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Autore Discussione: Giovanni SARTORI. Politologo fuori dagli schemi  (Letto 83185 volte)
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« inserito:: Giugno 16, 2007, 06:05:14 pm »

Se il partito nasce vecchio

Prodi e la strada in salita per il Pd

di Giovanni Sartori


Nascerà davvero il Partito Democratico? Intendi: nascerà vitale o nascerà morto? Sarà un successo o sarà un fiasco? Margherita e Ds riusciranno davvero a fondersi, oppure la loro sarà soltanto una somma di due partiti che restano litigiosi ed eterogenei? E quale sarà «il valore aggiunto» del nuovo pargolo? Di regola la somma (unificazione) di due o più partiti non produce valore aggiunto: la somma dei voti ricevuti dal partito unificato è inferiore alla somma dei voti ricevuti dai partiti separati. Nel nostro caso, perché mai un marxista dovrebbe gradire di trovarsi diluito in sempre meno marxismo; oppure perché mai un cattolico dovrebbe gradire di essere soverchiato da laici? Sia come sia, dobbiamo capire a quali condizioni un nuovo movimento o partito riesce a sfondare. La prima condizione è che la nascita del Pd comporti una drastica semplificazione del sistema partitico, e così l'eliminazione del pulviscolo dei partitucci, dei «nanetti». E da quando i partiti esistono il loro numero viene ridotto dai sistemi elettorali, non dalla nascita di un nuovo partito che se li mangia. Prodi si è messo in testa, invece, di risolvere il problema con un partito «mangia-partiti », con un partito-pitone. Ma, se così, a me sembra un controsenso che il progetto aggreghi soltanto due su circa dodici partiti. E' vero che la Margherita e i Ds mettono assieme circa la metà dei voti dello schieramento; ma i restanti nanetti mantengono lo stesso il loro potere di interdizione e di ricatto. Il che lascia il problema come è. Tanto più che nell'accorparsi i Ds si sono scissi perdendo il loro Correntone. La seconda condizione è che il nuovo partito sia percepito come davvero nuovo, come portatore di aria fresca e di energie giovani.

Invece il Pd sta nascendo senza slancio, già logorato dai tempi troppo lenti della sua gestazione e soprattutto dalle complicazioni nelle quali riesce sempre a impastoiarsi. Se fosse un architetto, Prodi costruirebbe tortuosissime pagode; e certo ha il genio della complessità superflua. Per le elezioni del 2006 escogitò una pletorica officina di teste d'uovo che gli regalò un programma di quasi trecento pagine, che gli fece quasi perdere le elezioni e che quotidianamente lo impaccia nel governare. E per il nuovo partito la tabella di marcia prevede un Comitato dei 45 per le regole dell'assemblea costituente; poi, il 14 ottobre, l'elezione dei delegati alla suddetta assemblea costituente, alla quale compete la redazione dello statuto del Partito Democratico; per poi finalmente arrivare, quando sarà, alla prova delle elezioni politiche. Nell'interim i 45 già dissentono su come e quando eleggere il loro leader e il loro segretario. Il tutto appesantito da un ulteriore, e sospetto, ricorso alla primarie. Dico «sospetto» perché per Prodi è ovvio che le primarie devono confermare e scegliere lui. Tantovero che, al momento, non le vuole perché i sondaggi danno per vincente Veltroni. Con tanti saluti al partito che «nasce dal basso». A Prodi piace far sembrare che sia il suo popolo a creare il suo Pd. Ma in verità non è così. E a questo modo molte, troppe energie vengono sprecate nel costruire una finzione populista. Allora, il Pd nascerà vitale o morto? La previsione è difficile. Ma il fatto è che le elezioni amministrative hanno confermato la regola che le unioni perdono voti. Dove Ds e Margherita si sono uniti, hanno perso mediamente 10 punti percentuali (vedi Genova, La Spezia, Ancona). Questo è solo un campanello di allarme. Certo è, però, che la strada del Pd è piu che mai in salita.

16 giugno 2007
da corriere.it
« Ultima modifica: Agosto 25, 2018, 05:26:39 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 27, 2007, 12:03:21 pm »

Domande al nuovo leader

 
È proprio vero che la paura fa novanta. Il governo Prodi sbanda e inciampa ogni giorno; i sondaggi sono infausti; e in Senato è come se non esistesse, non riesce a legiferare. L'Ulivo ha ragione di essere spaventato. E così d'un tratto si è svegliato. Ha capito che il balletto dei cavalli (o ronzini) di razza che da vent'anni si bloccano l'un l'altro — la somma di impotenze dalle quali è emerso Prodi — deve finire. Pena una pessima partenza il nuovo partito, il Pd, non può nascere senza un nuovo leader che sia davvero tale.

Prodi ha escogitato un partito per rinforzarsi in sella. Paradossalmente ha costruito una macchina che lo disarciona. E così, d'un tratto, Veltroni è diventato il candidato di tutti. Quantomeno a parole. Ma facciamo come se l'ultima parola sia stata detta. Veltroni vola nei sondaggi ed ha fatto bene come sindaco di Roma. Pertanto sta negoziando da posizioni di forza e chiede sin d'ora il sostegno dei suoi sulle riforme elettorali e istituzionali che ha in mente. Ma, appunto, cosa ha in mente? È bene chiederselo subito visto che in passato (quando Veltroni era segretario dei Ds e non fece bene) sbagliò, per esempio, sul sistema elettorale. Il problema è che in media gli attribuiscono idee contraddittorie. Leggo che Veltroni intende proporsi come «sindaco d'Italia» (è lo slogan di Mario Segni), ma leggo altrove che è per il sistema semipresidenziale francese. Sono due formule diversissime. La prima è caratterizzata dalla elezione popolare diretta del capo del governo, la seconda dalla elezione diretta del capo dello Stato. Non posso credere che Veltroni le confonda. Forse le confondono i giornalisti.

L'altro giorno sentivo su una televisione «ammiraglia» che lo scarto tra voti e seggi era dovuto, nelle elezioni francesi, al premio di maggioranza. Ma la Francia non ha premio di maggioranza. Del pari ogni tanto leggo che dal referendum Guzzetta sul sistema elettorale nascerebbe un sistema bipartitico. Assolutamente no (anche se sono per il referendum, non lo vendo raccontando balle). Non è detto, allora, che chi fa confusione sia Veltroni. Però un sospettuccio, e nemmeno tanto piccolo, lo covo. L'elezione diretta del premier fu inventata in Israele con l'intento di contrastare la frammentazione partitica dovuta a un proporzionalismo che è il più proporzionale al mondo. Israele si è gia rimangiato dopo tre elezioni questo esperimento, che è risultato disastroso. Ma in Italia l'idea piace. Piacque a D'Alema (per sé) ai tempi della Bicamerale, sotto sotto piace (per sé) a Prodi, e piace anche da tempo (per sé) a Veltroni. Che l'esperimento sia fallito nell'unico Paese che l'ha tentato risulta del tutto indifferente ai nostri aspiranti premier. E ai suddetti non importa un fico che per una lunghissima maggioranza di costituzionalisti la formula del «sindaco d'Italia » sia ingannevole e impraticabile.

Non so se Veltroni abbia davvero detto che lui non si impelagherà in «astruse discussioni sulle riforme», perché gli basta sapere che «premierato significa un governo che può decidere». Ma proprio no. Le strutture di governo che danno governabilità sono parecchie: presidenzialismo, semi-presidenzialismo, premierato inglese, cancellierato tedesco. Pertanto chi non distingue pasticcia. E non vorrei che Veltroni ci introduca in una notte hegeliana nella quale tutte le vacche sono nere, e cioè sembrano uguali.

Giovanni Sartori
27 giugno 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 26, 2007, 12:11:16 am »

Perché nessun incendiario resta in carcere

Garantismi insensatidi Giovanni Sartori

 
Ogni estate ripassa la stessa dolente storia dell'Italia incendiata da incendiari che meriterebbero, a mio sommesso parere, di essere incendiati. Invece nulla. Una legge del 2000 (la 423 bis del Codice penale) ha finalmente stabilito condanne da 4 a 10 anni per i piromani boschivi. Dopo sette anni le condanne definitive sono state zero, dico zero. Ci viene raccontato che i nostri fuochisti sono difficilissimi da acchiappare. Davvero? Un lettore ci scrive così: «Abito a Palermo e, come tutti i siciliani, sarei in grado di determinare il giorno e i luoghi dove scoppieranno gli incendi. Basta guardare le previsioni del tempo: una giornata di forte vento caldo è quella giusta. Quanto ai luoghi, i boschi veri si contano sulle dita». Ma anche se concediamo che la caccia all'incendiario sia più difficile, per esempio, della caccia al ladro, anche in questa dannatissima ipotesi il fatto resta che nel 2006 i piromani denunziati, e quindi individuati, sono stati 353. Tutti a spasso. Possibile? Perché?

Un po' perché gli italiani sono italiani. Che proprio non sono un popolo di santi, navigatori ed eroi, ma in buona parte un popolo di cultura contadina che detesta gli alberi e che non ama la natura. Una foresta che va in fiamme non li commuove. Tanto vero che i nostri incendiari sono largamente protetti da una indulgenza che non li vede come criminali, ma come poveracci che si arrangiano.

Ma neanche i giudici aiutano. I nostri magistrati sono stati addestrati da un formalismo giuridico avulso dalla sostanza dei problemi. Se poi questo formalismo li induce a violare il principio summum ius, summa iniuria (troppo diritto è somma ingiustizia), la difesa è che il loro dovere è di applicare la legge, non di interpretarla. Sì e no. Qualsiasi applicazione di una norma astratta a una fattispecie concreta sottintende un'interpretazione. Che talvolta diventa molto «creativa», come nel caso, a Milano, del gip Clementina Forleo che rilascia dei probabilissimi terroristi inventando una sua definizione di cosa sia terrorismo.

Tornando agli incendiari, forse le nostre facoltà di Legge dovrebbero insegnare anche un po' di ambientalismo: che i boschi sono un prezioso bene pubblico e che bruciarli li trasforma in un micidiale gas serra che inquina l'atmosfera e minaccia la nostra stessa sopravvivenza.
Pare che i nostri piromani usino anche i gatti cosparsi di benzina ai quali danno fuoco. Il che dovrebbe commuovere almeno quei magistrati per i quali la legna è soltanto legna, ma che stravedono per il loro gatto. Se il capo del Corpo forestale ritiene che «anche la proposta di un vescovo di scomunicare i piromani è una buona idea», allora a me ne viene in mente un'altra: proviamo a regalare a tutti i giudici un gatto. Se ogni gatto mettesse in galera un piromane, sarebbe un buon affare.

Prendiamo un caso per tutti. Il 10 agosto viene arrestato un pastore passeggiante nei boschi con tanto di 17 inneschi incendiari in saccoccia. Ma un pm di Latina lo rilascia perché «non si può arrestare se non in flagranza di reato e il pastore non stava accendendo un fuoco». Il che implica che un signore carico di inneschi deve aspettare, primo, l'arrivo della Forestale e che poi, secondo, la Forestale lo lasci effettivamente incendiare il bosco al fine di coglierlo in flagranza di reato e così di fornire al magistrato prove sufficienti per arrestarlo. Altrimenti ridiventa libero di continuare a incendiare (tanto vero che il nostro pastore era recidivo). Insensato? Sì.

Ma il magistrato risponde che la colpa è del Codice penale, al quale lui deve obbedire. E siccome noi dobbiamo obbedire al magistrato anche quando è insensato, la soluzione può soltanto essere di rivedere il Codice. Una faccendina non da poco, per un prossimo articolo.


25 agosto 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 19, 2007, 04:30:43 pm »

La Seconda Repubblica e lo spontaneismo

La terra trema sotto la casta

di Giovanni Sartori

 
La terra trema ormai sotto i piedi della Casta. Per la prima volta il popolo bue la minaccia davvero. Finora i signori del potere se ne sono infischiati della rabbia crescente di un elettorato che si sente irretito nell’impotenza (a dispetto dei rombanti discorsi che lo proclamano, poverello, sempre più sovrano).

Ma ecco che, inaspettatamente, Beppe Grillo entra nella tana del nemico e, alla festa dell’Unità di Milano, spara a mitraglia contro gli ottimati Ds. Fino a meno di un anno fa Grillo sarebbe stato subissato dai fischi; invece, è stato subissato da applausi. Un episodio che richiama alla mente la caduta della Bastiglia. Di per sé quell’evento della rivoluzione francese fu un nonnulla; ma ne divenne il simbolo. Forse sto forzando troppo i fatti. Forse.

Vediamo perché.

Intanto, e in premessa, cosa si deve intendere per «antipolitica »? La dizione è ambigua: sta per «uscire» dalla politica, estraniarsi; oppure per «entrare» a tutta forza nella politica per azzerarla (il caso di Grillo). Ciò premesso, le novità sono due. Primo, Grillo entra in politica avendo prima creato una infrastruttura tecnologica di supporto e di rilancio: Internet, blog, e un radicamento territoriale assicurato, ad oggi, dai 224 meet up (gruppi di incontro) che in un giorno raccolsero 300 mila sottoscrittori per una legge di iniziativa popolare. Ora, né la satira politica di altri bravissimi comici (Luttazzi, per esempio), né i girotondini hanno mai dispiegato un armamentario del genere.

Dal che ricavo che misurare la forza di Grillo con riferimento ai suoi predecessori sarebbe una grave sottovalutazione. Secondo. Grillo ci sa fare. Non propone un nuovo partito (il 32˚, come ironizzano a torto gli altri 31), ma un movimento spontaneo che li spazzi tutti via. Inoltre ha messo subito il dito sul ventre sensibile della Casta: il controllo dei voti. Se vogliamo davvero sapere quale sia lo stato di putrefazione del Paese, la fonte non è Grillo ma il libro La Casta di Stella e Rizzo. Quel libro ha venduto un milione di copie—un record di successo mai visto — eppure non ha smosso nulla. Gli italiani dovrebbero esprimere la loro protesta «razionale» continuando a comprarlo. Ma anche così dubito che la Casta ascolterebbe. Perché Stella e Rizzo non controllano voti. Invece Grillo sì. Lo ha già dimostrato e si propone di rincarare la dose al più presto.

Per le prossime elezioni amministrative Grillo sosterrà liste civiche spontanee «certificate » (da lui) che escludano iscritti ai partiti e personaggi penalmente sporchi. Ne potrebbe risultare uno tsunami. Anche perché il grillismo capitalizza, oggi, sulla retorica (ipocrita) di esaltazione dello «spontaneismo» dispensata da anni sia da Prodi come da Berlusconi. Hegel elogiava la guerra come un colpo di vento che spazza via i miasmi dalle paludi. Io non elogio la guerra, e nemmeno approvo le ricette politiche «al positivo» del grillismo (a cominciare dalla stupidata della ineleggibilità di tutti dopo due legislature; stupidata che l’oramai infallibile incompetenza del nostro presidente del Consiglio ha già approvato). Ciò fermamente fermato, confesso che una ventata — solo una ventata — che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili.

19 settembre 2007
 
DA corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 02, 2007, 05:53:28 pm »

Il fenomeno Grillo e il lessico della democrazia

Il revival del populismo

Non vorrei che il grillismo si arenasse in un confuso e inconcludente dibattito sulla antipolitica. Nel caso di Beppe Grillo, anti sta solo per dire «basta » con questi politici, con questi partiti e con questa politica. E, se così, il grillismo non ha sottintesi o implicazioni antidemocratiche. Io non temo ritorni al fascismo né al comunismo (storico) perché entrambi questi regimi hanno perduto, in Occidente, il loro principio di legittimità. Oggi nemmeno Chávez, il più avanzato demagogo dell'America Latina, osa dire che «lo Stato sono io». Oggi la legittimazione del potere (a meno che non sia teocratica) deve essere democratica, deve essere «in nome del popolo ». Però e invece temo «la democrazia che uccide la democrazia, la democrazia che si suicida».

Un timore che ci impone di rivisitare la trinità democrazia- populismo-demagogia. Si tratta di una trinità perché queste nozioni hanno la stessa testa: la parola demos in greco, populus in latino, e popolo in italiano. Ma questo fatto non le rende sinonimi. Demagogia è l'arte di trascinare e incantare le masse che, secondo Aristotile, porta alla oligarchia o alla tirannide. In ogni caso, il termine indica un agire e un «mobilitare» dall'alto che non ha nulla da spartire con la democrazia come potere attivato dal basso. Il termine populismo è molto più recente e ci arriva dalla Russia, dove fu coniato alla metà dell'Ottocento per indicare una rivoluzione dei contadini (fermo restando che la parola narod sta, in russo, per popolo). Un significato che poi riemerge all'inizio del secolo scorso negli Stati Uniti. Il primo movimento fu represso, e il secondo fallì. Il che fece anche sparire la parola.

Così la teoria della democrazia continuò a usare, per indicare una degenerazione o una minaccia alla democrazia, la parola demagogia. Poi, d'un tratto, da una ventina d'anni, diventa di moda «populismo». Perché? Non sono ancora riuscito a capirlo. Intanto offro la mia interpretazione e relativa proposta. Concettualmente è irrilevante che il populismo sia nato «agrario». Concettualmente è importante, invece, che denoti una genuina democrazia «immediata » che nasce dal basso e che, per questo rispetto, è l'esatto contrario di demagogia. Pertanto il populismo così definito (si sa che io sono un maniaco delle definizioni) ha la forza di essere una democrazia embrionale genuina, ma al contempo la terribile debolezza di incarnare un infantilismo politico (direbbe Lenin) incapace di costruire alcunché. Le sue proposte «al positivo» sono, appunto, puerili e inconsistenti.

Da quanto sopra si ricava che Grillo è, ad oggi, un populista, non un demagogo. La demagogia, in Italia, sta al governo. Intendiamoci: nelle democrazie di massa e contestualmente di video- potere senza un modico di demagogia nessun leader farebbe oramai molta strada. Eppure se paragoniamo Prodi e Berlusconi a Schröder e alla Merkel, o alla Thatcher e Tony Blair, o a Zapatero e predecessori in Spagna, risulta in modo lampante che solo i «nostri» antepongono la conquista del potere o l'abbarbicamento al potere a qualsiasi interesse e necessità del Paese. Come sarò pronto a dimostrare a richiesta. Qui mi interessa soltanto di portare in evidenza la caratterizzazione fortemente demagogica dei nostri malanni. Alla classica domanda «cosa avete fatto per il vostro Paese?», Berlusconi potrebbe rispondere: niente, salvo che liberarlo da Prodi.

E viceversa.

Cioè Prodi potrà dire: niente, salvo che liberarlo da Berlusconi.


Giovanni Sartori
02 ottobre 2007

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 28, 2007, 05:20:30 pm »

L'ITALIA E I PARTITI

Se io fossi un politico

di Giovanni Sartori


Avete mai sentito la frase «questa è una questione politica»? Io migliaia di volte. Pensa e ripensa, ho finalmente capito che quando era indirizzata a me voleva dire: levati di mezzo, tanto tu la politica pratica, la politica «come veramente è», non la capisci. Sì, per mia fortuna io non sono in politica; ma è proprio vero che io non capisca di politica? Così in questa occasione ho deciso di travestirmi da politico.

Il momento è eccitante: in questo momento tutto è in movimento. Berlusconi che fa sparire, con la sua bacchetta magica, Forza Italia e il connesso Polo delle libertà; Fini e Casini che in autodifesa sono costretti a «rompere» con Berlusconi; la collusione (che comincia a essere documentata) Rai-Mediaset che costringe Prodi a tirare fuori dal cassetto le riforme sulla tv predisposte dal ministro Gentiloni; e Veltroni che si deve destreggiare su tre fronti: la riforma elettorale (e connessi) con il Cavaliere, il salvataggio del governo Prodi, e la patata bollente della questione tv (che torna a far esplodere il problema del conflitto di interessi).

Comincio i miei travestimenti facendo finta di essere Berlusconi. Nei suoi panni io darei la priorità a «far fuori» Fini e Casini per acchiapparne i voti. Ma per farli fuori gli occorre tutta la potenza di fuoco della sua televisione. I soldi li ha; ma se quel suo monopolio si incrinasse, allora anche la pappata dei suoi ex alleati potrebbe fallire. Il Cavaliere è sceso in campo sulla riforma elettorale sicuro di dominare il gioco; invece la riforma della tv lo rende vulnerabile.

Mi immedesimo ora con Fini e Casini. Per non essere costretti a tornare all'ovile ancor più in sudditanza di prima, Fini si deve rapidamente scordare del referendum Guzzetta- Segni e appoggiare un sistema elettorale (come quello tedesco preferito dal suo nuovo alleato Casini) che gli consenta di andare tranquillamente da solo alle prossime elezioni. Inoltre Fini e Casini hanno bisogno, per sopravvivere, di indebolire il peso televisivo del loro nuovo nemico. Eppure, Casini si è affrettato a dire no a qualsiasi «legge punitiva » contro Mediaset, riecheggiato da An. Bravi davvero. Sarebbero questi i politici che davvero si intendono di politica?

Passo a mettermi nei panni di Veltroni. La sua quotidiana spina nel fianco è Prodi, geloso, sospettoso e, sotto sotto, sempre ostile. Ma negli ultimi giorni la sua mano si è molto rafforzata. Il sussulto di onnipotenza di Berlusconi gli ha inopinatamente regalato Fini e Casini. Né potrebbe ottenere il voto non solo per la riforma tv ma anche contro la Frattini, cioè per ripescare la necessarissima legge sul conflitto di interessi che giace già pronta, gli ricordo, da due legislature.

Mi immedesimo, infine, con Prodi. Il presidente del Consiglio ha in testa, chiarissima, una sola idea: durare. Se si muove, e quando si muove, è per restare immobile a Palazzo Chigi. Per Veltroni è un peso morto; ma per sé è un vero «politico puro». Il che spiega perché a me non piacerebbe essere al suo posto. Forse la politica pura la capisco. Ma non fa per me.

28 novembre 2007

da corriere.it

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« Risposta #6 inserito:: Novembre 30, 2007, 04:47:56 pm »

Azzeriamo questa Rai

di Antonio Carlucci

La sudditanza della tv di Stato verso Berlusconi.

Il dominio dei partiti e il conflitto di interessi nascosto da Prodi.

Ma ora ci sono le condizioni per la riforma.

Perché conviene a Veltroni, Fini e Casini.

La ricetta del politologo.

Colloquio con Giovanni Sartori 

 
Lo strapotere di Silvio Belusconi è il dato più evidente di questa vicenda, proprietario di tre reti Finivest e in più controllore delle tre reti Rai quando era presidente del Consiglio.
"Il bello è che anche dopo aver lasciato Palazzo Chigi a lui resta il controllo della Rai con un consigliere di amministrazione, Angelo Maria Petroni, che gli dà la maggioranza. Per più di un anno il presidente del consiglio Romano Prodi non ha dato mostra di voler agire. Ora, grazie a Dio, con i documenti pubblicati da 'Repubblica' il caso diventa scottante".

Secondo lei, perché il governo di centrosinistra è stato inerte sulle distorsioni che hanno creato quello strapotere, ovvero la legge Frattini sul conflitto di interessi e la legge Gasparri sulla televisione?
"Se era per Prodi, il conflitto di interessi sarebbe chiuso nel cassetto e amen. Il guaio è che le questioni conflitto di interessi e televisione sono interdipendenti. E bisogna cominciare dalla prima per poi mettere mano alla riforma della televisione".

Non è un po' esagerato dare tutta la colpa a Prodi?
"Questo non l'ho detto, ma se me lo chiedono sarei incline a rispondere di sì. Perché Prodi ha inventato un nuovo modo di fare politica che è, a mio avviso, tutto sbagliato. Difatti ora è arrivato alla sua ultima spiaggia. È ridotto a sopravvivere alla giornata, facendo la quadra con i suoi ministri. I problemi se li è procurati da solo, imbarcando nel governo l'estrema sinistra e scrivendo uno sterminato programma al quale ora resta impiccato. Rispetto alla tv solo la pubblicazione di quelle telefonate lo ha risvegliato, facendogli ricordare che c'erano nel cassetto due disegni di legge sulla televisione. Non sono la soluzione del problema, ma sono un notevole passo in avanti. Diciamolo chiaro: Berlusconi ha continuato a fare quello che voleva anche una volta uscito da Palazzo Chigi".

Come ci è riuscito?
"Il governo di centrosinistra non è stato capace neanche di spostare a suo favore la maggioranza nel consiglio di amministrazione della Rai dopo aver vinto le elezioni. Non ci sarebbe stato nulla di terribile se il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa avesse subito sostituito il consigliere Angelo Maria Petroni, nominato dal centrodestra, con un nome specchiato di sua fiducia. Aver atteso più un anno per farlo ha creato il problema...".

La prova del segreto che tutti conoscevano ha rimesso in moto un possibile processo di riforma, o tutto ritornerà tranquillo come prima?
"Ora il segretario del Partito democratico Walter Veltroni, per quanto ostacolato da Romano Prodi, ha una sua libertà di manovra e può approfittare di una situazione che si è rimessa in moto".

Ma come fa a trovare un accordo sulla riforma elettorale senza inserire anche il conflitto di interessi e la televisione?
"Lui è partito dicendo che c'è bisogno di riformare la legge elettorale, e i connessi che da vent'anni tutti i costituzionalisti invitano a fare, a cominciare dal rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio. Veltroni ha l'obiettivo di creare un partito che sia in grado di vincere le elezioni, e questo gli deve consentire libertà di movimento. In più Berlusconi, in un sussulto di onnipotenza, ha commesso l'errore di alienarsi il sostegno di Gianfranco Fini e di Pier Ferdinando Casini, creando un nuovo partito personale. Dunque, Veltroni ha davanti una prospettiva favorevole".

Con questa situazione il controllo della televisione resta fondamentale. E la Rai paralizzata. Lei ritiene che Veltroni possa cambiare qualcosa?
"Il controllo della Rai è decisivo per Berlusconi ora che ha perso due alleati. Ma è decisivo anche per Fini e Casini che altrimenti rischiano di sparire. Ed è decisivo per il centrosinistra. Così Veltroni ha l'occasione di negoziare con Fini e Casini non solo sulla legge elettorale, ma anche sul conflitto di interessi e la riforma della televisione, visto che anche a Fini e Casini interessa indebolire Berlusconi. Né la strada è irta di ostacoli: oltre ai due disegni di legge del ministro Gentiloni, esiste da tempo la buona legge Passigli sul conflitto di interessi già approvata due volte in passato da uno dei rami del Parlamento".

In questa situazione come giudica il comportamento e gli atti del gruppo dirigente della Rai?
"Beh, il presidente Claudio Petruccioli e gli altri consiglieri del centrosinistra sono stati lasciati in una situazione assurda e impossibile".

Qual è il suo giudizio sui giornalisti, in particolare i direttori dei tg, che disegnavano i loro prodotti in modo conforme ai desideri del governo e i dirigenti che facevano altrettanto con i palinsesti?
"La questione non è che le persone si parlino. Il problema è il rapporto di subordinazione. Alla fine ne viene fuori un colloquio asimmetrico e la totale dipendenza dal potere".

In tutto questo resta intoccabile la questione del canone Rai, una tassa impossibile da contestare e da pagare anche se il potere gioca con programmi e informazione.
"Se si vuole una televisione pubblica è difficile eludere il canone. Io avevo fatto tempo fa un paio di proposte di riforma della tv di Stato, che affrontavano anche il problema del canone. E che sono naturalmente cadute nel vuoto".

Ce le ricorda?
"Erano due. La prima partiva da questa riflessione: poiché la tv privata, a cominciare da Mediaset, deve pagare le frequenze che sono di proprietà dello Stato, si potrebbe stabilire che metà dei profitti netti delle tv private vadano alla tv pubblica come pagamento dell'uso dell'etere. Sparisce il canone e i privati pagano solo sui loro profitti. In questo caso, la tv pubblica non deve avere pubblicità. E nel caso che la quota dei profitti dei privati non basti per sostenere la Rai, delle tre reti pubbliche una può essere commerciale con pubblicità. Così si otterrebbero vari risultati: si riduce lo strapotere di Berlusconi, si crea una tv pubblica gratuita e si rende l'insieme un po' più pluralistico".

E la seconda?
"Se proprio i partiti non intendono rinunciare alla lottizzazione, e cioè se non c'è verso di eliminare il controllo della politica sulla tv pubblica, allora due canali Rai siano apertamente affidati alla maggioranza di governo, e uno all'opposizione. Con consigli di amministrazione e bilanci diversi. La lottizzazione avverrà nella totale chiarezza, l'opposizione sarà libera di criticare e la maggioranza dovrà rispondere".

E il cittadino paga il canone per tutto ciò?
"Perché no? Ci sarebbe vera dialettica politica tra i partiti: la maggioranza ha i suoi canali e l'opposizione il suo. Quello che non va è la situazione di oggi".

Professore, le piace la televisione che va in onda in questi giorni?
"No, la trovo pessima, l'informazione non dice più niente, il mondo è sparito, si parla solo di delitti caserecci. In parte perché il reclutamento partitico ha fatto scendere il livello professionale di chi ci lavora. E poi perché è una televisione che ha il terrore di raccontare i fatti che dispiacciono a qualcuno, il terrore di sollevare problemi. E le eccezioni di bravura, che pur ci sono, non riescono a incrinare questa cappa del nulla".


(29 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 05, 2007, 11:06:06 pm »

Editoriali       I PICCOLI PARTITI

Il ricatto dei nanetti


di Giovanni Sartori


Tempo fa formulavo la «legge dei nanetti »: se una riforma elettorale è avversata dai partitini, vorrà dire che va bene; se invece piacerà ai partitini, vorrà dire che è cattiva. La rivolta dei nanetti è ora puntualmente avvenuta. Per la mia «legge» andrebbe combattuta. Invece Prodi in cuor suo gongola. Perché ora può affrontare Veltroni a muso duro, così: sei tu che hai inferocito i miei micro-partiti, e quindi sei tu che li devi placare facendo marcia indietro; altrimenti i nanetti mi fanno cadere e tu sei il traditore che affonda la sinistra al governo.

Se io fossi Veltroni (sia chiaro: non lo sono) gli risponderei a muso altrettanto duro così: se tu usi i nanetti per ricattarmi, io non ci sto. I nanetti sono tuoi, sei tu che te li sei coccolati e messi in casa. E debbo resistere sulla riforma elettorale che ho proposto proprio perché non voglio finire come te, e cioè paralizzato in un culo di sacco. E poi i tuoi nanetti li hai attizzati anche te fornendo loro la copertura di argomenti che ne nascondono la vera motivazione: mantenere il potere di ricattare il potere.

Dicevo che non sono Veltroni e che davvero non saprei come si regolerà. Resta utile passare in rassegna gli argomenti che i prodiani (anche con apporti esterni) fanno valere contro i sistemi proporzionali «impuri» (e cioè di proporzionalità ridotta) in discussione tra Veltroni e Berlusconi.
Il primo è che la proporzionale uccide il bipolarismo. La tesi è infondata. Inoltre i bipolarismi sono due. Quello che andrà a morire — si spera — è il bipolarismo sbagliato, all'italiana, che va a finire (Prodi docet) nell'ingovernabilità e nell'imbottigliamento.

L'altro, è il bipolarismo flessibile praticato da tutte le democrazie parlamentari. Pertanto la «fine» del bipolarismo denunciato dai prodiani è uno spauracchio che non ci deve spaventare.

C'è poi l'argomento che gli italiani hanno conquistato il diritto «irrinunciabile » di sapere, prima del voto, quale coalizione (immodificabile) li governerà. Confesso che la straordinaria importanza di questo diritto mi sfugge. Ci viene raccontato che a questo modo i partiti sono soppiantati dalla volontà degli elettori. Ahimè no: questo è soltanto un imbroglio, o comunque un auto-inganno. In realtà la dottrina del «sapere prima» e delle coalizioni bloccate serve solo a garantire la durata in carica per cinque anni anche a un governo di incompetenti, di incapaci e di zombi. Il che equivale a dire che comporta — tra un'elezione e l'altra — un'intoccabile oligarchia partitocratica. Prodi si propone di insegnare in futuro la teoria delle coalizioni. Mi permetto di segnalargli che per questa teoria, che esiste da tempo, le coalizioni «ottimali » (che funzionano) devono essere minimal e connected,
vale a dire minime (quanto più piccole possibili) e connesse (tra partiti contigui, vicini). Spiego meglio: la coalizione dev'essere minima, perché così è probabilmente più coesa, meno eterogenea; e deve essere tra vicini per minimizzare la loro distanza ideologico-programmatica. Invece noi abbiamo cercato coalizioni massime caratterizzate ovviamente da sconnessione. Prima di fare (malfare) bisognerebbe sapere.


05 dicembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 30, 2008, 11:01:40 am »

LA CRISI DI GOVERNO

Bilancio amaro di una stagione

di GIOVANNI SARTORI


I colleghi Angelo Panebianco ed Ernesto Galli della Loggia hanno già ben analizzato la Parabola del prodismo e le Origini del fallimento. Iomi propongo invece di ricostruire il «Prodi pensiero» o meglio di tentarne la ricostruzione.

L'idea fissa è che il sistema politico debba essere bipolare in modo rigido e prestabilito, e cioè fondato su due poli chiusi e blindati. Ogni polo esprime la volontà dei suoi elettori e quindi la sua composizione non deve essere modificata da «ribaltoni», nemmeno da «volenterosi» spiccioli disposti a dare una mano. Il primo governo Prodi cadde per un voto e perché il Nostro si rifiutò di accettare i voti di soccorso che gli offriva Cossiga. Dopodiché Prodi si è ancor più trincerato. Il suo primo governo si fondava sulle «desistenze » elettorali concordate con Rifondazione comunista. Questa volta Prodi ha voluto Bertinotti e i suoi nanetti di contorno al governo. Così—immagino abbia pensato — li catturava. E per catturarli ancora meglio ha escogitato un’«officina» non tanto di cervelli ma di spartizione alla Cencelli delle istanze di tutti. Con il bel risultato di impiccare il suo governo alle concessioni che il suo programma di ben 280 pagine aveva fatto ai suoi sinistrini.

Questa è una sequela di errori da manuale. Una volta Ciriaco De Mita disse che Prodi «non capisce nulla di politica». Ma al Nostro non importa granché di capire; gli importano soprattutto i modi per puntellare e rendere insostituibile la sua leadership. Chi, se non soltanto lui, poteva gestire una baracca così mal congegnata? Chi, se non soltanto lui, poteva «fare la quadra» in tanto spappolume?

Il sospetto è avvalorato dall'altro versante della sua indefessa operosità: il polity-building, la costruzione della città politica more prodiano. In quest’ottica i vecchi partiti della sinistra devono sparire e si devono rifondare in un nuovo partito progettato da lui, e quindi davvero suo. Per attuare questo disegno Prodi si è prodigato in demagogismo democratico: tutto doveva nascere «spontaneamente » dal basso (con primarie a cascare) e il capo del governo doveva essere eletto direttamente dal popolo. Ma questo disegno gli è scoppiato tra le mani. Il nuovo partito ha incoronato Veltroni, ha perduto nella rifusione l'ala sinistra dei Ds, e si è trovato esposto al fuoco amico dei cespugli che Prodi si illudeva di addomesticare. E' bastato che Veltroni dichiarasse che non li avrebbe imbarcati, per far dichiarare a Prodi che i nanetti li proteggeva lui. Collisione perfetta, frittata fatta.

Io sono contrario a elezioni immediate senza riforma elettorale. Ma non sono contento di scoprire che da qualche giorno anche Prodi la pensa così. Perché non riesco a dimenticare che per gli ultimi 18 mesi il Nostro ha minacciato i suoi con il ritornello: «Se mi fate cadere, tutti alle urne». Tra poco Prodi lascerà Palazzo Chigi. Però non per tornare a casa ma per tornare a tempo pieno al partito a rilanciare «Prodopoli» e a fare le sue vendette. L’eredità delle sue cattive idee sarà purtroppo lunga da smaltire.

30 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 01, 2008, 06:10:17 pm »

LA CRISI DI GOVERNO

Elezioni subito non vanno bene

di Giovanni Sartori


I politici disinteressati che operano soltanto nell'interesse del Paese sono oramai rari. Dilagano invece i ribaldi, i politici che operano soltanto nell'interesse proprio. Come fermarli? Come rimandarli a casa? È sempre più difficile perché il Berlusco-Prodismo (in questo perfettamente appaiati) ha sempre più indebolito il potere dell'elettorato. A dispetto delle apparenze, siamo sempre più impotenti. Alle urne, alle urne!

Alle urne per decidere che cosa? La risposta di rito è: persino per decidere il capo del governo. Ma quando mai? Se davvero il Berlusco- Prodismo volesse attribuire al popolo il potere di scegliere il premier, allora la scheda di voto dovrebbe chiedere: 1˚Volete il suddetto come premier? Sì / No; 2˚ Se No, allora chi...? Invece sulle nostre schede il nome è prestampato e nemmeno ne è ammessa la cancellazione. Il che configura una scelta senza scelta, e così un classico raggiro.

Ancora. In passato gli elettori votavano per singoli partiti, il che vuol dire che avevano libertà di scegliere tra una molteplicità di offerte relativamente precise e distinguibili. Ma il Mattarellum e il Berlusco-Prodismo ci hanno regalato carrozzoni «coatti» che imbarcano cani e gatti e che propongono offerte fumose e intrinsecamente contraddittorie. I carrozzoni offrono all'elettore una maggiore libertà di scelta dei partiti separati? Direi proprio di no.

Infine, oggi il problema più scottante è quello della «casta». A dir poco, almeno metà degli italiani è indignata e se ne vorrebbe liberare. Ma come? Non sanno come fare. E hanno ragione. Le caste (sia di destra che di sinistra) sono trincerate ovunque, e non saranno le proteste né l'astensionismo a sloggiarle. Il tanto inneggiato popolo sovrano non è mai stato incastrato, per non dire castrato, peggio di così.

Dicevo all'inizio che oramai i politici disinteressati si contano sulle dita. Non se ne deve ricavare che anche se coltivano tutti il proprio interesse siano tutti egualmente dannosi per l'interesse generale. A Berlusconi conviene (per sé) saltare la riforma elettorale? Sì. A Veltroni conviene (per sé) avere la riforma elettorale? Sì. La differenza è che mentre l'utile del Cavaliere confligge con l'interesse del Paese, l'utile di Veltroni è anche nell'interesse del Paese. Su una scala da 0 (cinismo puro) a 10 (altruismo massimo), in questa partita piazzerei Berlusconi a zero e Veltroni a 5.

Quanto al dibattito su elezioni subito o no, è un dibattito del tutto pretestuoso. Nemmeno è vero che non ci sia tempo, o che perdere tempo sia «delittuoso» (Fini). In Senato giace quasi pronta una buona proposta di riforma (la bozza Bianco) sulla quale un accordo trasversale potrebbe essere stipulato in pochissimi giorni. Se Berlusconi dicesse di sì, sarebbe cosa fatta. Ma Berlusconi dice di no, perché a lui, dicevo, l'interesse del Paese non importa un fico secco. Si avverta: una piccola generosità non lo danneggerebbe di molto e gli farebbe fare, in compenso, una bella figura. Ma il Cavaliere non è fatto così. Oramai gravemente afflitto dal «mal di potere», lo rivuole subito. Anche un solo giorno di potere mancato lo fa soffrire.


01 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 19, 2008, 12:23:48 am »

IL Parere del politologo sulla tramvia a Firenze

«Serve, l'inquinamento fa più male»

Sartori: «Bisogna assolutamente andare avanti sulla strada già intrapresa»


FIRENZE - Il politologo Giovanni Sartori parte da una percentuale: «Quella delle gente che si interessa alla politica: il 10-15 per cento. Così in tutto il mondo. Con l'eccezione dei dibattiti sulle questioni locali. Ma non a Firenze, pare. E questo fa nascere un dubbio: che la protesta della piazza, qui come altrove, sia una battaglia di pochi».

Professore, l'affluenza al referendum.
«Molto bassa. Due i possibili perché. Primo: la gente è stufa dei referendum. Secondo: questa chiamata alle urne in particolare non l'ha appassionata. Certo, su un problema concreto e vicino alla città come questo mi aspettavo un'affluenza maggiore».

A questo punto, che fare?
«Con un'affluenza come questa credo che il referendum non debba essere tenuto in considerazione. L'amministrazione comunale deve esercitare il suo diritto: portare avanti le decisioni prese, magari migliorandole in corsa. Ma bisogna assolutamente andare avanti sulla strada già intrapresa».

Una strada che lei condivide?
«Mi rimetto ai tecnici, convinto che abbiano preso in considerazione anche il più piccolo rischio. Personalmente sono favorevole al tram e al tram in centro. Quando da ragazzo vivevo a Firenze c'era. Passava attorno al Duomo, traballava tutto. Oggi i tram sono silenziosi, senza vibrazioni. L'inquinamento fa più male».

E a chi continua a ribadire il suo «no»?
«Max Weber diceva: "Lo Stato è l'esercizio legale della forza". Oggi, ovunque e a tutti i livelli, questo esercizio della forza non c'è più e lo Stato, o chi per esso, ha il dovere di recuperarlo. Diversamente sarà la paralisi».

Quale paralisi?
«Non bisogna generalizzare, ma dalla Tav agli inceneritori, ovunque è un pullulare di comitati del "no" che fanno massa, ricatti (fanno pagare caro il loro sì, quando lo danno) e paralizzano il Paese. Una situazione dannosa e intollerabile che va fermata».

 Lo strumento del referendum può aiutare?
«Se il referendum può servire a sbloccare, ben venga. Se può aiutare a smascherare le battaglie di pochi fatte passare per il pensiero dei più, pure. Ma attenzione: se anche il referendum viene utilizzato come strumento per fermare tutto, meglio non farlo».

Alessandra Mangiarotti
18 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 17, 2008, 02:42:39 pm »

IL SOMMERSO DEI PROGRAMMI

Democrazia al verde


di Giovanni Sartori


Torno ai programmi elettorali. Scrivevo che oramai si riducono a essere strumenti acchiappa- voti. Servono per vincere. Il che non implica che servano per ben governare. Può darsi; ma può anche darsi che costringano a governare malissimo. In parte perché promettono quel che non dovrebbero, e in parte perché occultano i veri problemi, i problemi che sono davvero da affrontare. Questi problemi, scrivevo, costituiscono la parte sommersa delle campagne elettorali. Vediamo di farla emergere. Una prima partita sulla quale troppo si sorvola è quella del nostro debito pubblico. Sì, sappiamo che c'è; ma poi si svicola.

Eppure batte ogni record: oscilla intorno al 105% del Pil (prodotto interno lordo), e cioè della ricchezza prodotta dal Paese in un anno; il che comporta un carico di interessi di 70 miliardi di euro. Ora, anche un bambino (ma non i sindacati e nemmeno la sinistra-sinistra) arriva a capire che trovarsi ogni anno con 70 miliardi bloccati è un’intollerabile palla al piede. Questo debito era superato, in passato, dal Belgio, che però è riuscito a dimezzarlo. A noi non riesce. Perché? E' un segreto di Pulcinella, debitamente oscurato da tutti. Una seconda partita dolente, anzi dolentissima, è quella della mafia (nella quale ricomprendo camorra e 'ndrangheta). Vedi caso, nessun programma si impegna in una «guerra alla mafia». Eppure la mafia è la più grossa azienda del Paese, con un fatturato nell'ordine di 90 miliardi all'anno, tutti esentasse, tutti in nero. Ma né Tremonti né Visco né nessuno hanno mai davvero cercato soldi nel colossale patrimonio mafioso.

Perché? E' un altro segreto di Pulcinella. E' che il voto malavitoso condiziona e inquina la politica e le elezioni di metà del Paese. Nel 2001 Berlusconi vinse in Sicilia 61 collegi su 61. E’ comune opinione che quel trionfo fu dovuto anche ai voti controllati dalla mafia. E ora il Cavaliere ritenta il colpo rilanciando il ponte di Messina, che sarebbe inevitabilmente una colossale pacchia per l'onorata società. Come insegna l'autostrada Salerno- Reggio Calabria, fatturata metro per metro dalle cosche. Aggiungo che questo lassismo, e ancor più la collusione tra politica e mafia, sono particolarmente vergognosi perché impiombano l'economia del Sud e di riflesso tutta l'economia italiana. Il Sud non riesce a decollare, economicamente, anche perché strangolato dal «pizzo» e da un gigantesco parassita che oramai è arrivato al Lazio. Come scrive Giorgio Bocca, la malavita sta «sconfiggendo lo Stato in metà dello Stato». Eppure i partiti (paghi di qualche fortunato arresto) non fiatano e anzi candidano personaggi in altissimo odore di sospetto. Una terza grossa partita è quella delle infrastrutture. Sono tante. Qui ho in mente strade e ferrovie, che sono infrastrutture disattese da decenni.

Giuseppe Turani stima che la rete ferroviaria da rifare costerebbe 30-40 miliardi, e che «per diventare (in materia di viabilità) un Paese moderno in media con gli altri Paesi europei dovremmo spendere nell'arco di una ventina d'anni almeno un altro Pil al completo». Basta e avanza così? Purtroppo no. Perché tra le partite ad alto costo c'è anche la partita ecologica e dell'incombente disastro climatico. In materia i nostri Verdi fanno ridere o fanno danno. Per loro il problema principale è di bloccare strade, ferrovie e fabbricati «brutti», nonché il grosso degli impianti per l'energia elettrica e la rigassificazione del metano. Il brutto non piace nemmeno a me. Ma è irresponsabile raccontarci che il fabbisogno energetico (in vertiginosa crescita) sarà fronteggiato dal sole e dal vento. Nel contempo si limitano a piangere, soltanto l'estate, quando i nostri boschi bruciano; e il ministro Pecoraro Scanio si è distinto nel bloccare a Napoli i termovalorizzatori perché il suo collegio elettorale è, appunto, Napoli. Abbiamo sottoscritto gli accordi di Kyoto, dopodiché le nostre emissioni di gas serra (il vero problema) hanno superato del 13% il limite che abbiamo accettato.

La verità è che sia Berlusconi che Prodi del riscaldamento della Terra si sono strafregati, e nemmeno Veltroni si stravolge più di tanto. Quanti Pil verrà a costare, quando i nodi verranno al pettine (sarà presto), questa cecità? Nessuno lo sa né lo vuol sapere. Infine c'è il costo del federalismo promesso a Bossi da Berlusconi. Nei programmi è un costo non contemplato, come se spezzettare il Paese in parecchie Sicilie aggiuntive non comportasse un esiziale aggravio di sprechi clientelari e di ogni sorta di disfunzioni. Pertanto quando si osserva che i programmi del Pd e del Pdl si equivalgono, si dimentica che se Berlusconi vincerà dovrà pagare a Bossi il salatissimo prezzo del suo sostegno. Ripeto, nessuno lo nota ma su questa partita Berlusconi, e soltanto lui, ci costerà molto caro. Cerchiamo di fare il punto a oggi. Siamo una democrazia troppo indebitata? Sicuramente sì. Siamo anche una «democrazia in deficit», per dire che le uscite superano regolarmente le entrate? Per ora è ancora così; e dubito sulla redenzione prevista per il 2012.

La cosa certa è, invece, che siamo una «democrazia al verde», senza un soldo in tasca, e che ha raschiato il fondo del barile (ci resta soltanto la risorsa, poco saggia, di continuare a vendere il patrimonio dello Stato). Si risponde che siamo pur sempre una «democrazia in crescita» in termini di Pil. Ma questa crescita è modestissima. Eppoi il Pil a questo effetto non è un buon indicatore. Il dato significativo è che oggi, secondo i dati Ocse, il potere di acquisto dei nostri lavoratori è del 18% circa inferiore a quello dei Paesi dell’euro. E siccome ci mancano i soldi per rimediare, il mio sospetto è che noi siamo una «democrazia in decrescita» e cioè caduta nel vortice di uno sviluppo non sostenibile che distribuisce più di quel che produce.

13 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 02, 2008, 03:05:52 pm »

LA STRATEGIA DEL PD

Strane elezioni senza battaglia

di Giovanni Sartori


In vita mia di elezioni in giro per il mondo ne ho viste parecchie, se non altro per dovere professionale (le studiavo). Eppure la campagna elettorale in corso non cessa di stupirmi: è sicuramente la più strana che io abbia mai visto. Di regola, nelle democrazie «normali» le elezioni sono il momento del combattimento, della guerra senza esclusione di colpi. Ma subito dopo la guerra finisce. Abbastanza spesso chi ha perso «concede» e si rallegra con il vincitore. Dopodiché il leader sconfitto non passa a gestire in Parlamento una «opposizione- rivincita» ma un’opposizione senza barricate che non subordina il bene del Paese al bene della sua parte.

In Italia abbiamo invece capovolto tutte queste regole. Dalla seconda metà degli anni 90 il rapporto tra governo e opposizione è sempre stato di guerra continua; dopodiché a Prodi subentra un Veltroni che combatte un’elezione quasi senza combatterla: nomina il meno possibile il suo principale avversario, non risponde o risponde debolmente (senza contrattaccare) ai suoi attacchi. Diciamo che questa è una strategia irenica (in greco irene è pace). È una strategia vincente? Per chi si trova a dover risalire una china di circa 7 punti percentuali di svantaggio direi proprio di no.

Non so chi abbia suggerito a Veltroni la strategia soft, morbida e in sottotono, che ha perseguito sinora. Forse è Veltroni stesso che l’ha ricavata dai sondaggi, e cioè dall’esistenza di un largo pubblico esasperato e stufo della litigiosità continua dei nostri politici. Questa esasperazione c’è; ma i dati bisogna saperli interpretare. Io, per esempio, li interpreto così: che mentre gli italiani sono stufi della rissosità quotidiana, in tempo di elezioni hanno pur sempre bisogno di un combattimento, di botte e risposte, atte a chiarire le idee. Invece Veltroni batte le piazze illustrando il suo programma. Uno sforzo generoso ma poco redditizio.

Per rendersene conto occorre identificare i criteri del voto. Che può essere: 1) retrospettivo, punisce o premia il già fatto; 2) proiettivo o novitista, il votante spera e crede in un candidato; 3) identificato, il voto fisso di chi sposa una fede o bandiera a vita. Va da sé che il terzo tipo di voto ci interessa poco; così come va da sé che il voto retrospettivo e proiettivo si mescolano anche se in proporzioni diverse.

Ed ecco un’ulteriore stranezza. Veltroni gioca tutte le sue carte sul voto proiettivo, sulla novità. Così scarta il voto punitivo, il consuntivo sul passato. Certo, risvegliare la memoria può essere pericoloso anche per la sinistra. I1 breve governo Prodi non lascia un buon ricordo, e la sinistra al governo è stata troppo di sinistra. Al che Veltroni può rispondere che i l malgoverno e non-governo di Berlusconi per 5 anni di fila è stato molto peggiore, e che lui della sinistra «troppo sinistra » si è liberato. Resta, però, che il voto «in avanti » si impernia sulla credibilità e sull’affidabilità dei candidati. E come si accerta questa credibilità? Ovviamente sulla base delle promesse che in passato hanno mantenuto o tradito. La stranezza è, allora, che Veltroni punta su una fiducia-sfiducia sulla quale si imbavaglia. Regalando così al Cavaliere una verginità che non merita. Temo che ormai sia tardi per rimediare. Ma forse non è tardi per dare più grinta e mordente a una campagna elettorale troppo flaccida.

02 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 10, 2008, 04:02:24 pm »

Editoriali       L’ELETTORE E LA SCHEDA

Voto di sfiducia costruttivo

di Giovanni Sartori


Mai come questa volta molta gente è incline a non votare.
Anche perché mai come questa volta la gente non sa per chi votare. Mi astengo? Mi turo il naso? Pensa e ripensa mi è venuta una pensata.

Lasciamo da parte il nocciolo duro dei partiti, i fedeli che votano e voteranno sempre per il loro. Il fatto è che gli «infedeli » sono aumentati, e che in questa elezione il numero dei cosiddetti indecisi arriva ad essere stimato addirittura un terzo dell'elettorato. Si sa anche che un buon numero di questi indecisi ha deciso di non votare: sono infuriati e ce l'hanno con tutti. Questi signori hanno ragione di essere infuriati. Ma astenersi a cosa serve? Punisce davvero la Casta? Rimedia davvero qualcosa? Temo di no.

Se verrà fuori, a elezioni avvenute, che i votanti sono diminuiti di parecchio, è sicuro che i nostri politici non riconosceranno che le astensioni in più sono punitive, sono astensioni di rigetto (e non di disinteresse). Diranno, semmai, che ci stiamo «normalizzando» ai bassi livelli di voto di molte democrazie. Tutt'al più verseranno lacrime di coccodrillo sul fenomeno del crescente distacco dalla politica.

Qual è allora la pensata? È che sapendo usare il voto disgiunto tra le due Camere ne possiamo ricavare un voto-rifiuto, un voto che puramente e semplicemente dice no. Mettiamo che al Senato io voti Veltroni e invece per la Camera io voti Berlusconi (o viceversa). In tal caso il mio secondo voto pareggia e cancella il primo. L'effetto sull'esito elettorale è zero. Però io ho votato, e quel mio voto esprime senza ombra di dubbio il secco rifiuto del Palazzo e della Casta. Si dice che come elettori siamo impotenti. Sì. Ma se, mettiamo, 10 milioni di italiani votassero così, allora saremmo potentissimi.

Aggiungo che il voto disgiunto può anche indicare, volendo, il male minore (o maggiore). Il sistema elettorale, il Porcellum, prevede un lauto premio di maggioranza che per il Senato non è attribuito su base nazionale ma spezzettato regione per regione. Il che lo rende il più incerto e il più decisivo. Nel caso della Camera il premio lo vince chi ha più voti in tutto il Paese; nel caso del Senato lo vince chi conquista più seggi nelle regioni che ne hanno di più. Mettiamo, per esempio, che il nostro elettore voti Veltroni al Senato e Berlusconi alla Camera. Così facendo indica che, male per male, il «malissimo» è per lui un governo di destra. Viceversa se vota Berlusconi al Senato e Veltroni alla Camera, indica che per lui il maggior male è un governo di sinistra.

Dunque, nel disgiungere il voto l'effetto complessivo è sempre zero; ma chi ottiene il voto per il Senato è avvantaggiato. In ogni caso uno vota contro ma la strategia sinora disegnata consente di scegliere il male minore.

S'intende che il voto disgiunto può essere applicato anche ai «secondi partiti». Per esempio, uno a Veltroni e uno a Bertinotti; oppure uno a Casini e uno a Berlusconi. In tal caso il voto ai minori sarà sprecato ai fini del premio di maggioranza, ma utile per la loro sopravvivenza, per superare lo sbarramento (che per il Senato è dell'8%). Allora, io come voterò? Certo, adottando i criteri che ho suggerito. Ma certo non dirò per chi. Ognuno deve decidere per sé.

10 aprile 2008


da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 24, 2008, 09:04:01 am »

RIFLESSIONI SUL VOTO

Le elezioni dirompenti


di Giovanni Sartori


Le elezioni del 13 e 14 aprile sono da interpretare come una svolta speciale? Sì e no; ma direi più sì che no. Enzo Bettiza sulla Stampa minimizza: «La Seconda Repubblica non è morta per il semplice fatto che non era mai esistita. È morta invece definitivamente la Prima, di cui la Seconda non era che un'ombra storta e contorta». Neanche io, come Bettiza, ho una alta opinione del periodo 1994-2008; ma quel periodo è pur sempre contrassegnato da una sua peculiare identità. Intanto ha avuto un illustre defunto: il potere democristiano. E poi una svolta c'è stata. Non tanto in chiave di distribuzione bipolare del voto (che c'era anche tra Pci e Dc) ma in chiave di alternanza bipolare dei governi. Una svolta danneggiata, purtroppo, dalla frammentazione- frantumazione del sistema partitico. Questa volta abbiamo invece una felice controsvolta: da decine di partiti e partitini (tanti da essere difficili da contare) siamo scesi a 4-6. Inoltre c'è un fatto nuovo: la Lega che sembra diventata definitiva al Nord e che sfonda anche in direzione Sud. Il che complica di parecchio la competizione partitica, che oramai si dispiega lungo due assi: destra- sinistra, ma anche Nord-Sud, e cioè centro- periferia.

Comincio da alcune riflessioni sulla Lega. Passo poi alla scomparsa della sinistra alternativa. Per concludere sulle prospettive della sinistra riformista.
La Lega.
A naso direi che nel suo successo convergono tre fattori: 1) l'elemento centrifugo (via da Roma ladrona); 2) l'elemento della protesta antipolitica (in alternativa all'astensione, voto un partito estraneo al sistema); 3) il federalismo fiscale (a sé stante rispetto al federalismo istituzionale). Direi anche, sempre a naso, che l'elemento che sfonda al Sud è il terzo: alle regioni ricche piace l'idea che ognuno abbia diritto di tenere per sé i soldi che fa (una contabilità difficile da attuare ma appetitosa come slogan). Il che prelude a uno scontro con la lega siciliana in pectore di Raffaele Lombardo, il Mpa. Al momento lo scontro è rinviato: Lombardo non chiede allo Stato le risorse che Bossi vuole tenere al Nord, ma già chiede di trattenere le accise sulla benzina raffinata in Sicilia (uno scippo di un miliardo di euro).

La sinistra alternativa.
La sua scomparsa in Parlamento fa versare a tutti copiose lacrime di coccodrillo, e cioè lacrime ipocrite. Ipocrite perché chi chiede la governabilità non può volere i partitini che la impediscono. Né la scomparsa dei «nanetti» in generale viola le istanze della rappresentanza. Questo argomento confonde la rappresentatività come somiglianza con la rappresentanza come tecnica costituzionale di trasmissione del potere. Per esempio, dire che io sono rappresentativo dei cretini non vuol dire che io sia rappresentante dei cretini. D'altronde il mondo delle democrazie è pieno di minoranze che non sono rappresentate.

Il caso più clamoroso è quello degli Stati Uniti, che non hanno mai avuto un partito socialista senza che la sinistra si ritenga non rappresentata per questo.
La sinistra riformista. La sconfitta è stata secca. All'inizio della campagna elettorale quasi tutti i sondaggi stimavano il Pd sotto di circa 7 punti: più o meno la stessa distanza che nel 2006 separava Berlusconi da Prodi. Ma allora Berlusconi risalì la china, mentre Veltroni è restato al palo e semmai ha perso 2 punti percentuali. Perché? Eredità negativa di Prodi a parte, a mio avviso anche Veltroni è colpevole di avere sbagliato la sua campagna elettorale. Veltroni ha combattuto un'elezione senza combatterla; si è disperso in 104 province invece di concentrarsi sulle regioni in bilico e sul connesso premio di maggioranza; e ha puntato troppo sul programma mentre il Cavaliere puntava soltanto su poche ma efficaci parole d'ordine. Un'idea: quando sarà (tra 12 anni?) in ozio, la sinistra dovrebbe reclutare Berlusconi come consigliere elettorale. Con lui vincerebbe.

Il discorso serio è che non credo — come si sente dire in giro — che la sinistra di governo sia sempre destinata a perdere. In Gran Bretagna, Germania, Spagna e in tutte le piccole democrazie nordiche, la socialdemocrazia governa e torna regolarmente a governare. Perché in Italia no? Secondo me è perché su di noi pesa ancora l'eredità di un Pci che è stato il primo della classe del comunismo internazionale. Ne consegue che Veltroni si trova ancora in mezzo al guado, e cioè gravato da un bagaglio ideologico che le altre socialdemocrazie hanno da tempo ricusato.

Per esempio, si sapeva che moltissimi elettori chiedevano sicurezza e mano ferma sugli extracomunitari clandestini. Due richieste che di per sé non sarebbero né di destra né di sinistra, ma che i nostri catto-comunisti hanno trasformato in richieste «repressive» di destra. Così su questi punti il governo Prodi si è incartato, e anche Veltroni non li ha messi in sufficiente evidenza. Non raccomando, s'intende, una sinistra puramente opportunista e «acchiappatutto ». Ma in democrazia l'elettorato ha diritto di farsi valere. Se no ti fa perdere.


24 aprile 2008

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