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Autore Discussione: Davide RICCA  (Letto 5758 volte)
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« inserito:: Marzo 07, 2015, 04:33:31 pm »

"Le idee camminano sulle gambe degli uomini" ovvero della rottamazione delle correnti

Pubblicato: 26/02/2015 14:35 CET Aggiornato: 26/02/2015 14:35 CET

Prendendo a prestito il vecchio adagio di Pietro Nenni "le idee camminano con le gambe degli uomini", potremmo dire che, mai come oggi, questo vale con Matteo Renzi nella politica italiana. Il Partito democratico si è sempre organizzato in correnti, ops!, in aree culturali, che hanno segnato le diverse fasi congressuali e sono servite a qualcuno per piazzare o per piazzarsi in questo o in quel posto, dal parlamento, al governo, al "sottogoverno". Tutto legittimo per carità, negli ormai storici partiti di provenienza funzionava così, perché non dovrebbe funzionare così nel Pd?

La proliferazione delle correnti, ops!, delle aree culturali, è sotto gli occhi di tutti. Non le cito per non fare torto a qualcuno, che poi se me ne dimentico qualcuna succede un quarantotto. Tutto questo sui territori ha messo notevolmente in difficoltà chi, arrivando dall'esperienza dei comitati Renzi, si è trovato ad accettare la sfida del partito. Attenzione, non parlo di tutti quelli che nel 2012 sostennero Renzi contro Bersani, perché già allora c'era chi aveva più esperienza di partito e chi meno. Di certo mi riferisco a chi credeva sul serio alla storia del "rottamiamo le correnti" e dell'essere "sestessiani". Non sono mai stato, infatti, un convinto sostenitore della semplificazione "quelli della prima ora sono tutti buoni, quelli della seconda son tutti cattivi, per non parlare poi di quelli della terza". Mi hanno sempre di più interessato, da un lato, le modalità con cui immaginare l'innovazione di questo paese e, dall'altro, le capacità di chi si candidava a praticarle.

Il tema dell'"organizziamoci altrimenti non contiamo nulla" o addirittura del "possiamo affidarci esclusivamente a Renzi?" è sempre rimasto presente in questo periodo anche se sempre sottotraccia. L'esperienza di molti in Piemonte, da questo punto di vista, è molto efficace come esempio. Non è un caso che nel congresso del 2013 ci stava decisamente stretta la divisione mediatica (che però negli equilibri di partito si trasformava in quote) tra le due ore, tra chi c'era nel 2012 e chi arrivava da AreaDem, tra gli ex-margherita renziani contro gli ex-ds renziani. Non era facile abituarsi ad un mondo dove ogni giorno ti viene chiesto se sei di questo o di quello. In molti a dire non siamo "di nessuno" e la risposta ecumenica che ti arrivava dai più scafati, dai più abituati al e ai partiti era: "Quindi non contate nulla!".

Siamo andati avanti lo stesso. Abbiamo accettato la sfida del partito provando ad accettarne meno le logiche. Così mi sembra sia successo in molte parti d'Italia. Ecco perché continua a non convincermi la logica della corrente o dell'anti-corrente che si fa corrente. Possibile che sulle diverse questioni, di volta in volta, non si possa scegliere o la persona che si ritiene più adatta o la posizione che si ritiene più giusta? Senza nulla togliere al dato organizzativo (anche se poi per quello che ho visto chi è strutturato in corrente a volte non è poi così organizzato o capace di organizzare), forse sarebbe meglio fare così.

In molti abbiamo sostenuto nel 2012 un leader perché pensavamo fosse il migliore di noi e perché dicevamo che la leadership era un valore nei partiti moderni e che le persone contavano eccome, forse sarebbe meglio continuare a sostenerlo e praticarlo. Chi lavora lo sa che così, anche in politica mi sa che vale la stessa cosa. Certo, si può essere più o meno liberaldemocratici o socialdemocratici, ma, senza le gambe, la fatica e la competenza delle donne e degli uomini che le sostengono, anche categorie così nobili valgono poco.

Da - http://www.huffingtonpost.it/davide-ricca/idee-camminano-gambe-uomini-rottamazione-correnti-_b_6752644.html?utm_source=Alert-blogger&utm_medium=email&utm_campaign=Email%2BNotifications
« Ultima modifica: Marzo 09, 2015, 05:15:35 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 07, 2015, 04:37:03 pm »

Renzi oltre il renzismo. Rileggendo l'intervista sull'Espresso
Pubblicato: 06/03/2015 13:37 CET Aggiornato: 3 ore fa

Cosa decidono gli iscritti e cosa decidono gli elettori? Il tema continua a porsi e Renzi lo ha riproposto prepotentemente nell'intervista di Marco Damilano sul l'Espresso. Ritornare ad eleggere anche i segretari regionali in una competizione riservata agli iscritti per recuperarne il ruolo: il punto di discussione sul quale il presidente del Consiglio si dichiara disposto a ragionare. Questo ridimensionerebbe le primarie per eleggere i candidati alle cariche monocratiche, come alcuni oggi trionfalmente dichiarano? Non mi sembra affatto. Anzi! Renzi rivendica a tal punto l'importanza dello "strumento" primarie da ribadire che queste si faranno per scegliere il futuro candidato del Pd alla premiership: "Io", dice, "correrò contro chi vuole presentarsi". E invita tutti al rispetto del loro esito, anche nel caso in cui questo non piaccia.

Renzi apre contemporaneamente all'utilizzo più strutturato dell'albo degli elettori. Un Pd che si regola al suo interno attraverso gli strumenti classici della partecipazione e dell'iscrizione e che sceglie i suoi candidati (come già da Statuto) per gli incarichi elettivi monocratici attraverso primarie aperte che prevedano l'albo degli elettori (speriamo aperto fino al giorno stesso delle primarie) è molto più di una mediazione; significherebbe stabilizzare anche il dibattito interno sulla forma partito e sul ruolo che quest'ultimo dovrebbe avere.

Tutto questo accompagnato da una legge elettorale maggioritaria a doppio turno darebbe definitivamente vita al partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria e porterebbe con se un rapporto dialogico molto forte tra il segretario territoriale del partito, sia esso regionale o provinciale/comunale e il rispettivo presidente di regione o sindaco: il primo scelto solo dagli iscritti e il secondo candidato dagli elettori in primarie aperte. Non dico si tornerebbe alla stagione del "partito dei sindaci" - che peraltro non fu poi così male almeno secondo la lettura di chi si è formato nei comitati per l'Ulivo e nelle esperienze civiche - ma sicuramente il confronto tra personalità con una forte investitura popolare e dirigenti di partito scelti internamente sarebbe alquanto stimolante.

Sì! Ci potrebbe stare, anche perché, come è stato dimostrato, cosa che era facilmente prevedibile, dallo sfalsamento temporale tra le primarie per eleggere i segretari regionali e quelle nazionali (per non parlare dei congressi provinciali riservati solo agli iscritti) è emerso un partito a doppia velocità, quasi a doppia produttività. Un partito veloce e a traino governativo quello nazionale e un partito lento, troppo lento e in alcuni casi elefantiaco, sul piano locale. Come mettere un treno ad Alta Velocità a confronto con un locale. È giunta l'ora di ammodernare anche il trasporto pubblico locale.

Già, perché l'intervista a Renzi è molto più ampia dell'eco che in queste ore ne danno i giornali e dei rimandi che rimbalzano sui social. Il premier si ripropone come Sindaco d'Italia; ribadisce, cosa di cui molti si dimenticano, che il renzismo non esiste; sottolinea la necessità che i territori si attrezzino; richiama tutto il Pd alle sue responsabilità ed esprime la volontà di andare fino in fondo sia sul piano delle riforme istituzionali che su quello dell'azione di governo, come unico modo per raccontare una storia dell'Italia "vera e credibile". Ottimo. Una risposta che serviva a chi usa il suo nome per farsi forte sui territori richiamando all'ordine in nome di un'appartenenza o di una corrente, salvo poi tradire il mandato di chi continua a dire "grazie al passato e sì al futuro".

Da - http://www.huffingtonpost.it/davide-ricca/renzi-oltre-renzismo-rileggendo-intervista-espresso_b_6814960.html?utm_source=Alert-blogger&utm_medium=email&utm_campaign=Email%2BNotifications
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 09, 2015, 05:14:47 pm »

Uber, la sinistra ed il futuro che ci immaginiamo
Pubblicato: 16/02/2015 10:30 CET Aggiornato: 1 ora fa

Davide Ricca

Il caso Uber, che in questi giorni ripropone a Torino lo scontro tra i taxisti e chi utilizza l'app, è la punta dell'iceberg di un problema di cui abbiamo narrato più volte e che può semplicemente essere riassunto nello schema "garantiti contro non garantiti". Chi ha rendite di posizione consolidate gioca in difesa dei diritti legalmente acquisiti e cerca di mantenere il proprio spazio d'azione chiuso all'esterno, in modo da non rischiare di doversi confrontare sul merito, sulla competenza e sull'efficienza del servizio fornito.

Meglio un competitore in meno. La stessa cosa di chi, nei partiti, nei posti di lavoro, nel pubblico impiego e via discorrendo, cerca di uccidere (metaforicamente) da piccolo "quello bravo", così da non permettergli di mettere il muso fuori dal recinto in cui i potenti del momento lo hanno confinato.

Se io potessi comprarmi una licenza da taxista e, superando un esame, dimostrare di poter esercitare la professione non è detto che non farei il taxista. Magari accenderei un mutuo e investirei su quella professione. Piccolo problema: non posso farlo. Le licenze sono contingentate e quindi? Mi devo mettere in coda ad aspettare il mio turno. In quanti sono ancora disposti a farlo? E, soprattutto, in virtù di quale principio?

Allarghiamo il discorso, perché non voglio dedicarmi espressamente ad Uber, vi consiglio a tal proposito di leggere gli articoli di Riccardo De Caria sulla questione che sono chiarissimi ed esaustivi. Parliamo invece delle Province.

Tutti a criticare la riforma Delrio che le lascerebbe in ginocchio, che non prevede più la rappresentanza diretta dei territori, che le trasforma in un ente di secondo livello, che le porterà inevitabilmente al commissariamento. Già, però quando in Piemonte qualcuno ha provato ad applicare la riforma che prevedeva la loro razionalizzazione e il loro dimezzamento che cosa è successo? Nulla! I particolarismi e la difesa dell'esistente hanno prevalso. Non si sono riusciti a realizzare neanche i cosiddetti quadranti, la divisione, cioè, in 4 grandi province: Torino, Cuneo, Novara-Verbania-Vercelli-Biella e Asti-Alessandria.

Lo stesso è avvenuto nel resto dell'Italia. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le province scompariranno. I mutamenti sociali, le necessità delle persone (qualcuno direbbe degli individui) prevalgono e hanno il sopravvento. La storia non aspetta, la storia si prende il conto e ce lo fa pagare. E come se qualcuno pensasse di risolvere il problema dell'immigrazione tirando su dei muri alle frontiere. Voi vi fermereste se in gioco fosse la vostra vita e quella dei vostri cari? Io no.

Il tema è sempre lo stesso. Diceva Pietro Ichino (a proposito ben tornato) nell'intervento alla Leopolda del 2012 che la sinistra ha sempre usato il termine difendere come costitutivo della propria identità, oggi quella sinistra deve decidere se è più interessata a rappresentare i privilegiati e i protetti o gli ultimi e i meno garantiti. Stiamo dalla parte di chi rischia o di coloro che non rischiano nulla?

Semplificatorio? Forse. Ma se qualcuno pensasse alla questione Uber come ad una questione da giocare in sola punta di diritto si sbaglierebbe di grosso. Essa riguarda completamente e pienamente il futuro della società e del mondo che ci immaginiamo e che vogliamo costruire.

Da - http://www.huffingtonpost.it/davide-ricca/uber-sinistra-futuro-immaginiamo_b_6645812.html?utm_source=Alert-blogger&utm_medium=email&utm_campaign=Email%2BNotifications
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:52:19 pm »

Jobs Act, Buona Scuola e rilancio dell'apprendistato

Pubblicato: 18/05/2015 10:59 CEST Aggiornato: 5 ore fa

Davide RICCA

Potrei anche essere viziato dal mio lavoro, ma sono abbastanza certo che il provvedimento più importante che entrerà a far parte della storia tra quelli che fino ad oggi ha assunto il governo Renzi consiste nell'insieme di modifiche apportate al sistema del mercato del lavoro. Non parlo evidentemente solo della Legge delega e dei relativi decreti attuativi (cinque dei quali aspettano ancora di vedere la luce) che compongono il cosiddetto Jobs Act, bensì dell'intero pacchetto di misure avviate con la legge di Stabilità che dovrebbero concludersi con il riassetto costituzionale delle materie concorrenti e non concorrenti tra Stato e Regioni, passando per il provvedimento sulla "Buona Scuola". L'azione di governo vuole provare ad incidere radicalmente sulla stessa immagine del rapporto tra persona e lavoro con cui sono cresciute le ultime generazioni di italiani.

All'interno di un quadro così vasto, sul versante formativo, il cosiddetto modello duale, cui si richiama la Buona Scuola, è uno dei nodi cardine sul quale deve misurarsi un Paese che vuole essere competitivo ed ambizioso, ma contemporaneamente capace di non lasciare indietro nessuno. Ritengo che sia dal rilancio dell'apprendistato che giocoforza si dovrà passare. E, attenzione, non solo dall'apprendistato di primo o di terzo livello, cioè rispettivamente da quello per il raggiungimento di una qualifica professionale o di un titolo di alta formazione, ma anche e soprattutto dal rilancio e dalla valorizzazione del contratto di apprendistato di gran lunga più utilizzato in questo Paese: l'apprendistato professionalizzante e di mestiere.

L'apprendistato "principe", quello maggiormente utilizzato dalle imprese artigiane e dall'intero sistema delle piccole e medie imprese. Per questo accolgo con favore l'osservazione fatta dalla Commissione Lavoro del Senato sullo schema di decreto inerente il riordino delle forme contrattuali di lavoro presentato dal Governo. La Commissione propone che anche per le assunzioni in apprendistato si applichino gli sgravi triennali contributivi previsti dalla Legge di Stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato. Sarebbe, infatti, utopico immaginare che il sistema duale di cui si parla nella "Buona Scuola" si possa oggi imporre sic et simpliciter in una scuola dove molti insegnanti vedono con disappunto il rapporto con le imprese. Alcune frasi sentite in questi giorni fanno riflettere perché vengono pronunciate con un tono di sospetto, quasi di giudizio etico: "se un'azienda mette dei soldi in una scuola vuole qualcosa in cambio".

Ancora in molti in Italia, e non solo nel sindacato o tra i docenti, vivono nella convinzione "classica" della necessità di una netta separazione tra l'otium, per gli antichi latini il tempo che il patrizio dedicava agli studi e alla speculazione intellettuale, e il negotium, ovvero quello dedicato alla professione ed agli affari, radicalizzando il significato etimologico di "scuola" che, come sappiamo, deriva dal greco scholè che identificava il tempo non occupato dal lavoro o da altre attività di tipo utilitaristico, da riservare alla cultura dell'animo e alle cosiddette occupazioni disinteressate. Queste persone pensano che la scuola debba essere preservata dall'incontro con l'impresa che fa profitto e che le vada riservato esclusivamente il compito di fare cultura e non quello di preparare il giovane al mondo del lavoro, ingenerando, tra l'altro, un conflitto inesistente nella realtà.

Puntare tutto sull'apprendistato di primo livello, quello che dovrebbe prevedere che un ragazzo, anche a 14 anni possa svolgere il suo percorso formativo in alternanza tra l'ambiente scolastico e quello lavorativo, in un sistema scolastico che ha ancora questi preconcetti, è pericoloso. Meglio sarebbe partire dalla capacità formativa dell'impresa che si manifesta nel ruolo (e nella responsabilità) del tutor aziendale che aiuta l'apprendista a crescere, che gli insegna a lavorare, che si fa "rubare il mestiere con gli occhi" e che un po' "insegna a vivere". Anche nell'utilizzo dell'apprendistato professionalizzante, inutile negarlo, ci sono stati in passato degli abusi, se devo, però, pensare a quale dei due mondi sia quello maggiormente in grado di contagiare l'altro non ho dubbi. È il mondo dell'impresa, abituato a competere, a sopravvivere in uno Stato come quello italiano che spesso è più avversario che alleato, ad avere più chance pedagogiche rispetto ad un sistema scolastico che teme di essere valutato e pesato in base ai propri successi e insuccessi.

O la scuola - e il mondo della formazione nel suo complesso - saranno capaci di adeguarsi alle sfide che la contemporaneità e la globalizzazione portano con sé oppure intere generazioni di giovani dovranno cercare altrove il loro "luogo formativo". E se quel luogo sarà il luogo di lavoro (e i dati dell'abbandono scolastico ci dimostrano che per molti è, volenti o nolenti, così) dovrà essere allora l'intera infrastruttura democratica del Paese a farsene carico per impedire, come diceva Emmanuel Mounier, che la persona che lavora venga considerata "come un semplice strumento dell'efficienza e della produzione".

Solo accettando questa sfida si potrà provare ad affermare con pienezza la nostra fiducia nelle capacità dell'essere umano di essere creatore (homo faber) e di essere artefice del proprio destino (homo faber fortunae suae), assecondando le inclinazioni di chi impara facendo, accogliendo pienamente nel nostro Paese quella cultura della responsabilità cui solo una piena pedagogia liberale può condurre. Come scriveva Jean-Jacques Rousseau nell'Emilio, o, dell'educazione:

    "Colui che mangia in ozio ciò che non ha guadagnato egli stesso lo ruba; il reddituario che lo Stato paga per non fare nulla non differisce troppo (...) dal brigante che vive a spese dei passanti. Fuori della società, l'uomo isolato, che non deve nulla a nessuno, ha diritto di vivere come gli piace; ma nella società, in cui vive necessariamente a spese degli altri, deve loro in lavoro il prezzo del suo mantenimento; ciò non ammette eccezione. Lavorare è dunque un dovere indispensabile per l'uomo sociale. Ricco o povero, potente o debole, ogni cittadino ozioso è un briccone".

Da - http://www.huffingtonpost.it/davide-ricca/jobs-act-buona-scuola-e-rilancio-dellapprendistato_b_7297916.html?utm_source=Alert-blogger&utm_medium=email&utm_campaign=Email%2BNotifications
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 25, 2015, 11:04:02 am »

Le primarie del Pd sono l'occasione per andare avanti, non tornare indietro
Pubblicato: 22/06/2015 13:36 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Davide RICCA

Non credo che si debba tornare indietro. Ho la sensazione che ci sia qualcuno che pensi che il problema siano gli strumenti e non le persone. Le primarie sono "solo" uno strumento. Perfettibile, ma uno strumento. E rappresentano uno dei punti più alti di confronto con il nostro elettorato. Non sono il problema, e di per sé, non sono la soluzione. Evidentemente chi le sostiene sa che senza una piena attuazione dell'articolo 49 della Costituzione e senza il loro inquadramento in un sistema di diritto pubblico, sono uno strumento limitato.

Oggi siamo di fronte a due alternative. O le buttiamo o le miglioriamo. Io sarei per la seconda, anche se mi sembra che su questa questione rischio di essere parte ormai di una sparuta minoranza. A mio avviso l'Open Pd segnava una direzione chiara e netta. È in quella direzione, è dentro a quell'immagine di partito che si è riconosciuta gran parte di coloro che, non avendo mai votato per il centrosinistra, hanno intravisto nel Pd un luogo di partecipazione e di rappresentanza rinnovato nel panorama politico italiano. Che facciamo ora? Chiudiamo i cancelli? O favoriamo il processo di apertura di cui Matteo Renzi è stato - ed è - il portavoce più convincente?

Interroghiamoci sulla "selezione della classe dirigente". Il nodo da sciogliere è questo qua. Come selezioniamo i candidati alle primarie? Attraverso un reclutamento interno, dove contano i pacchetti di tessere che servono a raccogliere le firme degli iscritti per candidare questo o quell'altro "capo-bastone" oppure, visto che poi celebreremmo primarie aperte, permettiamo che siano proprio i nostri elettori a candidare qualcuno per la sfida delle primarie? Eh già, perché finché lasciamo agli elettori (spero in futuro raccolti in un registro) solo l'onere del voto e non quello della proposta (riservandolo ai soli iscritti) è evidente che faremo scegliere solo tra questo o quell'altro leader interno, limitando le possibilità.

Cari amici del Pd proviamo a rispondere a questa domanda: "I nostri circoli rappresentano i nostri elettori?" O, come spesso si sente dire nelle riunioni vere e appassionate che facciamo tra di noi, "siamo sempre gli stessi", "ci conosciamo tutti", "ognuno qui sa a chi riferisce". Già, se il tesseramento coinvolge in gran parte gli "interessati", ed in parte è normale che sia così, possiamo sì impegnarci ad aprirlo sempre di più, ma non ci sarà mai una corrispondenza tra elettorato ed iscritti in termini di rappresentanza di ceti di appartenenza, genere, età, etc. È un dato di realtà che chi fa politica deve avere sempre presente.

Bene, vogliamo che sia il sistema di filiere interne che seleziona chi candidare alle primarie o direttamente alla carica elettiva (o di direzione politica) o vogliamo che sia il nostro elettorato, sapendo che, come "il rischio di morte è il nascimento", ugualmente non avremo mai la certezza che il nostro candidato vincerà le elezioni, perché, informo tutti, che nei paesi dove tutti gli sfidanti vengono selezionati attraverso le primarie tutte le parti sanno già in partenza che sarà solo uno a vincere.

Se vogliamo fare sul serio un Partito democratico all'Obama, dobbiamo ricordarci che senza le primarie i democrats americani non ce l'avrebbero avuto un Obama da candidare. Mi direte: "Ma lì le primarie sono regolamentate e i partiti non selezionano i loro dirigenti con le primarie". Va bene, mi piange il cuore, ma ci sto. Regolamentiamo le primarie, facciamo il più possibile leggi elettorali che prevedano i collegi e non le preferenze, che si dimostrano sempre più il coacervo di interessi clientelari ed una delle cause dell'incremento esponenziale dei costi delle campagne elettorali in Italia e, solo allora, selezioniamo i nostri dirigenti con un metodo diverso.

Se ci richiudiamo di botto saremo l'ennesima occasione mancata. L'Italia non può permetterselo. Ero minoranza quando volevo il ritorno al Mattarellum e molti (la maggioranza) volevano un sistema misto che ha portato all'Italicum, e l'ho accettato; probabilmente lo sarò di nuovo nel caso il Pd decidesse di chiudersi e di ripensare in dodicesimo il sistema delle primarie invece di farlo crescere e perfezionarlo. Ma non per questo smetterò di essere uninominalista e favorevole all'apertura dei democratici.

Da - http://www.huffingtonpost.it/davide-ricca/primarie-pd-occasione-andare-avanti_b_7631394.html?utm_source=Alert-blogger&utm_medium=email&utm_campaign=Email%2BNotifications
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:56:18 am »

Grazie Tsipras, ma preferisco la sinistra che decide
Sinistra

Davide RICCA   
Un leader che sta da questa parte politica deve assumersi le proprie responsabilità, soprattutto nei momenti difficili

Non voglio qui ragionare di Grexit. Cosa che, chiunque abbia a cuore il progetto europeo, non si augura, ma su come Alexis Tsipras e Syriza interpretino l’essere di sinistra a confronto di come lo facciano Matteo Renzi e il Pd. E lo voglio fare partendo da come hanno gestito il rapporto con l’Europa. L’esempio principe sono le trattative delle ultime settimane.

Mentre Renzi, sulla questione sbarchi, resta seduto al tavolo delle trattative e decide, Tsipras, sulla restituzione del debito contratto dal suo paese – tema su cui, non dimentichiamoci, ha giocato tutta la campagna elettorale di Syriza – non solo fa scadere i termini, ma alla fine non decide, demandando la scelta definitiva a un referendum popolare. Alle tre di notte il premier italiano è ancora seduto a trattare con gli altri leader europei. Più o meno alla stessa ora di qualche giorno dopo, il ministro delle finanze ellenico, Yanis Varoufakis, si alza invece dal tavolo e abbandona i negoziati.

Due modi diversi di indossare il giubbotto di pelle, che a entrambi capita di portare, ma soprattutto due modi diversi di indossare il coraggio.

Un diverso senso delle istituzioni e una diversa consapevolezza del proprio ruolo e di cosa deve essere la sinistra oggi. C’è chi pensa che essa debba essere lo spazio politico delle scelte, e che guidarla non significhi solo portare etichette o tagliar nastri, ma assumersi per intero l’onere di governare i processi, con il rischio dell’impopolarità che da questo comporta e chi, invece, la immagina come il luogo della sola elaborazione speculativa, valida per aver consenso sulla carta, abdicando, però, alle responsabilità ultime di governo per cui ci si presenta all’elettorato.

La sinistra che sa decidere, che applica la virtù aristotelica della phronesis (della saggezza pratica), che accetta e che vuole che il proprio leader si assuma le responsabilità per cui è stato scelto contrapposta alla sinistra che arringa, che giudica, che, alla democrazia, preferisce la sua variante degenerata, l’oclocrazia, per cui il “governo del popolo” si trasforma in “governo delle masse” con il rischio, come sosteneva Platone, di trasformarsi senza accorgersene in tirannia, in quanto schiava del consenso acquisito attraverso atteggiamenti demagogici.

Ecco che oggi Tsipras indice un referendum sulle richieste delle istituzioni internazionali, suggerendo al popolo greco di rispondere No. Fossi un suo elettore mi chiederei perché l’ho eletto, perché l’ho delegato a trattare, cosa che mi aveva chiesto in campagna elettorale, se ora pilatescamente se ne lava le mani. Se sei convinto, visto che hai un mandato, rispondi tu di no, anche se capisco l’imbarazzo che hai a vedere i principali esponenti del tuo partito fare la coda ai bancomat insieme a gran parte dei greci.

La folla scelse Barabba, speriamo che nella terra che ha dato origine alla cultura classica europea riesca invece a vincere la sinistra dell’Europa e dell’assunzione di responsabilità.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/grazie-tsipras-ma-preferisco-la-sinistra-che-decide/
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 09, 2015, 07:23:29 pm »

Renzi e la Leopolda, una narrazione che non è solo metodo

Pubblicato: 09/12/2015 11:17 CET Aggiornato: 1 ora fa

Non ho scritto per un po'. Ho deciso infatti che avevo bisogno di ascoltare. Anche nella politica non credo sia possibile mantenere sempre lo stesso passo e lo stesso ritmo. Soprattutto per chi alla politica dedica il proprio tempo liberato, credo sia utile confrontare la propria esperienza di vita e di lavoro con i momenti di militanza ed impegno più propriamente politici. Staccare la possibilità a questi vasi di comunicare sarebbe a mio avviso una errore madornale, come lo sarebbe pensare che un partito possa vivere esclusivamente sulle gambe, sulle braccia e sul cervello di chi vive di politica.

A due anni dal successo di Matteo Renzi nelle primarie dell'Immacolata del 2013 e a meno di una settimana dalla Leopolda numero 6, in molti provano a tracciare un primo bilancio della sua azione come segretario del Pd e come Presidente del Consiglio. Ma a due anni dall'8 dicembre del 2013 è anche possibile tracciare un primo bilancio di quella che è stata la portata della vittoria di Renzi all'interno del Partito Democratico.

Questo periodo di ascolto, ed in particolare i banchetti di #italiacoraggio dello scorso weekend, mi hanno confermato che chi ha sostenuto Renzi lo ha fatto essenzialmente per due motivi, che possono essere considerati i pilastri sui quali l'ex sindaco di Firenze ha costruito il proprio successo: il ricambio (rottamazione) della classe dirigente di questo paese; la proposta di politiche e di riforme innovative (cambiaverso) per questo paese.

Potremmo, semplificando, dire che qualcuno ha visto in Renzi un "metodo diverso", una sorta di "strumento" e qualcun altro lo ha interpretato come portatore di "contenuti diversi", una sorta di "fine". Inutile chiedersi se hanno ragione i primi o se hanno ragione i secondi. Nella figura e nella proposta di Renzi (potremmo dire nella sua narrazione) contenuto e metodo si tengono. Ed è questo equilibrio che sostiene la popolarità, non solo italica, del Premier e la sua autorevolezza nel dettare l'agenda politica.

E come sempre la variabile tempo non è indifferente in politica. È proprio il tempo che oggi spinge chi ha puntato tutto sul metodo a non essere completamente soddisfatto dell'azione di Renzi, mentre chi ha visto in lui la possibilità di una proposta innovativa e di sinistra moderna non può che osservare in numero e qualità uno stock di riforme che mai un governo (e un partito attraverso i suoi gruppi parlamentari) nella storia repubblicana era riuscito ad avanzare e approvare in così poco tempo.

A chi sarà alla Leopolda il prossimo weekend e a chi critica il Pd di Renzi va proprio ricordato il poco tempo che separa il 2015 dal 2013. A chi preme sull'acceleratore pensando di guidare su un'autostrada con soli rettilinei, dimenticandosi che i piloti esprimono il loro talento nelle curve dei circuiti più impegnativi, va semplicemente rammentata la sconfitta del 2012, va ricordato che nel 2012 i gruppi parlamentari non furono scelti da Matteo Renzi, va ricordato che il tempo aiuta a separare l'acqua dall'olio e che, se veramente vogliamo fare la storia e non la cronaca, Renzi non può essere strumentale alle ambizioni personali, ma solo alle ambizioni dell'Italia.

Da - http://www.huffingtonpost.it/davide-ricca/renzi-e-la-leopolda-una-narrazione-che-non-e-solo-metodo_b_8747812.html?utm_source=Alert-blogger&utm_medium=email&utm_campaign=Email%2BNotifications
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