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Autore Discussione: David GROSSMAN. Il figlio dell'amore e della guerra  (Letto 6941 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Giugno 15, 2007, 10:55:17 pm »

ESTERI

Parla lo scrittore israeliano: "Esplode una frustrazione sedimentata per anni"

"Dovremo trattare anche con gli integralisti ma non credo che si possano rimproverare gli israeliani"

Grossman: "Questo è l'inizio la guerra può travolgerci tutti"

dal nostro corrispondente ALBERTO STABILE
 
 
GERUSALEMME - David Grossman, la guerra è il tema che attraversa il suo ultimo libro ("Con gli occhi del nemico", Mondadori). In questi giorni stiamo assistendo ad un paradosso della Storia, la guerra civile palestinese, il conflitto fra i poveri, i rifugiati, gli occupati. Che cosa pensa davanti alle immagini provenienti da Gaza?

"Prima di tutto, sento una grande preoccupazione per quello che sta per svilupparsi da questa guerra civile. Sono quasi sicuro che non finirà a Gaza, che si infiltrerà anche nella Cisgiordania e in seguito produrrà violenze contro Israele. E' orribile vedere quello che i palestinesi si fanno l'uno l'altro. Devo dire che la mia prima reazione è stata che una violenza interna di tale portata è una cosa che noi, qui in Israele, non abbiamo ancora sperimentato. Ho pensato allo sganciamento da Gaza, a quanta tensione ci fosse, a quante armi, a quanto fanatismo ci fossero in giro, eppure, nemmeno una goccia di sangue è stata versata, né dei coloni, né dei soldati".

Qualcuno ritiene che la guerra civile palestinese sia un risultato perverso dell'occupazione israeliana. Pensa che Israele possa avere una qualche responsabilità in quello che sta succedendo laggiù?
"Questa è la prima cosa che si tende a dire: 'Abbiamo parlato loro nella lingua della violenza e dell'occupazione per tanti di quegli anni, che alla fine sono rimasti contagiati ed ora parlano la stessa lingua'. Ma penso che le cose siamo molto più complesse. Israele non ha occupato l'Iraq, eppure gli iracheni si stanno sgozzando a vicenda, a centinaia al giorno. Quindi propongo di non rimproverare Israele per tutto quello che succede, anche se come israeliano so che partecipiamo alle violenze in tutta la regione. E' una cosa che dobbiamo ricordare.

Tutti questi scontri, tutti questa frustrazione e rabbia non escono dal nulla: arrivano dopo tanti anni in cui questa gente ha vissuto sotto una tale pressione, che non deve quasi sorprendere".

Dovesse, come tutto lascia prevedere, prevalere Hamas, ritiene che Israele dovrebbe intavolare un negoziato anche con il movimento islamico?
"Penso che sia necessario provare ogni possibilità. Non sono sicuro che avremo successo, ma ho una profonda fede nella natura del dialogo e penso che due parti che comincino un dialogo senza condizioni preliminari, nella maggioranza dei casi ne emergeranno diversi, un po' più amici di prima.

Non sono al 100% sicuro che Hamas possa cambiare: si tratta di un movimento molto 'ermeticò e fanatico, religiosamente impegnato. Preferirei ovviamente trattare con un interlocutore più realistico, più disposto al compromesso, più flessibile. Ma se quest'interlocutore non c'è, allora sono disposto a trattare con chiunque mi stia di fronte, nella speranza di cambiarlo".

Rabin diceva, infatti, che "non ci si può scegliere il proprio nemico". In questa fase, vede svanire le probabilità di pace?
"Penso che questi siano brutti giorni per la pace e per la speranza. Nel momento in cui stiamo parlando, in questa settimana, con Hamas che sta conquistando gli avamposti di al Fatah a Gaza e centinaia di palestinesi sono stati uccisi da altri palestinesi, non penso veramente che ci sia qualcuno con cui si possa parlare, perché non si sa con chi s'andrebbe a concludere l'accordo.

Per il momento penso che dobbiamo semplicemente aspettare finché i palestinesi stessi decidano del loro proprio destino. Detto questo, vorrei anche ricordare che abbiamo un altro fronte in cui dobbiamo fare uno sforzo, il fronte siriano. Di nuovo, non si tratta di un fronte molto incoraggiante o con ampie prospettive, ma dobbiamo fare del nostro meglio per prevenire la prossima guerra".

Nel suo libro, lei parla della guerra con i suoi effetti devastanti non soltanto sulla realtà esterna, ma anche sulla vitalità, sulla "tonalità interiore" di ciascuno di noi. La guerra è male, lo sappiamo. Ma perché, secondo lei, il ricorso alla guerra è così facile e immediato?
"Questa è una questione davvero molto grande. Ho la sensazione che nessuno cominci veramente una guerra, le guerre si continuano. La pace, quella è una cosa che si deve cominciare. Guerreggiare, disgraziatamente, è una cosa quasi naturale per troppi paesi, troppe culture e troppe religioni. Ci vogliono molti sforzi e alle volte bisogna agire contro i propri istinti per cominciare a dare fiducia agli altri, per cominciare ad aprirsi, per essere in grado di vedere la realtà attraverso gli occhi dell'altro.

La tragedia è che più siamo coinvolti nella violenza, più questa forma il nostro vocabolario, detta il modo con cui guardiamo il mondo, quali siano le cose che siamo disposti a vedere e quali quelle verso le quali siamo quasi ciechi".

Sembrerebbe dai suoi scritti che la letteratura sia in grado di ristabilire certi principi sistematicamente travolti dalla guerra.
Quando avremo conosciuto l'altro, lei dice, anche se l'altro è il nostro nemico, da quel momento non potremo più essergli indifferenti. Che cosa ha impedito finora, agli israeliani ed ai palestinesi, di fare questo passo?
"Soprattutto la paura. Perché se ti concedi di esporti ad alcune delle giuste rivendicazioni, ad alcune delle sofferenze reali del tuo nemico, immediatamente senti che la tua resistenza contro questo nemico è quasi distrutta, devastata. La sensazione, fra noi ed i palestinesi, è che si tratti di un 'gioco a somma zero', tutto o nulla, in cui, se concediamo a loro una qualche legittimazione per la loro giustizia, allora non avremo alcuna giustizia.

Lo vede anche lei, come sia i palestinesi che gli israeliani diventano nervosi, allergici, quando cominciano a sentire parlare delle tragedia della parte opposta. Hanno semplicemente perduto la capacità di provare simpatia, perché ogni forma di simpatia esprime un'identificazione con l'altro".

Scrivere in un paese in guerra può essere d'aiuto per superare una tragedia personale, come la perdita di una persona cara. Ma che consiglio può dare a quelle persone che hanno subito una grave perdita e non hanno il dono della scrittura?
"Di essere attivi. Di non sentirsi vittime. Di non diventare dipendenti dalla sensazione d'impotenza. Ci sono così tante tentazioni in una situazione del genere, di sentirsi disperati, paralizzati. Ed io, nella mia esperienza, sento che essere attivi, tentare di ricordarsi che esistono sempre alternative a quasi tutte le condizioni umane, che esiste sempre una scelta nella vita, è qualcosa che mi è stata di grande aiuto. Io l'ho tradotta nella scrittura. Altri possono tradurla in ciò che sanno fare".

(15 giugno 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 15, 2007, 10:57:15 pm »

Hanna Siniora: «Palestina, Libano, Iraq: rischiano di saldarsi tre guerre civili»
Umberto De Giovannangeli


«Ciò che sta avvenendo a Gaza non è solo il suicidio di una nazione, ostaggio di una leadership politica fallimentare. Ciò è tragicamente vero, ma l’offensiva militare scatenata da Hamas va inquadrata anche a livello regionale: c’è un disegno in atto di ridefinire gli equilibri di potenza, e così ecco esplodere la Palestina, il ritorno alle eliminazioni mirate in Libano, il rilancio della mattanza in Iraq sotto il segno della guerra di religione sciiti-sunniti. Se tutto ciò risponde a realtà, la domanda che pongo agli amici Europei, ai leader arabi moderati è una sola: ma non vi rendete conto di ciò che può significare, per tutti, il saldarsi in Medio Oriente di tre guerre civili: in Palestina, in Iraq, in Libano?». È una domanda inquietante quella posta da Hanna Siniora, direttore del «Jerusalem Times», tra i più autorevoli intellettuali palestinesi. Di fronte alla guerra fratricida a Gaza, Siniora riflette: «Per non essere sepolta definitivamente, la questione palestinese deve rientrare in un negoziato generale che veda impegnati i Paesi arabi che hanno fatto proprio, senza strumentalità, il piano di pace saudita. Solo in questo ambito è oggi possibile ricollocare il tema di uno Stato palestinese, confederato alla Giordania. Fuori da questo contesto, avremo soltanto due bantustan, l’uno, Gaza, controllato dai fondamentalisti, l’altro, la Cisgiordania, in mano alle milizie di Fatah».

A Gaza si contano i morti, mentre si cerca di rabberciare una ennesima tregua. Ma basterà raggiungerla per scongiurare la catastrofe?
«La catastrofe è già in atto e non basterà certo una tregua per scongiurarla. La catastrofe è nel fallimento di una classe dirigente, sta nell’incapacità dimostrata dai leader dei due gruppi - Hamas e al-Fatah - di trasformarsi da capi fazione a dirigenti di uno Stato in formazione. La catastrofe è nella cecità di Israele e nell’incapacità della comunità internazionale di cogliere il punto cruciale degli eventi».

E quale sarebbe questo punto?
«Ciò che sta avvenendo a Gaza rientra in un piano più generale volto a destabilizzare l’intero Medio Oriente. C’è chi punta a saldare tre guerre civili - quella in Iraq, in Palestina e in Libano - per imporre la propria egemonia nella regione. Ciò che sta avvenendo a Gaza è anche la risposta al piano di pace saudita…».

La risposta di chi?
«Di chi ha armato le milizie di Hamas, di chi le ha finanziate, addestrate. La risposta di chi l’estate scorsa ha usato il Libano come teatro di guerra e oggi lo fa con la Palestina. È la risposta di Teheran».

Ehud Olmert ha aperto alla possibilità di una forza internazionale nella Striscia.
«Ha ragione Massimo D’Alema: è una apertura che giunge con un colpevole ritardo e che comunque non può avere alcuna prospettiva di realizzazione senza il consenso di tutte le parti belligeranti, e Hamas ha già detto di no. Ci sarebbe solo un modo per far vivere questa ipotesi».

Quale?
«Legare la presenza di una forza di pace internazionale all’attuazione di un piano umanitario straordinario per la popolazione di Gaza. In questo modo quei caschi blu verrebbero visti dall’intera popolazione come dei liberatori, gli unici in grado, per il sostegno internazionale, di rompere il cordone sanitario creato dopo la vittoria elettorale di Hamas».

Cosa resta della questione palestinese?
«Resta il sacrosanto diritto di un popolo ad uno Stato indipendente, ma questo diritto potrà forse realizzarsi solo se la questione palestinese diverrà parte di un negoziato generale tra Israele e i Paesi arabi che credono veramente al piano saudita: fuori da questo contesto, c’è solo spazio per il peggio».

Guardando alla guerra di Gaza, il quotidiano progressista israeliano Haaretz ha scritto: «Arafat si starà rivoltando nella tomba».
«Arafat aveva saputo garantire l’autonomia politica della questione palestinese, ma facendo pagare prezzi altissimi ai palestinesi e, soprattutto, impedendo la crescita di una nuova classe dirigente. Arafat ha preferito affidarsi a una nomenklatura corrotta e inefficiente, la cui incapacità spiega molto la crescita di consensi ad Hamas. Ciò che oggi sta accadendo è anche il frutto dei suoi errori e di una colpevole mancanza di visione strategica».

Come vede oggi uno Stato palestinese?
«Come parte di una confederazione con la Giordania. Da soli non reggeremo, a meno che non si voglia fare dello “Stato” di Gaza, un avamposto iraniano in Medio Oriente».

Il presente sembra configurare una sorta di Hamastan a Gaza e Fatahstan in Cisgiordania…
«Tremo al solo pensiero».




Pubblicato il: 15.06.07
Modificato il: 15.06.07 alle ore 9.03   
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 16, 2007, 06:21:27 pm »

Yael Dayan: «Anche noi israeliani colpevoli del caos a Gaza»

Umberto De Giovannangeli


«Guardo con angoscia alla tragedia che si sta consumando tra i palestinesi. In qualche modo, sento la loro tragedia come la mia. E non solo per ciò che potrà accadere in futuro, ma per quello che non è avvenuto, per le occasioni perse, per la cecità politica mostrate da ambedue le parti. La guerra a Gaza interroga anche le nostre coscienze di israeliani e ci mette di fronte ai nostri errori, perché di una cosa resto convinta: questa guerra fratricida non era scritta nel destino di un popolo, anche Israele ha le sue responsabilità». A parlare è Yael Dayan, scrittrice di successo, per diverse legislature parlamentare laburista, figlia di uno dei miti di Israele: il generale Moshe Dayan, l’eroe della Guerra dei Sei giorni. «Per una laica come me, paladina dei diritti delle minoranze - afferma Yael Dayan - non c’è niente di più distante del fondamentalismo teocratico. Tuttavia non possiamo cancellare il fatto che Hamas è andato al governo vincendo le elezioni più libere che il mondo arabo ha conosciuto. Al governo di unità nazionale palestinese andava concessa una chance, cosa che non è avvenuta. Ma Israele sa bene che la pace andrà un giorno trattata anche con gli integralisti».

Israele guarda con apprensione agli avvenimenti che stanno sconvolgendo i Territori. C’è chi teme che Gaza in mano a Hamas si trasformi «in un avamposto iraniano a cinque minuti da Ashkelon».
«Il nostro miope attendismo ha contribuito al disastro che si sta consumando nei Territori. Un attendismo politico che si è cercato a volte di mascherare con uno sterile esercizio della forza militare. Questo attendismo ha indebolito la credibilità e l’autorevolezza di Abu Mazen, e al tempo stesso ha favorito l’affermarsi in Hamas della componente piu’ oltranzista, jihadista. Israele non ha fatto politica e ora deve fare i conti con una situazione compromessa».

Non ha fatto politica: cosa significa questo nei confronti di Hamas?
«Significa il non aver saputo, o voluto, cogliere la dialettica che si era aperta all’interno di un movimento complesso quale è Hamas; ci siamo attestati sull’affermazione del principio che non si tratta con chi teorizza la nostra distruzione. Ma la pace si fa con il nemico e i principi vanno calibrati alla realtà…».

Il che significa?
«Rendersi conto che se non una pace vera e propria, quanto meno una tregua di lunga durata, va negoziata con chi rappresenta parti consistenti della società palestinese, e Hamas non ha certo vinto le elezioni puntando i kalashnikov alla tempia dei palestinesi. E non credo sia stata una buona politica mettere in galera ministri e parlamentari di quel movimento».

Cosa l’ha più colpita degli avvenimenti di Gaza?
«La tragedia della popolazione civile. A combattere erano neanche diecimila miliziani, e nessuno si è chiesto cosa stavano provando il milione e trecentomila palestinesi ostaggio di quelle bande armate. Le immagini viste in televisioni di madri piangenti, di bambini terrorizzati, sono angoscianti. E interrogano le nostre coscienze, di noi israeliani ma anche di voi europei: cosa abbiamo fatto per provare a impedire una catastrofe annunciata? Nulla, questa è l’amara verità. Abbiamo puntato sul caos, e questi sono i risultati».

Le autorità israeliane hanno ribadito di non voler rientrare a Gaza ma intanto a chiuso i valichi…
«Aver sigillato Gaza ha alimentato sofferenza, rabbia, frustrazione, che gli estremisti hanno canalizzato nella violenza. Non è con i "cordoni sanitari" che si ridà una speranza alla gente di Gaza, e senza speranza c’è solo spazio per l’odio e il desiderio di vendetta».

A Gaza è morto il sogno di una pace fondata su due Stati?
«Se questo "sogno" muore, cosa resterebbe, l’illusione di poter mantenere in piedi l’attuale status quo? Ma ciò che è avvenuto a Gaza dimostra proprio che l’alternativa ad una pace giusta, fondata sul riconoscimento di due diritti egualmente fondati, la sicurezza per Israele, uno Stato indipendente per i palestinesi, non è lo status quo, ma il rapido deteriorarsi della situazione che può portare a nuovi conflitti regionali».

Pubblicato il: 16.06.07
Modificato il: 16.06.07 alle ore 10.21   
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 18, 2007, 10:43:35 pm »

Sostiene Amos Oz

Maurizio Chierici


Adesso le Palestine sono due: Gaza e Cisgiordania. Si sbranano come hanno sempre sognato i falchi di ogni cancelleria d’Occidente. L’incubo della piccola patria promessa sta per finire. La kefia di Arafat, sotto terra; Abu Mazen erede sbiadito dai muscoli di Hamas, mentre le ultime cronache ufficializzano le bantulands annunciate nelle mappe dei piani di pace che dal 1948 continuano a restringere i palestinesi in macchioline separate, a volte invisibili, abbracciate da muri e carri blindati.

Laggiù, fuori da tutto, il ghetto di Gaza, l’Egitto dove è scappata la sacra famiglia negli anni di Erode: un milione e 200mila abitanti, uno sull’altro in 363 chilometri quadrati. Quando Sharon governava, si ritira da Gaza sdegnando gli accordi con Usa, Europa, Mosca anche se Washington approva a giro di telefono e l’Europa, settimane dopo, si adegua. La volontà palestinese non conta. Sharon sgombera Gaza a condizioni che annunciano un futuro da gigantesco lager. Nessun permesso per la ricostruzione dell’aeroporto bombardato. Nessun attracco marino, proibizione che cancella anche le barche da pesca: a 100 metri da riva non possono gettare le reti. Motovedette che sorvegliano, elicotteri che intervengono. Sorgenti d’acqua sotto controllo israeliano. Anche la luce arriva da centrali lontane. Da ieri, benzina tagliata e frontiera sempre chiusa per i pendolari di Mosè, quei palestinesi di Gaza che partivano all’alba e tornavano alla sera per guadagnarsi il pane - come chicanos messicani - nei campi e nelle fabbriche del Paese padrone.

Disoccupazione al 70 per cento. Chiusi dentro; fessura di un cancello aperto sulla sponda egiziana con l’obbligo del doppio filtro: filtro israeliano, filtro del Cairo e poi sabbia, solo sabbia, per 130 chilometri prima di arrivare alla prima città. Gaza è un’enorme periferia di Napoli dove si spara alla luce del sole. Vivono di rimpianti e di rabbia. E i piccoli campi dell’odio che sgretolano il futuro di ogni palestinese, si trasformano nei laboratori della disperazione dove il fanatismo pesca a piene mani. Cos’hanno da perdere? Gli aiuti della carità internazionale filtrano goccia a goccia. Anche i 600 milioni di dollari, diritti di dogana dovuti ai palestinesi, restano congelati nelle casse di Gerusalemme. Gli stipendi pubblici non si pagano da mesi e i negozi falliscono.

L’Europa blocca ogni intervento umanitario ingigantendo il potere dei clan bene equipaggiati e dell’estremismo che nutre le loro ambizioni. Può essere una distrazione, può essere il calcolo puntato sul fanatismo di Hamas che non riconosce il diritto di sopravvivenza di Israele. E quei razzi dell’idiozia, lanciati verso le colonie vicine, inutili, piccole ferite che complicano le mediazioni dei palestinesi moderati, increspando appena la cronaca dei testimoni che resistono a Gaza. Raccontano con le lacrime nelle parole. Non piagnistei o buonismo retorico. Ogni reporter del mondo propone l’angoscia della stessa domanda: quanto potranno andare avanti ? Come una miriade di topi stretti in gabbia finiscono per affidarsi al topo prepotente. I racconti dei racconti di padri, nonni, bisavoli distruggono ogni illusione. È sempre andata così, continuerà così.

Promesse rimandate da un anno all’altro e gli anni sono mezzo secolo. Lo hanno attraversato scappando davanti alle guerre, alle rappresaglie e all’orrore dei kamikaze che ricadeva su tutti: israeliani e palestinesi innocenti. Terrorismo che cancella ogni buona volontà. «Ogni volta che gli israeliani ascoltano l’espressione “il problema dei profughi palestinesi” sentono un pugno nello stomaco. Centinaia di migliaia vivono da sempre in campi disumani. Secondo Israele la colpa è dei leader palestinesi che hanno cominciato la guerra nel 1948 e degli stessi profughi che hanno abbandonato le case sconvolti dal panico.

Per gli arabi, la responsabilità è di Israele: ha espulso la gente con forza crudele, ripete Amos Oz, scrittore israeliano. «È venuto il momento di riconoscere apertamente la nostra partecipazione alla catastrofe che imprigiona i profughi palestinesi. Non siamo i soli responsabili e i soli colpevoli, ma le nostre mani non sono pulite. Lo Stato di Israele è sufficientemente maturo e forte per ammettere la propria parte di responsabilità e per accelerare le conclusioni». Oz indica gli obiettivi urgenti: concessione del diritto al lavoro e nazionalità palestinese a milioni di persone senza diritti.

La definizione dello status di Gerusalemme e il trattato che finalmente segni le frontiere dello Stato ebraico; dal 1948 ad oggi restano indefinite consentendo ai falchi la fantasia di chissà quale conquista. Oz fa capire che la responsabilità della catastrofe si allarga al Libano, minaccia il regime egiziano: Mubarak, buon amico dell’occidente, resta presidente con una trasparenza elettorale che avrebbe fatto arrossire Pinochet. Ma le responsabilità risalgono agli anni che precedono Hitler e la Shoa, prima ancora che il desiderio degli ebrei di ritrovarsi nella terra promessa si trasformasse nell’esodo dei perseguitati. Le cancellerie degli stessi Paesi che oggi non vedono e non sentono hanno allegramente disegnato l’angoscia dei nostri giorni.

Nel 1924 Francia ed Inghilterra si spartiscono a Losanna l’impero ottomano. Disegnano nuove frontiere secondo le convenienze, imponendo il controllo dei porti chiave per la navigazione verso «le Indie» e il dominio dei mercati asiatici in fondo al Mediterraneo. Cominciava la febbre del petrolio. Ai francesi toccano Siria e Libano protetto da Parigi e scorporato dall’influenza di Damasco. Era già deciso nel 1916 mentre la guerra mondiale bruciava l’Europa. Cinquanta milioni di morti non hanno impallidito gli affari. L’annuncio di un Libano francese ha un risvolto spirituale e coloniale: la pace religiosa andava protetta e per pace religiosa si intendeva la costituzione dettata da Parigi. Prevede che il presidente della nuova repubblica debba essere per sempre cristiano-maronita, non importa se i musulmani sono maggioranza. Poteri minori a sunniti, greco ortodossi, drusi. Gli sciiti, sconsiderati.

L’Inghilterra unifica Baghdad all’Egitto che già controlla militarmente ed allarga i confini del Kuwait del quale è protettrice dalla fine dell’Ottocento: sempre petrolio e navi per l’India. A British Petroleum e Gulf Oil Usa il monopolio dell’oro nero. Nel 1923 si attribuisce al Kuwait il destino di Paese cassaforte, specie di vetrina del benessere alla periferia di paesi ricchi ed inquieti, sull’esempio di Honk Kong. Lo sceicco Feisal, amico di Lawrence d’Arabia è la pedina usata da Londra per sgretolare l’impero ottomano: viene incoronato re dell’Iraq. Ha un fratello che si chiama Abdullah « scarso fascino, quasi analfabeta». Per accontentarlo si traccia un pentagono nel deserto. «Sovrano di sabbia», ironia della diplomazia occidentale. Abdullah è il nonno che lascia il trono a re Hussein di Giordania, bisnonno dell’Abdullah sovrano dei nostri giorni.

Con la distrazione di un colpo di penna i kurdi vengono dispersi in quattro nazioni. Turchia e Iraq se li stanno ancora dominando, non per dominare l’inconsistenza degli uomini: continua la sete del petrolio. A Losanna nessuno si è preoccupato su come avrebbero reagito i popoli tagliati per appagare gli appetiti dei signori del mondo. 80 anni dopo, l’analisi delle Nazioni Unite, pubblicata dal Guardian di Londra, definisce «devastanti» le conseguenze della politica di Bush, ultimo signore. «Nessuno deve perdere l’opportunità di perdere l’opportunità», sospirava Abba Eban, uno dei padri di Israele. Bush le ha bruciate tutte. Il Libano brucia, i palestinesi precipitano e Gaza è l’inferno che prima o poi qualcuno bombarderà. Iraq e Afghanistan sono i morti di ogni mattina. Paradossalmente i soli posti dove il voto è libero e trasparente restano Israele e Gaza. Israele per cultura e tradizione; Gaza perché lontana dalla corruzione di Fatah nell’illusione che protagonisti non compromessi possano cambiare con i muscoli la vita insopportabile.

Ma se la ragione all’improvviso tornasse, e scoppiasse la pace, c’è da essere contenti? Le inquietudini armate e le guerre di bassa e alta intensità, che da anni sconvolgono Medio Oriente, Filippine, Afghanistan, Africa e America Latina hanno allevato generazioni di guerriglie. Sanno solo combattere. Invecchiano con questo mestiere e i figli ne prendono il posto. A volte la patria è lo straccio di una bandiera clandestina: paga casa, minestra, apre modesti conti in banca. Le armi, unico strumento di lavoro: come possono riciclarsi nelle abitudini che non conoscono? Ma le cose non si mettono male: Al Qaeda e i Contractors Usa offrono la continuità dell’impiego. Se una guerriglia declina in Colombia, la società Balckwater americana è pronta ad accogliere gli sfiduciati. Con la guerra in Afghanistan ed Iraq è diventata il quinto braccio militare degli Stati Uniti. Braccio privato ma col vice presidente Dick Cheney e Rumsfeld, alle spalle. Coffer Black, leggendario protagonista delle azioni segrete Cia, ne è vice presidente. Ventimila agenti, aerei ed elicotteri da guerra.

Ufficialmente il governo Bush sborsa 100 milioni di dollari l’anno, ma il comitato d’inchiesta delle Nazioni Unite riunito a Ginevra dallo spagnolo Luis Gomez del Prado, si è accorto che le cifre sono più consistenti: attraverso scatole cinesi il Pentagono paga in nero. Coi democratici che controllano le camere a Washington l’aria è cambiata. I professionisti «ready to go», pronti per intervenire in qualsiasi momento, stanno lasciando: troppo rischio per pochi soldi. E Blackwaters recluta in Colombia fra i paramilitari della destra che imbarazzano Uribe. Blackwaters cerca in Guatemala e Salvador ex squadre della morte. Ufficiali di «seria professionalità» venezuelani ed argentini. Democrazia e pacificazione hanno annebbiato il loro potere e rimpicciolito gli stipendi. Se i nuovi stipendi Blackwaters sono poca cosa per i professionisti dell’altra America, per i professionisti latini è una paga di rispetto. La seduzione di Al Qaeda lega ai soldi il sacro furore integralista e al nazionalismo panarabo che riaccende i fuochi. Va forte in Pakistan, recluta in Europa e Nordafrica.

Le preoccupazioni della commissione di Ginevra per il momento restano preoccupazioni, ma se a Gaza all’improvviso tornasse la ragione, chi è cresciuto con le armi del nonno e del padre; chi sbarca il lunario con lo stipendio delle bande armate e si sposa e cresce i figli; se tutti si mettono proprio d’accordo non sa come cercare un’occupazione normale. «Attenzione», avverte il documento di Ginevra. «È urgente capire cosa succederà di questi uomini quando guerre e guerriglie si spegneranno». Se davvero si spengono ce li ritroviamo sotto casa con un solo mestiere. Ma da Gaza arriva una buona notizia: continuano ad ammazzarsi.


Pubblicato il: 18.06.07
Modificato il: 18.06.07 alle ore 11.55   
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 22, 2007, 04:28:51 pm »

"gli americani combinano solo guai"

AMATO AGLI USA: SUL MEDIO ORIENTE LASCIATE FARE ALLA UE

 
"Se gli americani si presentano in Medioriente possono combinare solo guai. Meglio se ci va l'Europa, magari d'intesa con gli Stati Uniti". E' il giudizio del ministro dell'Interno, Giuliano Amato, durante il suo intervento alla presentazione del libro "Aspettando l'Europa, la crisi del processo internazionale e l'unita' dell'occidente", di Adolfo Battaglia.

Amato specifica che Stati Uniti e Europa devono lavorare insieme in quanto due pilastri dello stesso mondo. Ma non risparmia critiche all'alleato di sempre, come, ad esempio quando parla della guerra in Iraq che definisce "una avventura sciagurata, foriera di lutti".

Insomma, Amato rileva che gli Stati Uniti, vera e propria superpower hanno la tendenza a scegliere, di fronte ai problemi, la opzione militare ed e' quello che Amato teme possa riguardare anche l'Iran. "Noi europei - dice - non vediamo l'opzione militare per primo e questo ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa e a mettere in campo soluzioni differenti". (AGI) - Roma, 21 giu. -
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 25, 2007, 06:54:40 pm »

OPINIONI

ALTROVE

La soluzione Netanyahu
di Lucio Caracciolo
 

I nostri diplomatici e politici continueranno forse a ripeterla all'infinito, ma la formula 'due Stati per due popoli' come soluzione del conflitto israelo-palestinese appare oggi sepolta. Già da tempo in una parte rilevante dell'élite israeliana e di quella americana si è preso più o meno definitivamente atto che questa ipotesi non funziona (meglio: conviene che non funzioni). I sostenitori di questa tesi ricorrono a due argomenti principali.

Primo: i palestinesi non sono capaci di governarsi e quindi debbono essere controllati da altri. La guerra civile a Gaza ne è l'ultima dimostrazione. Abbiamo concesso loro una striscia di terra nella quale fare quel che vogliono e loro hanno dimostrato quel che sono: non una nazione, ma la somma algebrica di gruppi violenti fra loro incompatibili, tenuti insieme solo dall'odio per Israele, per tacere delle cosche mafiose e dei terroristi.

Secondo: abbiamo concesso loro di votare, e hanno eletto una maggioranza che punta esplicitamente alla distruzione dello Stato ebraico ed è parte integrante della nebulosa islamista. Perché mai adesso dovremmo concedere loro uno Stato vero in Cisgiordania, rinunciando ai nostri principali insediamenti, visto che li userebbero come piattaforma per ributtarci a mare?

Stando a questa visione, insomma, Sharon avrebbe ottenuto il grande successo storico di rinviare indefinitamente il giorno in cui sarà istituito un vero e proprio Stato palestinese - se mai arriverà - cedendo al nemico un pezzo di terra che non interessa a Israele e che comunque può essere cinto d'assedio a tempo indeterminato.

È su questa base che nell'ambito della destra israeliana e all'ombra della debolezza del governo Olmert sta rinascendo la vecchia idea di Bibi Netanyahu: diamo uno Stato ai palestinesi, ma in Giordania. O meglio, agganciamo alla Giordania i resti della Cisgiordania che non sarà annessa da Israele e manteniamo comunque un controllo strategico su tutto il territorio palestinese anche grazie ai nostri insediamenti. Considerando che almeno tre quarti della popolazione giordana sono palestinesi e che costoro hanno un peso decisivo nell'economia locale, l'ipotesi non parrebbe poi implausibile. Questa sorta di confederazione palestinese nell'orbita israeliana implicherebbe però la fine della monarchia hascemita. Su questo, gli israeliani potrebbero dare una mano ai palestinesi. Ad esempio apparecchiando per re Abdallah un dorato esilio americano o europeo.

Questa visione ha una sua linearità. Probabilmente eccessiva, rispetto alla realtà mediorientale fatta di trappole, meandri, giochi di specchi. Ma sottovalutarla o peggio ignorarla per amore del 'geopoliticamente corretto', o perché non la si condivide, significa chiudere gli occhi di fronte a una tendenza sempre più corposa. Non è immaginando una realtà virtuale, un Medio Oriente da Second Life, che si avanza verso la pace. È però quello che stiamo facendo soprattutto in Europa, a confermare la nostra scarsa o nulla influenza nella partita.
 
da espressonline.it
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 11, 2007, 10:02:04 pm »

Gitta Keufman: «Oltraggio a noi sopravvissuti, via da Israele quei giovani nazi»

Umberto De Giovannangeli


«Quei ragazzi che fanno il saluto nazista non sono solo un oltraggio alla memoria dei milioni di ebrei sterminati nei lager. Quei ragazzi rappresentano anche un campanello d’allarme per il futuro di Israele. Minimizzarne la portata sarebbe davvero un tragico e imperdonabile errore».

A parlare è Gitta Keufman, presidente dell’associazione dei sopravvissuti dei campi nazisti e dei ghetti. «Siamo scioccati ma non sorpresi dall’arresto dei neonazisti - dice a l’Unità la signora Keufman, l’unica della sua famiglia sopravvissuta al campo di sterminio di Dachau -. Più volte avevamo denunciato il proliferare sui siti internet di blog neonazisti. Una cosa deve essere chiara: chiunque celebri il compleanno di Hitler e ne esalta le gesta criminali non deve far parte di Israele».

Israele è sotto shock dopo la scoperta di una cellula neonazista a Petah Tikva. Da presidente dell’associazione dei sopravvissuti ai lager nazisti come valuta questa reazione?

«Per noi sopravvissuti ai campi di sterminio si tratta di un doppio dolore: perché fa rivivere in noi la tragedia della Shoah, perché riporta alla memoria volti, storie di persone, di amici, parenti, che in quei lager nazisti sono morti. A questo dolore se ne aggiunge un altro, che ci riguarda come cittadini di uno Stato che è nato dalla tragedia dell’Olocausto: chiunque celebri il compleanno di Hitler, chiunque esalti le gesta criminali delle Ss non deve far parte di Israele. Queste teste rasate devono essere espulse dal nostro Paese. Subito, senza indugi. E c’è poi un’altra cosa che c’inquieta…».

Cosa, signora Keifman?

«Il diffondersi di siti Internet che propagandano l’ideologia nazista e creano una rete di collegamento tra i neonazisti di tutto il mondo. Un fatto gravissimo, perché prelude alla costituzione di vere e proprie cellule che quelle idee di morte e di violenza finiscono poi per cercare di metterle in pratica anche qui in Israele. In passato avevamo denunciato pubblicamente questo pericolo e la risposta che ci veniva data dalle autorità era che si trattava di episodi marginali, locali… Ma minimizzare non è mai una buona politica, ora sembra che se ne siano resi conto».

Dopo la scoperta di questa cellula neonazista si è riaperta la discussione sulla Legge del ritorno.

«Che sia necessario apportare delle modifiche mi pare non solo opportuno ma non più rinviabile. I controlli devono essere più severi, le maglie ristrette, non basta aver avuto un lontano parente ebreo per poter usufruire della cittadinanza israeliana grazie alla Legge del ritorno. Il disinteresse a volte manifestato dalle autorità verso le condizioni degli immigrati russi non può in alcun modo essere da giustificazione per i neonazisti arrestati. Occorre partire da una revisione della Legge del ritorno sapendo però che l’azione non può essere solo di carattere repressivo…».

Cos’altro occorre?

«Una battaglia culturale che contrasti le ideologie di morte di cui questi ragazzi sono imbevuti. Non si tratta solo di incrementare le visite delle scolaresche allo Yad Vashem (il Museo dell’Olocausto a Gerusalemme, ndr.), né solo di moltiplicare gli incontri con i ragazzi di noi sopravvissuti ai lager nazisti. Tutto questo è necessario ma va accompagnato dall’affermazione di valori positivi, come il rispetto per gli altri da sé, per ogni espressione di diversità. Ciò che va contrastata con più vigore è la "cultura" della forza che tende a sostituire quella della ragione. Non è un caso che i neonazisti arrestati a Petah Tikva avessero come bersagli non solo gli ebrei ma anche i gay o chiunque costoro giudicassero appartenere a "razze" inferiori. La diversità è ricchezza. Il rispetto è un valore. Di questo dovremmo parlare con i nostri ragazzi».

Signora Keifman, cosa ha provato personalmente guardando le immagini di quei ragazzi con il braccio teso nel saluto nazista? Paura?

«Per chi ha vissuto l’esperienza dei campi nazisti la paura è divenuta compagna di vita. Non parlerei di paura, ma di angoscia sì, per un passato che non passa. Neanche qui, in Israele. Quei mostri sono ancora tra noi».

Pubblicato il: 11.09.07
Modificato il: 11.09.07 alle ore 8.25   
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 08, 2008, 05:52:04 pm »

Il figlio dell'amore e della guerra

di David Grossman


Una madre israeliana che accompagna il suo ragazzo in partenza per il fronte. Ma ha il presentimento che non tornerà mai più. In anteprima il capitolo chiave del nuovo romanzo di David Grossman. In uscita in Italia  La carovana si snodava in una colonna spezzettata di automobili, jeep, ambulanze militari, carri armati e bulldozer giganteschi su autoarticolati. L'autista del taxi su cui Orah viaggiava da parecchi minuti non guardava né lei né Ofer. Era silenzioso, cupo. Teneva la mano sulla leva del cambio della Mercedes e il collo taurino immobile. Salendo in auto Ofer aveva sbuffato di rabbia dicendo con lo sguardo: non è stata un'idea brillante, mamma, chiamare proprio lui per questo viaggio. Solo allora Orah aveva realizzato ciò che aveva fatto. Alle sette del mattino aveva telefonato a Sami chiedendogli di venire, di prepararsi a un lungo viaggio al monte Gilboa. Si rammentò di non essere stata più precisa in proposito, chissà perché, non gli aveva detto lo scopo del viaggio. Sami le aveva chiesto a che ora doveva presentarsi e lei, incerta, aveva risposto alle tre. Forse è meglio partire un po' prima, Orah, aveva proposto lui, le strade saranno trafficate. Quello era stato l'unico suo commento alla follia di quella giornata, ma anche allora lei non aveva fatto due più due, aveva solo risposto che non poteva assolutamente muoversi prima delle tre. Voleva passare quelle ore con Ofer, che era d'accordo, nonostante lo sforzo evidente che gli era costato accettare. Sette, otto ore erano tutto ciò che rimaneva della settimana di vacanza progettata insieme, e in quel momento si rese conto di non aver nemmeno detto a Sami che Ofer avrebbe viaggiato con loro. Se gliel'avesse accennato forse lui le avrebbe chiesto di risparmiargli quel viaggio, in via del tutto eccezionale, oppure avrebbe mandato uno degli autisti ebrei che lavoravano alle sue dipendenze - 'la mia minoranza ebraica', li chiamava. Ma quella mattina, quando gli aveva telefonato, era completamente frastornata, non connetteva. Di momento in momento sentiva aumentare un senso di oppressione al petto. Per un viaggio come quello, in una giornata come quella, avrebbe fatto meglio a non chiamare un tassista arabo.

Anche se è un arabo nostro, di qui, la incalzò Ilan nella mente quando lei cercò di giustificarsi con se stessa. Anche se si trattava di Sami, che era quasi uno di famiglia e prestava servizio per tutti loro - i dipendenti dello studio di Ilan, l'ex marito di Orah, e l'intera famiglia - ormai da più di vent'anni. Erano loro la sua principale fonte di reddito, la sua entrata fissa mensile, e lui, in cambio, si manteneva a disposizione in qualunque momento, ventiquattr'ore al giorno. Lei e Ilan erano stati a casa di Sami, ad Abu Gosh, in occasione di tutte le sue ricorrenze famigliari, conoscevano In'am, sua moglie, e lo avevano aiutato non poco, in termini di contatti e di denaro, quando i suoi due figli maggiori avevano voluto emigrare in Argentina. Orah aveva accumulato insieme a Sami centinaia di ore di viaggio e non ricordava un silenzio simile da parte sua. Ogni viaggio con lui era un piccolo spettacolo di cabaret. Era arguto, scaltro, una volpe della politica, e sparava doppi sensi e battute taglienti in ogni direzione. Lei non poteva nemmeno pensare di chiamare un altro tassista, e per i successivi dodici mesi non se ne parlava neppure di guidare da sola. Nell'ultimo anno aveva collezionato tre incidenti e sei infrazioni al codice della strada. Un bottino eccessivo persino per i suoi standard. E l'odioso giudice che le aveva comminato la sospensione della patente aveva sibilato che di fatto le faceva un grosso favore, che lei gli doveva la vita. Sarebbe stato così semplice se avesse potuto accompagnare lei Ofer quel giorno. Inoltre avrebbe avuto un'altra ora e mezza a disposizione, sola con lui. Magari sarebbe persino riuscita a invogliarlo a fermarsi lungo la strada. C'erano dei buoni ristoranti a Wadi Ara. Un'ora più, una meno, che fretta c'era? Che cosa lo aspettava laggiù?

Nel prossimo futuro non avrebbe avuto occasione di viaggiare con lui, tantomeno da sola. Doveva abituarsi a quella limitazione della sua libertà, farsene una ragione, smettere di piangere ogni giorno sull'indipendenza che le era stata negata. Doveva essere contenta di avere almeno Sami, che continuava a farle da autista anche dopo la separazione da Ilan. Era stato Ilan a insistere che fosse così, lei in quel periodo non riusciva a pensare a quel genere di dettagli. Sami rappresentava una clausola precisa del loro accordo di separazione. Lui stesso diceva che Ilan e Orah se lo erano divisi come i mobili, i tappeti o le posate. Noi arabi, rideva mettendo in mostra i denti giganteschi, siamo abituati a essere divisi fin dai tempi del piano di spartizione della Palestina. Orah provò una stretta al cuore al ricordo di quella battuta, come se non bastasse quello che gli aveva combinato quel giorno. In qualche modo, nel trambusto generale, aveva cancellato completamente Sami, il fatto che fosse arabo, cioè.

Fin dall'alba, quando aveva visto Ofer con il telefono in mano e uno sguardo colpevole negli occhi, era come se qualcuno si fosse presentato davanti a lei e l'avesse soppiantata nella gestione delle sue faccende. Era stata messa in disparte, degradata al rango di osservatore, di testimone. I suoi pensieri non erano che lampi di sensazioni fugaci. Si era mossa tra le stanze di casa in modo brusco, a scatti. Si era poi recata con Ofer al centro commerciale per comprargli dei vestiti, dolciumi e alcuni cd - di recente era uscito un compact con i migliori brani di Johnny Cash - e per tutta quella mattina aveva camminato al suo fianco confusa, ridendo di tutto come una ragazzina. Lo aveva divorato con gli occhi, aveva fatto scorta di lui senza vergogna, in previsione degli anni di fame infinita che sarebbero seguiti. Era certa che sarebbero seguiti. Dal momento in cui Ofer le aveva detto che sarebbe partito non aveva dubbi. Per tre volte, quella mattina, si era scusata con lui ed era corsa in bagno per un attacco di diarrea. Ofer aveva riso. Che ti è successo? Cos'hai mangiato? Lei lo aveva guardato, aveva accennato un sorriso e si era impressa dentro la sua risata, il modo in cui inclinava leggermente la testa all'indietro.

La giovane commessa del negozio di abbigliamento lo aveva osservato mentre si provava una camicia ed era arrossita. Orah aveva pensato, orgogliosa: A un cerbiatto somiglia il mio amore (una citazione del Cantico dei cantici, Ofer vuol dire in ebraico cerbiatto, ndr). La ragazza del negozio di dischi era stata sua compagna di scuola, di un anno indietro rispetto a lui, e quando aveva saputo dove si sarebbe recato quel giorno, di lì a tre ore, lo aveva abbracciato. Si era stretta a lui con tutto il corpo, lungo e formoso, e aveva persino preteso che la chiamasse quando fosse tornato. Orah si era accorta che Ofer era cieco alle emozioni che suscitava e pensò che dentro di sé era ancora legato a Talia. Era passato un anno da quando lo aveva lasciato ma lui vedeva ancora soltanto lei. Aveva riflettuto con rammarico che era un tipo fedele, in questo le assomigliava, e anche molto più monogamo di lei. Chissà quanti anni sarebbero passati prima che si riprendesse dalla perdita di Talia, sempre che li avesse a disposizione, quegli anni. Aveva cancellato con forza quel pensiero, lo aveva raschiato via dalla mente con entrambe le mani. Ma un'immagine si era insinuata in lei: Talia che veniva a farle visita, a consolarla e forse a ricevere un'assoluzione postuma. Il suo viso si era contorto di rabbia: come hai potuto fargli male in quel modo? aveva pensato. O forse lo aveva mormorato, perché Ofer si era chinato verso di lei e le aveva chiesto con dolcezza: cos'hai detto, mamma? E Orah, per un istante, non aveva visto il suo volto davanti a sé. Ofer era senza volto e lei fissava il vuoto. Aveva provato un senso di puro terrore. Niente, aveva ridacchiato, pensavo a Talia. Ti è capitato di parlarle ultimamente? Ofer aveva fatto un gesto con la mano: lascia stare, dai, è finita.

E non faceva che controllare l'ora. Sul suo orologio, su quello di Ofer, su quelli del centro commerciale, sugli schermi dei televisori in vendita dietro le vetrine. Anche il tempo si comportava in modo strano. A tratti volava, in altri, invece, si trascinava o si fermava completamente. A Orah sembrava che, con un piccolo sforzo, avrebbe potuto riportarlo indietro. Non di molto, un'ora, mezz'ora. A lei sarebbe andato bene. Talvolta si riesce a sfinire i grandi - il tempo, il destino, Dio - mediante piccole contrattazioni, piccolissime. Dopo gli acquisti erano andati in centro, in un ristorante nella zona del mercato, e avevano ordinato un'infinità di portate. Nessuno dei due però aveva appetito e Ofer aveva tentato di far ridere sua madre raccontandole aneddoti sui posti di blocco vicino all'insediamento di Tapuah dove aveva prestato servizio per sette mesi. Solo allora lei aveva scoperto che aveva controllato le migliaia di palestinesi in transito con un semplice metal detector portatile, simile a quello in dotazione alle guardie agli ingressi dei centri commerciali. Era tutto quello che avevi? aveva sussurrato. E Ofer aveva riso. Cosa pensavi che avessi? Non pensavo, aveva risposto lei. Non hai mai pensato a come si svolgono le cose ai posti di blocco? si era stupito lui con una sfumatura di delusione infantile. Tu non mi hai mai raccontato niente, si era giustificata Orah. Lui aveva girato la testa come a dire: lo sai benissimo perché. Ma prima che lei mormorasse qualcosa Ofer aveva teso la mano ampia, abbronzata, ruvida, l'aveva posata sulla sua e quel contatto semplice, inconsueto, l'aveva quasi sconvolta. Era rimasta in silenzio e, come se avesse voluto colmare tutte le lacune proprio all'ultimo momento, lui le aveva raccontato brevemente del bunker all'ingresso nord di Jenin in cui era vissuto per quattro mesi, di come si recava ogni mattina alle cinque ad aprire il cancello del recinto intorno al bunker e controllava che i palestinesi non vi avessero piazzato un ordigno esplosivo. E ci andavi da solo? aveva domandato Orah. Di solito qualcuno mi copriva le spalle, aveva risposto lui, se si svegliava, cioè. Lei avrebbe voluto fargli altre domande ma aveva la gola arida e Ofer aveva scrollato le spalle e aveva detto con l'accento di un vecchio palestinese: Kullu min Allah (è tutto nelle mani di Dio, ndr). Non lo sapevo, aveva sussurrato Orah. Lui aveva riso senza amarezza, quasi rassegnato al fatto che lei non sapesse, e le aveva parlato della casbah di Nablus, la più interessante fra tutte le casbeh, aveva decretato, la più antica. Ci sono edifici dell'epoca romana e altri costruiti come ponti sopra i vicoli. E sotto tutta la città, da est a ovest, si snoda un acquedotto con cunicoli e canali che vanno in tutte le direzioni, e i ricercati vanno a nascondersi lì perché sanno che noi non osiamo scendere. Ofer parlava con entusiasmo, come se stesse illustrando un nuovo gioco per il computer, e Orah lottava contro l'impulso di prendergli la testa fra le mani, di guardarlo dritto negli occhi per vedere la sua anima che da anni le sfuggiva - con sorrisi, ammiccamenti, con affetto, quasi si trattasse di un gioco a rimpiattino concordato fra loro. Ma non aveva osato farlo e non era nemmeno riuscita a dire con semplicità, senza che nella sua voce echeggiasse una nota lamentosa o colpevole: Ofer, perché non siamo più amici come prima? Che significa se sono tua madre?

E alle tre sarebbe venuto Sami per portarla con Ofer al punto di ritrovo. Quell'ora segnava il limite della capacità di pensiero di Orah, non le rimaneva la forza di immaginare cosa sarebbe successo oltre quel momento. Ed ecco un'ennesima prova di ciò che lei sosteneva sempre: che non aveva un briciolo di immaginazione. Ma anche quello non era più vero. Le cose erano cambiate, e negli ultimi tempi era letteralmente sommersa da una piena di immaginazione, era intossicata dall'immaginazione. Sami, poi, le avrebbe reso il viaggio meno pesante, soprattutto il ritorno che, senza dubbio, sarebbe stato molto più duro dell'andata. Loro due avevano una routine quasi coniugale, domestica, di viaggi in coppia.

(07 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Novembre 22, 2008, 10:47:23 pm da Admin » Registrato
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