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Autore Discussione: Vittorio EMILIANI.  (Letto 11129 volte)
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« inserito:: Ottobre 25, 2007, 10:42:43 pm »

Sulla pelle del cavallo

Vittorio Emiliani


La chiave di lettura di questo voto congiunto sulla Rai nella commissione parlamentare di Indirizzo e di Vigilanza (Indirizzo poco, Vigilanza molta) fra l’opposizione berlusconiana e alcuni esponenti della Rosa nel Pugno, dell’Italia dei Valori e dell’Udeur l’ha fornita subito il presidente della commissione stessa, Mario Landolfi di An: il voto di sfiducia su Claudio Petruccioli, presidente della Rai, «ha un significato politico assolutamente evidente: c’è una maggioranza che si è formata». Si è trattato quindi, col sostegno di Beltrandi (Rsp), Pedrini (Idv) e Satta (Udeur) di una prova locale - in un punto, però, particolarmente dolente e delicato - di sfiducia al governo in carica di cui i tre raggruppamenti fanno ancora a parte. Che poi al Senato, sia pure per un voto, la maggioranza invece “tenga” e che lì Rsp, Idv e Udeur siano allineati al centrosinistra è soltanto una conferma della schizofrenia che percorre alcuni gruppetti (i nanetti, come sarcasticamente li chiama, da tempo, il politologo Giovanni Sartori). Destinata però a sfarinare l’area di governo, conflitto dopo conflitto, duello dopo duello, sgambetto dopo sgambetto. L’on. Giuseppe Giulietti, che di Rai se ne intende, avverte giustamente un brutto clima: dai tempi della legge Mammì, osserva, il voto negativo sulla Rai prelude ad un voto negativo sul governo in carica.

Riflettiamo su di un punto focale: il voto di oggi non può avere alcun effetto pratico, sia perché gli esponenti di governo sono usciti al momento del voto facendo mancare il numero legale, sia perché la legge Gasparri, occupata a fare gli interessi del governo Berlusconi, si è dimenticata di affidare il potere di revoca del presidente, o del CdA, della Rai a qualsivoglia organismo, Vigilanza inclusa. La quale, quindi, non può sfiduciare nessuno con esiti concreti, effettuali. La legge precedente, la n. 206, affossata da Gasparri, affidava ai presidenti delle Camere il potere di nomina dei cinque consiglieri (presidente compreso) e alla maggioranza qualificata della Vigilanza quello di revoca. Il pasticciaccio gasparriano, invece, non lo prevede, non prevede niente di niente in proposito.

Nelle stesse ore in cui, a grande velocità, cioè in pochi minuti, l’on. Marco Beltrandi (radicale) per la Rosa nel Pugno presentava una mozione di sfiducia rivolta contro l’intero Consiglio della Rai e il forzista Lainati la riduceva alla sfiducia per il solo Claudio Petruccioli, il CdA della emittente radiotelevisiva di Stato era impegnato a discutere quel piano industriale strategico che la Vigilanza stessa aveva richiesto poco tempo fa e che esso ha poi approvato alla fine del pomeriggio. Perché sottolineo questa concomitanza? Perché da una parte ci sono partiti e partitini che, approfittando della più partitocratica delle leggi sulla Rai e sulle sue nomine di vertice, pretendono di decidere loro il destino di Viale Mazzini e dall’altra c’è una grande azienda che, nonostante questo (e altro), cerca di continuare a fare seriamente il proprio mestiere, cioè di essere ancora una grande azienda, o, quanto meno, una azienda “normale”. Un conflitto sempre più acuto che getta altri lacci e lacciuoli sulla Rai finendo per rallentarla e magari paralizzarla e che pertanto giova unicamente a Silvio Berlusconi. Come leader dell’opposizione e come imprenditore delle Tv, diretto concorrente dell’emittente pubblica.

Il ragionamento, fatto dietro le quinte dagli esponenti di questi gruppetti, dà per scontate nuove elezioni, la vittoria della CdL e quindi sostiene la necessità di fare in modo che Berlusconi, o chi per esso, da Palazzo Chigi, assegni, in base alla legge Gasparri, la futura presidenza Rai all’opposizione di centrosinistra, insieme alla minoranza dei consiglieri, ad una rete televisiva e via spartendo e lottizzando. Quindi, bisogna essere da subito coerenti e fare piazza pulita di questo Consiglio Rai. “Filosofia” che non oso nemmeno commentare.

Avrei capito se questi sagaci esponenti dei tre gruppi avessero sollecitato, doverosamente, i colleghi dell’Ulivo a tenere una linea di condotta più risoluta nella discussione al Senato sul progetto Gentiloni che, non a caso, è sommerso da quasi 2.000 emendamenti della sola Forza Italia, braccio diretto del Berlusconi duopolista. Oppure se avessero reclamato dai colleghi dell’Ulivo di occuparsi in senso positivo dell’azienda di Viale Mazzini, chiedendo, per esempio, lo stralcio della parte della legge Gentiloni riguardante la messa in sicurezza della Rai dai partiti attraverso lo strumento anglosassone di una Fondazione e quindi con nuovi criteri di nomina degli amministratori dell’azienda. Niente di tutto questo. A loro interessava soltanto di azzerare l’attuale CdA di viale Mazzini o, quanto meno, di esprimere un voto negativo sul suo presidente, ben sapendo che avrebbero potuto farlo unitamente ai parlamentari della CdL. L’Udeur poi, in particolare, per bocca proprio dell’on. Antonio Satta, vicesegretario vicario e membro della Vigilanza, aveva anticipato di essere pronta a sfiduciare la Rai se Michele Santoro avesse comunque dedicato altro spazio e tempo televisivo di «Annozero» alla vicenda Mastella-De Magistris. Un’altra allarmante intromissione, preventivamente censoria, nella programmazione radiotelevisiva di una azienda pagata per oltre la metà dai cittadini e non dai partiti.

In conclusione, è difficile immaginare una prova generale più palese di trabocchetto per il governo Prodi. Più palese e, diciamolo francamente, più desolante. Ma questa è la rappresentanza parlamentare frammentata e sminuzzata regalataci da anni di populismo, di potere di ricatto dei Nanetti esaltato dal Porcellum voluto dal centrodestra, di politichetta alla giornata. Senza alcun impianto o progetto di tipo generale, senza alcuna idea di cosa sia un servizio pubblico radiotelevisivo per milioni di utenti e di cittadini.

Pubblicato il: 25.10.07
Modificato il: 25.10.07 alle ore 8.55   
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 02, 2008, 09:02:28 am »

Faccia a faccia: indovina chi non li vuole?

Vittorio Emiliani


Da quando è tornata in Italia la democrazia, cioè dopo la seconda guerra mondiale, il contraddittorio è stato il sale di tante campagne elettorali, della politica in generale. Una volta si chiamava contraddittorio. Adesso si chiama - in forza della televisione - faccia a faccia. Nell’America che ci insegna cosa sono le primarie e come avviene la selezione della classe dirigente i faccia a faccia sono permanenti: fra Barack Obama e Hillary Clinton se ne fanno in continuazione, e senza che manchino colpi di scena (anche bassi da parte della signora) e sorprese. Da noi, no. Lo vieta, in vista delle elezioni, la legge sul par condicio.

Lo impone la (noiosissima) Commissione parlamentare di Vigilanza. Ora, la prima è stata una legge dell’emergenza. Era tale il dominio diretto e indiretto che Silvio Berlusconi aveva sui canali televisivi che parve giusto e utile dosare le presenze dei vari leader - di due soprattutto, quelli contrapposti - in Tv. In realtà poi Berlusconi ha fatto, più o meno, come gli pareva lo stesso, confidando che nel Paese del diritto c’è sempre un rovescio d’anticipo e chi s’è visto, s’è visto. Lui rovescia il banchetto televisivo e poi tocca agli altri raccogliere i cocci, se ci riescono. A cose fatte però.

Sono passati ben quattordici anni dalla sua famosa «discesa in campo» e la situazione del conflitto di interessi non è cambiata di un peluzzo. Il Cavaliere si è fatta una legge su misura che non ha inciso per nulla sul conflitto medesimo, grande come una montagna. Poi se n’è fatta un’altra per il sistema televisivo - la Gasparri - ed ha bellamente proseguito per la propria strada, camminando con gli scarponi sulle frequenze che invano «Europa 7» reclama da tanti anni e per le quali ha avuto ragione in Italia e in Europa. Vanamente per ora.

Allora, vale proprio la pena di spalmare una bella ingessatura sul dibattito pre-elettorale stabilendo che, non solo, o non tanto, tutti i candidati-leader (compreso il nipotino di Trotzki, chiamiamolo così, o il digiunante senatore Rossi di Bondeno) abbiano diritto di parola, il che è scontato, ma che i faccia a faccia più attesi, a cominciare da quello Berlusconi-Veltroni, fra gli esponenti più gettonabili, con più appeal e quindi pubblico e share, non possano e quindi non debbano avere luogo? O si fanno tutti contro tutti, o non si fanno per niente. Proibiti. Che enormità.

Ripeto: tutti i candidati-premier (tanti, grottescamente tanti in forza della «porcata» calderoliana) hanno diritto di antenna e quindi di presenza televisiva. Però vogliamo rompere questa ingessatura assurda, da sepolcri imbiancati, e consentire che i leaders di alcuni partiti come PdL e Pd, ma pure di raggruppamenti significativi quali la Sinistra Arcobaleno e il Centro di Casini-Pezzotta possano confrontarsi e magari scontrarsi (la democrazia è conflitto, contraddittorio, diversità, e non melassa consociativa) fra loro, faccia a faccia, senza mediazioni, con le regole che Paesi di più lunga e ininterrotta tradizione democratica del nostro ci insegnano?

Ci lamentiamo sempre del fatto che il divario fra Paese legale e Paese reale si è ampliato, che il popolo sovrano si disinteressa sempre più, che scetticismo e qualunquismo dominano al suo interno: vogliamo dunque dargli qualche spunto per interessarsi di più ai leaders, ai loro programmi, al modo di esporli e di motivarli, alle liste che stanno mettendo in piedi (più nuove, meno nuove, con più o meno donne, con più o meno giovani)? Oppure dobbiamo sorbirci decine di conferenze-stampa soporifere o di dibattiti di cartapesta, tutti uguali, fingendo di credere che chi conta per l’1 per cento dei voti, pesa quanto chi ne porta a casa più del 30-35 per cento? Io ho il più grande rispetto per le minoranze e quindi chiedo che abbiano lo spazio necessario. E però non si possono nemmeno chiudere gli occhi sulla realtà vera della politica e servire al pubblico televisivo - che cambierà rattamente canale senza neppure soffermarsi i 17 secondi sacramentali col telecomando brandito - questi piatti precotti e indigeribili.

Anche noi giornalisti diciamocela tutta. Se di recente si è diffuso un certo qual rimpianto per le Tribune Politiche d’antan, arbitrate da un pacato e ironico uomo del servizio pubblico come Jader Jacobelli, una ragione ci sarà. Probabilmente i Fanfani, i Nenni, gli Amendola, i La Malfa, i Malagodi, gli Almirante avevano più cose da dirci, più sostanziose e conflittuali, le riforme erano riforme, e incidevano, altroché se incidevano. Non erano le domande dei giornalisti (una soltanto all’inizio, quella di riserva arrivò anni dopo) ad alzare la qualità del dibattito televisivo. Erano i programmi in ballo, era la politica in sé a suscitare interesse, ad attrarre. Il Paese è cambiato, d’accordo. La politica appassiona di meno, d’accordo. C’è meno contrapposizione, e va bene. Ma i faccia a faccia fra i candidati-premier dei maggiori raggruppamenti (non sto dicendo dei due maggiori soltanto) possono rianimare la discussione, far capire qualcosa a giovani e giovanissimi lasciati spesso senza memoria. O no?

Inoltre la maxi-ingessatura, da sepolcro imbiancato, voluta dalla Vigilanza, favorisce palesemente Silvio Berlusconi. Il quale non ha mai amato confrontarsi col suo competitore di centrosinistra quando lui partiva, come ora parte, da posizioni di vantaggio. Probabilmente, da uomo consumato di televisione e, concediamoglielo, di sport, egli sa di non essere al meglio della forma. A noi, sarà per i capelli trapiantati e tinti, un giorno scuri e l’altro rossicci, sarà per l’eccesso di fard, sarà per gli anni che passano, più crudelmente per chi non si rassegna, sembra decisamente invecchiato, meno scattante, meno fulmineo nella battuta, o battutaccia, demagogica. E poi in queste elezioni ha scelto, almeno sin qui, una linea generale che non è, come le altre volte, di attacco, anzi di aggressione dell’avversario «comunista» e pertanto, nell’eventuale faccia a faccia, finirebbe per avere, in un dialogo meno concitato, carte meno valide, meno efficaci. Quindi, potendo disporre delle «sue» televisioni (e non alludo soltanto a quelle targate Mediaset), potendo far «sparare» il problema-sicurezza a tutte l’ore col sangue che inonda il video di ogni famiglia, finisce per giocare in casa se gli evitano il confronto diretto con Walter Veltroni. Il quale è uomo di comunicazione e di televisione ormai molto sperimentato, capace di argomentare, motivare, contrattaccare, stando sulle cose, sui problemi, capace di piacere al pubblico più giovane, come non avveniva da tempo ad un leader proveniente da sinistra. Insomma, non levateci i faccia a faccia importanti, quelli che possono interessare e appassionare. Oppure organizziamone nei teatri e facciamoli riprendere da tv satellitari planetarie, magari da Al Jazeera, facciamoli ritrasmettere su internet. Manca poco meno di un mese e mezzo al voto. Si può fare. Nei sepolcri imbiancati ficchiamoci la vecchia politica e la vecchia tv. La democrazia sta fuori, da sempre.

Pubblicato il: 01.03.08
Modificato il: 01.03.08 alle ore 14.23   
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 22, 2008, 11:20:46 pm »

Parchi e Musei, un Affare Privato

Vittorio Emiliani


Per il ministro Prestigiacomo, visto che, dopo i colpi di mannaia di Tremonti, non ci sono più fondi per l´ambiente, è utile dare in gestione i nostri 23 Parchi Nazionali (e magari pure quelli regionali) ad agenzie private per tirare su un po´ di soldi. Per il ministro Bondi, visto che, passata la sega elettrica di Tremonti, non ci sono fondi per la cultura e per l´arte, è utile allargare l´area di intervento delle società private per i servizi aggiuntivi nei maggiori Musei, in modo da incassare un po´ di soldi. Privatizzate, dunque, e siate felici.

L'onorevole Prestigiacomo lo dice col sorriso della signora borghese che non sa quel che si dice. L'onorevole Bondi lo dice un po' piangendo e un po' no perché risparmiare bisogna, l'ha detto il Capo. Comunque sia, si tratti di insipienza, di sottocultura o di dilettantismo, il risultato è lo stesso: il nostro patrimonio storico-artistico-naturalistico-paesaggistico è affidato a queste mani e a queste menti, dietro le quali grandeggia ("Mamma mia!", titolò "L'Economist") Berlusconi, Silvio/Nerone affiancato da Tremonti e da Brunetta. Con Matteoli al Cemento&Asfalto. Nella giornata di oggi, 22 luglio, nei nostri musei, nei siti archeologici, nelle antiche biblioteche, custodi e tecnici si asterranno parzialmente dal lavoro premurandosi però di distribuire, "contro i nuovi barbari", volantini di protesta (della Uil e, separatamente, grave errore, di Cgil e Cisl) in cui si spiega ai visitatori italiani e stranieri - circa 36.000 milioni - che quello potrebbe essere il loro ultimo ingresso nei magnifici luoghi della nostra storia: se al Ministero per i Beni e le Attività Culturali verranno inferti, da qui al 2011, tagli di finanziamenti per 1,2 miliardi di euro, il personale delle Soprintendenze, dal più alto in grado all'ultimo entrato, riceverà lo stipendio (modesto) ma non avrà risorse per fare in pratica alcunché. E poiché il nostro turismo è mosso, per buona parte, dalle città d'arte, con musei e siti archeologici chiusi o semichiusi, coi restauri bloccati, con l'attività di tutela sospesa, coi vandali non più sorvegliati, con gli abusivi che la fanno franca assieme ai "tombaroli", quella fonte di reddito nazionale verrà presto impoverita e disseccata. Complimenti: ci volevano genii assoluti come Berlusconi, Tremonti & C. per portare al suicidio finale il Belpaese. Analogo discorso si può fare per i Parchi di ogni ordine e ampiezza: sono costati decenni di lotte, coprono ormai il 10 per cento di un Paese altamente dissestato e inquinato e costituiscono un'altra molla essenziale dello stesso turismo di massa, il solo Parco Nazionale d'Abruzzo viene visitato da oltre 2 milioni di persone l'anno. Un movimento anni fa impensabile che ha concorso a consolidare una vera e diffusa "economia dei parchi", fatta di agricoltura e zootecnia compatibili, di prodotti tipici del bosco e sottobosco, di marchi di qualità. Frutto di una azione di tutela pluriennale, tenace, rigorosa, contro abusi di ogni genere, come e più di quella che ha riguardato i nostri centri storici largamente salvati. Ma che richiede investimenti pubblici, personale qualificato, tecnici preparati, mezzi nuovi.

Qual è la logica del duo Prestigiacomo&Bondi, ispirati, devotamente, dall'esempio del Capo? I beni culturali e ambientali non sono un patrimonio permanente, fondante dell'Italia (articolo 9 della Costituzione), non sono valori primari "in sé e per sé", ma sono, quelli che lo sono, macchine per fare soldi. E gli altri? Semplicemente non sono, e dunque vadano in rovina. Punto e basta. I parchi, per lor signori, non formano una parte strategica dei paesaggi italiani, non rappresentano i luoghi nei quali ricostituire una natura che disboscamenti secolari hanno distrutto o rattrappito, nei quali conservare e tornare ad arricchire la biodiversità della flora e della fauna per decenni dissipata, nei quali i cittadini possono incontrare e ritrovare la Natura, ossigenando il corpo e la mente. Per il ministro Prestigiacomo sono, evidentemente, simili ai parchi-diventimenti, nei quali far pagare un biglietto, lasciar costruire di nuovo case e ville, reintrodurre la caccia, dai quali insomma spremere soldi attraverso la logica privatistica, aziendale (par di vedere il Cavaliere, sullo sfondo, che sorride beato), del profitto.

Analogamente i luoghi dell'arte, i musei, le aree e i monumenti archeologici, i castelli, magari le chiese, le abbazie, i palazzi civici ed ecclesiastici: mettiamoli a reddito, facciamoci dei begli incassi. Macché ingressi gratuiti o ridotti per scolaresche, studenti e studiosi, macché didattica museale per abituare i più piccoli a capire quadri e sculture, macché mostre ispirate a criteri scientifici, macché valori della cultura del contesto e loro trasmissione ai nostri figli e nipoti. E per i centri storici? Basta con le ubbie della conservazione, delle ZTL, largo ai commercianti, agli esercenti, alle pizze-a-taglio, ai pub, ai protagonisti del Divertimentificio notturno, ai Suv parcheggiati ovunque. A Roma il sindaco Alemanno ha già aperto questa strada e vedrete che, se la protesta dei cittadini (e degli intellettuali) non salirà chiara e forte, andranno avanti. A tutto Suv.

Pubblicato il: 22.07.08
Modificato il: 22.07.08 alle ore 13.07   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 07, 2008, 11:08:37 pm »

Se la cultura diventa inutile

Vittorio Emiliani


Arte e Cultura, cronache di una disfatta totale: l’Italia precipita ancor più lontano dagli altri Paesi avanzati dove quelle due voci sono considerate un investimento sociale, e non un costo (da tagliare). La scure «rivoluzionaria» - ieri l’hanno detto in coppia Gianni Letta e Giulio Tremonti - calata sulla spesa pubblica si è infatti abbattuta più pesantemente del temuto anche sul ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Al “MiBac” sono stati tolti - secondo le cifre fornite dalla Uil Beni Culturali - 355, 369 e 552 milioni di euro rispettivamente nel 2009, 2010 e 2011. Il totale sottratto sale così, nel triennio, a un miliardo 276 milioni. Un terzo delle cifre tagliate è stato amputato alla voce Tutela e valorizzazione: nel prossimo triennio il MiBAC e le sue Soprintendenze si limiteranno a pagare gli stipendi e poco più, secondo la logica dell’ente inutile “perfetto” che si mangia in costo del personale tutto ciò che incassa e/o riceve. Saranno quindi possibili chiusure o drastiche riduzioni di orario in musei e aree archeologiche e pertanto la stessa voce “turismo culturale” ne sarà colpita al cuore, con minor capacità di attrazione dell’Italia, minori entrate dirette e soprattutto minor indotto turistico-culturale. Un bel contributo alla rianimazione della nostra indebolita economia. Non basta: i tagli hanno spazzato via i 45 milioni preventivati in tre annualità dal ministro Rutelli per l’abbattimento di altri “ecomostri”, ma se uno spulcia i singoli capitoli, vede, per esempio, che viene ridotta pure la spesa ordinaria destinata al comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio: ladri e rapinatori dell’arte e dell’archeologia - tombaroli in testa - facciano dunque festa. Questo ministero viveva già al limite: i tagli, tutt’altro che lievi, decisi dal Berlusconi IV lo mettono su una strada. O lo conducono alla chiusura. Cosa potranno fare le Soprintendenze che già nel recente passato verso metà anno non avevano più fondi per i telefoni, per i francobolli, per pagare le imprese di pulizia (bagni dei musei inclusi)? Quali missioni sul posto potranno organizzare quelle Soprintendenze ai Beni architettonici nelle quali ogni tecnico si ritrova alle prese con un migliaio di pratiche delicate all’anno? Le amputazioni vanno a minare l’attuazione stessa del Codice per il paesaggio, reso ben più stringente e severo, dalla gestione Rutelli-Settis, ragion per cui il saccheggio del nostro paesaggio riprenderà con grande vigore. La scure (“rivoluzionaria”, beninteso) di questo governo, che considera la cultura un optional e che ha affidato la custodia dei Beni culturali ad un personaggio come Sandro Bondi, senza alcun peso specifico (infatti le sue deboli proteste hanno contato meno di zero), si abbatte su settori già più che “francescani”, come gli archivi e le biblioteche, l’Istituto centrale per il catalogo, la Scuola Archeologica Italiana di Atene che partirà, nel triennio prossimo, con 157.000 euro in meno di finanziamento statale e arriverà con 307.000, in meno naturalmente. Poi ci sono le somme e i contributi previsti per una miriade di associazioni, istituzioni e fondazioni che, con qualche eccezione, certo, rappresentano il sistema capillare della ricerca culturale, la storia stessa del nostro Paese: le antiche Accademie locali, le Deputazioni di storia patria (già vedo Bossi sorridere contento), le Fondazioni politiche (Sturzo, Turati, Nenni, Gramsci, ecc.) e quelle musicali, ecc. Anche in questo caso, spesso, verrà meno l’ossigeno. Tanto più che enti locali e Regioni, anch'esse mutilate, non potranno subentrare in nulla. Ma passiamo al tanto discusso e però fondamentale Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus). Il taglio per le Fondazioni lirico-sinfoniche parte dai 51,7 milioni dell’anno prossimo e arriva, in progressione, agli oltre 101 del 2011. Il fondo per le attività musicali perde inizialmente 15,2 milioni e arriva a 29,8 milioni, mentre l’altro per le attività teatrali di prosa da va da 17,7 a ben 34,6 milioni. Ma ci saranno riduzioni di contributi anche per la già deperente danza classica. Tornando agli ex Enti lirici e sinfonici, è vero che devono essere riformati nel senso di una maggiore snellezza gestionale e di minori bardature burocratiche. Vi sono Enti infatti che registrano incidenze assurde del personale sui costi totali: l’Opera di Roma col record del 70,9 per cento, seguita dal Massimo di Palermo col 67,3 e dal Carlo Felice di Genova col 66,7, fino a scendere all’incidenza minima (encomiabile) del Regio di Torino: 42,3 per cento. Ma non sarà il drastico e per niente finalizzato taglio delle risorse a curare le situazioni più malate. Così si ammazzano il melodramma, la musica, il balletto, punto e basta. O si mettono le Fondazioni musicali di fronte ad un bivio: ridurre le produzioni ed abbassarne il livello (sovente già scaduto), oppure portare il prezzo dei biglietti a quote inarrivabili dai più, a cominciare da giovani e giovanissimi. Significa inoltre sterilizzare la spesa per la didattica artistica e musicale, negando, per decenni, al Paese di uscire dal gorgo di ignoranza e di maleducazione nel quale è precipitato rispetto all’Europa, ex Paese dell’Arte, della Musica e del Bel Canto. Il Consiglio Superiore dei Beni culturali, all’unanimità, aveva espresso, il 16 scorso, la più viva preoccupazione per una «temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico» invitando a «considerare la spesa per la cultura nel suo pieno valore economico per l’impatto generale che essa ha sul sistema economico e sociale del Paese, dall’industria del turismo al cosiddetto Made in Italy, all’immagine complessiva della Nazione». Tremonti ha accelerato la macellazione della cultura. Parole al vento, dunque. Come le patetiche proteste del ministro Bondi. Il quale (al pari della collega dell’Ambiente, Prestigiacomo, per i Parchi Nazionali) ha già una sua idea: assumere, magari a New York, un super-direttore dei musei statali con più “polpa” e affidarne la gestione a società private. Il trionfo del privato sul pubblico. La fine della cultura come valore fondamentale per tutti. Specie per chi ha minor reddito e minori chances di partenza. Un futuro radioso.

Pubblicato il: 07.08.08
Modificato il: 07.08.08 alle ore 8.22   
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« Ultima modifica: Agosto 21, 2008, 06:35:16 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 21, 2008, 06:35:44 pm »

Il suolo della Patria


Vittorio Emiliani


In un lunghissimo intervento su queste colonne Franco Bassanini, più volte ministro nei governi di centrosinistra, ha invitato quanti hanno a cuore le sorti del Paese a non tirarsi indietro, ma a dare un contributo bipartisan - come lui sta dando in Francia nella commissione Attali creata da Sarkozy - alle riforme. Sempre che ve ne siano le condizioni, naturalmente. Per quanto riguarda la commissione voluta a Roma dal sindaco di destra Gianni Alemanno e presieduta da Giuliano Amato si fanno già nomi di persone alle quali è stato offerto di essere pensosi dei destini della patria comune. Stando al "Corriere della Sera" di ieri, si va dall'economista Innocenzo Cipolletta allo scrittore dei "lucchetti dell'amore" Federico Moccia, dai registi Gabriele Cuccino e Franco Zeffirelli a Pier Luigi Celli ex direttore generale della Rai, ora alla Luiss, e ad altri ancora (per ora non si hanno notizie di candidate al femminile).

Il selezionatore è il presidente dell'Eurispes, Gian Mario Fara il quale - secondo il giornale - terrà gran conto dei suggerimenti dello stesso Amato. Vedremo come evolverà la singolare vicenda che, al momento, sembra soprattutto coprire il vuoto pneumatico dei programmi di un centrodestra arrivato in Campidoglio senza una strategia politico-amministrativa minimamente adeguata. Uno degli assessori di punta, Fabrizio Ghera (ai Lavori pubblici e, nientemeno, alle Periferie) è noto per non aver mai aperto bocca, da oppositore, nell'Aula Giulio Cesare. Il suo primo discorso è atteso come un evento epocale.

In questi stessi giorni il ministro e leader leghista Umberto Bossi si è accorto che il governo nel quale autorevolmente siede aveva abolito l'Ici e quindi tolto ai Comuni una entrata che possedeva una sua sostanza "federale". Poi ha detto (questa è una regola berlusconiana assoluta) di essere stato frainteso e che il collega Calderoli sta lavorando ad una unificazione delle tasse sulla casa in modo da sostituire il gettito perduto del'Ici. In realtà Calderoli sta utilizzando una proposta venuta dall'Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci), presieduta da Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, con la quale ragionevolmente si chiedeva, e si chiede, che venga scorporata e assegnata ai Comuni - quale imposta sostitutiva dell'Ici - la quota di Irpef che riguarda la parte immobiliare e che, secondo il "Sole 24 Ore" frutterebbe circa 4 miliardi di euro l'anno. Questo per dare all'Anci quello che è dell'Anci, visto che il Pd sembra come assente nella comunicazione "positiva".

Per turare le falle di bilancio aperte dai sempre minori trasferimenti statali i Comuni hanno però utilizzato a tutto spiano in questi ultimi sette anni, a partire dal 2001, un altro acceleratore oltre all'Ici: quello degli oneri di urbanizzazione pagati dai costruttori di nuove case, capannoni, ville, lottizzazioni, ecc.. Attenzione però : la legge n. 10, firmata dal ministro socialdemocratico Piero Bucalossi (ahi, quanto rimpianto) nel 1977, prescriveva che quegli introiti andassero a far parte di un conto corrente vincolato presso le Tesorerie dei Comuni e che potessero essere destinati unicamente "alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (cioè luce, gas, fognature, verde pubblico, e poi asili, scuole di vari ordine, cc. n.d.r.), al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché alla acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali". Legge saggia e illuminata.

Malauguratamente, nel 2001 - secondo la ricostruzione di alcuni esperti (come Sergio Brenna e Lodo Mereghetti) riportata nel meritorio sito di Edoardo Salzano eddyburg.it -l'allora ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini "omise" di riportare nel Testo Unico sull'edilizia n. 380 quell'articolo 12 della legge Bucalossi e divenne dunque possibile per i Comuni destinare a spesa corrente (e non più soltanto a spesa di investimento) gli introiti degli oneri di urbanizzazione. Quando le Tesorerie comunali posero il quesito, nel 2004, al berlusconiano ministro Tremonti, questi fu ben lieto di rispondere, novello La Palisse, che se una norma non è più citata, evidentemente non vige più. E quindi nelle varie leggi finanziarie si diede ai Comuni libertà di spingere sul pedale dell'edilizia comunque e dovunque - lo si vede a occhio nudo girando l'Italia - pur di tirar su quegli euro che da Roma non arrivavano più e rabberciare così i bilanci. Di più: nelle regioni come la bella Toscana dove la Regione ha sub-delegato i Comuni a tutelare il paesaggio, gli Enti locali si trovarono in una mano l'acceleratore del cemento & asfalto e nell'altra la difesa del paesaggio scegliendo molto spesso (come non capirli?) la prima soluzione. Mi dicono tuttavia che i primi segni di preoccupazione e di resipiscenza stanno affiorando, che in un recente convegno tenuto a Longiano (Forlì-Cesena) da"Italia Nostra" regionale alcuni sindaci abbiano espresso serio allarme per il dilagare del cemento speculativo, mentre mancano alloggi economici. Ma siamo ai primi segnali.

L'ultimo governo Prodi - come ho potuto liberamente scrivere su questo giornale alcuni mesi fa - ha proseguito sulla strada sbagliata inaugurata dal governo Amato (se non sbaglio) nel 2001 prorogando anzi fino al 2010 quella "norma bestiale", come l'hanno definita Bressa, Mereghetti e Salzano, la quale concorre poderosamente a massacrare il Belpaese. Norma che va benissimo a Silvio Berlusconi, nato immobiliarista e teorico della filosofia "ciascuno è padrone a casa sua" che ha sfasciato l'idea stessa di interesse generale o collettivo (orrore) in nome dei mille e mille interessi privati e di clan.

Questo mi è tornato in mente pensando ai destini della Patria e vedendo poche sere fa su TV5Europe il servizio sul referendum proposto dai Verdi della Suisse Romande i quali proponevano una moratoria delle costruzioni essendoci troppo consumo di suolo agricolo o comunque libero. Problema assai più drammatico in Italia. Che è però anche il solo Paese - a differenza di Gran Bretagna o Germania, per esempio - dove non esiste alcuna legge in proposito e dove nemmeno se ne osa discutere, essendo troppo pensosi degli interessi privati e/o corporativi e assai poco di quelli pubblici. Per la commissione Amato attendiamo altri nomi e altre "disponibilità" di massima. Ricordate cosa disse il sempre acuminato Rino Formica a proposito dell'Assemblea Nazionale del Psi voluta da Bettino Craxi a Verona?

Pubblicato il: 21.08.08
Modificato il: 21.08.08 alle ore 9.07   
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 07, 2008, 10:40:07 am »

Rai, il passo giusto

Vittorio Emiliani


Questo di Walter Veltroni sulla Rai e sulle Asl è un passo avanti importante: esso può avviare, se raccolto e sviluppato anche da altre forze, una effettiva, incisiva separazione dalla politica, dai partiti della gestione di aziende che si vogliono pubbliche per filosofia e funzione. La decisione di non nominare più nel Consiglio di amministrazione della radiotelevisione di Stato "parlamentari o ex parlamentari", ma di designare "solo persone che vengono dalla società civile organizzata", aprirebbe una fase nuova.

Se diventasse una proposta condivisa da una vasta maggioranza, aprirebbe una fase completamente nuova nella vita delle imprese pubbliche tagliando un pesante e sempre più imbarazzante cordone ombelicale con le segreterie dei partiti. L'ultimo Consiglio di amministrazione della Rai - quello che tuttora siede in viale Mazzini - è stato, grazie alla disastrosa legge Gasparri, il più lottizzato e il più targato: direttori di giornali di partito, responsabili politici dell'informazione, responsabili della commissione di vigilanza e così via. Con risultati francamente modesti sul piano aziendale e con situazioni di stallo frequenti, assai dannose per una impresa che, per pubblica che sia, deve anzitutto essere impresa: programmare, pianificare, creare, formare, investire per competere, ecc.

La lezione, in negativo, è servita. Anche quando si nominò l'attuale CdA col metodo regressivo della legge Gasparri (tagliata su misura, per altri versi, sugli interessi di Mediaset) venne avanzata l'idea, se non proprio la proposta, di nominare per le forze di centrosinistra (dalle quali forzatamente, per legge, quella nomina passava) soltanto dei tecnici Rai, magari di lungo corso, dei "saggi" i quali avessero dato prova di capacità manageriale e di spirito aziendale (una volta esisteva, eccome, "l'orgoglio Rai"). Purtroppo non venne raccolta.

È importante che il segretario del PD avanzi ora questa sua idea per la Rai e pure per le Asl (non poco inquinate da nomine che nulla hanno a che vedere con conoscenza e professionalità), rompendo un antico schema che vuole promosse a posti di comando nel settore pubblico persone provenienti dalla politica, le quali hanno come primo requisito quello della "fedeltà" partitica. Questo di Veltroni è un passo avanti anche rispetto alla proposta originaria dei Ds la quale prevedeva sì la formazione, sul modello anglosassone o scandinavo, di una Fondazione che fosse proprietaria di tutte le azioni Rai; essa però sarebbe stata governata da elementi scelti - ecco il punto negativo - dalla commissione di vigilanza, cioè dai partiti. Andava bene, anzi benissimo, la Fondazione tipo BBC, ma bisognava scegliere in tutt'altro modo il Board of Governors incaricato di vegliare sul pluralismo effettivo della emittente pubblica. Ora Veltroni individua un primo criterio di fondo: mai più parlamentari in carica o parlamentari appena usciti dal ruolo, ma esponenti della società civile organizzata. E poteri più ampi ad un amministratore delegato (come propose un anno fa). Personalmente, per una esperienza non breve in Rai, credo che un CdA ristretto, nominato con criteri tecnico-professionali e culturali, possa essere d'aiuto a questo direttore generale "potenziato". In passato la Francia che - prima degli ultimi interventi di Sarkozy - aveva un invidiabile sistema di garanzia del pluralismo radiotelevisivo, in quell'ambito riuniva nella stessa persona (nominata però da tre poteri, i presidenti della Camera alta e di quella bassa nonché il presidente della Repubblica) le funzioni di presidente e di direttore generale di Télévision de France.

Insomma, oltre la breccia aperta da Veltroni nel muro di gomma di una Rai più che mai partitizzata dalla pessima legge Gasparri, si può davvero costruire un nuovo, più efficiente e ben più democratico modello di impresa di servizio pubblico. Se Silvio Berlusconi fosse un autentico uomo di governo, raccoglierebbe subito questa palla e la rilancerebbe. Dubito molto che lo faccia. Ma è importante, prima di tutto, che su questa idea lavori il PD e con esso l'Italia dei Valori, la stessa Udc e quella sinistra "radicale" che non ha rappresentanza parlamentare ma non manca di voce nel Paese.

Pubblicato il: 06.09.08
Modificato il: 06.09.08 alle ore 14.28   
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« Ultima modifica: Settembre 09, 2008, 05:48:11 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 09, 2008, 05:48:53 pm »

I fatti (assoluti) del fascismo

Vittorio Emiliani


Il fascismo “male assoluto”, come ha affermato Gianfranco Fini, o male relativo, come ha sostenuto pochi giorni fa il suo confusionario allievo Gianni Alemanno sindaco di Roma? Andiamo a vedere allora i principali guasti prodotti dal fascismo, in dati e cifre.

La soppressione dei diritti e delle libertà

Parte da lontano, con le sopraffazioni delle squadracce fasciste che seminano morte e terrore, con la “notte di fuoco” di Firenze, con la colonna Brandimarte a Torino, col rogo delle grandi cooperative ravennate preludio alla Marcia su Roma. Decine e decine di morti, centinaia di feriti, devastazione di Camere del lavoro e di partiti. Mussolini sa scegliere chi colpire: un parroco, don Giovanni Minzoni, ad Argenta, ucciso a bastonate nel 1923; il socialista Giacomo Matteotti, il più tenace e popolare fra i leaders parlamentari, rapito ed ucciso nel giugno 1924; il liberale Giovanni Amendola, ex ministro, selvaggiamente picchiato a Montecatini, morto nel 1926, come Piero Gobetti, il più giovane e originale fra gli oppositori, che si spegne a Parigi dopo violentissime percosse; il giovane dirigente comunista Gastone Sozzi, torturato e “suicidato” nel carcere di Perugia nel 1928; il liberalsocialista Carlo Rosselli, promotore della partecipazione alla guerra di Spagna («Oggi in Spagna, domani in Italia»), assassinato in Francia assieme al fratello Nello nel 1937; Antonio Gramsci duramente condannato e fatto marcire in carcere fino alla morte, in clinica, nel 1937.

Con le leggi speciali del 1926 vengono dichiarati decaduti i deputati dell’opposizione, abolita la libertà di stampa (il sindacato giornalisti, che resiste, è sciolto d’autorità), soppressi i giornali di opposizione, sciolti i partiti, istituito il Tribunale Speciale e il confino di polizia, ripristinata la pena di morte.

Elezioni abolite

Mussolini va al potere, complice il re, col colpo di Stato della marcia su Roma dell’ottobre ‘22 (l’anno prima ha raccolto pochi voti). Poi si taglia su misura una legge elettorale maggioritaria. Con la quale si vota nel 1924, una parvenza di democrazia. Matteotti, che denuncia, durissimo, alla Camera violenze, intimidazioni e brogli, viene eliminato poche settimane dopo. Si tengono due grotteschi plebisciti sul regime, nel 1929 e nel 1934. Votare “no” su di una scheda trasparente vuol dire venire bastonato fuori dal seggio. Nel 1929 sono 135.773 a votare così. Poi vale soltanto la tessera del Partito Nazionale Fascista senza la quale non si può lavorare, negli uffici pubblici, nella scuola, ma un po’ dovunque. Viene imposto ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime: in dodici non giurano, altri hanno già perso o perderanno la cattedra per antifascismo (Salvemini, Lionello Venturi, Borgese), altri ancora si mascherano per cospirare.

Tribunale Speciale

Istituito il 5 novembre 1926, durerà fino al 25 luglio 1943. I processati sono migliaia, i condannati circa 4.600 (dei quali 697 minorenni) per oltre 28.000 anni di carcere irrogati complessivamente. In maggioranza si tratta di operai e artigiani, per lo più comunisti. Giovani, sui trent’anni in media. Il trentenne Umberto Terracini, condannato nel 1926, trascorrerà ininterrottamente in galera e al confino circa 17 anni, venendo liberato dopo la caduta di Mussolini nel ‘43. È ebreo e due volte espulso dal Pci per antistalinismo. Giancarlo Pajetta viene processato e duramente condannato a 17 anni appena. Trentuno le esecuzioni capitali. Altre centinaia di antifascisti devono espatriare clandestinamente. Uno dei più importanti fra gli esuli, Filippo Turati, viene fatto fuggire da Sandro Pertini, poi carcerato a lungo, e da altri (l’auto è guidata dall’industriale ebreo Adriano Olivetti).

La politica economica

Vengono soppresse anche le libertà sindacali e vietati gli scioperi. Per tutto il ventennio la compressione dei salari è costante. L’indice delle retribuzioni pari a 127 nel 1921, prima dell’avvento di Mussolini, tocca un minimo storico nel 1926 con 111,6. Per tornare al livello del 1921 bisognerà aspettare il 1949. Il fascismo non applica la nominatività ai titoli azionari, abolisce subito la commissione per i sovraprofitti di guerra, l’imposta di successione e quella sui capitali di banche e industrie, sblocca i fitti, ecc. I salvataggi industriali saranno pagati dalla collettività. Lo Stato corporativo rimane sulla carta.

Leggi razziali

Nel 1938 agli italiani di “razza ebrea” sono vietati tutti gli incarichi pubblici, le scuole statali, il contatto stesso con gli “ariani”, l’esercizio di numerose attività commerciali, compresa la licenza di un taxi, l’ingresso nelle pubbliche biblioteche e così via. Poi la Shoa. I cittadini di origine israelita non sono mai stati molti in Italia. Stavolta muoiono in tanti. La comunità romana registra oltre 2.000 deportati, dei quali appena 16 tornano vivi. Intere famiglie risultano annientate in tutta Italia.

Fra guerra e Resistenza

Il fascismo vuole l’entrata in guerra a fianco di Hitler, pur conoscendo la totale impreparazione del nostro esercito. Risultato finale (oltre a città distrutte, infrastrutture territori devastati): 330.000 militari caduti o dispersi e 85.000 civili deceduti. Circa 650.000 soldati e 30.000 ufficiali italiani vengono internati in Germania (dopo i massacri di massa a Cefalonia e a Corfù) dopo l’8 settembre ‘43. Nella quasi totalità rifiutano di aderire alla Repubblica di Salò e patiscono una dura prigionia, così che oltre 41.400 di essi moriranno nei lager. Una pagina di storia e di amor patrio straordinaria e pochissimo conosciuta.

Alla Resistenza partecipano circa 300.000 fra italiani e italiane: le donne fucilate o impiccate saranno 2.812, oltre mille cadono negli scontri coi nazifascisti. In totale i morti della Resistenza, in combattimento o dopo la cattura, sono oltre 44.000. Altrettanti i militari del Corpo di Liberazione caduti a fianco degli Alleati anglo-franco-americani. Le stragi di cittadini inermi perpetrate dai nazifascisti si contano in oltre 400, per circa 15.000 vittime, da Castellaneta a Bolzano, compiute dalle Ss, da militari della Wermacht in ritirata, col sostegno spesso dei militari di Salò. Ben 695 i fascicoli delle stragi sepolti negli “armadi della vergogna” (come li ha chiamati Franco Giustolisi) e appena una decina i processi. Il sindaco di Roma Alemanno non considera il fascismo il “male assoluto”. Giudicate da voi da questa sintesi estrema di nudi fatti, di crude cifre.

Pubblicato il: 09.09.08
Modificato il: 09.09.08 alle ore 13.09   
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 22, 2008, 06:45:18 pm »

Porta Pia, Paolo VI più laico di Alemanno


Vittorio Emiliani


Lì per lì, sabato, guardando il Tg regionale del Lazio, mi sono un po’ stupito vedendo (e non si poteva non vederlo) il possente doppiopetto del vice-sindaco di Roma, Mauro Cutrufo, cinto di fascia tricolore, davanti al monumento che ricorda la storica Breccia di Porta Pia. Sta’ a vedere - mi son detto - che la giunta Alemanno è più sollecita delle amministrazioni di centrosinistra nel ricordare quella data fondamentale. Poi ho capito che, al contrario, Cutrufo celebrava i mercenari pontifici deceduti nell’ultima difesa del papa-re, insomma gli Zuavi.

E mi è tornato alla mente che Paolo VI, in ossequio alle direttive del Concilio Vaticano II sull’abbandono da parte della Chiesa di ogni potere temporale, decise motu proprio di non far più celebrare la tradizionale Messa in ricordo di quei caduti contro i bersaglieri del generale Lamarmora. «Lì per lì», commentò Giulio Andreotti ad un dibattito alla Libreria Croce, «ci rimasero un po’ male i discendenti, le famiglie degli Zuavi, che, se ricordo bene, pubblicavano anche un loro bollettino… ».

Mauro Cutrufo, evidentemente col beneplacito del sindaco Gianni Alemanno, indossata la fascia tricolore, italiana, ha assistito impavido alla lettura (quindi una cerimonia preparata) dei nomi e cognomi dei mercenari papalini caduti a Porta Pia, effettuata dal generale Antonino Torre dei granatieri, «delegato alla memoria» del sindaco Alemanno.

Il quale evidentemente alla «memoria» mussoliniana aggiunge ora quella papalina. Così sindaco e vice-sindaco hanno fatto compiere al Comune di Roma un balzo all’indietro di quasi centoquarant’anni ed hanno offeso in un colpo solo i giovani e i meno giovani che caddero, non soltanto a Porta Pia, dove le perdite furono poche per la flebile resistenza dei papalini, ma nella difesa della Repubblica Romana del 1849 (dove morì, fra gli altri, Goffredo Mameli), hanno offeso il romanissimo Ciceruacchio e il suo figliolo quattordicenne, catturati e messi al muro dagli austriaci dopo lo scioglimento della colonna garibaldina, hanno offeso i perugini insorti trucidati dai pontifici e le camicie rosse che, una ventina di anni dopo, furono massacrate a Monterotondo e a Mentana dalla fucileria francese.

Ha ben ragione lo storico Giovanni Sabbatucci a parlare di «aria malsana che arriva dalla celebrazione della Breccia di Porta Pia a rovescio», di provare «brividi» per come viene ormai trattata, pubblicamente, la storia d’Italia. Immaginate se Letizia Moratti, domani, celebrasse non gli eroi delle Cinque Giornate di Milano, non Carlo Cattaneo, ma il generale Radetsky e le sue truppe che repressero nel sangue quei moti unitari (oltre mille furono le condanne a morte, anche se molte commutate in durissimi ergastoli).

Del resto, grottescamente, Bossi e i suoi intonano «Va’ pensiero» non sapendo che Giuseppe Verdi, proprio mentre componeva «Nabucco», scriveva ad un amico: l’Italia «dovrà essere libera, una e repubblicana». «Una», capito?

Quello che più colpisce è l’incosciente disinvoltura con la quale si ribaltano i fatti che portarono alla faticosa Unità del Paese.

Probabilmente il vice-sindaco Mauro Cutrufo voleva, e l’ha avuto, un titolo sui giornali o un servizio sul Telegiornale del Lazio, e per questo ha indossato la fascia tricolore per «celebrare» gli Zuavi pontifici.

Bene, la prossima volta indossi una fascia bianca e gialla, quella del papa-re, e subito dopo magari, per ragioni di buon gusto, vada a dimettersi dalla carica.

Chissà che non lo reclutino fra le guardie svizzere. Sempre che superi la visita attitudinale.

Pubblicato il: 22.09.08
Modificato il: 22.09.08 alle ore 7.40   
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« Ultima modifica: Ottobre 07, 2008, 04:22:50 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 06, 2008, 06:17:26 pm »

Sardegna, attacco fallito


Vittorio Emiliani


Questo referendum voluto dal centrodestra e sostenuto in prima persona da Silvio Berlusconi per cancellare la legge paesaggistica sarda doveva costituire la prova generale per dare lo sfratto al centrosinistra alle prossime regionali. Come prova generale è andata decisamente male: gli elettori sardi hanno risposto in pochi all’appello del Cavaliere, inquilino di Villa Certosa e, assieme ai suoi cari, proprietario dell’area di Costa Turchese che avrebbe voluto cementificare a colpi di residenze turistiche, bloccato invece prima dal decreto "salvacoste" e poi dalla legge oggetto del referendum. Un conflitto di interessi da svariate centinaia di milioni di euro.

Il referendum, aveva profetizzato sabato con piglio ducesco, "regalerà un risultato importante, anche grazie all’impegno del centrodestra sardo, compatto, ecc. ecc." Compattezza granitica sonoramente bocciata dall’astensionismo dei cittadini sardi.
In tutt’altra regione, a Vicenza, si è svolto ieri un referendum completamente diverso, voluto e autogestito dalle forze contrarie all’assurdo ampliamento dell’aeroporto Nato in un’area praticamente centrale della città, con mobilitazioni incessanti (e che hanno portato alla carica di sindaco un esponente del centrosinistra, caso raro nel Veneto leghista). Là i cittadini si sono invece affollati ai seggi per una consultazione che non ha valore legale, ma che conserva un forte valore politico in sé. Se la partecipazione ha ancora un senso in questa nostra rattrappita democrazia.

Al governo regionale sardo, presieduto da Renato Soru, si deve il più grande piano paesaggistico mai disegnato in Italia, destinato a tutelare 1.731 Km di coste e il loro entroterra. Un piano impostato, nelle linee-guida, da un comitato di esperti coordinati dall’urbanista Edoardo Salzano e realizzato tuttavia dagli uffici tecnici regionali. "Conservare e gestire responsabilmente il paesaggio, prodotto del millenario lavoro dell’uomo su una natura difficile, significa conservare l’identità di chi lo abita. Un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità né memoria". Ecco la filosofia del PPR sardo. Soru ha parlato di villaggi turistici-fantasma, vuoti per tanti mesi dell’anno, e di borghi storici svuotati da quello sviluppo senza radici. Di qui le linee-guida della legge e poi del piano sardo: priorità alla preservazione delle risorse paesaggistiche, al loro ruolo strategico sul piano culturale, alla riqualificazione e al recupero dell’esistente, a forme di sviluppo fondate su di una nuova cultura dell’ospitalità "sottratta alle ipoteche dello sfruttamento immobiliare ed agli effetti devastanti della proliferazione delle seconde case e dei villaggi turistici isolati". Quello sfruttamento che, al contrario, Berlusconi - il quale non dimentica mai di essere nato immobiliarista - avrebbe voluto far ripartire sul territorio isolano faticosamente preservato, in questi ultimi anni, da un prolungato saccheggio.

Fra l’altro il Codice nazionale per il Paesaggio predisposto dalla commissione presieduta da Salvatore Settis e varato alla fine della scorsa legislatura dalle Camere su istanza del ministro dell’epoca Francesco Rutelli prevede norme più stringenti per la co-pianificazione Stato-Regioni in materia di paesaggio. Il referendum voluto dal centrodestra in Sardegna era dunque anche fuori tempo e quindi privo di effetti pratici. Ma, sul piano politico, una elevata partecipazione dei sardi al voto e un eventuale successo dei "sì" alla cancellazione della legge regionale n.8 del 2004 avrebbero avuto un significato e un impatto politico decisamente pesanti nei confronti della giunta Soru e del centrosinistra in generale.
V’è di più: la vittoria del centrodestra avrebbe "punito" una delle poche Regioni italiane dove si è scelto, in linea generale, di tornare a pianificare (pratica in uso in tutti i Paesi civili, ma da noi semiabbandonata) e di pianificare in modo attento e responsabile al fine di economizzare le risorse primarie collettive di cui cominciamo ad avvertire una scarsità a volte drammatica.

E’ così per l’acqua nel Mezzogiorno, per l’aria e la terra in tutte le aree metropolitane, per i suoli agricoli o comunque liberi il cui consumo corre da noi al ritmo di oltre 100.000 ettari l’anno, rispetto agli 11.000 ettari prefissati in Germania dalla legge Merkel, oppure rispetto alle illuminate leggi britanniche l’ultima delle quali, voluta da Blair, ha stabilito che il 70 per cento della nuova edilizia debba sorgere nelle zone già costruite o su aree industriali dismesse (brown belts) e soltanto il 30 per cento su suoli agricoli o verdi (green belts), pur viaggiando il consumo di terreni liberi fra Inghilterra e Galles al ritmo di appena 8.000 ettari l’anno, un dodicesimo del nostro utilizzo. Andare avanti in Sardegna e altrove con piani urbanistici e paesaggistici rigorosi e accurati vuol dire dunque risparmiare paesaggio, ambiente, bellezze di enorme valore sociale difese così dall’uso speculativo di pochi. Dei soliti pochi.


Pubblicato il: 06.10.08
Modificato il: 06.10.08 alle ore 13.44   
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« Ultima modifica: Ottobre 14, 2008, 11:19:18 am da Admin » Registrato
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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 10, 2008, 05:23:49 pm »

I Beni Culturali e lo scippo Capitale

Vittorio Emiliani


Con legge ordinaria, con un emendamento, il governo Berlusconi rivoluziona la strategia della tutela, chiaramente nazionale, dei beni culturali e paesaggistici togliendola allo Stato, quindi al ministero per i Beni culturali, ed assegnandola al Comune di Roma o al nuovo Ente Roma Capitale.

In tal modo, aperta una clamorosa breccia nell’articolo 9 della Costituzione, spiana la strada per l’attribuzione della tutela ai Comuni. Nemmeno alle Regioni, come da anni alcune di esse chiedevano (la Sicilia la esercita già, malissimo), ma addirittura ai Comuni. Un altro colpo di clava alla unità culturale e politica della Nazione. Una autentica follia anche dal punto di vista gestionale.

Il nostro sistema di tutela, che rimonta addirittura alla lettera-manifesto di Raffaello a papa Leone X, poi ad Antonio Canova gran consigliere di Pio VII, al ceto politico giolittiano che ne raccolse la forte trama legislativa, allo stesso Giuseppe Bottai che intelligente riutilizzatore di quelle norme nelle due leggi del 1939, alla Costituzione e alle normative più recenti (come la legge Galasso e il Codice Settis-Rutelli), era e rimane un modello invidiato e imitato all’estero. Malgrado i finanziamenti scarsi, malgrado i concorsi rinviati per anni, malgrado mille acciacchi operativi, l’idea-forza di far esercitare la tutela ad organismi tecnico-scientifici il più possibile autonomi dal potere politico (tanto più da quello locale) e dalle sue pressioni ha salvato il Paese da disastri molto maggiori rispetto a quelli, pur gravi, intervenuti. I nostri centri storici si presentano, sin qui, abbastanza preservati. La rete dei musei è nettamente migliorata, semmai bisogna crederci, investire di più in essa. Il paesaggio, certo, ha subito e subisce duri colpi dal cemento, specie dopo che ai Comuni è stato sciaguratamente consentito di usare per la spesa corrente i denari incassati con gli oneri di urbanizzazione. Ma, ripeto, il sistema è valido, i soprintendenti (nonostante stipendi da 1.500-2.000 euro) sono spesso autorevoli. Negli anni di Tangentopoli non uno di loro è stato inquisito e condannato.

Si può, si deve potenziare questa struttura voluta come Ministero da Giovanni Spadolini. Invece la si intacca e la si demolisce, facendo oggi del nuovo Ente Roma Capitale e domani degli 8.101 Comuni gli organismi che decideranno tutto sul patrimonio storico-artistico, sull’archeologia, sul paesaggio, ecc. I controllati diverranno anche i controllori diretti. Gli organismi tecnico-scientifici saranno alle dirette dipendenze dei politici municipali. Fate voi.

Certo, l’articolo 9 della Costituzione parla di tutela in capo alla Repubblica, cioè allo Stato (come hanno riaffermato le sentenze, ma quanto contano oggi?, della suprema Corte) in uno, armonicamente, con Regioni ed Enti locali. Ma l’autonomia dei presidii rappresentati dalle Soprintendenze non è mai stata messa in discussione. Mai. Oggi basta un emendamento ad una legge ordinaria. È vero, Roma ha anche una Soprintendenza Capitolina. Fu una sorta di omaggio di Corrado Ricci alla capitale d’Italia quando disegnava con altri la rete delle Soprintendenze. È stata retta da studiosi come Carlo Pietrangeli e, di recente, come Eugenio La Rocca. Non ho nulla contro Umberto Broccoli, archeologo, da poco nominato dopo lunghi anni di lavoro come intelligente divulgatore culturale in Rai. Ma la sua prima intervista televisiva mi ha lasciato di sasso: ritiene di poter fare soldi prestando in giro statue e altri reperti archeologici di magazzino. Non sembra il massimo dei programmi scientifici. Sembra anzi una porta aperta all’idea fissa di “sfruttare” commercialmente il patrimonio.

E il ministro Bondi, che fa? Ha assistito docile a tagli che - lo denuncia la Cisl - riducono le risorse da 625 a 73 milioni in quattro anni e ne fanno perciò una sorta di “commissario liquidatore” del Ministero e dei suoi beni. Nelle Soprintendenze, dopo la pubblicazione del testo per l’Ente Roma Capitale e sue prerogative c’è fermento, allarme, indignazione, come nelle maggiori associazioni per la tutela. «Una autentica rovina», commentano storici dell’arte, archeologi, architetti, paesaggisti, urbanisti, bibliotecari, musicologi. Ma anche una clamorosa fesseria dovuta a quelli che Raffaello profeticamente chiamava li profani e scelerati barbari», ma anche il suicidio di un Paese che vive sempre più di turismo e di turismo culturale. Bondi si occupa di tutt’altro: cliccate sul sito del ministero (www.mibac.it) e vedrete che il ministro-poeta occupa la prima pagina con ben tre rubriche: i suoi Appunti di viaggio (un must internazionale), la sua post@ coi cittadini e, udite udite, le sue recensioni librarie, la prima parla anche di Eros. Non di Thanatos, del suo moribondo ministero naturalmente. Ma si è accorto di fare la parte del necroforo per giunta sorridente?


Pubblicato il: 10.10.08
Modificato il: 10.10.08 alle ore 10.32   
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 16, 2008, 11:53:12 pm »

Bondi e l’emendamento fantasma


Vittorio Emiliani


Ma allora il governo Berlusconi ha imbrogliato il povero Alemanno, sindaco di Roma, facendogli credere di aver trasferito, con un semplice emendamento al disegno di legge sul federalismo fiscale, tutta una serie di funzionali statali e regionali strategiche senza poi approvare quel magico testo? Rispondendo ad un mio articolo del 10 ottobre sull’Unità il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, ha affermato martedì 14 che quel maxi-emendamento non è stato mai e poi mai approvato, tant’è che non figura allegato al disegno di legge inviato al Quirinale.
Come non credere a Bondi? La sua smentita è ufficiale. Perché allora nel pomeriggio del 3 ottobre i ministri Matteoli e Calderoli hanno annunciato alle agenzie (tengo un’Agi in proposito) che il consiglio dei ministri aveva invece approvato il corposo emendamento e quindi il trasferimento al Comune di Roma di «tutela e valorizzazione dei beni storici e artistici, ambientali e fluviali»? E dove è stato riposto quel lungo “articolo aggiuntivo” spacciato come approvato e che, fra l’altro, non era stato portato all’esame delle Conferenze Commissione Stato-Regioni e Unificata? Forse lo si tiene lì, in caldo, per riproporlo a sorpresa durante il percorso parlamentare della legge sul federalismo fiscale (che poi sono due, una tributaria e l’altra ordinamentale).
Per questo il Comitato per la Bellezza, assieme a Bianchi Bandinelli, ad Archeoclub, a storici dell’arte, archeologi, urbanisti, storici, ricercatori, ecc. hanno rivolto ieri un appello ai presidenti delle Camere e al presidente della Repubblica affinché vigilino su questa autentica mina vagante. Tuttavia, ad essere sulla graticola, per il momento, è il sindaco di Roma il quale, rassicurato da Calderoli e C. sull’approvazione avvenuta del maxi-emendamento, incautamente aveva decretato da sé la fine di ogni controllo tecnico-scientifico autonomo e la concentrazioni di poteri oggi divisi fra Stato-Regione Lazio-Provincia nel solo Ente Roma Capitale, facendo irritare fortemente sia Marrazzo che Zingaretti. Allo stato invece è soltanto un progetto. Politicamente, per ora, una bufala, il nulla, secondo Bondi.
Tuttavia i tagli inferti alle risorse annuali, già inadeguate, del Ministero per i Beni e le Attività culturali - che crollano di qui al 2011 da 625 a 73 miseri milioni - fanno pensare ad una strategia governativa volta a liquidare sostanzialmente il MiBAC e a trasferire la tutela alle Regioni e ai grandi Comuni. Discorso che vale pure per il Ministero dell’Ambiente (800 milioni di tagli su tre annualità) dove Daniela Prestigiacomo è ancor più accondiscendente di Sandro Bondi e pensa ai Parchi come a lucrosi luna-park turistici. Coi 73 milioni di euro residui il Ministero per i Beni culturali pagherà sì e no gli stipendi e terrà aperti i musei statali (che magari diventeranno polverosi, come li vorrebbe il collega Brunetta ormai irrefrenabile). Certo, non si farà tutela attiva, non si creeranno nuovi musei, non si affronteranno restauri grandi e piccoli, non si effettueranno campagne di scavo, né ispezioni, controlli, missioni sul campo, si difenderanno sempre peggio dai predatori dell’arte le aree archeologiche, le chiese, i piccoli musei, si lascerà la speculazione edilizia con le mani completamente libere, ecc.
Il ministro Sandro Bondi, oltre a riempire di suoi scritti il sito del Collegio Romano (l’ultima recensione la dedica a monsignor Luigi Negri e a Fernando Adornato), ha scatenato in giro per il mondo il superconsulente Alain Elkann affinché stringa accordi coi musei più ricchi al fine di prestare loro opere d’arte e reperti archeologici nostrani, ovviamente facendo pagare il noleggio. È un’idea alta dell’arte: trasformare i nostri beni culturali in giacimenti (ricordate?) economici, il Belpaese in una sorta di ipermercato dell’arte e il deperente ministero in una agenzia di noleggio, domani magari anche di vendita dei beni (alle Patrimonio SpA non c’è mai fine). Il pioniere è il neo-soprintendente capitolino Umberto Broccoli il quale ha lanciato l’idea - scrive Riccardo Chiaberge sul Sole 24 Ore - della “soprintendenza creativa” che oggi presta, affitta, noleggia a soldoni e forse domani vende. Invidioso Bondi lancia la campagna a livello nazionale. E pensare che noi, illusi, credevamo che la cultura avesse un valore in sé e per sé.

Pubblicato il: 16.10.08
Modificato il: 16.10.08 alle ore 10.17   
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 04, 2009, 10:22:21 am »

Comuni: troppi scandali, pochi consigli

di Vittorio Emiliani


Dalle inchieste e dagli scandali comunali, veri o presunti, emergono almeno un paio di dati difficilmente contestabili: il poco o nullo controllo «dal basso» su delibere di giunta invece di grande peso economico; la debolezza, anzitutto culturale, quasi di «status», del ceto politico rispetto a quello imprenditoriale. Affiora una sorta di identificazione antropologica, di compenetrazione dei ruoli. Con l’interesse pubblico assai indebolito rispetto agli interessi privati. Berlusconi fa scuola: certi grandi immobiliaristi o imprenditori dei servizi diventano essi «una risorsa» per la città. Non il contrario.

Un lettore di questo giornale ha scritto che tutto il male è cominciato con la legge per la elezione diretta di sindaci e presidenti, con la nomina da parte loro degli assessori (in realtà più che mai sparti fra le correnti politiche), e col conseguente svuotamento di poteri delle assemblee elettive. Sarà stato anche troppo drastico e però ha posto un problema serio. L’elezione diretta dei sindaci ha certamente assicurato stabilità ma, nelle cose, ha sottratto al vaglio pubblico del dibattito consiliare decisioni di grande portata. Ieri i consigli comunali contavano fin troppo. Oggi contano ben poco, sono casse di risonanza delle giunte. Ho fatto per cinque anni, fra ‘90 e ‘95, il consigliere comunale in una città piccola e però carica di patrimonio storico e di problemi, e ho sperimentato quanto potere avessimo, allora, noi consiglieri. Per lo meno di provocare accese discussioni pubbliche che potevano durare anche giorni, con un pubblico folto a partecipare.

Con la nuova legge si è passati all’estremo opposto. Da un assemblearismo forse eccessivo allo svuotamento delle assemblee che sono chiamate a ratificare (come le Camere coi decreti legge del governo). Da qui una maggiore opacità delle decisioni più importanti e un non meno evidente stato di frustrazione dei consigli e dello stesso pubblico, ormai rado.

Ne scrisse molto bene Gianfranco Pasquino, sul «Sole 24 Ore», perché non tornarci su? L’elettore di sinistra è «sconvolto e sorpreso» (Yards Byrds, dazed and confused), non vede aprire dibattiti, neppure in caso di batoste elettorali come quella, sempre più dolorosa, di Roma. In un altro Paese i responsabili sarebbero andati a casa, in modo automatico e tranquillo. Qui non c’è stata nemmeno una analisi che aiutasse a capire, a correggere, e quindi a reimpostare una prospettiva con iscritti e simpatizzanti. I quali, così, scelgono una silenziosa lontananza o astensione. Fra l’altro, per le elezioni politiche generali è stata loro tolta pure la piccola arma della preferenza: tutto è già preconfezionato.
E questa è democrazia?


03 gennaio 2009
da unita.it
« Ultima modifica: Gennaio 05, 2009, 10:53:04 am da Admin » Registrato
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« Risposta #12 inserito:: Maggio 14, 2009, 11:45:20 am »

Le ombre di una ricostruzione calata dall'alto

di Vittorio Emiliani


Silvio Berlusconi si è divertito un mondo a Sharm-el-Sheik osannato dagli italiani in vacanza sul Mar Rosso. Del resto in patria tutto andava benissimo (secondo lui).
Persino nel terremotato Abruzzo sul quale ha snocciolato a “Porta a Porta” cifre del tutto rassicuranti, senza che nessuno potesse contraddirlo. Lui, imperatore, e Bertolaso, suo proconsole delle Emergenze, hanno in mano la situazione degli aiuti e della ricostruzione che sarà (prima sciocchezza demagogica) “molto rapida”.
Invece le cose non stanno propriamente così, nonostante gli osanna ammirati di giornali inginocchiati e di televisioni sdraiate ai suoi piedi.

Le tendopoli
Si sta passando, sotto le tende, dal freddo ancora invernale (specie di notte) ad un caldo già estivo. La soluzione dei container è stata giustamente scartata.
Ma, grazie alle ubbìe del premier, si è perso tempo a discutere di “new town” o di Aquila 2 (clonata dalla prediletta Milano 2) promessa nel termine di pochi mesi, figuriamoci, e poi seccamente disconosciuta. «La casa è un miraggio, prefabbricati inevitabili» - ha suggerito un ex commissario di lungo corso, Giuseppe Zamberletti.
Solide case in legno, ben riscaldabili d’inverno, sperimentate positivamente fra Umbria e Marche. Le stesse offerte, in un centinaio di esemplari, dalla Provincia di Trento. Senza perdere altro tempo in vecchie/nuove fanfaronate. Bisogna fare presto. La convivenza di tanta gente in una stessa tenda non può essere protratta a lungo: è già ora una tortura psicologica. Lo ha più volte fatto notare il sindaco dell’Aquila, attento e presente, Massimo Cialente, il primo a criticare l’idea della “New Aquila” berlusconiana che avrebbe abbandonato la città storica a spettrale maceria senza futuro.

Certo, bisogna che le case in legno, o quelle avveniristiche promesse dal prof. Calvi di Pavia, non sorgano – come invece sta avvenendo per le prime – in ordine sparso in zone del tutto agricole deteriorandole stabilmente. Bisogna pianificarle in forma di villaggi attrezzati, pur considerandole, ovviamente, provvisorie. Il 1° maggio Berlusconi ha affermato che le aree dove montare i prefabbricati per 13.000 persone sono state già individuate. Peccato che i sindaci delle zone interessate non ne sapessero assolutamente niente. A riprova che tutto, in questa emergenza abruzzese, viene fatto calare dall’alto. Funzionalmente un sistema pessimo, oltre che anti-democratico.

I finanziamenti
I soldi previsti dal decreto 39/09 del governo Berlusconi erano in origine decisamente pochi e per giunta dilazionati negli anni. I 150.000 euro a fondo perduto per la ricostruzione della prima casa verranno attivati con una ordinanza a parte, ma “Sono un niente”, ha seccamente commentato l’attiva e coraggiosa presidente della Provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane, a fronte degli edifici distrutti del centro storico dell’Aquila e di alcuni borghi come Onna. Gli amministratori abruzzesi chiedono di avere coperti al 100 per cento i costi (come accadde in Umbria e nelle Marche) per le prime e anche per le seconde case. Il PD, col suo segretario Dario Franceschini ha battuto e ribattuto sulla richiesta e finalmente, ieri, il governo ha dovuto cambiare il decreto coprendo (ancora non si sa come però) il 100 per cento dei costi di ricostruzione.
Una bella vittoria per l’opposizione.

Fintecna
Un ruolo allarmante sta però assumendo la sempre più potente Finanziaria pubblica, totalmente controllata dal Ministero dell’Economia. Nel dicembre 2006 è stata creata Fintecna Immobiliare che ha incorporato le attività di quel tipo. Presieduta da Maurizio Prato, ex Ad di Alitalia, vice-presidenti Corrado Crialese e Vincenzo Dettori (già presidente di Fintecna, poltrone che vanno e che vengono). L’attività di Fintecna è consistita nella gestione e nella vendita del patrimonio immobiliare pubblico. Secondo il decreto 39/09 del governo, la società dovrà occuparsi dei contratti di finanziamento fra lo Stato e i privati per il recupero delle case lesionate o distrutte dal terremoto. Fintecna potrà subentrare ai proprietari indebitati «con la contestuale cessione ad essa dei diritti di proprietà» e del mutuo acceso. Il ministro Tremonti giura che la norma non è stata «pensata per fare acquisizioni di abitazioni nelle zone abruzzesi colpite dal terremoto». Negli aquilani si insinua però il sospetto che si voglia, in un futuro non lontano, acquisire a prezzi stracciati una bella fetta della città antica per poi privatizzarla rivendendola a soggetti decisamente abbienti. Più di un amministratore fa notare che la mega-finanziaria pubblica “diventerà padrona assoluta del centro storico con conseguenze speculative immaginabili”.

14 maggio 2009

da unita.it
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 01, 2010, 10:33:17 pm »

Il Cavaliere e la fortuna.

A gonfie vele in privato mentre il Paese crolla

di Vittorio Emiliani


I detti memorabili sulla «fortuna» si sprecano, fin dall’antico, anche se con significati contraddittori: la fortuna aiuta gli audaci (epico), ciascuno è fabbro della sua fortuna (self-made-man romano), o, invece, la fortuna è cieca (scettico in partenza). In generale è ragionevole pensare che la fortuna ci vuole e però bisogna meritarsela. Ora, Silvio Berlusconi, di fortuna nella vita ne ha avuta tanta. Pure «agevolata», da un certo periodo storico in qua. Per esempio, quando bisognava che l’amico presidente del Consiglio tornasse da Londra per varare il decreto salva-tv e quello prese un jet e tornò sull’italico suolo. Poi, più o meno agevolato, capì quando era il momento di «scendere in campo». E, sia pure provvisoriamente, battè il poco coeso cartello dei «progressisti» guidato da Achille Occhetto presentatosi al duello tv con un vestito color cioccolato che a Gioachino Rossini aveva portato una sfiga orrenda la sera della prima del suo “Barbiere di Siviglia”, risoltasi in un tonfo clamoroso. Appunto. Nel 1994 le sue aziende erano in rosso di circa 8.000 miliardi di lire. Oggi hanno vele gonfie da scoppiare. Ha «militarizzato» il controllo del mercato pubblicitario con la legge Gasparri ed ha ridotto la Rai ad una ancella in ginocchio per debiti e carenza di idee. La stessa Rai che un decennio fa chiudeva dei bei bilanci e rifilava a Mediaset sonore batoste. Dal punto di vista personale e familiare, Berlusconi ha dunque sfruttato al meglio l’autostrada politica che gli hanno spalancato il dominio di cinque canali e tg su sei, le divisioni e gli errori ostinati degli avversari. Che l’hanno battuto due volte, nel 1996 e nel 2006, con Prodi, salvo pugnalarlo e farsi la guerra fra loro. Dal punto di vista del Paese, al contrario, non c’è nella storia italiana, dal 1945, periodo più grigio o più nero di questo caratterizzato dal berlusconismo. Che cosa si può ricordare oltre alle leggi ad personam a cui ha forzato il Parlamento e che oggi servono a ministri appena nominati per non presentarsi davanti al giudice? Badate bene, per un grave reato finanziario, non per reati «politici». Forse sono memorabili i condoni, gli scudi fiscali, i tagli inferti a scuola e cultura? L’Italia berlusconizzata è un Paese invecchiato, intristito, impoverito, incapace di reagire, di inventare, di indignarsi persino. Un Paese che non investe nella cultura e nella ricerca pur essendo fra quelli che già meno spendono per questi capitoli essenziali che Obama (ma anche Sarkozy) considera i «motori» della ripresa e delle modernizzazioni. Un Paese diviso, anzi spaccato. Non soltanto fra governo e opposizione, ma pure fra governo centrale e Regioni, pronte a restituire alcune competenze avute oltre trent’anni fa per non alzare loro le tasse, per non prendere loro i denari, insieme ai Comuni, dalle tasche degli italiani, per non togliere dal fuoco le castagne bruciate da lui, da Tremonti e da Bossi. Neppure l’italico stellone ci aiuta più. Era una sorta di fortuna un po’ volgare, arronzata, che «aiutavamo» con qualche furberia, con qualche trovata ingegnosa. Berlusconi come Lippi? Beh, molto peggio: sicuro di sé fino alla boria (ricordatevi le passerelle nell’Abruzzo terremotato); incurante di critiche e consigli; incapace di fare squadra se non con altri come e peggio di lui. Guardate l’Expo 2015 di Milano che il tanto spregiato Prodi aveva portato a casa e che, affidata alla signora Moratti e ad altri genii lumbàrd, rischia il peggio. Anche perché un’idea che è una, ‘sti genii non l’hanno partorita, al di là della solita colata di cemento. Già, la forza delle idee. Lui ha la forza dei danèe . Per sé. Noi dovremmo avere quella delle idee, e del rigore. Per tutti. Ps: Un grande «menabuono» per chi della jella, e quindi, per converso, dello stellone, pensa, con Benedetto Croce, «non è vero, ma ci credo», è ritenuto il già citato Rossini. Ma, con tutta la simpatia e la stima per il grande Gioachino, stavolta temo non basti proprio.

26 giugno 2010
http://www.unita.it/news/italia/100422/il_cavaliere_e_la_fortuna_a_gonfie_vele_in_privato_mentre_il_paese_crolla
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 20, 2010, 05:02:33 pm »

Il servizio pubblico alle dipendenze di un uomo solo

di Vittorio Emiliani


La sopravvivenza della Rai come azienda di servizio pubblico, come luogo di pluralismo politico-culturale, è ad un passaggio sempre più stretto e soffocante. Con un presidente-padrone, Berlusconi, il quale non esita ad esprimere tutta la propria generosa “comprensione” per quegli abbonati della Rai che non pagheranno il modesto canone di 109 euro, cioè evaderanno una imposta (sul possesso del televisore) perché questo è il canone, in tutta Europa. Dove lo stesso oscilla fra il minimo, ben al di sopra di noi, dei 149 euro del Belgio e il massimo dei quasi 300 euro della Svizzera (in mezzo Austria, Scandinavia, Germania, Regno Unito, Irlanda, ecc).

Berlusconi se ne infischia del conflitto di interessi, del fatto che lui compete con la Rai negli ascolti tv, di un pluralismo che, nonostante polemiche ricorrenti, in passato non è mai mancato, e getta nella mischia i suoi uomini, i suoi ministri contro le trasmissioni più scomode Quelle che però più di altre raccolgono pubblicità, a cominciare da “Annozero” la quale concorre pure ad alzare lo share non eccezionale di Rai2. Andare a testa bassa contro Santoro, Fazio, Floris e altri (compresi Benigni e Saviano) è un vero suicidio, anche economico, per una non-azienda che ha lasciato scoperta per mesi la carica strategica di ad della società pubblicitaria Sipra. Ed ha registrato altre perdite secche per l'abbandono, tutto politico, della piattaforma satellitare Sky divenendo ancor più subalterna a Mediaset.

Ma all’attuale maggioranza di centrodestra del CdA della Rai cosa può importare del rapporto costi/benefici, del deficit, del prestigio perduto? A loro e a questo incredibile direttore generale (non ne ricordo di così maldestri e però così determinati al peggio) importa che una azienda di tutti gli italiani sia allineata ai voleri di un solo italiano. Ciò che conta è trasformare una “istituzione” come il "Tg1" in un tg dove le omissioni non si contano e dove un direttore venuto dal gossip politico si esibisce in tragicomici editoriali per Silvio concorrendo a cali di ascolti ormai vistosi. Ma che importa, se Berlusconi ne è contento, anzi due volte contento? Come Grande Fratello, in tutti i sensi.

Che fare se, come sottolinea Sergio Zavoli, che a questa azienda ha dato tanto, la situazione è più allarmante che mai? Che fare se, come rileva il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, la «Rai è sempre più un caso politico»? Bisogna che le forze di centrosinistra, in primo luogo il Pd, mettano a punto una proposta chiara e concreta dalla quale non arretrare. Tante, troppe sono, negli ultimi dieci anni, le farfalle che il centrosinistra ha inseguito fra il Parlamento e Viale Mazzini: il mitico 1138 che doveva ridimensionare la pubblicità di Rai e Mediaset, la public company, una non ben definita fondazione non scollegata dai partiti, la vendita sul mercato di due reti su tre… Guardi con coraggio all’Europa più avanzata, la smetta di patteggiare sotto sotto qualche pezzo di rete, qualche promozione. Faccia per davvero una battaglia politica alternativa perché qui si misura la forza dell’alternativa.

20 ottobre 2010
http://www.unita.it/news/italia/104818/il_servizio_pubblico_alle_dipendenze_di_un_uomo_solo
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