ri­fugiati politici è una recen­te invenzione. E andiamo ancora peggio con la nozio­ne di «vittime ecologiche». Questa categoria è davvero smisurata e sconfitta dai numeri. Gli eco-profughi sono già centinaia di milio­ni; e basterebbe che il disse­sto del clima spostasse i monsoni per ridurre alla fa­me mezzo miliardo di india­ni.

Il rimedio certo non può essere di accogliere tutti e di un Occidente che si pren­de carico dei diritti di asilo e dei profughi ambientali. Per l’Africa un’idea sarebbe di «rinverdirla», di render­la di nuovo fertile e vivibi­le. Un po’ tardi, visto che l’agricoltura è già per metà perduta, che i laghi si pro­sciugano e che la desertifi­cazione è irreversibile. Per carità, l’Africa va aiutata. Ma tutto è inutile se e fin­ché non apriremo gli occhi alla realtà, al fatto che l’Afri­ca (e non soltanto l’Africa) muore di sovrappopolazio­ne, e che la crescita demo­grafica (ovunque avvenga) va risolutamente affrontata e fermata.

15 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #36 inserito:: Agosto 16, 2009, 04:21:51 pm »

I CONFRONTI SBAGLIATI CON IL PASSATO

La salute dell'ambiente

Passa un Ferragosto, passa l’altro, torno sempre al tema dell’ambiente e del clima.

Chi la dura la vince, dice il proverbio. Speriamo che sia vero.


Che tempo fa? Che tempo farà? E’ quel che ogni giorno vien spiegato e previsto dai meteorologi. Qual è il clima, e cosa succede del clima, è invece una domanda del tutto diversa che verte, nel lungo periodo, sulle condizioni di siccità, calore, inquinamento e vivibilità del nostro pianeta. Eppure moltissime persone confondono le due cose. L’anno scorso — dicono — ha piovuto poco e ha fatto molto caldo; ma quest’anno ha piovuto molto e siamo stati bene. Dunque — concludono — quelle dei climatologi sono balle. E se la pensa così anche un bravo giornalista come Pietro Calabrese, mi tocca di rispiegare tutto daccapo.

L’indicatore più ovvio del riscaldamento climatico è che i ghiacciai si stanno sciogliendo, con una velocità imprevista, dappertutto: in Asia, Africa, Europa, sulle Ande, ai Poli. Abbiamo poi misure precise della quantità crescente di anidride carbonica e di altri gas serra nell’atmosfera. Pertanto la disputa non è più sul riscaldamento del clima terrestre — il fatto è indubbio —ma sulle sue cause.

Chi dubita che la causa prima, primaria, «siamo noi», ricorda che i cicli di riscaldamento e di raffreddamento della Terra sono sempre avvenuti, e quindi che possono soltanto dipendere da cause astronomiche. Sì, ma nel ciclo che stiamo vivendo sono entrate due nuove variabili: la società industriale, che è fortemente inquinante, e un gigantesco «salto» in popolazione. E l’entrata in gioco di questi due nuovi fattori inficia le analogie con il passato. Tantovero che la stragrande maggioranza degli studiosi ritiene che il riscaldamento in corso non appartiene alla naturale variabilità del clima.

Beninteso la scienza non è mai unanime. C’è ancora chi nega, per esempio, che il virus dell’Hiv sia la causa dell’Aids. Inoltre, e soprattutto, il problema del clima e dell’ambiente è davvero un macro- problema, tanto grande e complesso da non consentirci di stabilire chi sia un competente e chi no, chi abbia davvero voce in capitolo e chi no. Ma non c’è dubbio che la scienza nel suo complesso punti il dito su un malfare e strafare dell’uomo, su cause «antropiche». Ciò posto, a che punto siamo?

La buona notizia è che ci siamo liberati del «texano tossico», del nefasto ex presidente Bush, e che il suo successore Obama ha già fatto approvare dal Congresso una severa legge anti-inquinamento che prevede una riduzione dei gas serra dell’83% entro il 2050. E l’America è un Paese che quando si mobilita, si mobilita sul serio. Anche l’Unione europea si è convinta, e propone la formula del 20-20-20 (meno 20% di emissioni di anidride carbonica, più 20% di efficienza energetica, più 20% da fonti di energia rinnovabili). Ma Berlusconi è come Bush, Berlusconi non ci sta. Combatte persino le esigue (e insufficientissime) riduzioni imposte dal protocollo di Kyoto; e a dicembre ha brutalmente dichiarato a Bruxelles: «Trovo assurdo parlare di emissioni quando è in atto una crisi». Sì, ma no. Perché una catastrofe ecologica sarebbe mille volte più grave della crisi in atto.

Giovanni Sartori
15 agosto 2009
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« Risposta #37 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:48:02 pm »

 LA CHIESA E LA LEGGE SUL FINE VITA

Il testamento senza volontà


Paradossalmente, quando la Dc era al potere la Chiesa non comandava. De Gasperi e altri leader de­mocristiani agirono, rispet­to alle richieste del Vatica­no, secondo coscienza e seppero anche dire secca­mente No. Oggi la Chiesa comanda (parecchio) e Pro­di, pur cattolico fervente, la indispettì per aver osato dire che era «un cattolico adulto», e cioè capace di ra­gionare con la sua testa. E l’ulteriore paradosso è che oggi il più «aperto» ai vole­ri del Vaticano sia Berlusco­ni. Bossi tiene, e sulla im­migrazione clandestina non si piega. Invece Berlu­sconi, che non è certo un cattolico esemplare, è pron­to a cedere quasi su tutto (salvo che sulla sua perso­na). Il testamento biologi­co approvato tempo fa dal Senato e fortemente voluto dalla Chiesa, è stato appro­vato dalla sua maggioran­za. Ed è arrivato ieri alla Commissione competente della Camera per l’approva­zione definitiva. Si prevede che sarà ritoccato. Anche così resterà un testamento che viola la volontà del te­statore. Perché questo è l’intento della Santa Sede.

La Chiesa, e per essa il suo Pontefice, può sbaglia­re? Certo che può sbaglia­re. Tantovero che agli ulti­mi Pontefici è venuto addi­rittura il vezzo di chiedere scusa per errori e anche male azioni di loro prede­cessori. D’altronde la dottri­na della infallibilità papale è recente, è del 1870, e si ap­plica soltanto ai pronuncia­menti solenni, ex cathe­dra, in materia di fede e di morale. Quando papa Rat­zinger è andato in Africa a discettare di preservativi e di Aids, il suo discettare non era solenne ed era an­che sicuramente sbagliato. Nemmeno è vero che in quella occasione il Papa non abbia detto niente di nuovo. Sì, il Vaticano si op­pone da sempre agli anti­concezionali.

Ma un Ponte­fice non ha mai asserito, che io ricordi, che «la di­stribuzione dei preservati­vi » non serva a combattere davvero l’Aids: una tesi (ci­to dalla importante rivista Lancet ) che «manipola la scienza » .

Restiamo al testamento biologico, in merito al qua­le il Vaticano vuole ad ogni costo impedire ulteriori «omicidi», se non assassi­nii, alla Eluana. Perché, nel­l’autorevole dire del cardi­nale Bagnasco (presidente della Conferenza episcopa­le italiana, e cioè dei nostri vescovi), non è accettabile «un diritto di libertà tanto inedito quanto raccapric­ciante: il diritto di mori­re ». Ma «raccapricciante» è invece per me la tesi del cardinale.

Come è ovvio, i miei di­ritti di libertà sono limitati e delimitati dai diritti di li­bertà degli altri. Cioè, io so­no libero finché non inva­do e danneggio la libertà al­trui. E viceversa. L’unica ec­cezione, l’unico diritto di li­bertà assoluto, che spetta soltanto a me perché è sol­tanto «solitario», è il mio diritto di morire (di morte naturale) come scelgo. Per­tanto la novità, l’inedito, è che si vuole persino negare la libertà di morire senza inutili sofferenze e prolun­gate agonie. Sia chiaro: questa imposizione, que­sta illibertà, esisterebbe so­lo da noi. Dal che ricavo che il testamento biologico «alla Vaticana» dovrebbe essere rispedito al mitten­te. Libera Chiesa nel suo li­bero Stato. Aggiungi che la partita non è — come ha ben precisato Massimo Sal­vadori — tra cattolici e lai­ci. È, piuttosto, tra un rina­to sanfedismo, un fidei­smo che acceca la ragione e, dall’altro lato, tutte le persone, laiche o cattoli­che che siano, che voglio­no decidere da sé sulla pro­pria sorte, o, se si vuole, malasorte.

Giovanni Sartori
16 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 05, 2009, 06:32:32 pm »

 LA LEGGE ALFANO E LA CORTE

L'anomalia di quel lodo

Poco più di sette an­ni fa — era il 2002 — scrivevo dell'im­munità parlamen­tare e avanzavo una propo­sta: «consentire al parla­mentare di scegliere tra sottomettersi al giudizio della magistratura o invo­care l'immunità. Però nel secondo caso non si potrà ripresentare alle elezioni e dovrà affrontare, a manda­to scaduto, il corso della giustizia. Questa proposta protegge il rappresentan­te nell'esercizio delle sue funzioni ma non consente a nessuno di sfuggire alla giustizia per tutta la vita. Immunità sì; ma non un’immunità che trasfor­mi le Camere in un santua­rio di indiziati in altissimo odore di colpevolezza».

Va da sé che questa pro­posta non fu accolta. Ven­ne invece approvata una legge che fu poi bocciata, nel 2004, dalla Corte Costi­tuzionale. Così ora ci risia­mo con il cosiddetto Lodo Alfano. Le novità sono due. Intanto scompare la parola immunità sostitui­ta dalla melliflua dizione «sospensione del proces­so penale». In secondo luogo questa immunità (perché tale è) si applica soltanto alle più alte cari­che dello Stato, e così di­venta, in apparenza, «im­munità salva-quattro».

In apparenza, perché an­che questo è un camuffa­mento. I presidenti delle due Camere non hanno mai chiesto un’immunità privilegiata, speciale, né si capisce perché ne abbiano bisogno, e cioè perché debbano essere insostitui­bili. Quanto al capo dello Stato, l'inquilino del Quiri­nale è già tutelato dall'arti­colo 90 della Costituzione, che lo rende indiziabile soltanto per «alto tradi­mento e per attentato alla Costituzione»; e in tal ca­so «è messo in stato d'ac­cusa dal Parlamento» (non dalla magistratura). Ne consegue che la «sal­va- quattro» è in realtà una cortina fumogena per una leggina ad personam (dav­vero con fotografia) che è soltanto «salva-uno» che è soltanto salva-Cavaliere.

Il fatto è che in tutte le democrazie un capo del governo viene sostituito senza drammi e senza che questo evento «possa osta­colare seriamente l'eserci­zio delle funzioni politica­mente più elevate» (come sostiene melodrammatica­mente l'Avvocatura dello Stato). Melodrammatico o no, l'argomento (discutibi­lissimo) non è un argo­mento giuridico. La Corte, che udirà il caso domani, dovrà soltanto valutare se il privilegio di intoccabili­tà a vita appetito da Berlu­sconi sia costituzional­mente accettabile.

Già, a vita. Il Lodo parla di sospensione tempora­nea; ma sembra che lasci aperto, senza dare nell'oc­chio, un varco fatto su mi­sura per Berlusconi. Nel te­sto Alfano, articolo 5, la «sospensione non è reite­rabile » se applicata a suc­cessive investiture in altre cariche; ma tace su succes­sive investiture nella stes­sa carica. Pertanto basta che Berlusconi si faccia sempre rieleggere presi­dente delConsiglioperes­sere salvaguardato sine die , senza termine. Intravedo già che l’ono­revole avvocato Ghedini di­rà proprio così. Mi chiedo se la mia pro­posta del 5 agosto 2002 non fosse meglio dei mo­striciattoli escogitati da al­lora.

Giovanni Sartori

05 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #39 inserito:: Ottobre 31, 2009, 12:36:25 pm »

POTERI DEL PREMIER E REPUBBLICA PARLAMENTARE


La costituzione immateriale


Uno dei quesiti messi in eviden­za dalla sentenza della Corte costi­tuzionale sul lodo Alfano è se il capo del governo sia, in Italia, un primus inter pa­res oppure un primus super pares . In nome della «costi­tuzione formale» (il testo della costituzione vigente) la Corte ha ribadito che è un «primo tra pari». Ma in Ita­lia viene invece diffusa l’idea che la costituzione for­male sia oramai superata da una «costituzione materia­le » per la quale Berlusconi incarna la volontà della mag­gioranza degli italiani; il che gli attribuisce il diritto, in nome del popolo, di sca­valcare, occorrendo, la vo­lontà degli organi che non sono eletti dal popolo (tra i quali la Corte costituzionale e il capo dello Stato). Ora, la distinzione tra costituzione formale e costituzione mate­riale, e cioè la prassi costitu­zionale, è una distinzione largamente accolta dalla dottrina. Ma si applica al ca­so in esame?

Precisiamo bene la tesi. Intemperanze verbali a par­te, la tesi di fondo di Berlu­sconi è che lui ha il diritto di prevalere su tutti gli altri po­teri dello Stato (questione di diritto), perché lui e soltan­to lui è «eletto direttamente dal popolo» (questione di fatto). Va da sé che se l’asser­zione di fatto è falsa, anche la tesi giuridica che ne deri­va risulta infondata. Allora, Berlusconi è davvero un pre­mier insediato «direttamen­te » dalla volontà popolare?

Per Ilvo Diamanti questa asserzione è «quantomeno dubbia» perché è smentita da tutti i dati dei quali dispo­niamo. Purtroppo è vero che sulla scheda elettorale viene indicato il nome del premier designato dai parti­ti (un colpo di mano che fu a suo tempo lasciato incau­tamente passare dal presi­dente Ciampi); ma il fatto re­sta che il voto viene dato ai partiti. Pertanto il voto per Berlusconi è in realtà soltan­to il voto conseguito dal Pdl. Che ha ottenuto nel 2008 (cito Diamanti) «il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Insom­ma, intorno a un terzo del 'popolo'». Aggiungi che in questa maggiore minoranza (o maggioranza relativa) so­no inclusi i voti di An, in buona parte ancora fedeli a Fini; e che se guardiamo agli anni precedenti FI non ha mai superato il 30%. De­ve anche essere chiaro che il voto per FI, e ora per il Pdl, non equivale automati­camente ad un voto per Ber­lusconi. Una parte degli elet­tori di destra vota contro la sinistra, non necessariamen­te per Berlusconi. Fa una bella differenza.

Dunque la tesi del popolo che si identifica, quantome­no nella sua maggioranza as­soluta di almeno il 51%, con un leader che vorrebbe onni­potente (o quasi), è di fatto falsa. Chi la sostiene è un im­broglione oppure un imbro­gliato. E questa conclusione è dettata dai numeri.

Ciò fermato, torniamo al­la costituzione materiale. In sede di Consulta gli avvocati di Berlusconi hanno soste­nuto che per la costituzione vivente (come dicono gli in­glesi) il principio che vale per Berlusconi è che sta «so­pra », che è un primus su­per pares . E siccome è possi­bile che questa formula l’ab­bia inventata io in un libro del 1994, mi preme che non venga storpiata. Io l’ho usa­ta per precisare la differen­za tra parlamentarismo clas­sico e la sua variante inglese e anche tedesca del premie­rato. Ma in Italia il fatto è che questa variante non è mai stata messa in pratica. E dunque in Italia non c’è dif­ferenza, a questo proposito, tra costituzione formale e costituzione materiale. Co­me dicevo, la tesi del pre­mierato di Berlusconi volu­to dal popolo è seppellita dai numeri. Sul punto, il punto è soltanto questo.

Giovanni Sartori

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« Risposta #40 inserito:: Novembre 13, 2009, 11:55:36 am »

La Repubblica dei giocattoli

Il bilancio negativo di due progetti


La cosiddetta Se­conda Repubblica ce la stiamo go­dendo da un quin­dicennio. Qual è il bilancio a oggi? Quando ne scrive­ranno gli storici a mente più distaccata della nostra, probabilmente diranno, immagino, che non ha combinato quasi nulla di costruttivo. Ha mantenuto più che altro le infrastrut­ture materiali e di persona­le della Prima, peggiorate dall’usura del tempo e dal­la cattiva gestione, mentre ha brillato per l’invenzione di due «giocattoli»: il pro­getto Italia di Prodi e il pro­getto Italia di Berlusconi. Il giocattolo di Prodi è oramai esploso, come era inevitabile, uccidendo pri­ma se stesso (il suo ultimo governo), poi Veltroni e Franceschini, così lascian­do in eredità a Bersani un partito dimezzato. Mi limi­to a ricordare che Rutelli, alle elezioni del 2001, ot­tenne quasi il 43% dei suf­fragi, mentre oggi come oggi Bersani, senza Rutelli, non può contare su più del 20% dell’elettorato. Il fia­sco del giocattolo di Prodi è davvero da manuale. Invece Berlusconi, all’ini­zio, nel 1994, non aveva in mente un progetto Italia; perduta la copertura di Cra­xi voleva soprattutto salva­re il suo nascente impero mediatico. Ma ebbe subito un’idea geniale, che poi di­ventò il suo giocattolo: por­si come anello di congiun­zione tra un Bossi e un Fini che allora neanche si salu­tavano. Nacque così uno strano terzetto che nel ’94 vinse le elezioni e lo inse­diò a Palazzo Chigi.

Dopo sei mesi fu Bossi a silurar­lo. Ma quindici anni dopo lo strano terzetto (modifi­cato) è di nuovo, per la ter­za volta e più forte che mai, al governo. Modifica­to perché nel frattempo Berlusconi aveva messo a segno un altro colpo. Il pro­getto prodiano era stato di fondere attorno a sé tutta la sinistra. Prodi ha coltiva­to questo disegno per una quindicina di anni senza cavarne le gambe. Berlu­sconi ha contromanovrato in un giorno, e tempo un anno ha messo assieme Forza Italia e An rifuse sot­to il nome di Popolo della Libertà. Con i colonnelli di Fini diventati «suoi», suoi ministri, mentre Fini viene promosso per essere emar­ginato. Sembrerebbe un’altra operazione geniale andata a buon fine. Tanto più che la Lega, senza volerlo, gli ha regalato una legge elet­torale, il Porcellum , che gli consente di presentarsi al­le elezioni da solo, di vin­cerle da solo, e così di otte­nere grazie al premio di maggioranza, il 55% dei seggi della Camera: il che lo svincolerebbe anche dal condizionamento di Bossi. Insomma, il giocattolo del Cavaliere ha sinora funzio­nato a meraviglia. Eppure la costruzione berlusconiana scricchiola. Forse il Cavaliere è logora­to dalla sua vita di «super­man » ( ipse dixit ). Forse è logorato perché il potere logora. Ma soprattutto scricchiola perché ha incu­bato un problema più gran­de di lui. Nonostante lo sgambetto iniziale, Bossi è diventato il suo alleato di ferro. E più Bossi si raffor­za, più diventa esigente. Di recente, a Venezia, ha ri­spolverato il suo grido di battaglia iniziale: «La Pada­nia sarà Stato indipenden­te ».

Non succederà; ma già il fede­ralismo fiscale sta più che mai spaccando il Paese in due. L’Italia è sempre stata divisa tra un Nord più ricco e più puli­to, e un Sud clientelare e pove­ro. Finora il Nord ha accettato, sia pure con crescente malavo­glia, di sovvenzionare il Sud. Ma perché la Sicilia deve essere più indipendente della Pada­nia? Già, perché? Alle ultime elezioni Berlusco­ni in Sicilia ha stravinto. Gratis? Sicuramente no. E così la gestio­ne scandalosa dell’autonomia si­ciliana continua impunita e si moltiplica risalendo la peniso­la. Il Sud non vuole l’indipen­denza perché dipende dai soldi che riceve da Roma. Ma vuole gli stessi vantaggi che Bossi chiede per sé. Il nuovo «presi­dente » della Sicilia, Lombardo, è tosto; ed è un anti-Bossi in pectore. Il fatto è che quanto più Berlu­sconi concede a Bossi, e quanto più gli lascia spazio elettorale a Nord, di altrettanto il Pdl diven­ta un partito meridionalizzato che sempre più pesca i suoi voti al Sud.

Ma il voto del Sud è parti­colarmente inquinato da mafie, clientelismo e corruzione. Non è un voto che si vince con la tele­visione, ma un voto che si deve pagare e comprare in loco. Per­tanto i genuflessi di Montecito­rio sanno che sul territorio i vo­ti se li debbono guadagnare, e quindi rialzano il capino facen­do sapere al gran capo che alla casa propria «ghe pensi mi». La cerniera Nord-Sud non tiene più, e si sta trasformando in un imprevisto boomerang. Al col­mo del suo potere il Cavaliere scricchiola, mi sembra, perché è la sua Italia che si scolla. Il «progetto Berlusconi» rischia anch’esso di esplodere, o di im­plodere, come il progetto Prodi. Come dicevo all’inizio, forse gli storici spiegheranno come me la vicenda della Seconda Re­pubblica: una repubblica del nulla che però è riuscita, sia con la sinistra che con la destra, a in­gigantire oltre misura il debito pubblico, a precipitare agli ulti­mi posti in Europa nel suo tasso di crescita, a perdere 15 punti nella produttività del lavoro, a salvare pensioni anticipate che nessun Paese si può permette­re, e via di questo passo. Quan­to ai prossimi (passi), io mi affi­do a San Gennaro.

Giovanni Sartori

12 novembre 2009(ultima modifica: 13 novembre 2009)© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #41 inserito:: Novembre 21, 2009, 02:31:14 pm »

IL DEGRADO DELLA POLITICA

Senza ideali molta ruberia

Francesco Alberoni scriveva giorni fa (il 20 ottobre) che «Persi gli ideali a cosa si rivolge la spinta umana? Solo al potere e al denaro». Sì: ma è utile approfondire.

In primo luogo, non dobbiamo confondere ideali con ideologie. Sono cose diverse e anche nemiche. Intesi come obiettivi di valore gli ideali acquistano centralità, nella politica, con l’Illuminismo, non prima. La parola «ideologia» viene poi coniata da Destutt de Tracy nel 1796, e dunque in sul finire dell’Illuminismo, per dire «scienza delle idee»; un significato letterale che non ha attecchito e che è stato stravolto dal marxismo, per il quale l’ideologia diventa killeraggio, e cioè un pensiero che non-è-più-pensato, un ex pensiero dogmatico e fanatizzato che appunto ammazza il pensiero e le idee.

Una seconda precisazione verte sul rapporto tra ideali e democrazia. Che è un rapporto strettissimo ma soltanto moderno, recente. Aristotele distingueva tra governo dell’uno, dei pochi e dei molti, e poi tra il governare nell’interesse proprio o nell’interesse comune. E per Aristotele la democrazia era il governo dei molti, o dei poveri, nel proprio interesse, e quindi un cattivo governo. Ma, attenzione, l’interesse comune che caratterizzava i buoni regimi non era, per lui, posto da ideali e tantomeno dall’ideale della libertà individuale del cittadino. Hobbes lo precisava lapidariamente: «Ateniesi e Romani erano liberi, e cioè le loro città erano libere».

La grossa differenza è che il mondo antico su su fino al Rinascimento non si proiettava verso il futuro ma si poneva come un aumento, una crescita, delle origini. Alla stessa stregua non era «giovanilista»: l’autorità, la auctoritas, spettava alla saggezza degli anziani. Questa visione del mondo venne rovesciata dal Romanticismo «scoprendo la storia» come una dinamica innovativa che porterà man mano a configurare la democrazia liberale come l’ottimo governo sospinto e realizzato dai suoi ideali. Il retroterra di questo sviluppo era che per la prima volta nella storia gli «esclusi» dalla politica venivano effettivamente inclusi dal suffragio universale. Ma se questa inclusione «perde gli ideali», e con essa il senso del «dovere etico», allora il buon governo democratico va alla deriva.

Si è detto che la politica è la guerra con altri mezzi. Oramai sarei più incline a dire che la politica è il ladrocinio, la pappatoria, con altri mezzi.
Omnia Romae cum pretio, tutto a Roma si può comprare, scriveva Giovenale. Invece oggi? Ci stupiamo che anche la sinistra venga travolta in questa frana. Ma perché? Le sue credenziali intellettuali risalgono all’immediato dopoguerra, a quando il Pci ereditò il grosso della cultura idealistica (Crociana o Gentiliana che fosse) che allora dominava in Italia. Marx «rovesciò» la filosofia idealistica di Hegel. Un secolo dopo i nostri idealisti rovesciarono, a loro volta, Croce e Gentile e si ritrovarono, senza alcuno sforzo, marxisti. Ma il Pci del Migliore era, di suo, spietato cinismo di potere nei vertici, e un partito di ideologia (non di ideale) nel suo apparato.

E una volta usciti di scena gli idealisti marxisti, a loro sono subentrati, come nucleo dirigente del Pci, gli addestrati alle Frattocchie; addestrati, appunto, al killeraggio ideologico, e per ciò stesso largamente incapaci di ripensarsi e di pensare ex novo. Il che lascia il Pd (oggi di Bersani) come un gruppo di potere— con nobili eccezioni, si intende — altrettanto cinico e baro dei gruppi di potere al potere.

Giovanni Sartori

21 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 07, 2009, 04:00:11 pm »

LA CONFERENZA SUL CLIMA

Non giochiamo con il fuoco


Dicono i medici che il paziente ha la polmonite. Rispondono i congiunti: anche se è vero non abbiamo soldi per curarlo e nemmeno siamo d’accordo sulla terapia. Allora lo lasciamo morire? Risposta: forse se la caverà, intanto speriamo. Il paziente in questione è la Terra, e i congiunti al suo capezzale sono i cosiddetti «grandi» della Terra, che si riuniscono a Copenaghen da lunedì 7 dicembre per un vertice sul clima che suscitava molte speranze e che invece già nasce mezzo morto. Finalmente gli Stati Uniti hanno un presidente consapevole dell’incombente collasso ambientale; ma Obama è andato in Cina, e la Cina lo blocca. Subito dopo l’India torna a farci sapere che non è per niente pronta a portarsi bene. Figurarsi tutti gli altri Paesi a «sviluppo ritardato». Se l’India deve ancora crescere (prima di preoccuparsi di altre inezie come il destino dei monsoni), figurarsi loro. Perché non riusciamo a sfondare?

È perché siamo impiombati, oltre che da vischiosissimi interessi costituiti, da un mare di pretesti senza capo né coda. Per dirne una, la tesi che i Paesi sottosviluppati devono essere risarciti per quel passato durante il quale gli «sviluppati » li hanno inquinati. Ma quando mai? Come si fa a sostenere che una persona è responsabile di avere trasmesso l’Aids prima che fosse scoperto? Alla stessa stregua, quando la società industriale fece proliferare le ciminiere alimentate a carbone nessuno sapeva che quelle ciminiere avrebbero minacciato il clima. Nel 1968 Paul Ehrlich denunziava l’esplosione demografica (a ragione), ma nemmeno lui sapeva della bomba ecologica. E lo stesso vale, a metà degli anni 70, per Aurelio Peccei e il Club di Roma, che concentrò la sua attenzione sulla limitazione delle risorse, non su un collasso ecologico che la scienza non aveva ancora captato. Dunque, nessuno può essere ritenuto responsabile di un evento non voluto e non previsto.

Eppure assistiamo allo spettacolo di un Occidente piagnone che si sente «colpevole» e promette risarcimenti non dovuti pagati con soldi che, tra l’altro, non ha. Ma passiamo al punto cruciale: la contabilità, come si conta che cosa. Oggi i Paesi che inquinano di più sono, nell’ordine, Cina, Stati Uniti, India. Ma Cina e India obiettano, a loro difesa, che chi sporca e spreca di più sono, pro capite, individuo per individuo, gli americani. Vero. Ma irrilevante. L’inquinamento è globale, aleggia su tutto il pianeta nel suo insieme. Pertanto quel che conta è il totale, soltanto il totale, delle emissioni inquinanti. La Cina (e l’India seguirà presto) fa più danno inquinante di tutti perché i cinesi sono un miliardo e trecento milioni. Che poi, singolarmente presi, siano più frugali degli americani, non sposta il problema di un millimetro. E il fatto resta che se negli ultimi 50 anni le emissioni di Co2 dei Paesi ricchi sono raddoppiate, quelle dell’India sono decuplicate. Ma non è più tempo di recriminare e di mercanteggiare. Chi arriva a Copenaghen con questi intenti vuole il male di tutti e anche il male proprio.

di Giovanni Sartori

06 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 20, 2009, 03:48:55 pm »

LE NUOVE REGOLE PER L’IMMIGRAZIONE


L'integrazione degli islamici


In tempi brevi la Ca­mera dovrà pronun­ciarsi sulla cittadi­nanza e quindi, an­che, sull’«italianizzazio­ne » di chi, bene o male, si è accasato in casa no­stra. Il problema viene combattuto, di regola, a colpi di ingiurie, in chia­ve di «razzismo». Io dirò, più pacatamente, che chi non gradisce lo straniero che sente estraneo è uno «xenofobo», mentre chi lo gradisce è uno «xenofi­lo ». E che non c’è intrinse­camente niente di male in nessuna delle due rea­zioni.

Chi più avversa l’immi­grazione è da sempre la Lega; ma a suo tempo, nel 2002, anche Fini fir­mò, con Bossi, una legge molto restrittiva. Ora, in­vece, Fini si è trasformato in un acceso sostenitore dell’italianizzazione rapi­da. Chissà perché. Fini è un tattico e il suo dire è «asciutto»: troppo asciut­to per chi vorrebbe capi­re. Ma a parte questa gira­volta, il fronte è da tempo lo stesso. Berlusconi ap­poggia Bossi (per esserne appoggiato in contrac­cambio nelle cose che lo interessano). Invece il fronte «accogliente» è co­stituito dalla Chiesa e dal­la sinistra. La Chiesa deve essere, si sa, misericordio­sa, mentre la xenofilia del­la sinistra è soltanto un «politicamente corretto» che finora è restato male approfondito e spiegato.

Due premesse. Primo, che la questione non è tra bianchi, neri e gialli, non è sul colore della pelle, ma invece sulla «integra­bilità » dell’islamico. Se­condo, che a fini pratici (il da fare ora e qui) non serve leggere il Corano ma imparare dall'espe­rienza. La domanda è allo­ra se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorpo­razione etico-politica (nei valori del sistema politi­co), in società non islami­che. La risposta è sconfor­tante: no.

Il caso esemplare è l’In­dia, dove le armate di Al­lah si affacciarono agli ini­zi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominaro­no l’intero Paese. Si avver­ta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi pa­ciosi, pacifici; e la maggio­ranza è indù, e cioè poli­teista capace di accoglie­re nel suo pantheon di di­vinità persino un Mao­metto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventa­re il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesi­stenza in cagnesco finisse­ro in un mare di sangue. Conosco, s’intende, an­che altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Tur­chia. Tutti casi che rivela­no un ritorno a una mag­giore islamizzazione, e non (come si sperava al­meno per la Turchia) l’av­vento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico.

Veniamo all’Europa. In­ghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritro­vano con una terza gene­razione di giovani islami­ci più infervorati e incatti­viti che mai. Il fatto sor­prende perché cinesi, giapponesi, indiani, si ac­casano senza problemi nell’Occidente pur mante­nendo le loro rispettive identità culturali e religio­se. Ma — ecco la differen­za — l’Islam non è una re­ligione domestica; è inve­ce un invasivo monotei­smo teocratico che dopo un lungo ristagno si è ri­svegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo «italianizzan­dolo » è un rischio da gi­ganteschi sprovveduti, un rischio da non rischia­re.

Giovanni Sartori

20 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #44 inserito:: Gennaio 05, 2010, 10:20:58 am »

Il dibattito

Una replica ai pensabenisti sull'Islam

 di Giovanni Sartori


Il mio editoriale del 20 dicembre «La integrazione degli islamici» resta attuale perché la legge sulla cittadinanza resta ancora da approvare (alla Camera). Nel frattempo altri ne hanno discusso su questo giornale. Tra questi il professor Tito Boeri mi ha dedicato (Corriere del 23 dicembre) un attacco sgradevole nel tono e irrilevante nella sostanza. Il che mi ha spaventato.

Se Boeri, che è professore di Economia del lavoro alla Bocconi e autorevole collaboratore di Repubblica, non è in grado di capire quel che scrivo (il suo attacco ignora totalmente il mio argomento) e dimostra di non sapere nulla del tema nel quale si spericola, figurarsi gli altri, figurarsi i politici.

Il Nostro esordisce così: «Dunque Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani». In verità il mio articolo si limitava a ricordare che gli islamici non si sono mai integrati, nel corso dei secoli (un millennio e passa) in nessuna società non-islamica. Il che era detto per sottolineare la difficoltà del problema. Se poi a Boeri interessa sapere che cosa «ho deciso», allora gli segnalo che in argomento ho scritto molti saggi, più il volume «Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei» (Rizzoli 2002), più alcuni capitoletti del libriccino «La Democrazia in Trenta Lezioni » (Mondadori, 2008).

Ma non pretendo di affaticare la mente di un «pensabenista», di un ripetitore rituale del politicamente corretto, che perciò sa già tutto, con inutili letture. Mi limiterò a chiosare due perle del suo intervento. Boeri mi chiede: «Pensa Sartori che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica?». Ovviamente non lo penso. Invece ho sempre scritto che le società liberal- pluralistiche non richiedono nessuna assimilazione. Fermo restando che ogni estraneo (straniero) mantiene la sua religione e la sua identità culturale, la sua integrazione richiede soltanto che accetti i valori etico-politici di una Città fondata sulla tolleranza e sulla separazione tra religione e politica. Se l’immigrato rifiuta quei valori, allora non è integrato; e certo non diventa tale perché viene italianizzato, e cioè in virtù di un pezzo di carta. Al qual proposito l’esempio classico è quello delle comunità ebraiche che mantengono, nelle odierne liberaldemocrazie, la loro millenaria identità religiosa e culturale ma che, al tempo stesso, risultano perfettamente integrate nel sistema politico nel quale vivono.

Ultima perla. Boeri sottintende che io la pensi come «quei sindaci leghisti» eccetera eccetera. No. A parte il colpo basso (che non lo onora), la verità è che io seguo l’interpretazione della civiltà islamica e della sua decadenza di Arnold Toynbee, il grande e insuperato autore di una monumentale storia delle civilizzazioni (vedi Democrazia 2008, pp. 78-80). Il mio pedigree di studioso è in ordine. È quello del mio assaltatore che non lo è.

Il Corriere ha poi pubblicato il 29 dicembre le lettere di due lettori i quali, a differenza del professor Boeri, hanno capito benissimo la natura e l’importanza del problema che avevo posto, e che chiedevano lumi a Sergio Romano. Ai suoi «lumi» posso aggiungere il mio? Romano, che è accademicamente uno storico, fa capo alle moltissime variabili che sono in gioco, ai loro molteplici contesti, e pertanto alla straordinaria complessità del problema. D’accordo. Ma nelle scienze sociali lo studioso deve procedere diversamente, deve isolare la variabile a più alto potere esplicativo, che spiega più delle altre. Nel nostro caso la variabile islamica (il suo monoteismo teocratico) risulta essere la più potente. S’intende che questa ipotesi viene poi sottoposta a ricerche che la confermano, smentiscono e comunque misurano. Ma soprattutto si deve intendere che questa variabile «varia», appunto, in intensità, diciamo in grado di riscaldamento.

Alla sua intensità massima produce l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto). Diciamo, a caso, che a questo grado di surriscaldamento, di fanatismo religioso, arrivano uno-due musulmani su un milione. Tanto può bastare per terrorizzare gli infedeli, e al tempo stesso per rinforzare e galvanizzare l’identità fideistica (grazie anche ai nuovi potentissimi strumenti di comunicazione di massa) di centinaia di milioni di musulmani che così ritrovano il proprio orgoglio di antica civiltà.

Ecco perché, allora, l’integrazione dell’islamico nelle società modernizzate diventa più difficile che mai. Fermo restando, come ricordavo nel mio fondo e come ho spiegato nei miei libri, che è sempre stata difficilissima.

da corriere.it
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