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Autore Discussione: Antonio Ferrari Il futuro incerto di Israele  (Letto 2590 volte)
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« inserito:: Marzo 18, 2015, 10:50:10 pm »

Dopo il voto
Il futuro incerto di Israele
Dopo la vittoria di Netanyahu, il timore che il Paese possa essere spinto verso un pericoloso auto-isolamento

Di Antonio Ferrari

Nella notte, come era già avvenuto in passato, il risultato era in bilico. L’alba lo ha trasformato in certezza. Ora, che Benjamin Netanyahu abbia vinto, dopo lunghe ore di rassicurante pareggio (via exit poll) con i liberali di Ysaac Herzog, è fuor di dubbio. Che Israele non abbia vinto è altrettanto sicuro, perché in sostanza è cambiato poco o niente. Anzi, il Paese potrebbe essere spinto verso un pericoloso auto-isolamento mentre la regione ribolle di antiche tensioni e di nuovi sanguinosi conflitti.

Mezzo mondo è certamente amareggiato perché vede tramontata la possibilità di un rilancio del negoziato di pace con i palestinesi, e perché teme che Tel Aviv possa intralciare l’accordo che i grandi stanno tessendo con l’Iran sul nucleare. A meno di un difficilissimo compromesso per un governo di unità nazionale, sostenuto dal presidente Reuven Rivlin, sarà Netanyahu il prossimo leader di un Israele che mai si era collocato così a destra. Proprio in una fase decisamente nuova, con gli arabi che vivono nel Paese capaci di far tacere tutte le loro divisioni, di presentarsi alla Knesset uniti e di diventare il terzo partito. Quasi un segnale di quanto potrà accadere nel futuro, quando-in assenza dei due Stati-la maggioranza di Israele potrebbe non essere più ebraica. Lo sostengono con vigore i più celebrati demografi, a cominciare dagli israeliani.

Eppure Netanyahu è un empirico. Voleva conservare il potere a tutti i costi, anche con entrate a gamba tesa, persino a costo di essere accostato all’immagine di tanti satrapi dei Paesi musulmani vicini. E’ davvero un duro, Bibi. Somiglia a un abilissimo giocatore di poker che finge il bluff ma alla fine riesce sempre a vincere il piatto. La sua prima vittoria, nel 1996, era ritenuta la più improbabile. Il Paese piangeva ancora il martire Rabin, caduto a novembre dell’anno precedente per mano di un estremista ebreo. Il giorno delle elezioni andammo a casa dell’attentatore, Ygal Amir. I suoi genitori e gli altri famigliari chiusero l’intervista con la proposta di un brindisi per Netanyahu. Nessuno, nel Paese, lo considerava vincitore. Tutti pensavano che sarebbe stato Shimon Peres a raccogliere l’eredità di Rabin. Invece s’impose il giovanotto, fratello di Jonathan (uno degli eroi di Israele, caduto a Entebbe), e promise una vera rinascita. Fu sconfitto dagli scandali, dovette lasciare, permise ai laburisti di Ehud Barak di tornare al timone. Però alla fine, mentre i pericoli per Israele crescevano, e la campagna degli attentati terroristici si intensificava, ecco che dal Likud si staglia la figura di Ariel Sharon. Senza alcun dubbio, l’israeliano medio si riconosceva molto più nel discusso ma carismatico generale che nel Netanyahu, abile oratore, di poca concretezza, che però seduceva, con il suo inglese perfetto, l’opinione pubblica americana.

Nel 2009, riecco Bibi. Conciliante, pronto a sostenere l’idea dei due Stati (Israele e Palestina), ma alla fine deludente. Al punto che nel 2013 ha rischiato il pensionamento anticipato. E’ stato salvato soltanto dall’inconcludenza dei suoi oppositori. L’esecutivo è durato poco, perché lo stesso Bibi ha deciso di scioglierlo l’anno dopo, espellendo due ministri di centro-sinistra, e annunciando la riscossa di Israele: contro tutto e contro tutti. “Se sarò eletto- ha detto prima del voto- non vi sarà uno stato palestinese e gli insediamenti aumenteranno”. La sua retorica raggela ancor più il presidente degli Stati Uniti, ed esalta i suoi nuovi e sotterranei amici, come l’Arabia Saudita, culla del mondo sunnita, in omaggio alla comune avversità per l’Iran sciita. Iran che Netanyahu non vede l’ora di colpire.

Il risultato delle elezioni di martedì dimostra che il premier sa sempre parlare alla pancia della sua gente. Anche se la pancia non è mai il consigliere più saggio.

18 marzo 2015 | 09:13
© RIPRODUZIONE RISERVATA   

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_18/futuro-incerto-israele-54006e62-cd45-11e4-a39d-eedcf01ca586.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 16, 2015, 04:35:45 pm »

La storia
Armeni, il massacro del passato che Ankara non vuole affrontare
Un genocidio di cui gli attuali governanti e i turchi di oggi non hanno alcuna colpa.
Ma negandolo si comportano come se fossero colpevoli

Di Antonio Ferrari

Spesso basta un accenno per provocare la reazione della Turchia. Reazione quasi sempre scomposta, perché Ankara si rifiuta, ostinatamente, di riconoscere che nel suo lontano passato (un secolo fa) c’è una macchia indelebile, che si chiama «genocidio del popolo armeno». Genocidio di cui gli attuali governanti e i turchi di oggi non hanno alcuna colpa, ma negandolo si comportano come se fossero colpevoli. Infatti processano scrittori, giornalisti, intellettuali: insomma tutti coloro che non si sottopongono alla censura delle istituzioni.

Che vi sia stato un «genocidio» è fuor di dubbio. Si può definire altrimenti lo sterminio di quasi un milione e mezzo di armeni, nel 1915? Allora la Turchia, che nella Prima guerra mondiale era alleata della Germania, e ormai consapevole della definitiva disintegrazione dell’Impero Ottomano, decise una ruvida operazione di pulizia etnica, lanciando una feroce campagna. Con un preciso obiettivo: eliminare in maniera radicale quell’indisponente minoranza cristiana (una delle più antiche), che osava contrastare il potere centrale del gigante musulmano.

Un’operazione dettata da mostruoso cinismo. Le deportazioni cominciarono proprio come sarebbe accaduto, pochi decenni dopo, per gli ebrei. Lo stesso Adolf Hitler, nel 1939, si riferì allo sterminio degli armeni come ad un fatto «di cui ormai nessuno parla più». Si salvarono soltanto coloro che riuscirono a fuggire dalle città e dalle campagne più esposte, che cercarono di nascondersi, o che furono protetti da qualche coraggioso «Giusto» (ve ne erano tantissimi anche in Turchia), pronto ad aiutare le vittime mettendo in pericolo la propria vita. Nella dolce Aleppo, la città siriana che ora è semidistrutta dalla terribile guerra civile, c’è un albergo (chissà se le sue mura sono ancora in piedi) che si chiama «Baron» e che ospitò clandestinamente centinaia di armeni, distribuendoli poi nelle case di coloro che rifiutavano il diktat del potere centrale.

Fino a qualche anno fa, in Turchia, era un gravissimo reato parlare, a qualsiasi titolo, del genocidio armeno. Bastava una dichiarazione (il caso di Orhan Pamuk), o un romanzo (il caso di Elif Shafak) per venir denunciato e doverne rispondere, in tribunale, come un qualsiasi criminale. Adesso che tra Turchia e Armenia vi è una certa normalizzazione dei rapporti, la tensione si è stemperata. Complici le passate qualificazioni per il mondiale di calcio, quando le due nazionali si sono incontrate, e i rispettivi capi di Stato si sono scambiati le visite stringendosi la mano.
Numerosi studiosi turchi dicono d’essere pronti a discutere di quella macchia di cent’anni fa (l’anniversario è il prossimo 24 aprile). Molti ormai accettano l’idea che vi fu un «massacro sistematico» del popolo armeno, anche se alcuni sostengono che la popolazione armena, in territorio turco, non arrivava al milione di persone. Qualcuno si spinge fino ad accettare quella parola, «genocidio». Certo, per le sensibilità di Ankara, è stata come una frustata il duro e autorevole richiamo di papa Francesco, che ha parlato di quello armeno come del primo genocidio del 20esimo secolo, seguito da quello degli ebrei e, ora, quello dei cristiani massacrati dagli integralisti islamici assassini.

Numerosi storici e osservatori internazionali si interrogano, da decenni, sulle ragioni di tanta ostinazione. Ambasciatori e consiglieri di una delle più efficienti diplomazie del mondo, quella turca appunto, si fanno un punto d’onore di spiegare e rintuzzare le critiche che si affollano su Ankara. In discussione non c’è soltanto il problema linguistico o terminologico («genocidio» o «massacro sistematico»?), quanto un’accusa che, all’inizio del secolo scorso, fu rivolta agli armeni: quella di essere stati al fianco del più grande nemico della Turchia, la Russia. Che vi siano state compagnie di soldati inquadrate nelle Forze armate di Mosca è indubbio. Ma tutto ciò non giustifica ovviamente lo sterminio di un popolo. Anche oggi che l’Armenia è uno Stato indipendente, e che si pone come un ponte tra l’Eurasia e la Ue, la Russia è sempre al centro degli interessi economici di Erevan, come ha spiegato il presidente armeno ieri al Corriere.

13 aprile 2015 | 07:25
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cultura/15_aprile_13/armeni-massacro-fd11de0a-e19a-11e4-b4cd-295084952869.shtml
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