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Autore Discussione: Nicola Cacace - Dove vola l’oro nero  (Letto 5136 volte)
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« inserito:: Ottobre 25, 2007, 10:39:31 pm »

Una ricchezza sbagliata

Nicola Cacace


La forte e crescente ondata di malessere del Paese viene dalle condizioni di invivibilità da bassi salari e stipendi che affligge gran parte della popolazione dopo venti anni di brutale redistribuzione della ricchezza. Anche le proteste che naturalmente si rivolgono anzitutto contro le forze di governo originano da questo malessere e approfondendo i dati ci si meraviglia semmai per la debolezza collettiva delle proteste. Per capire le origini del malessere basta guardare i dati sulla distribuzione della ricchezza e quelli su salari e stipendi. L’ultima indagine «il mestiere di sopravvivere» (Venerdì di Repubblica del 19 ottobre) è sconvolgente: si va dai 1300 euro/mese dell’infermiere con 20 anni di anzianità ai 1680 euro della direttrice di Galleria dell’Accademia con 27 anni di anzianità agli 820 euro di una operatrice di call center che lavora cinque ore al giorno alla Vodafone da dieci anni, senza parlare dei tre milioni che lavorano in nero. Trattasi di guadagni di fame, tra i più bassi d’Europa e lesivi della dignità personale.

A tale proposito è allarmante il dato rilevato da una recente ricerca della Banca d’Italia dal titolo: «Il divario generazionale: un’analisi dei salari relativi dei lavoratori giovani e vecchi in Italia» di Alfonso Rosolia e Roberto Torrini. Analizzando i dati Istat e della banca centrale, i due economisti rilevano che: «Alla fine degli anni ‘80 le retribuzioni nette mensili degli uomini tra i 19 e i 30 anni erano del 20% più basse di quelle degli uomini tra i 31 e i 60 anni; nel 2004 la differenza è quasi raddoppiata in termini relativi salendo al 35%». Non solo, ma «nel decennio 1992-2002 il salario mensile iniziale è diminuito di oltre l’11% per i giovani entrati sul mercato del lavoro tra i 21 e i 22 anni presumibilmente diplomati (da 1200 euro mensili a meno di 1100 euro) e dell’8% per i lavoratori tra i 25 e i 26 anni, potenzialmente laureati (da 1300 a 1200 euro mensili). Per entrambe le classi di età i salari di ingresso sono tornati nel 2002 ai livelli di 20 anni prima».

La diffusione del precariato si intreccia coi bassi salari ma non è il principale colpevole. Il precariato, che riguarda sopratutto i giovani, ha altre colpe oltre i bassi salari come l’incertezza che impedisce ogni progetto di vita decente, ma il problema salariale riguarda ormai una maggioranza crescente di cittadini.

Per capire la ratio di questi salari da fame basta dare uno sguardo alle cifre sulla redistribuzione della ricchezza che è stata brutale e profonda soprattutto a partire dagli anni novanta. A farne le spese sono stati i lavoratori dipendenti, gli artigiani, i piccoli autonomi e la classe media: secondo dati della Banca d’Italia in dieci anni la ricchezza (case, titoli e moneta) del 10% delle famiglie più ricche è passata dal 41% al 48% della ricchezza nazionale, quella del 40% delle famiglie di mezzo è passata dal 34% al 29% mentre quella del 50% delle famiglie più povere è passata dal 25% al 23%. La redistribuzione della ricchezza, che è stata una costante del neoliberismo vittorioso nel mondo a partire dagli anni ottanta di Reagan e della Thatcher, è oggi il male profondo che le forze riformiste devono denunciare e combattere se vogliono tener fede alla loro missione politica.

C’è un pericolo oggi: il pensiero liberista dominante, di cui l’ultima opera di Alesina e Gavazzi sul «liberismo di sinistra» è l’inno più recente. In buona sostanza, si tende ad affermare l’idea che la crescita economica risolva tutti i problemi, che mercato e concorrenza, lasciati liberi di esprimersi, daranno risposte a tutti i bisogni del Paese, anche quelli sociali. La realtà è diversa: certo che la crescita è condizione necessaria per una redistribuzione, ma essa non sarà sufficiente come non lo è stata dalla fine degli anni Ottanta al 2000 quando la nostra crescita economica non è stata malvagia e quando i frutti di quella crescita - ecco il punto - sono andati ad arricchire una minima parte della popolazione e ad impoverire le grandi masse.

Se oggi l’Italia è un’azienda indebitata e sottocapitalizzata, come dice Padoa Schioppa, se essa è patria dei più bassi salari d’Europa, va ricordato che, come dicono sempre i dati Bankitalia, essa è anche patria dei cittadini più ricchi d’Europa: la ricchezza in case, titoli e moneta degli italiani è pari a nove volte il Pil, più di 21mila miliardi di euro su 1.540 miliardi di Pil. Per capire come la redistribuzione della ricchezza dell’ultimo ventennio abbia arricchito una minoranza di italiani a spese delle masse, basta guardare alla ricchezza posseduta dai cittadini di altri Paesi europei che non supera mai cinque volte il loro Pil. Sotto quest’aspetto l’Italia assomiglia più agli Stati Uniti che a Francia e Germania, essendo come noto il gigante d’oltre Atlantico il Paese socialmente più diseguale al mondo.

Mentre l’Italia è il Paese più indebitato (105% del Pil) e più povero d’Europa (in 10 anni il Pil unitario è passato da +10% a -5% rispetta alla media europea) gli italiani sono il popolo “mediamente” più ricco d’Europa.

Di fronte a dati di questo genere, in un Paese non complessato dal peso di vecchie ideologie e culturalmente vivo, si svilupperebbe un dibattito serio su una qualche forma di «imposta sui patrimoni, almeno su quelli finanziari» che possa ridurre la condanna certa a 100 anni di sottosviluppo che aleggia sulle teste dei nostri figli e nipoti, che dovranno sobbarcarsi a decine d’anni di sottosviluppo per pagare ogni anno 70 miliardi interessi sul debito pari a tre finanziarie, senza alcun vantaggio per il Paese. Absit iniuria verbis! Come non detto. Da noi gli economisti ed i politici si sbracciano su declino italiano e crescita sotto le medie. Ma quale azienda, con un debito superiore ai suoi ricavi annui riesce a crescere sulle medie? Perché dovrebbe riuscirci un’azienda indebitata e sottocapitalizzata come l’azienda Italia?

Pubblicato il: 25.10.07
Modificato il: 25.10.07 alle ore 8.51   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 14, 2007, 09:05:26 am »

Valori o Mercato questo è il problema

Nicola Cacace


Nei giorni in cui, dal governatore Draghi in giù, si denuncia che il problema dei bassi salari italiani è insostenibile, che troppe famiglie non arrivano a fine mese, che la redistribuzione della ricchezza è troppo squilibrata, al Senato si sparano bordate contro l’art.21 della Finanziaria che fissa una tetto di 270mila euro per i dirigenti pubblici. Quel che è grave è che le contestazioni, attese dalla Casa delle libertà, vengono anche da parte di pattuglie della maggioranza, tra cui Mastella e Dini. Quest’ultimo ha scritto sabato sul Sole 24 ore un articolo di attacco all’art.21 abbastanza contraddittorio: «Comprendo il valore anche morale di una battaglia sui livelli retributivi» ma «temo che il tetto possa privare molte amministrazioni delle risorse umane di qualità».

Si contesta il provvedimento in nome del dio Mercato, saltando a piè pari tutti i discorsi sui “Valori”, sui grandi valori che sarebbero sempre meno sentiti da giovani, uomini e donne ai giorni nostri, valori tirati in ballo in ogni occasione in cui si critica la stupidità di programmi televisivi o si condannano comportamenti insani e/o delittuosi dettati dal dio Denaro. E dimenticando le numerose critiche che alla crescita incontrollata delle disuguaglianze retributive vengono rivolte sul piano morale ed economico. Non si capisce perché un rapporto tra guadagni dei vertici delle aziende rispetto ai guadagni medi che sino a 20 anni fa non superava certi valori - l’ing Valletta, grande capo della Fiat del Boom guadagnava 50 volte l’operaio - oggi debbano arrivare a vette assurde di 200 volte.

Strano Paese il nostro, in cui tutti parlano di “Valori” che dovrebbero guidare le azioni umane, solidarietà, onestà, bene pubblico, mentre alla prima occasione molti confermano che denaro e ricchezze sono gli unici veri valori in cui credono. E triste che questo avvenga in un paese che invece è pieno di donne ed uomini di valore che ispirano le loro scelte a criteri diversi dal massimo guadagno, da medici e primari che scelgono il pieno tempo nelle strutture sanitarie rinunciando a ben più lauti guadagni nelle strutture private. In ogni settore della vita pubblica esistono esempi di donne ed uomini di grande valore che hanno rinunciato a maggiori guadagni perché avevano ed hanno valori diversi dal guadagno. L’azione dei parlamentari di centrosinistra, critici verso la misura del tetto, risultano offensivi anche verso tutti questi dirigenti che hanno scelte ispirate a Valori diversi. I critici si dichiarano “preoccupati” dell’impoverimento alle strutture imprenditoriali pubbliche che tetti del tipo di quelli proposti dal governo per i dirigenti provocherebbero, ignorando che nella stessa Rai, già oggi, come in mille settori di attività, politica inclusa, lavorano donne ed uomini che hanno fatto precise scelte di valore orientate al “servizio pubblico”. Potrei fare io solo centinaia di nomi di dirigenti che conosco personalmente in tali condizioni, come credo potrebbe farne chiunque svolga una qualche attività connessa all’imprenditoria.

Io non entro nel merito delle 270mila euro l’anno, tetto proposto che è a livello dell’attuale primo presidente di Corte di Cassazione. Sulle cifre si può discutere, non dimenticando che in Paesi spesso indicati a modelli di efficienza e solidarietà come i Paesi scandinavi e l’Olanda, modelli sottoscritti da tutta l’Unione, Mastella e Dini compresi, nessun dirigente pubblico supera mai di 10, 20 volte il guadagno medio. Se proprio si vuole avere le mani libere per qualche eccezione giustificata - assumere come dirigente pubblico un Premio Nobel magari straniero - si può sempre varare l’art 21 del tetto con una clausola che consente al Consiglio dei ministri di fare eventuali eccezioni al tetto. Insomma, io contesto la pretesa del denaro unico criterio di scelta della carriera pubblica o privata, difendo l’importanza che ogni dirigente di impresa pubblica, ma non solo pubblica nella mia concezione di impresa, dovrebbe attribuire a Valori diversi dal guadagno. Non che questo naturalmente non debba contare, contribuendo il guadagno all’insieme di fattori che determinano i livelli di responsabilità e di dignità del dirigente pubblico come di ogni lavoratore. Dico semplicemente che chi sceglie di lavorare in una struttura pubblica deve sentire altri valori oltre quello rispettabilissimo del guadagno personale, tra cui la consapevolezza di agire non solo per creare valore per qualche azionista, bensì valore per l’insieme della comunità.

Pubblicato il: 13.11.07
Modificato il: 13.11.07 alle ore 9.20   
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 03, 2007, 10:11:11 pm »

Il Welfare "strabico"

Nicola Cacace


I duri attacchi di Giordano e Diliberto alla mediazione Prodi sono ingiustificati e sbagliati.

Essi, per cominciare, non tengono conto dello stretto sentiero su cui si è mosso il presidente del Consiglio

Il quale si è mosso infatti tra il rispetto per i milioni di lavoratori che hanno approvato il Protocollo negoziato dai sindacati col governo ed il rispetto per le prerogative del Parlamento la cui Commissione lavoro aveva introdotto 5 modifiche al Protocollo. Ma gli attacchi non hanno tenuto conto neanche dei contenuti della mediazione nettamente favorevole agli interessi dei lavoratori. Senza aggiungere che le critiche non fanno giustizia di un provvedimento che in molti punti va nettamente a vantaggio dei lavoratori e proprio dei più giovani fra essi. Prodi ha annullato due decisioni «sbagliate» della Commissione lavoro della Camera, ha confermato due decisioni della stessa Commissione favorevoli ai lavoratori ed ha annullato una decisione della Commissione ostacolata dalle imprese.

Secondo me è di 4 ad 1 a favore dei lavoratori la mediazione operata da Prodi. Che pretendevano Diliberto e Giordano? Che Prodi decidesse come se la sinistra estrema fosse il 100% della maggioranza e come se sindacati e imprese non esistessero? Le modifiche al Protocollo sindacale, confermate da Prodi e favorevoli ai lavoratori sono a) l’aver precisato che i 36 mesi di durata massima dei contratti a tempo determinato «vanno intesi indipendentemente dalle interruzioni», b) l’abolizione dello Staff leasing, squadra in affitto.

Le modifiche al Protocollo bocciate da Prodi con reintegrazione della versione primitiva concordata dai sindacati, riguardano a) i lavori usuranti, in particolare la norma che per definire i turnisti cancellava il faticoso lavoro tecnico sindacale di apposita commissione che fa riferimento a precise norme contrattuali e alla legge 66/2003, introducendo un vago riferimento a «meno di 80 notti l’anno» (alcuni contratti come quello tessile già definiscono notturno quello di almeno 50 notti l’anno), b) la deroga all’abrogazione del Job on call, lavoro a chiamata, per settori che ne hanno oggettivamente bisogno come Turismo, Spettacolo e Ristorazione.

Entrambe queste modifiche sono «oggettivamente corrette», data la complessità della definizione di lavori usuranti e di lavoro a turni e le obiettive esigenze di flessibilità di ristoranti, alberghi e spettacoli. In sostanza l’unica norma introdotta dal Parlamento ed abolita da Prodi con decisione che può essere considerata «contro i lavoratori» è quella che fissava in 8 mesi la durata massima dell’unico contratto autorizzato dopo 36 mesi di contratti a tempo determinato, con accordo sindacale siglato presso l’ufficio provinciale del lavoro. Considerando che il braccio di ferro era non solo tra sindacati e Parlamento entrambi tesi a difendere le loro prerogative, ma anche tra interessi legittimi di lavoratori ed imprese, avendo in sostanza Prodi operato una mediazione ottimale tra tutte le parti in gioco in questa difficile partita, essendo la mediazione da considerare tutt’altro che sfavorevole ai lavoratori, le reazioni scomposte di Diliberto e Giordano sono sbagliate ed incomprensibili.

Esse, se esaminate da vicino, non vanno neanche in direzione degli interessi che queste sinistre dicono di rappresentare.Un esempio? Si è polemizzato ingiustamente sul numero di notti necessarie per definire un «turnista usurato» pretentendo di affidarne la definizione ad un numero, «meno di 80 notti l’anno» che in se non dice niente. Quali ore sono da considerare notturne e quante di queste ore bastano a definire un «turnista usurato» è fissato dalla generalità dei contratti in modi diversi. Molte di queste materie sono storicamente oggetto di contrattazione da lunga data e sono spesso mutevoli.

Perché Diliberto e Giordano pensavano e pensano che, sostituire più semplici norme generali ad altre faticosamente negoziate dai sindacati, cosa che inevitabilmente avrebbe aperto il vaso di Pandora delle controversie giudiziarie, potesse essere nell’interesse dei lavoratori?

Proprio mentre si procede ad un arricchimento dei contratti nazionali con negoziazioni aziendali e territoriali necessarie per combattere l’appiattimento verso il basso dei salari, una sinistra che guarda al presente e non al passato non può limitarsi a slogan e posizioni uniformi «per tutta la classe», ormai superate e sbagliate, perché la classe di oggi non è più quella uniforme dell’800 e del 900.

Pubblicato il: 01.12.07
Modificato il: 01.12.07 alle ore 9.03   
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 25, 2007, 07:24:29 pm »

Consigli a Montezemolo

Nicola Cacace


Sono usciti i dati relativi all´anno in corso su export, salari e inflazione, dati ottimi per il Paese meno per i lavoratori, export +12%, inflazione +2,4% salari +2%.

L´Italia è diventato il secondo esportatore d´Europa, scavalcando Gran Bretagna e Francia, secondo solo alla grande Germania coi suoi 83 milioni di abitanti.

L´aumento insufficiente dei salari, addirittura inferiore all´inflazione è notizia assai cattiva che spiega molte cose, malessere crescente di milioni di famiglie, calo dei consumi e della domanda interna, crescita del Pil inferiore alla media Ue.

Questo capita quando l´aumento monetario dei salari è inferiore all´aumento monetario della torta nazionale, il Pil. Quest´ultimo è aumentato quest´anno dell´1,8% in volume, cioè a prezzi costanti e del 2,4% per aumento dei prezzi, cioè il Pil è aumentato in moneta - che il modo più certo per misurare la crescita reale - del 4,2%. Se i salari sono aumentati solo del 2,4% è chiaro che tutto l´aumento della torta, che ricordiamolo è stata di ben il 4,2% è andata a profitti e rendite. Quando il signor Montezemolo ripete stancamente che «aumenti salariali possono aversi solo a fronte di forti recuperi di produttività, che la produttività italiana è inferiore a quella dei concorrenti europei e che c´è bisogno di maggiore flessibilità del lavoro» sbaglia due volte. Gli studi più attenti hanno mostrato che la crescita bassa di produttività italiana deriva proprio dalle carenze di formazione e dagli eccessi di precarietà del lavoro dei giovani.

E l´aumento dell´export italiano, il cui peso quest´anno è passato dal 3,4% al 3,6% dell´export mondiale, dopo dieci anni di continui cali, dimostra che la produttività italiana non dev´essere così bassa. Ci sono semmai modi approssimativi e sbagliati con cui gli esperti di Montezemolo, non solo essi, misurano la produttività reale dei fattori. Per esempio quando un´azienda sostituisce un cinquantenne esperto con due giovani laureati sottopagati, la produzione per testa o produttività si dimezza, ma il costo per unità di prodotto no. Per la semplice ragione che il costo dei due giovani è inferiore a quello del cinquantenne espulso.

Su questo triste fenomeno non ci sono cifre esatte, ma alcune stime parlano di più di un milione di cinquantenni espulsi in due anni dai processi produttivi per abbassare il costo lavoro. Esiste poi una altra prova oggettiva, i profitti che da molti anni crescono a ritmi quattro volte superiori a quelli dei salari, come tutte le indagini, a cominciare da quelle Mediobanca, mostrano non si avrebbero con produttività così basse come lamentano. Il fatto grave è un altro di cui anche gli industriali devono prendere coscienza, da anni la ripartizione dei frutti della produzione e della produttività tra salari, profitti e rendite è così iniqua da umiliare la classe lavoratrice e da nuocere all´intera economia.

Come diceva il compianto professor Sylos Labini «profitti troppo bassi nuocciono all´economia allo stesso modo dei profitti molto alti». Si mediti su queste parole di un grande maestro e ci si convinca che oltre a essere eticamente ingiusto, è economicamente sbagliato per il paese avere salari al passo con l´inflazione e profitti a velocità quattro volte superiore.



Pubblicato il: 24.12.07
Modificato il: 24.12.07 alle ore 15.18   
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 05, 2008, 06:38:50 pm »

Dove vola l’oro nero

Nicola Cacace


Dietro un rialzo del petrolio ci sono spesso fattori geopolitici come accaduto più volte negli ultimi anni: basta ricordare i tempi della guerra Iran-Iraq o le recenti guerre del Golfo. Questa volta non è così.

I fatti di questi giorni, le azioni sanguinose della guerriglia in Nigeria, non possono giustificare alcunché su un trend del prezzo del petrolio tendente da mesi verso i 100 dollari a barile, la Nigeria essendo Paese produttore assai piccolo, meno di 3milioni barili al giorno rispetto ad una produzione totale superiore ai 80milioni.

Il primo fattore alla base del rialzo è chiaramente la debolezza del dollaro: i produttori non vogliono perdere valore ed hanno risposto ad un calo del valore del biglietto verde del 50% con un rincaro del greggio del 70% in un anno.

Secondo fattore alla base del rialzo è la forte crescita della domanda di Cina, India ed altri paesi emergenti. Oggi la Cina è già il secondo consumatore mondiale di petrolio dopo gli Usa e l’India ha superato paesi di antica industrializzazione come Germania e Gran Bretagna. Operare per correggere questi due fattori alla base del rialzo non è alla portata di nessuno, al giorno d’oggi, anzi, la crisi di molti settori dell’economia americana, dall’immobiliare alla finanza d’avventura, sino al doppio deficit, pubblico ed estero, non consentono previsioni felici per la crescita del Pil americano e quindi per la salute del dollaro. Quanto alla Cina è piuttosto prevedibile che un grande avvenimento come le Olimpiadi di Pechino accelerino e non rallentino la marcia di quel paese.

C’è un terzo fattore alla base del rialzo del petrolio ed è la speculazione. Anche contro quest’arma del capitalismo oligopolistico mondiale la politica è completamente disarmata. Se sul mercato dei Futures si compra e si vende petrolio “a termine”, a prezzi superiori ai 100 dollari al barile al primo stormire di foglie nel golfo del Messico, settimo produttore di petrolio o alla prima minaccia di disordini a Lagos, capitale di un Paese che non è neanche tra i primi 10 produttori di grezzo, la speculazione c’entra e come.

Su tutti e tre i fattori alla base del rialzo del petrolio, debolezza del dollaro, boom della domanda cinese e speculazione finanziaria mondiale l’Italia ha poco da dire e da fare, se non registrare il balzo dell’inflazione arrivata a dicembre al 2,6% (e poco consola il fatto che in Europa sia addirittura al 3,1%, poiché che il livello più basso dell’Italia deriva anche dalla carenza di domanda legata al basso potere d’acquisto dei nostri salari).

Allora, a noi non resta altro che ingoiare il rospo senza fiatare? No! A noi restano almeno due armi alla nostra portata per ridurre gli effetti negativi del rialzo del petrolio: una politica di miglioramento dell’efficienza energetica (cioè riduzione degli sprechi) ed una politica di sviluppo di fonti alternative di produzione di energia. Non è possibile che a Roma e Milano circolino 7 auto private ogni 10 abitanti, più del doppio di altre capitali come Londra e Parigi. Come non è possibile che il Paese del sole abbia ancora meno impianti fotovoltaici di Germania e Spagna. Lo stanco dibattito sulle politiche energetiche continua a baloccarsi su “l’araba fenice” che non c’è, l’energia nucleare senza tenere i piedi per terra. Ma come? Un Paese che a venti anni dalla dismissione di due piccole centrali nucleari, Latina ed Ispra, ancora non è stato capace di smaltirne i rifiuti, che grava le bollette elettriche di 150 milioni l’anno, che ha ancora 90mila metri cubi di scorie custodite “provvisoriamente” in 15 vecchi siti, un Paese che nel 2020 riceverà di ritorno dalla Francia 235 tonnellate di combustibili irraggiati e non sa come trattarli o stoccarli, un Paese che non è riuscito a risolvere decentemente lo smaltimento dei rifiuti della sua terza metropoli, Napoli, è meglio che il nucleare se lo scordi, anche perchè nessuna autorità al mondo è stata ancora capace di stimare correttamente i costi dello smantellameno dei vecchi impianti nucleari.

Al rialzo del prezzo del petrolio, dunque, l’Italia può rispondere con intelligenza lavorando sull’efficienza energetica, riducendo drasticamente il traffico privato e sullo sviluppo delle energie sostenibili su cui, sembra, il governo ha timidamente cominciato ad operare.

Pubblicato il: 05.01.08
Modificato il: 05.01.08 alle ore 14.00   
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