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Autore Discussione: Federica FANTOZZI. -  (Letto 18623 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 14, 2013, 10:18:01 am »

Renzi, Letta, i sindacati e gli U2...
Tutti i segreti del nuovo derby Pd


L'ANALISI | Da ieri in scena il primo duello post-ideologico della politica italiana tra rottamazione e patto generazionale. Ecco cosa hanno in comune (e cosa no) i due leader su sindacati, tagli alla politica, Europa e Usa, cultura pop e fuga dalle auto blu.


Di Federica Fantozzi
12 dicembre 2013

Da ieri è in scena il primo duello post-ideologico della politica italiana. Enrico letta, premier, versus Matteo Renzi, segretario del Pd e azionista di (schiacciante) maggioranza del suo governo.

Contendenti virtuali, prospettici, e qualcuno ha già riesumato la dizione di “acerrimi alleati”. Rottamazione contro stabilità, ha punzecchiato ieri il “Foglio”: «Attenzione, se il processo di rottamazione si interrompe adesso in nome della stabilità di governo, finiremo per preservare l'attuale stabilità, quella della morte». E' davvero così? In realtà, a ben guardare, i due “giovani” leader hanno molto in comune. A partire dall'immagine. Muscolare quella del sindaco, sobria e schiva quella del premier, ma fatta per entrambi di un'ostentata “normalità”. Letta vive a Testaccio, pranza in pizzeria, porta i figli al calcetto e difende a oltranza la privacy. Renzi è un ex scout, moglie insegnante precaria sgridata dal marito perché colta sulla corsia preferenziale, tre figli che soffrono la lontanza dal padre. Il primo è salito al Quirinale in monovolume con i seggiolini dei bambini, il secondo si sposta in treno e bicicletta. Tutti e due rifuggono l'auto blu come fosse la peste.

LEADER DEIDEOLOGIZZATI: GENERAZIONE TUAREG
«Da Berlinguer a Matteo, la sinistra sdogana il leader post ideologico – scrive Filippo Ceccarelli su Repubblica – Renzi è il primo capo compiutamente post-ideologico della storia politica italiana». Sei mesi fa la stampa scriveva cose molti simili sul neo presidente del Consiglio: finalmente un quarantenne, di quelli “deideologizzati” come i comuni “denuclearizzati” negli anni Settanta, un figlio del riflusso schiacciato dagli ingombranti padri sessantottini. Al potere sembrava fosse andato non un uomo ma una generazione: la “generazione Tuareg”, cresciuta attraverso il “deserto delle ideologie”. Ebbene, Letta ha 47 anni, Renzi 38. Tra di loro passa un decennio, come ha maliziosamente sottolineato il sindaco di Firenze per spiegare che lui ha tempo e non ha bisogno di far cadere il governo. Ma il mondo di appartenenza, l'universo di riferimento, gli obiettivi politici, non sono così distanti.

IL PD: ADDIO CULTURE POLITICHE DEL '900
Condividono un passaggio – più o meno breve – per la Democrazia Cristiana. E l'approdo finale.

Per Letta il Pd, di cui era vicesegretario, è un partito “meticcio” ma non una sintesi tra le due grandi culture del '900: il Pd come “momento rifondativo” di Ds e Margherita. Renzi, di fatto, va anche oltre: si tiene alla larga da bandiere e simboli di partito, si candida apertamente a intercettare il voto dei delusi di centrodestra (salvo sfilarsi con una battuta dagli abbracci mortali: “Manca l'endorsement di Jack lo Squartatore”). Letta vuole un partito aperto e dal basso, con le primarie a tutti i livelli, e un “modello Wikipedia” dove “ognuno delle centinaia di migliaia di partecipanti porta il suo contributo e le sue competenze”. Renzi, di nuovo per carattere e per necessità politica, è andato oltre, combattendo con durezza la battaglia sulle regole delle primarie contro Bersani, e facendo della sfida all'apparato la ragion d'essere della sua prima fase politica a livello nazionale. Al punto che i nemici interni gli rimproverano di voler smontare il Pd e farne un comitato elettorale intorno alla sua persona.

IL FANTASMA DELLA SCISSIONE E I RAPPORTI CON IL SINDACATO
Ed è sintomatico che tanto il premier quanto il neo segretario Dem siano inseguiti dal fantasma della scissione. La avrebbe fatta Renzi – giurava il tam tam un anno fa – se avesse perso alle primarie contro Bersani e le elezioni fossero andate in modo diverso. La farà Letta – sono rumors instancabili – se Renzi butta giù il governo, confluendo con Alfano in un partitone neocentrista, una sorta di Balena Bianca del terzo millennio. Mentre dall'archivio, spunta qualche similitudine persino nel rapporto con la Cgil. Renzi si propone, per la prima volta, come apertamente critico se non antagonista: “Il sindacato cambi con noi”. E per la prima volta la Camusso alle primarie è stata a casa, non ha votato, mentre lo Spi-Cgil, i pensionati, sceglieva Cuperlo. Eppure, prima di trovarsi a Palazzo Chigi con l'ex leader sindacale Epifani al Nazareno, Letta così diceva. “Il Pd dovrà parlare con tutti. E' la grande occasione per finire con il collateralismo. Nella prima Repubblica la Dc rappresentava la Cisl e un po' di Confindustria, il Pci la Cgil e un pezzettino di Uil. Adesso la logica della cinghia di trasmissione è finita, non c'è più. Siamo troppo legati ai corpi intermedi”. Significativo, no?

EUROPA, USA, IL MURO DI BERLINO
I due nuovi leader hanno molto in comune anche sul piano dei riferimenti storici e culturali (vagamente pop). Dell'immaginario, insomma. Per entrambi il punto di riferimento è la caduta del Muro di Berlino: la fine delle grandi ideologie, del “mondo come lo conoscevamo”, dei due blocchi contrapposti.

Ma anche l'Unione Europea, da indirizzare in senso sociale ma giammai abolire, dall'euro all'Erasmus che Letta ha citato nel discorso di insediamento alle Camere e Renzi in quello da neo segreario Pd. Nel pantheon di entrambi c'è Mandela: Letta nel difendere gli anni '80 ricorda che, se in Italia c'erano Craxi e le tv del Biscione, all'estero segnarono la fine dell'apartheid. Il sindaco di Firenze al leader sudafricano ha dedicato il Palasport, come ha rivendicato con orgoglio nel discorso dopo le primarie: “Mica l'abbiamo intitolato a una macchina o un'azienda”. E poi gli Stati Uniti. Basta con i rapporto conflittuali, di amore e odio che hanno segnato la generazione precedente. Letta lo rivendica durante la guerra di Bush all'Iraq. “Abbiamo amato gli Usa da subito e questo ci rende liberi di criticarli”. Renzi coltiva da tempo un rapporto con Obama, e quest'estate, per l'unica lunga e rilassante vacanza con la famiglia ha scelto proprio l'America.
E ancora gli U2 che entrambi ascoltano (“In the name of love” colonna sonora all'Obihall). Il telefilm Happy Days: Letta lo guardava prima di cena, insieme a “Furia” e “Zorro”. Il sindaco fiorentino si è presentato con giubbotto di pelle nera alla Fonzie guadagnandosi il nomignolo di “Renzie”.

DUE STILI DI ROTTAMAZIONE
La politica in senso stretto, infine. Entrambi hanno una corrente, come è doveroso che sia per non fare la fine di Prodi o Tremonti. “I renziani sono sciolti da oggi” ha annunciato il neo- segretario Pd, ma sarà difficile, dato che sono già saltati (quasi) tutti sul carro del vincitore. I lettiani esistono da tempo, lavorano sottotraccia, si muovono tra l'Arel e il think net Vedrò. E' nata anche una sottocorrente di congiunzione: i franceschiniani di Areadem.

Per tutti e due Berlusconi non è fondamentale ma superato. Renzi ha fatto furore come Rottamatore di una generazione: Bindi, Finocchiaro, Fioroni, Marini, tutti sono finiti nei suoi strali. A partire da D'Alema, che è fuori dal Parlamento e lo sarà anche (pare) da quello Europeo. Va detto però che il Lider Maximo non è entrato nel governo, seppure il suo nome fosse circolato come ministro degli Esteri. Letta ha toni soft e stile democristiano ortodosso, ma alla base del suo governo c'è un'operazione di “rottamazione cortese”. Un patto generazionale con Alfano, il suo dioscuro azzurro, che ha di fatto lasciato a casa i 50-60enni anche nel centrodestra. Facce nuove, ricambio generazionale, molte donne e profilo non troppo schierato. A maggio Letta rivendicava il profilo innovativo della sua squadra. Ci sono Lorenzin e De Girolamo. A casa Brunetta, Schifani, Nitto Palma. Ci sono Orlando e Franceschini, ma gli altri big restano in panchina. Adesso Renzi schiera la sua segreteria: “L'età media è 35 anni e le donne sono in maggioranza”.

SIMBOLISMI
Il premier ha messo Cecile Kyenge, congolese invisa alla Lega, al nuovo ministero dell'Integrazione. Il leader Dem chiama Marianna Madia, incinta e con un figlio piccolo, a occuparsi di Lavoro.
Entrambi puntano sui tagli dei costi della politica: la prima mossa di Letta è tagliare la doppia indennità ai ministri che sono parlamentari (nelle sue tasche, dice, entrano 80mila euro in meno). Renzi ha già istituito una task force con l'obiettivo di ridurre di un miliardo i costi della politica. Sull'addio al Senato e la riduzione dei parlamentari marciano in perfetta sintonia. Anche sulla moralità pubblica da ritrovare. “Etica” è la parola chiave di Letta, “onore” quella di Renzi. Il primo ha silurato Josefa Idem, rea di un pasticcio sull'Imu tutto sommato veniale ma incompatibile con il new deal di una politica alla disperata ricerca di credibilità. Il secondo ha scatenato l'offensiva sulle telefonate del ministro Cancellieri a Ligresti, approfittando del fatto che quella casella non era sacrificabile per Letta a causa dei delicati equilibri di governo.

Il derby, insomma, è aperto.


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« Risposta #16 inserito:: Settembre 15, 2015, 06:01:48 pm »

Federica Fantozzi   
@federicafan
· 13 settembre 2015

D’Alema e Cuperlo, stoccate su partito, Imu e riforme
Dibattito alla Festa dell’Unità di Firenze. L’ex premier: “Il Pd è abbandonato, sta deperendo”.
L’ex presidente Dem: “Restare? Non un destino ma una scelta quotidiana”

Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo sono appena saliti sul palco della Festa dell’Unità di Firenze che Bianca Berlinguer rompe il ghiaccio: «Staino mi ha mandato un sms dicendomi che per moderare questo dibattito devo avere alle spalle studi di psicanalisi sui rapporti padre figlio. Ho risposto: sono la persona più adatta». Ma loro due hanno un rapporto padre figlio, chiede la direttrice del Tg3? Non per Cuperlo (ribattezzato «Gary Cooperlo» da un fan): «C’è un rapporto di stima e, se non si offende, amicizia. Ma opinioni a volte diverse. Con Staino c’è stato un confronto aspro, ma va bene. Caricaturale l’idea di una sinistra interna che sabota. L’importante è come ci si rispetta in un partito». Massimo D’Alema aggiunge: «C’era un errore, l’immagine di Cuperlo eterodiretto che prima di decidere telefona a me o Bersani è offensiva e sbagliata. Lo conosco, è spigoloso, fa di testa sua. Io gli consiglio più tolleranza…». Poi l’affondo: «Ci stiamo dimenticando molti valori della sinistra, ma torneremo al compagno Pjatakov che se il partito dice che il bianco e nero lui concorda. Prima avevamo lui, ora abbiamo Lotti». Anche sulle riforme, piena sinergia. «Nessuno vuole azzerare il percorso – osserva Cuperlo – vogliamo tagliare il traguardo e farlo bene». Ricucire, però, per D’Alema spetta a Renzi: «Tocca lui trovare una soluzione nel partito attraverso una discussione vera». Invece il Pd «con premier e segretario stessa persona è abbandonato a se stesso e sta deperendo». Molti applausi dall’affollata platea, ma una voce dal fondo: «40%» (cifra che ricorda a distanza anche Dario Parrini, dicendo «non sta affatto deperendo, sta cambiando l’Italia»). L’ex premier puntualizza: «Io non sono maggioranza né minoranza, sono un cittadino. Ma sulle tasse c’è stato un annuncio del premier, nemmeno di Padoan, scopriamo le cose dai giornali e poi ci si dice che è una decisione della maggioranza? Non possiamo far finta di avere un partito con maggioranza e minoranza, perché non-c ’è-più», scandisce. E Cuperlo: «La disciplina di partito passa attraverso la costruzione del consenso. L’obbedienza si impone». L’ex presidente Dem rievoca la riunione in cui, quando era in carica, criticò l’Italicum: «Un minuto dopo sono state chieste le mie dimissioni via agenzia. Renzi al microfono mi diede del nominato. Il giorno dopo mi sono dimesso. Non era polemica, ma rivendicare rispetto». Berlinguer scherza sul feeling: «Devo fare io la controparte».

L’opinione di Cuperlo è netta anche sul passato, sull’antiberlusconismo che il premier al Meeting di Rimini ha paragonato al berlusconismo: «Non sono nostalgico, rispetto il passato. Non si può azzerare il cronometro». Prima di Renzi nel Pd non si discuteva? «Si capiva che non dirigi il partito con la bacchetta magica ma con l’ascolto delle sue componenti». Se la parola chiave della serata è «rispetto», il tema sono le tasse. Su cui l’opposizione alla linea renziana di abolizione dell’Imu è totale in nome del principio di progressività, dell’equità e della priorità a impresa e lavoro. D’Alema: «Non si può risolvere un problema dopo 7 anni dicendo: ha ragione Berlusconi. Non è giusto. Io pago una tassa significativa sulla casa e, con 9 milioni di poveri la priorità non può essere toglierla a me». Boato del pubblico. Ma l’ex ministro degli Esteri non ha finito: «Nessun ragazzo di buon senso dovrebbe permettersi di polemizzare con Padoa Schioppa (il ministro, oggi scomparso, disse che «pagare le tasse è bello», ndr) perché è stato un grande italiano e pagando le imposte si fa il proprio dovere». Cuperlo dice se voterà l’addio all’Imu nella Legge di Stabilità ma avvisa: «Non perdiamo un pezzo di identità per conquistare il consenso di qualcun altro, dirò la mia e voterò secondo coscienza». Altra stoccata: «Il premier di evasione non ha parlato, lo considero un lapsus, ma discutiamo». Del Pd attuale, insomma, si salva poco. Su Enrico Rossi, potenziale sfidante di Renzi al futuro congresso, D’Alema non si pronuncia «per non danneggiarlo», ma annota malizioso: «Ai tempi della vituperata ditta come governatore prese un milione di voti, adesso 600mila… C’è un crollo della partecipazione nelle regioni rosse. Non è che il Pd si sta affrancando dai postcomunisti, sono loro che si affrancano dal Pd. Le aspettative suscitate da Renzi in parte sono andate deluse». Il resto dell’analisi è altrettanto impietoso: «Illusorio sfondare al centro, imbarchiamo ceto politico e i voti vanno alla Lega, se arriva Verdini e vanno via gli elettori…». Ce n’è persino per Tony Blair, che Renzi apprezza: «Ho capito che Corbyn avrebbe vinto quando ho sentito il discorso di Blair. In Gran Bretagna gli elettori provano avversione per lui, noi lo abbiamo scelto come modello…».

Sulle riforme, D’Alema spara a zero: «In pratica agli elettori diciamo: state a casa, non venite a votare. Con la grande riforma chi vince per un pugno di voti, anche Grillo, prende tutto. Nessuna democrazia al mondo funziona così». Cuperlo condivide i timori di D’Alema, dice che «restare in questo partito non è un destino, è una scelta che devo rinnovare ogni giorno», e avverte: «Bisogna garantire un equilibrio complessivo dei poteri o la democrazia viene meno. Un grande partito non si impicca all’art. 2, deve avere una visione d’insieme». E strappa l’ovazione del pubblico con: «Se si fa a meno di un pezzo di Pd per altri voti, saremmo di fronte al venir meno delle ragioni fondative di questo progetto. Se il Pd cambiasse radicalmente natura, profilo, offerta di sinistra, potrebbe non essere più la casa per me e tanti di noi. Quando vedo uscire Cofferati e altri, una domanda me la pongo». E D’Alema: «Non vivo nella condizione umanamente difficile in cui vivono Cuperlo e Speranza. Non ho né l’età né desiderio di fondare partiti. Ma sia che decidano di dare battaglia nel Pd sia che in un momento che nessuno si augura possano pensare di ricostruire altrove una sinistra italiana io darò una mano».

Da - http://www.unita.tv/focus/dalema-e-cuperlo-stoccate-su-partito-imu-e-riforme/
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 08, 2016, 10:58:44 pm »

Legge elettorale: intesa vicina, ma i bersaniani insistono sul No al referendum
Referendum   
Niente ballottaggio, collegi e premio di maggioranza.
Cuperlo ha chiesto il voto di una direzione prima del 4 dicembre

Federica Fantozzi   @federicafan
· 5 novembre 2016

La trattativa è ambiziosa e quasi fuori tempo massimo, ma i pontieri non demordono e l’accordo sembra infine vicino. Ieri secondo round di incontri, colloqui, telefonate all’interno della commissione Dem che dovrebbe (più realisticamente, potrebbe) raggiungere la quadra su come modificare la legge elettorale. «Clima positivo» per uno dei protagonisti, e a fine giornata si attende il via libera di Matteo Renzi su un’intesa che coinvolga buona parte dell’opposizione interna. Elemento clou: la tempistica.

L’obiettivo è concordare un percorso e il paletto minimo, da parte della minoranza, è approvare attraverso una nuova direzione che sia convocata prima del referendum costituzionale la bozza di documento elaborata dai cinque “saggi”. Sono tre i punti chiave, gli stessi elencati da Matteo Renzi nell’ultima direzione del partito: addio al ballottaggio, premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista, abbandono dei capilista bloccati a favore dei collegi uninominali o delle preferenze.

Un programma ampio, di cui la bozza di documento a cui stanno lavorando i cinque commissari – i capigruppo parlamentari Luigi Zanda ed Ettore Rosato, il presidente Pd Matteo Orfini, il vicesegretario Lorenzo Guerini e Gianni Cuperlo, in qualità di ambasciatore delle minoranze – rappresenta solo il primo passo. Ancora in queste ore Cuperlo sta sottoponendo la bozza alla sinistra interna, a partire da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. Per cercare di concordare una strada condivisa, che conduca al rientro delle divergenze sul referendum. Inevitabilmente in più tappe: nel caso in cui arrivasse l’adesione di tutte le componenti, il documento andrebbe poi votato in una prossima direzione e, a quel punto, trasmesso ai gruppi parlamentari.

Soltanto raggiunta quella fase il testo potrebbe essere incardinato in commissione Affari Costituzionali, come chiedono dall’inizio i bersaniani, e cominciare l’iter per tra sformarsi in legge. Partita complicata per tanti motivi. Prima di tutto, come si diceva, i tempi. Manca un mese al referendum e la macchina politica –tanto del Sì quanto del No – è già lanciata. La minoranza, allora, quali «impegni concreti» richiederebbe per cambiare opinione?

È già chiaro che non si accontenterebbe della bozza preceduta dall’avallo a monte del segretario, come base di discussione, già liquidata come semplice «contributo culturale» privo di valenza politica. Quanti di loro accetterebbero il “lodo Cuperlo”? Da ieri mattina, l’ex presidente Pd insiste affinché il cammino sia almeno avviato con una direzione prima del 4 dicembre, a cui segua rapidamente il deposito della proposta di legge. Più altre limature, come un riferimento più stringente alla forma di elezione diretta dei senatori in concomitanza con la scelta dei consigli regionali. Argomenti che i renziani stanno valutando «positivamente».

Nella maggioranza Dem si lavora per chiudere –se ci saranno le condizioni – già oggi o comunque in concomitanza con la Leopolda, e poter annunciare l’intesa dal palco della kermesse simbolo del renzismo. L’altro punto da capire è quanti nelle minoranze si sentirebbero vincolati da un’eventuale accordo. Ieri pomeriggio il senatore Federico Fornaro ha già bocciato la bozza: «Nonostante la generosità di Cuperlo, la commissione Pd ha prodotto un documento fantasma, tanto generico quanto inefficace. Così non si va da nessuna parte, anzi si rafforzano i dubbi, le riserve e le evidenti criticità».

A sua volta, Miguel Gotor ha divulgato il proprio «manifesto del No»: «Ho deciso di votare contro la riforma dei gattopardi». Bersani, che da giorni è in giro per l’Italia, ha confermato la presenza a tre iniziative per il No in Sicilia: a Ragusa, Siracusa e Palermo lunedì 7 novembre. Già l’altroieri l’ex segretario si era detto «non ottimista» sull’esito della trattativa. E ieri sera Roberto Speranza, partecipando a un evento a Foggia a cui ha partecipato anche il presidente della Puglia Michele Emiliano (tra i governatori contrari alla riforma), ha detto: «Riforma costituzionale e legge elettorale sono due pezzi della stessa riforma.

E’ sempre più chiaro, giorno dopo giorno, che l’unico modo per cambiare veramente la legge elettorale è votare No al referendum di dicembre». Ha commentato Orfini: «Siamo impegnati per cercare di evitare una spaccatura del Pd, ma molti la cercano e sembra non attendano altro». L’impressione è che, per alcuni, il tempo delle possibili intese sia già scaduto

Da - http://www.unita.tv/focus/legge-elettorale-intesa-vicina-ma-i-bersaniani-insistono-sul-no-al-referendum/
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:59:31 pm »

Interviste
Federica Fantozzi   
@federicafan
· 6 dicembre 2016

Calise: “Renzi non è solo. 13 milioni di voti vi sembrano pochi?”
Referendum   
   

Il politologo: “Il premier non può fare miracoli, ma adesso intorno a lui si è coagulato un segmento forte di società”

Mauro Calise, politologo, insegna Scienze Politiche all’università Federico II di Napoli. Editorialista del Matti – no, è autore di saggi assai calati nella realtà come l’ultimo «La democrazia del leader» (Laterza 2016) o il precedente «Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader» (2013).

Professore, si aspettava il risultato del referendum?

«Ho l’abitudine di fidarmi più dei sondaggisti che del mio naso. E quindi: no, non me lo aspettavo. Non in questi termini. Le previsioni indicavano uno scarto inferiore. Il dato che ha cambiato le carte in tavola è stata l’affluenza che anziché fermarsi al 54% ha raggiunto proporzioni da elezioni politiche».

L’analisi più diffusa è che Renzi ha personalizzato la battaglia, trasformandola in una guerra civile e dunque perdendola. È davvero così oppure, dopo il mandato bis di Napolitano, era un sentiero obbligato?

«Renzi non aveva molte alternative, ma ha fatto quella scelta sulla base di un ragionamento strategico che alla fine non ha funzionato. Questo: in un sistema ormai tripolare, con tre partiti praticamente alla pari, ha cercato una forzatura bipolarizzante come prospettiva di lungo periodo».

Cioè, ha scommesso sull’Italicum?

«Il premier era convinto che l’ondata favorevole delle Europee non avrebbe retto. Del resto, lo si è visto: nonostante le conquiste, tutto ciò che ha fatto il governo, la sua popolarità stava scemando. E non per colpa del referendum ma perché sono tempi durissimi in Europa e nel mondo per chi governa. Soprattutto se è di sinistra: Clinton è stata spazzata via da Trump, Hollande nemmeno si ricandida, la Spd appare come comparsa nel governo di Angela Merkel, i socialisti spagnoli sono ridotti a ruota di scorta del governo conservatore».

Insomma, il premier aveva le sue ragioni per comportarsi come ha fatto?

«Renzi rappresentava e in prospettiva rappresenta ancora un’eccezione a quello che non è il declino ma il tracollo della sinistra. Con questo sfondo, ha cercato di massimizzare la sua posizione lungo due binari. Il primo: la legge elettorale, che spacca in due l’elettorato. Il secondo: le grandi riforme».

Due anni di lavoro spazzati via in una notte.

«Insomma. Marco Travaglio sostiene che si sia messo nella scia di Napolitano, Ezio Mauro si chiede chi glielo ha fatto fare… Io credo che lui si sia reso conto che in un contesto tripolare non sarebbe durato e abbia agito. Non è un ragazzotto sventato: è un politico con idee molto precise. Ha pensato che, senza questo risultato, non lo avrebbero battuto in campo aperto ma comunque rosolato a fuoco lento».

D’accordo, però alla fine ha perso. In che modo può rappresentare ancora una prospettiva per la sinistra?

«Oggi la sconfitta appare molto sonante, anche perché un po’ inattesa. Ma guardiamo i numeri: 13 milioni di voti. Due in più delle Europee. Più di Veltroni, che nel 2009 ne prese 12 milioni. Un bottino elettorale molto rispettabile perché costruito in campo aperto, non in un’occasione distratta. Numeri che eguagliano il Berlusconi dei tempi migliori e che il centrosinistra non si è sognato, tantomeno Bersani. Tutti voti intorno a Renzi e a una radicale proposta di rinnovamento del Paese».

Quindi, quella di Bersani era una non-vittoria e questa di Renzi è una non- sconfitta?

«È una sconfitta, ma va analizzata bene. Davvero Renzi è solo, non ha una classe dirigente intorno, non esiste renzismo nei corpi intermedi, associazioni, intellettuali, professori? La mia impressione è che proprio per la lunghezza e durezza dello scontro, adesso intorno a lui c’è una fetta rappresentativa della società. Se segmentiamo la piramide dei votanti e accettiamo l’assunto che il No sia andato forte nelle classi disagiate e nei ceti bassi, è probabile che intorno al Sì si sia raccolta u n’ossatura dirigenziale, organizzativa, propulsiva. Insomma, quella di Renzi non è più una leadership solitaria. Ha coinvolto segmenti attivi e influenti».

Perché, allora, ha perso?
«Perché era uno contro tutti. Aveva contro i partiti di opposizione e un pezzo del suo partito. Sono numeri da elezioni politiche. Chiedergli pure un miracolo in questa Europa forse è un po’ eccessivo. Se 13 milioni vi sembrano pochi…».

Sembra che il premier abbia la tentazione di lasciare anche la segreteria del Pd. Ipotesi che i suoi gli chiedono di accantonare. Lei gli consiglierebbe di prendersi un sabbatico dalla politica?
«No, nel modo più assoluto. Un passo indietro dal governo, invece, conviene a lui, all’esecutivo e al capo dello Stato».

In che senso conviene al governo?
«Non ci sarà lo stesso premier, ma nel prossimo esecutivo ci saranno molti elementi di continuità con l’attuale. È anche questione di rispetto della comunità internazionale. Renzi ha perso ma non è rimasto a mani vuote. Se ne va con un patrimonio di consenso negli elettori e nel Pd. Non vedo elementi che lo spingano a ritirarsi dalla politica. Mi auguro che non influiscano componenti caratteriali o psicologiche: sarebbe una vera delusione».

Si riparte dal congresso del Pd?
«Intanto, si riparte dal governo, che va fatto in tempi rapidi ed è la tappa più importante. Poi lasciamo decantare i numeri, guardiamoli con attenzione. Non si deve lasciare l’iniziativa a una coalizione eterogenea e antipolitica. Calma e gesso».

Da - http://www.unita.tv/interviste/calise-renzi-non-e-solo-13-milioni-di-voti-vi-sembrano-pochi/
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« Risposta #19 inserito:: Dicembre 24, 2016, 08:50:21 pm »

   
Interviste
Federica Fantozzi - @federicafan
· 22 dicembre 2016

Fassino: “Da Matteo un vero sforzo unitario. Ora riconnettere partito e società”

La carica innovatrice dell’azione di governo non sempre ha trovato il consenso sperato. Serve più dialogo, ma senza rallentare sulle riforme

Piero Fassino, le è piaciuto l’intervento di Matteo Renzi all’assemblea nazionale del Pd?
«Sì, direi che l’assemblea ha corrisposto alle aspettative della nostra gente, degli elettori e dell’opinione pubblica. Ho apprezzato il tono della relazione del segretario che ha tenuto insieme la rivendicazione giustamente orgogliosa dei suoi mille giorni di governo con una riflessione critica, netta e severa, sui limiti dell’azione di partito e governo che si sono riflessi nel voto referendario. Non ha nascosto la sconfitta e ha prospettato un “cambio di passo” nella vita del Pd e nel modo di costruire un rapporto con la società italiana per recuperare il consenso venuto meno».

La «fase zen» esisterà davvero o soltanto sui giornali?
«Un cambio di passo è necessario. È importante aver concentrato l’attenzione sui giovani e sul Mezzogiorno, sui tanti problemi che lo affliggono e che spiegano perché lì si è concentrato il No al referendum come manifestazione di un forte malessere sociale e politico. Più in generale, dobbiamo avere consapevolezza che il riformismo dall’alto rischia di non trovare consenso: bisogna riallacciare un rapporto di ascolto, interlocuzione e costruzione politica e programmatica con la società».

Cosa non ha funzionato?
«I mille giorni sono stati percorsi con slancio, a passo di corsa. Sono state messe in campo molte riforme: la scuola, il Jobs Act, le Unioni civili…».

Riforme che non puzzano, come ha sottolineato Renzi?
«Intanto riforme vere, sapendo che non esistono riforme perfette, e anche queste contengono limiti e contraddizioni. Ma hanno aperto un processo di modernizzazione che l’Italia aspettava da decenni. Penso alla legge sul Dopo Di Noi, di altissimo valore morale e sociale, come ai molti Patti sottoscritti con Regioni e grandi città per rilanciare gli investimenti pubblici».

Però?
«Questa forte carica innovatrice non sempre ha trovato il consenso sperato. Penso alla scuola, una buona riforma, che però ha creato disagio nel mondo degli insegnanti. La politica deve costruire i suoi contenuti insieme ai destinatari: cittadini, famiglie, imprese. Questa nuova fase non deve però rallentare la determinazione su innovazione e riforme, altrimenti sarebbe un passo indietro, bensì colmare la lacuna di un insufficiente rapporto tra riforme e Paese».

Alla fine Renzi si è dimesso da premier, ha rinunciato al congresso anticipato, non ha avviato rese dei conti. Perché la minoranza non ha votato la sua relazione?

«Renzi si è mosso esattamente come deve fare un leader, nel modo giusto. Orgoglioso delle sue scelte, determinato, ma senza chiudersi al confronto con chi la pensa diversamente e con tutte le anime che compongono il Pd. Il dovere di un segretario è aprirsi e riconoscere le differenze per fare sintesi. Le diversità sono ricchezza, non rischio. Domenica in Renzi ho visto uno spirito unitario chiaro e forte».

La minoranza, a quanto pare, non lo ha visto.
«Registro che intanto in assemblea non c’è stata contrapposizione. Non si è riprodotta la frattura della campagna referendaria. Gli interventi di Guglielmo Epifani e di altri esponenti della minoranza si sono collocati dentro la relazione del segretario e non fuori né contro. Questo è un primo passo positivo a cui spero ne seguano altri. Anche perché il nostro popolo chiede coesione e unità, a cui tutte le anime del partito hanno il dovere di corrispondere».

Insomma, bisogna guardare il bicchiere mezzo pieno?
«La credibilità di un partito dipende anche dalla sua coesione e solidarietà. Spero che l’assemblea sia l’avvio di un percorso di ricomposizione del modo di stare nel Pd attraverso regole condivise. Credo che nessuno voglia più vedere le contrapposizioni aspre conosciute in campagna elettorale e mi auguro che tutti davvero le considerino definitivamente archiviate».

L’altra gamba di questo percorso è rappresentata dal governo. Nasce in condizioni troppo avverse o può durare?
«Un governo è un governo, che è sempre nella pienezza dei poteri. Non esistono governi di serie A o B. Gentiloni ha davanti a sé sfide non riconducibili all’ordinaria amministrazione: Mps e la ricostruzione del sistema creditizio, la legge di Stabilità e il rilancio di investimenti e crescita, la ridefinizione delle politiche europee, l’immigrazione, la drammatica sfida del terrorismo. Sono sfide non minori di quelle del governo Renzi».

In questo quadro, l’orizzonte del voto in primavera è realistico? «È evidente che questa legislatura è nata, dopo l’appello di Napolitano, per fare le riforme. L’esito del referendum ci dice che si sono arenate e che questa finalità è venuta meno. Dunque è corretto restituire la parola ai cittadini. Ed è evidente che avere una legge elettorale adeguata è una urgente priorità a cui da subito deve dedicarsi il Parlamento».

Un accordo sul Mattarellum si troverà?
«Il Mattarellum è un sistema concepito in un contesto bipolare e non tripolare come adesso, quindi occorre renderlo “compatibile”. Ma averlo proposto è giusto e lancia un messaggio preciso: non rinunciare al duplice obiettivo di tenere insieme rappresentatività e governabilità. Non rassegniamoci fatalisticamente al ritorno al vecchio proporzionale puro ante ’94 che non darebbe stabilità agli esecutivi. Partendo dal Mattarellum si può trovare un’intesa sulle integrazioni necessarie senza perdere l’ispirazione maggioritaria originaria».

Ovviamente dipenderà dalla legge elettorale, ma sono ipotizzabili le primarie prima del voto?
«I meccanismi di selezione dei candidati dovranno essere coerenti con la legge elettorale che si adotterà. Di certo dovrà esserci il pieno coinvolgimento dei cittadini e la individuazione dei candidati non potrà avvenire sulla base di sole decisioni delle segreterie di partito».

Da - http://www.unita.tv/interviste/fassino-da-matteo-un-vero-sforzo-unitario-ora-riconnettere-partito-e-societa/
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 28, 2016, 11:35:58 pm »

Interviste

Federica Fantozzi - @federicafan
· 27 dicembre 2016

Scalfarotto: “Norme di civiltà, con il bicameralismo sono a rischio”

Il sottosegretario alle Riforme e poi allo Sviluppo Economico con il governo Renzi: “Io sono pessimista, si impantaneranno, sull’omofobia non ci sono i numeri”

Ivan Scalfarotto, ex manager oggi politico a tempo pieno, in prima linea per i diritti Lgbt, è stato sottosegretario alle Riforme con il governo Renzi e poi allo Sviluppo Economico.

Ius soli, tortura, processo penale, cognome materno, omofobia. Leggi importanti su cui questo spicchio di legislatura deve imporre uno sprint se non vuole che finiscano nel nulla…

«La cosa particolare di queste leggi è che nel sistema disegnato dalla riforma costituzionale sarebbero state sicuramente varate. Invece sono un’eredità del bicameralismo paritario che ci terremo. Sono leggi “scomode”, di visione, di modernizzazione vera del Paese. Incidono sulle interazioni sociali, sulla vita e quotidianità delle persone».

Ovvero sono leggi di civiltà.
«E serve una vera leadership per approvarle. Noi abbiamo sofferto nelle ultime legislature perché alla Camera si riusciva a trasformare le intenzioni in fatti concreti, mentre al Senato la maggioranza era molto più debole. Almeno dal governo Prodi del 2006 che era appeso a un solo voto. Così Palazzo Madama è diventato il luogo dei compromessi, il porto delle nebbie».

Il governo di Prodi ha rappresentato anche il primo tentativo serio per portare a casa una legge sulle unioni civili. Ci fu lo scontro tra il premier “cattolico adulto” e il cardinal Ruini. Si tentò con i Dico e i Pacs. Oggi le Unioni Civili sono legge. Un miracolo?

«Sì. Un’eccezione. Intanto, sono state approvate prima dal Senato. Una volta riuscito quell’obiettivo, alla Camera sono passate facilmente. Montecitorio fa grandi salti in avanti, purtroppo Palazzo Madama spesso non segue. E poi le Unioni Civili sono state approvate con la fiducia. Grazie alla caparbietà di Renzi, al grandissimo lavoro di Zanda e Cirinnà, e a condizioni politiche favorevoli. Un mix di circostanze che al momento non vedo replicabile».

Lei è pessimista sul cammino delle leggi ancora in cantiere?
«Sì, si impantaneranno tutte. Non ci sono i numeri. Nei due anni ai Rapporti con il Parlamento con il ministro Boschi ho imparato una grande lezione: non si possono fare le leggi se non ci sono i voti. Adesso ci sono i voti sull’omofobia? No».

La vittoria del Sì al referendum avrebbe cambiato le cose in maniera radicale?
«Certo, ecco perché ho sostenuto in modo appassionato il referendum. Finalmente avremmo avuto un sistema in cui queste leggi sarebbero diventate la normalità e non un braccio di ferro. In prima lettura, passò un emendamento alla legge Boschi che manteneva il bicameralismo paritario su famiglia e salute e noi ci opponemmo con forza».

Qual era la ratio?
«Era una proposta della Lega, a scrutinio segreto, che poi modificammo alla Camera. La ratio era che volevano rendere il Senato non Camera delle autonomie bensì di garanzia. Ma finora è stato piuttosto una ragnatela che ha bloccato moltissimi provvedimenti».

Neppure una delle leggi in fieri vedrà la luce?
«Forse la riforma della procedura penale ce la farà. Forse una legge passerà. Ma se si considerano il tempo a disposizione e gli assetti politici, credo che sarà molto difficile. Peccato. Per modernizzare l’Italia servirebbe davvero un procedimento legislativo più snello».

Secondo lei, la legislatura dovrebbe arrivare fino alla fine per varare queste leggi oppure le dà per perse comunque?
«Io sostengo che sia meglio votare il prima possibile, tanto queste leggi non si faranno comuque. Il referendum ci ha detto cosa non vogliono gli italiani, non cosa vogliono. A quale progetto politico vogliono affidarsi? La lettura prevalente è che abbiano bocciato il governo Renzi, io credo che questa lettura debba essere vagliata dal voto».

Anche lei crede che di riforme costituzionali non si riparlerà per decenni?
«Sì, oggi non sono proponibili. Eliminare il bicameralismo o il Cnel? Ma se gli italiani hanno detto che li vogliono».

Da - http://www.unita.tv/interviste/scalfarotto-norme-di-civilta-con-il-bicameralismo-sono-a-rischio/
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« Risposta #21 inserito:: Febbraio 04, 2017, 05:40:16 pm »

Interviste
Federica Fantozzi - @federicafan
 4 febbraio 2017

Recalcati: “Renzi resta il figlio giusto, osteggiato dai padri padroni”
“La scissione? Narcisismo di élite, minoranze che non vogliono tramontare”


Professor Massimo Recalcati, il Pd è passato dal trionfo alle Europee del 2014 all’addio di Renzi a Palazzo Chigi dopo la sconfitta referendaria di dicembre. Quanto c’è di politico e quanto di psicologico in questo comportamento?

«La sinistra ha più facilità alla lotta che al governo. È qualcosa che appartiene senza dubbio alla sua storia, al suo Dna, alla sua identità. La sinistra non viene al mondo per amministrare ciò che esiste ma per negarlo e progettare un volto nuovo del mondo. La critica minoritaria gli appartiene più dell’attitudine a gestire una vittoria. La critica ostinata caratterizza la pubertà e il velleitarismo adolescenziale. Nel porre al Pci il problema della responsabilità del governo, Berlinguer intendeva far fare alla sinistra italiana un passaggio evolutivo che era sinora mancato».

Gli eventi attuali significano che la sinistra non è mai cresciuta?
«È un tema che ritroviamo in Renzi: la critica ostinata che rigetta l’accordo e la mediazione è diventata una caricatura solo ideologica dell’inclinazione alla lotta. Anche Berlinguer, come ha mostrato in modo toccante Veltroni, si è incagliato sulle sabbie che separano il massimalismo dal riformismo. C’è qualcosa che viene avvertito come contro -natura nella sinistra al governo ».

Un esito ineluttabile?
«Il problema è come tenere insieme il sogno e la prova di realtà, la lotta e le responsabilità di governo. Renzi ha provato a non dissociare questi due elementi solo apparentemente contraddittori. In questo senso lo considero un passaggio essenziale nella storia della sinistra italiana».

In questa chiave, come legge le divisioni interne e le ultime minacce di scissione?
«Ho citato in un articolo recente le dimissioni di Enzo Bianchi dalla carica di Priore del Monastero di Bose. Nietzsche affermava che la saggezza più grande dell’uomo è quella di saper tramontare al momento giusto. È quello che ha fatto Bianchi: un passo indietro, lasciare che i figli assumano le loro responsabilità, sostenere chi viene dopo di noi con lealtà anche se una differenza profonda ci separa, abbandonare il proprio posto di guida per consentire l’ingresso di energie nuove. Le pare che stia accadendo questo?».

Renzi si è dimesso da palazzo Chigi. Cosa arriverà dopo, allora?
«Il dramma della politica italiana, non solo della sinistra, è il fallimento dell’eredità. Renzi ha provato a correggere questo sintomo consentendo a una nuova generazione di farsi avanti. I figli anziché ereditare il testimone dai padri sono osteggiati dai padri. Accade anche a destra con Berlusconi e Grillo. I figli non allineati coi loro padri-padroni vengono sistematicamente espulsi. Ogni scissione, quando sono in gioco diverse generazioni, viene al posto di un lutto mancato: si invoca lo spettro della scissione invece di saper tramontare».

Cosa è oggi la sinistra?
«Per me sinistra significa priorità della giustizia sociale, difesa del valore del lavoro, visione trasformatrice della realtà, concezione solidaristica della vita, capacità di cambiamento, apertura all’incontro, concezione non immobile dell’identità, capacità di contaminazione, curiosità, spirito critico, disponibilità a parlare la lingua dell’Altro, rinuncia a concezioni totalitaristiche della storia e della vita, difesa dei più deboli, rifiuto del mito del successo individuale».

Roba da far tremare le vene ai polsi. A quale destino va incontro?
«Il destino della sinistra consiste oggi nella difesa dell’Europa. Il che significa anche recupero della centralità del suo rapporto con i giovani per sottrarli all’ipnosi reazionaria e allo stordimento diffuso generato dal sistema dei consumi».

C’è spazio per un partito di sinistra fuori dal Pd?

«Ogni tentativo di creare una sinistra a sinistra del più grande partito di sinistra si è sempre rivelato un fallimento. Non solo nel senso del ridimensionamento elettorale, ma della litigiosità infinita dei fratelli che, dopo aver lasciato la casa del padre, restano senza radici, senza luogo, senza storia. Narcisismo insopportabile delle élite minoritarie. Riduzione della politica a testimonianza di una coerenza purista staccata dalla realtà. Bertinotti in nome di questa coerenza fece cadere il miglior governo del Dopoguerra».

A proposito, l’Ulivo oggi è una suggestione, una forma di auto-rassicurazione o una prospettiva?
«Tra la mediazione, l’integrazione e la scissione io scelgo sempre la mediazione e l’integrazione. L’Ulivo per me esiste già ed è il Pd».


Renzi ha sbagliato tutto o è diventato il capro espiatorio di un’Italia che non funziona da trent’anni?
«Renzi è stato un vento vitale in un campo di morti. Ha radunato speranze di cambiamento che hanno attraversato non solo il Pd ma l’intero Paese. È l’unico senso che ho attribuito alla fantomatica e stramba idea del Partito della Nazione che non è mai esistito. Ha messo in moto energie, progetti riformisti, ha ridato alla politica dignità senza lasciare il campo all’antipolitica di Grillo. È dovuto partire col piede sbagliato – la rottamazione – perché si è confrontato con un muro che non aveva intenzione di consentire il giusto avvicendamento generazionale. Ha commesso errori che gli sono costati cari».

Il più grave?
«Tra tutti la riforma della scuola. Era partito benissimo ridando centralità a una questione emarginata dai governi di destra. Poi ha fatto tutto troppo in fretta. Ma Renzi resta il vero nemico di tutte le forze conservatrici e populiste perché incarna autenticamente questa speranza».

Lei riesce a immaginarsi un nuovo Renzi diverso dal passato? Capace di unire e non di rottamare?
«L’ex premier resta la sola possibilità per arginare l’ondata reazionaria che attraversa il nostro tempo. Sono certo che abbia fatto tesoro delle sconfitte. Ascoltare di più senza perdere la sua forza. Recuperare il rapporto con i giovani. Continuare a testimoniare la necessità del rinnovamento dando più spazio alle radici. Liberarsi dall’abito dell’uomo di potere che media e avversari vogliono cucirgli addosso. La sua determinazione, il coraggio, il ritmo del suo passo lo rendono ancora ai miei occhi il figlio giusto. Deve però scegliere meglio chi ascoltare: la vera lealtà non esclude la critica».

Da - http://www.unita.tv/interviste/recalcati-renzi-resta-il-figlio-giusto-osteggiato-dai-padri-padroni/
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« Risposta #22 inserito:: Febbraio 11, 2017, 12:03:02 pm »

Interviste
Federica Fantozzi - @federicafan
· 10 febbraio 2017

Chiti: “Confronto sui temi e poi conta, se Renzi vince sarà leader di tutti”
Il senatore che ha promosso il documento dei 41 pro Gentiloni: «Non è tardi per evitare la scissione che sarebbe un fallimento generale»


Senatore Vannino Chiti, come nasce l’appello, firmato da 41 suoi colleghi, che chiede a Renzi di evitare la corsa al voto, sostenere Gentiloni fino al 2018 e fare il congresso?
«Con due obiettivi. Il primo è sostenere il governo che deve affrontare questioni urgenti come lavoro, sviluppo, Siria, scuola, banche, Europa. Già su immigrazione e scuola i cittadini avvertono che qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta. Del resto, ci sono appuntamenti importanti come l’anniversario dei Trattati a Roma, la presidenza del G7: vogliamo affrontarli con un esecutivo in carica o in campagna elettorale?».

E il secondo obiettivo?
«Un partito unito senza divisioni né lacerazioni. Bisogna rimetterlo in piedi dopo le sconfitte amministrative e referendaria. Si può fare».

Il secondo obiettivo è più ambizioso del primo.
«No. Nel nostro appello non abbiamo cercato un tot di nomi. Chi si è reso disponibile viene da aree politiche diverse che hanno votato in modo dissimile sulla riforma costituzionale. Io a favore, Tocci e Corsini contro. L’intento era mostrare che l’unità del partito è possibile».

Tra i firmatari mancano i renziani, che non è poco…
«Non è vero. Ci sono quelli che hanno votato per Renzi al congresso come Areadem e Giovani turchi. E quelli, come me, che l’hanno sostenuto con lealtà. Senza trappole».

Qual è il rischio peggiore per il Pd?
«Attenti a non far tramontare nei cittadini la voglia di riforme. Guai alla rassegnazione. Non adagiamoci in una legge elettorale che riconsegni l’Italia al proporzionale e alla Prima Repubblica».

È certo che il congresso sarà salvifico?
«Lo si può fare in due modi. Una convocazione immediata con scontro sulle persone che sposta solo in avanti la rottura. Io vorrei evitarlo, ma vedo che si risponde: volete il congresso? Eccovelo. Ma militanti ed elettori vogliono discutere di politica, fare analisi e valutazioni, prima di scegliere le persone».

È questo il congresso, inevitabilmente più lungo, che vorrebbe?
«Lo dico esplicitamente: Renzi resti segretario e promuova, nei prossimi mesi, un confronto sulle scelte del Pd e su eventuali modifiche allo statuto. Per esempio, se candidato premier e segretario devono coincidere?»

Secondo lei, non devono?
«A prescindere da cosa piaccia a me, bisogna capire se servono due momenti distinti. Attraverso un appuntamento coinvolgente. L’alternativa, Renzi che si dimette e si va subito alla conta, non mi convince».

Quindi, voto alla scadenza della legislatura?
«Io dico di sì. Congresso da giugno a ottobre. Altrimenti parte a marzo, ma come scontro sulle persone. E lo facciamo da troppi anni, ormai».

Non è tardi per evitare la scissione?
«No, ma bisogna che tutti lo vogliano».

Tutti chi?
«Maggioranza e minoranza. Di questi tempi non c’è da dividersi bensì da unirsi in una sinistra plurale. La scissione sarebbe un fallimento generale e porterebbe a una sconfitta disastrosa. Vedo passi avanti in senso positivo, ma bisogna confrontarsi su populismi, Brexit, Trump, economia. Io ne parlo solo alle presentazioni di libri e per commentare le encicliche del Papa…».

Se Renzi vi dà retta e poi vince il congresso, sarà accettato come leader o si ricomincerà da capo?
«Con questo percorso, chiunque vinca sarà accettato. Lui o un altro».

Legge elettorale. Con il premio alla coalizione, un minuto dopo salta il Pd?
«La mia prima ipotesi è il modello tedesco adattato all’Italia: 50% dei seggi con collegi uninominali, 50% con il proporzionale, sbarramento al 4-5% e collegi sub-regionali. I partiti si presentano come tali e nel caso si coalizzano dopo. Altrimenti l’ipotesi del tavolo Guerini-Cuperlo con ripartizione proporzionale e selezione dei candidati nei collegi e premio di governabilità limitato».

No alla linea Delrio-Franceschini?
«In questo secondo caso il premio di governabilità può andare alla lista o alla coalizione. Ma è piccolo. Ragioniamo però su un tema posto da D’Alema: le coalizioni a sinistra le vedo male mentre possono rimettere in gioco la destra. Aggiungo che si proponesse per il Senato l’Italicum modificato dalla Consulta, con metà dei capilista bloccati, io non lo voterei. Meglio usare i mesi che restano per una riforma utile: il Parlamento elegga il premier in seduta comune e si introduca la sfiducia costruttiva come in Germania e Spagna. Ne sarebbero rafforzati governo e Camere».

Da - http://www.unita.tv/interviste/chiti-confronto-sui-temi-e-poi-conta-se-renzi-vince-sara-leader-di-tutti/
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