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Autore Discussione: GIULIO ANSELMI  (Letto 5937 volte)
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« inserito:: Ottobre 25, 2007, 03:36:05 pm »

25/10/2007
 
Le condizioni del voto
 
GIULIO ANSELMI

 
L’ultimo atto del faticoso premierato di Romano Prodi, la guerricciola tra Di Pietro e Mastella, non si discosta troppo da quelli che l’hanno preceduto: uno strappo rappezzato in extremis grazie alla tenacia che tutti riconoscono al presidente del Consiglio, ma accompagnato da nuove rotture tra i ministri (questa volta sul fronte della sicurezza) e da più allarmanti vaticini di crisi da parte di coloro che finora erano stati alleati affidabili. Giorno dopo giorno, ingarbugliato da esasperati tatticismi che - come nel caso del protocollo sul Welfare - hanno finito con lo scontentare un po’ tutti, e indebolito da allarmi angosciati sul mercato dei senatori e da minacce di crisi pronunciate da politici che non hanno intenzione di provocarla davvero, il filo del governo si è fatto assai corto.

Ormai da mesi il ministero trascina la sua carcassa all’insegna dell’emergenza e della precarietà, costretto a tradurre in un conflitto ininterrotto il fallimento della coalizione che lo sostiene. L’impopolarità senza precedenti di Prodi è la personificazione di questo problema politico che ingloba e avviluppa Palazzo Chigi, sommando la delusione e la sfiducia dell’elettorato di centro-sinistra, un elemento sociale e psicologico che sarà difficile recuperare, e la rabbia di gran parte dell’elettorato di destra. Il giudizio prescinde perfino da un esame bilanciato tra alcuni errori clamorosi, come l’indulto, e alcuni risultati che vanno riconosciuti ai ministri sul terreno dei conti pubblici e delle liberalizzazioni. Il mondo della politica e la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica (non soltanto quella parte che fa comunque professione di antipolitica) ne sono ormai certi: questo governo ha fallito.

Il cavalier Berlusconi, col suo ininterrotto preannuncio di fine, aggiunge solo un che di grottesco.

Come ai tempi degli ultimi esecutivi della Prima Repubblica, la residua energia vitale del ministero è rivolta al tirare a campare, senza nemmeno domandarsi per che. Arroccati nella presuntuosa convinzione che gli elettori del centro-sinistra e parte di quelli del centro-destra non vogliano correre il rischio di una nuova stagione berlusconiana, gli inquilini dei vari palazzi romani cercano di intercettare gli umori popolari in tema di tasse, sicurezza, costi della politica annunciando soluzioni impraticabili, misure feroci su zingari e lavavetri, riduzioni delle spese degli altri in un crollo verticale di consapevolezza e credibilità: non era mai accaduto che un ministro della Giustizia inquisito arrivasse a sottrarre al magistrato l’inchiesta che lo riguarda e che, per l’indispensabilità dei suoi voti all’esigua maggioranza, venisse blandito dal presidente del Consiglio. La lunga catena di insabbiamenti, dei quali è ricca la storia repubblicana, in questi giorni è arrivata allo zenit.

È difficile, quindi, oggi trovare motivi per allungare la vita del governo. Ed è legittimo sospettare che certi inviti a soluzioni tecniche e istituzionali celino la tentazione di prendere tempo. Ma l’appello «al voto, al voto», che risuona nelle piazze e nei talk-show televisivi pronunciato con maggiore o minor convinzione da esponenti della maggioranza e dell’opposizione, rischia di produrre un appuntamento destinato a funzionare semplicemente da valvola di sfogo per la delusione Prodi. Così come un anno e mezzo fa espresse l’irritazione dell’elettorato per la delusione Berlusconi. C’è una significativa simmetria, naturalmente respinta dagli interessati, tra le critiche rivolte al governo di centro-destra e gli addebiti riferiti al centro-sinistra, soprattutto dagli economisti e dai politologi di parte liberale: tutti si riconducono alla difficile governabilità del Paese.

Andare a votare con l’attuale legge elettorale significherebbe, stando ai sondaggi, trovarsi di fronte alla vittoria di un centro-destra bloccato, dotato di una maggioranza al Senato (salvo un’improbabile vittoria nelle regioni «rosse») forse un po’ più ampia ma non troppo dissimile da quella odierna dell’Unione. Un centro-destra, cioè, alle prese con le stesse difficoltà politiche che gli hanno impedito di trasformare il Paese durante la scorsa legislatura, aperta dalla trionfale vittoria del 2001. Non a caso il Presidente della Repubblica, preoccupato dalla concretezza di questo scenario, ha detto e scritto ripetutamente, ieri per l’ennesima volta, che non si può andare alle urne senza una riforma delle norme attuali. Per darsi regole nuove, nell’interesse di tutti, basterebbero pochi mesi.

Ma non è il caso di illudersi: una politica rinserrata in se stessa e capace di seguire una sola bandiera, quella del continuismo, ha già superato i fantasmi evocati dai dibattiti sulla «casta» e dalle urla di Grillo e ha ridotto il suo senso di responsabilità circa gli interessi dell’Italia all’esigenza di approvare la Finanziaria per evitare l’esercizio provvisorio, con le prevedibili nefaste conseguenze sul debito pubblico e sull’economia. Già nel centro-sinistra si delineano piani che prevedono la sconfitta elettorale come un male minore per il futuro del Pd e prefigurano il Cavaliere, giusta nemesi, intento a fare i conti con la sua legge «porcata». Insomma, la consueta altalena. Che in queste condizioni, però, rappresenta soltanto una via di fuga. Utile probabilmente a qualcuno, ma non certo al Paese.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 15, 2008, 12:11:40 pm »

15/1/2008
 
Intolleranza e laicità
 
GIULIO ANSELMI

 
Lasciamo parlare il Papa alla Sapienza e ascoltiamo con civile rispetto quello che dirà, liberi, subito dopo, di approvare o criticare le sue affermazioni: l’invito ad andare gli è stato rivolto, nella piena osservanza delle regole, dal rettore e dal senato accademico dell’ateneo romano; Joseph Ratzinger ha tutti i titoli per intervenire in una cattedrale della cultura, come hanno fatto del resto alcuni suoi predecessori, e al pari di altre eminenti personalità.

Recenti incidenti, come quelli avvenuti a Ratisbona e in Vaticano, renderanno del resto particolarmente cauti i ghost-writers della Santa Sede e lo stesso Pontefice.

Il caso che ha scatenato qualche decina di professori e un certo numero di studenti contro la visita papale ha tutta l’aria di rappresentare uno di quegli episodi tipicamente italiani che vengono cavalcati con furore ideologico e animo goliardico, al riparo di qualche motivazione strumentale (questa volta è la persecuzione ai danni di Galileo e l’abiura alle sue convinzioni cui lo scienziato fu a suo tempo costretto). Grandi polveroni, senza vera importanza. Tutt’altro rilievo ebbe la visita di Giovanni Paolo II alla Camera dei deputati, che il Papa polacco utilizzò per chiedere al Parlamento italiano di varare un provvedimento di clemenza in favore dei carcerati.

Ma allora, forse per il carisma di Wojtyla che nessuno ardiva criticare nella fase finale del suo pontificato, forse per il diverso clima politico, furono pochissime e flebili le voci di contestazione per quella che invece aveva il sapore di un’ingerenza. La verità è che nel nostro Paese assistiamo a una crescente invadenza della Chiesa, accentuatasi durante la lunga presidenza della conferenza episcopale da parte del cardinale Ruini. La Repubblica italiana, come hanno rilevato studiosi illustri, da Arturo Carlo Jemolo a Gian Enrico Rusconi, deve fare conti sempre più complicati con l’enorme rilevanza della Chiesa-istituzione e della sua immagine pubblica, in gran parte monopolizzata dalla figura e dal ruolo del Pontefice.

La strategia della Chiesa investe gran parte delle sue energie sulla società civile, che si sforza di guidare. E ciò dilata e porta a un livello insostenibile di tensione l’antica questione della laicità dello Stato.

Di fronte a un magistero ecclesiale che, secondo molti, si concentra nella guida dei comportamenti interpersonali, spaziando dalla scuola alla famiglia alla bioetica fino ai temi complessi della genetica (cavalcati con determinazione da quegli efficaci alleati della gerarchia ecclesiastica che vanno sotto il nome di atei devoti) lo Stato vacilla. La Chiesa parla con la voce della certezza: Extra ecclesiam nulla vox. Lo Stato si trova esposto a pressioni di settori importanti dei suoi cittadini che si ispirano alla dottrina cattolica.

Misurando la diversa capacità di fornire risposte sulle questioni fondamentali della vita, la Politica indietreggia: per convinzione, calcolo o subordinazione culturale ministri e segretari di partito aderiscono, si sottomettono o traccheggiano.

La complessità di questi problemi - che la posizione del Papa come vescovo di Roma moltiplica in infiniti equivoci - aiuta a capire perché il nostro Paese riesca con fatica a difendere l’equilibrio che si era espresso nella lunga stagione democristiana della Prima repubblica, imperniata sulla pratica conciliante di uno Stato sostanzialmente imparziale in cui nessuno poteva pretendere di imporre agli altri le proprie convinzioni.

Chi si afferma laico oggi dovrebbe riflettere sulle ragioni di questo arretramento e, magari, impegnarsi a contrastarle. Senza immaginare laicità militanti alla francese, ma cercando di realizzare condizioni favorevoli alla convivenza. Chi si accontenta di imbrattare la facoltà di Fisica della Sapienza con cartelli in cui si annuncia la «settimana anticlericale» non è un laico.

E nemmeno un tardo epigono del laicismo ottocentesco. Ma solo un intollerante pericoloso.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 13, 2008, 12:39:19 pm »

13/4/2008
 
Modernizzare il paese

GIULIO ANSELMI
 

La campagna elettorale che abbiamo alle spalle ha prodotto manciate di promesse senz’essere capace di esprimere una visione dell’Italia. Come se entrambi i principali contendenti immaginassero un breve e piccolo governo, destinato, nel migliore dei casi, a produrre alcune essenziali riforme, forse addirittura soltanto una nuova legge elettorale; e, nel peggiore, a vivacchiare per tanta o poca legislatura.

Tutti i partecipanti alle elezioni, Berlusconi e Veltroni in primo luogo, sono appesantiti dal passato. Berlusconi non può menar troppo vanto - anche se talvolta, nella foga del comiziante, ripete i soliti autoelogi - di un governo che lasciò i conti pubblici in cattive condizioni e che riuscì a realizzare, secondo le valutazioni più attendibili, solo il 50/60 per cento del suo programma. Veltroni porta sulle spalle il gravoso fardello del bilancio del ministero Prodi (che nel giudizio dell’opinione pubblica è forse ancora più pesante della realtà) e fa del suo meglio per non apparirne ingobbito.

Quanto al futuro, i candidati premier, immersi loro malgrado nell’economia-mondo, hanno presto dovuto accantonare le polemiche domestiche su veri o immaginari tesoretti: la realtà italiana, ormai da sei anni a crescita zero (dati Ocse di pochi giorni fa), non consente a nessuno di cavarsi d’impaccio accusando la cattiva gestione dell’avversario. Se dalla nascita dell’euro in poi lo sviluppo italiano è sempre stato inferiore alla media europea è difficile prendersela con la congiuntura internazionale e non con i governi di centro-destra e centro-sinistra che si sono succeduti.

L’indebolimento del Paese, che chiama in causa l’intera classe dirigente al di là della rappresentanza politica, pone i futuri eletti di fronte a un’emergenza drammatica: è urgente stimolare la crescita e sostenere il potere d’acquisto dei ceti medi e poveri, riducendo le tasse e aumentando stipendi e salari. Ma è chiaro che il beneficio di provvedimenti fiscali redistributivi dura poco se non si accompagna a riforme che rilancino la produttività d’insieme del sistema.

Di fronte a un Paese depresso nessuno è stato capace di una proposta-choc. Tutto ciò aiuta a capire la deludente somiglianza dei programmi. Ma anche una significativa differenza di toni, più pessimista quello del Cavaliere (che spesso ha parlato della necessità di provvedimenti impopolari), più sbrigliato nel promettere Veltroni: differenza sarcasticamente spiegata da Tremonti con una diversa consapevolezza, quella della vittoria da parte del Pdl e quella della sconfitta da parte del Pd.

Le promesse a pioggia - meno Ici, pensioni più alte, case a prezzi accessibili ecc.- non bastano a fare la differenza: la sfiducia seminata a piene mani dal tifone dell’antipolitica non si è limitata a colpire più duramente la formazione al governo e a sradicare esponenti di partito di lungo corso, ma ha percorso l’intera campagna ricoprendo parole e persone con lo sgradevole polverone del «già visto». Una campagna che non ci ha risparmiato le vecchie gag del Cavaliere, ma che non ha realizzato pienamente neppure il tentativo di innovazione veltroniano. E non è un caso che gli indecisi arrivino, secondo le valutazioni più pessimiste, a un terzo del totale e che si tema una valanga di astensioni.

Quanto peserà la sfiducia? Quanto funzionerà, come antidoto, ciò che rimane del vecchio cemento identitario nei diversi partiti? Il risultato di queste elezioni sarà determinante per il futuro di un sistema minato, negli anni passati, proprio dall’inettitudine dimostrata sul principale banco di prova della politica, quello della governabilità. Non è un caso che, dopo l’esperienza Prodi, una parola d’ordine abbia percorso gli schieramenti, divenendo di volta in volta elemento di coesione o ripulsa: quella del «voto utile», assegnato all’uno o all’altro dei due schieramenti, Pdl e Pd, che soli sembrano avere la forza di dare vita a una maggioranza di governo.

Ma dire «utile» non basta a chiarire la destinazione di marcia: sono molti a ritenere - esponenti dell’establishment, commentatori illustri e da ultimo l’ambasciatore americano Spogli - che un momento difficile come l’attuale richieda la condivisione delle responsabilità da parte dei due maggiori partiti. La campagna elettorale che abbiamo alle spalle sembra dimostrare che tra Pdl e Pd manchi l’omogeneità necessaria - anche a causa del peso, che potrebbe essere decisivo, della Lega - per intervenire sui grovigli di nodi che immobilizzano il Paese e per fronteggiare le conseguenti reazioni. Ciò che oggi si può dire è fin troppo ovvio: chi vince, governi. In caso di parità, come si ipotizza con insistenza per il Senato, è opportuno che Pdl e Pd si sforzino di realizzare un’intesa strettamente finalizzata ad approvare una decente legge elettorale.

Quanto a chi scegliere, è il caso di introdurre un elemento di serenità: non siamo di fronte a elezioni epocali. Si confrontano partiti, non visioni del mondo. In gioco è la velocità del processo di modernizzazione del Paese. Da una parte c’è un’alleanza corporativa, di protezionisti e liberisti presunti, dall’altra gli eredi di una coalizione che non è stata affatto brillante nel suo tentativo di governare una società dinamica ma che propongono un’ipotesi, almeno sulla carta, innovativa. Lo stato di crisi della società italiana non consente di essere conservatori.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 06, 2008, 08:59:54 am »

6/11/2008
 
Il mito e la realtà
 
GIULIO ANSELMI

 
L’America ha dato al mondo la risposta che buona parte del mondo attendeva. E l’ha data con grandiosità americana affiancando sullo stesso palcoscenico mediatico il giovane trionfatore e l’anziano sconfitto in un gioco di reciproca legittimazione davanti a una folla plaudente: yes, we can.

«Ecco, il cambiamento è arrivato, siamo in un luogo dove le cose sono possibili», dice calmo Barack Obama, appena scelto come 44° Presidente degli Stati Uniti. E nelle parole del giovane ma navigato senatore non si coglie traccia di retorica o di cinismo: la sua elezione suona davvero all’opinione pubblica come l’ultima prova della leggendaria capacità di rinnovarsi attribuita alla più grande democrazia della Storia, segna una cesura con la stagione di George W. Bush che ha portato a un livello mai raggiunto l’impopolarità della superpotenza, interrompe la grande rivoluzione conservatrice iniziata da Reagan, attribuisce a un importante evento politico un immenso valore simbolico.

Un uomo di colore che entra alla Casa Bianca, col ruolo che fino a poco tempo fa poteva immaginarsi soltanto qualche film buonista di Hollywood, rappresenta molto più di una rivoluzione razziale. L’evento, davvero straordinario per i più anziani che ricordano lo scontro elettorale del democratico anti-segregazionista Lyndon Johnson col razzista Barry Goldwater, nei primi Anni Sessanta, viene interpretato dai più giovani con grande pragmatismo: Obama è un «non bianco», che gran parte degli afroamericani dei ghetti non considera «uno di noi» (lo prova l’affluenza alle urne, superiore solo di un paio di punti alla precedente consultazione), un meticcio, figlio di una società multiculturale - con una nonna in Kenya, un’altra alle Hawaii, il padre nero e la madre bianca del Kansas -, rappresentante di una classe mista portata all’ascesa sociale dalla globalizzazione, esponente di una società mischiata che per la maggioranza degli americani è comunque upper class.

Ma, in primo luogo, l’elezione, in un Paese ormai pronto a un presidente nero, come hanno sottolineato Colin Powell e Condoleezza Rice, due segretari di Stato che il problema della pelle lo hanno sperimentato in proprio, dipende dal forte segno di novità preteso dalla maggioranza degli americani, gente della middle class capace di votare repubblicano o democratico a seconda delle circostanze. A questa maggioranza di elettori è sembrato che il vigore di Obama nel cambiare la rotta fosse assai maggiore di quello dell’anziano McCain, segnato, suo malgrado, dall’appartenenza allo stesso partito di Bush. Se non fossero riusciti a dare col loro voto un forte segno di discontinuità, come ha scritto su La Stampa Vittorio Emanuele Parsi, avrebbero perso la fiducia che, quando le cose non vanno, i cittadini possono sempre cambiarle e mandare a casa chi ritengono responsabile.

Parlare dell’ultima incarnazione del sogno americano, con tutti gli elementi fantastici che comporta fin quasi alle soglie del mito, non ci esenta però dal realismo.

Sul piano interno, Obama dovrà fare i conti con tutte le aspettative suscitate: per lui la crisi finanziaria innescata dall’affare subprime, con le gravi conseguenze che comporta per l’economia reale, si incrocia con una profonda esigenza di giustizia sociale. La necessità di una nuova governance globale della finanza appare meno urgente di rapidi provvedimenti antirecessivi ai suoi elettori, parecchi dei quali fanno i conti con la decurtazione della base finanziaria del sistema pensionistico. Non è un caso che, parlando del leader democratico, in una stagione che ricorda i fantasmi del ’29 e della Grande Depressione si evochino Franklin D. Roosevelt e il New Deal. Non è un caso che una delle parole che Obama ha pronunciato con maggiore frequenza sia stata «redistribuzione».

D’altra parte, in tutta la campagna come nella scelta del vice, il nuovo Presidente si è mosso in modo da allontanare da sé ogni sospetto di radicalismo.

C’è poi tutta una serie di problemi sul fronte della politica internazionale, dall’Afghanistan all’Iraq al Medio Oriente alle relazioni con la Russia, dove la strategia politica e militare di George Bush lascia un’America indebolita e immiserita agli occhi del mondo. Non c’è da attendersi alcuna rivoluzione immediata per la ben nota continuità che condiziona la politica estera, ma certo, per restaurare l’immagine degli Usa all’interno e negli altri Paesi, Obama appare molto più attrezzato del suo predecessore e del suo antagonista. L’effetto novità, il colore della pelle, la bellezza, il portamento e tutti quegli elementi che concorrono a definire uno stile che rasenta il culto della personalità (e lasciamo perdere i patetici tentativi di tanti politici che, qua e là per i continenti, si affannano per essere arruolati come obamiani di complemento) sono a favore dell’uomo emerso da Chicago.

Il nuovo Presidente sa meglio di chiunque altro - lo ha detto già nel suo primo discorso - di avere di fronte a sé enormi problemi da risolvere. Vedremo di che stoffa è fatto, vedremo quali capacità lo sorreggeranno nel governo, al di là delle indubbie doti mediatiche di cui ha già dato gran prova. Per tutto il mondo, c’è da augurarsi - e noi sinceramente lo crediamo - che la scelta degli americani, fatta senza paura di puntare sul nuovo, sia stata azzeccata.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:50:20 pm »

10/2/2009
 
Una sconfitta per tutti
 
GIULIO ANSELMI
 

Il nostro Paese, spaccato tra i sostenitori del diritto alla vita, pronti a trasformarlo nell’obbligo di continuare a esistere ad ogni costo e in ogni condizione, e i sostenitori, in casi estremi, della possibilità di morire, non riesce ad acquietarsi neppure di fronte alla pace che finalmente Eluana ha trovato.

Due convinzioni uguali e contrarie si impadroniscono dello sbigottimento e del dolore alimentando un’inaudita ferocia. La certezza si tramuta in accusa: l’hanno ammazzata. Le piazze si preparano, il tam tam dei siti web estremisti chiama alla battaglia, in Senato la strumentalizzazione politica della tragedia trova la sua rappresentazione più triste e grottesca.

Capiamo quanto suoni ingenuo il richiamo alla pietas verso quel povero corpo che noi dei media abbiamo continuato a tradire, rappresentandolo nel fulgore della sua giovinezza e non soffermandoci sull’orrore cui era ridotto. Sappiamo quanto equivalga a una scelta di campo tentare di esprimere solidarietà a un pover’uomo solo, destinato a invecchiare nel dubbio di avere sbagliato a battersi per un principio. Registriamo che l’ultimo atto del caso Englaro contiene il rammarico di Berlusconi sulle responsabilità «che hanno reso impossibile l’azione del governo per salvare una vita».

E l’uscita impropria del senatore Gasparri che ha di fatto messo in conto al Presidente della Repubblica questa tragedia.

Non dispongo di alcun elemento per diradare i sospetti alimentati dall’improvviso vanificarsi della corsa contro il tempo ingaggiata dalla politica dopo anni di colpevole disinteresse: per i salvatori della vita, che si trovano all’improvviso senza nulla da salvare, è più facile inventare degli assassini che accettare una beffa del destino. Ed è indubbio che la fine di Eluana, avvenuta mentre le Camere davano prova di una rapidità legislativa senza precedenti nella nostra storia per impedire ai medici de La Quiete di andare avanti, appaia in qualche modo precipitata. Alti prelati vaticani hanno già espresso un caritatevole verdetto, pregando il Signore di accogliere la morta e di perdonare chi l’ha fatta morire.

A stabilire la verità penseranno i giudici, com’è loro dovere. Ma questa non è la questione centrale, anche se è facile prevedere che il Paese si infiammerà sugli ultimi minuti di una ragazza che moriva da diciassette anni. La storia di Eluana, che abbiamo cercato di raccontare con tutte le nostre incertezze e con l’umiltà di chi non ha sicurezze da offrire, si chiude in maniera dolorosa per tutti: per le istituzioni e la classe politica, che non hanno saputo svolgere il proprio ruolo, per noi dell’informazione che non abbiamo saputo essere un punto di riferimento. Trovando, in mezzo al marasma, toni pacati, il presidente del Senato Schifani ha invitato ieri sera le Camere a svolgere il proprio ruolo e ad approvare una legge che affronti finalmente il tema del testamento biologico. Speriamo succeda davvero. Nell’interesse di tutti i cittadini. Per non trovarci mai più davanti a una tragedia come questa.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 24, 2009, 10:45:22 am »

24/4/2009

Quattro anni dopo
   
GIULIO ANSELMI


Lascio La Stampa con l’orgoglio del lavoro compiuto per ricollocare un antico giornale ai livelli più alti della sua storia gloriosa. Grazie all’impegno della redazione e dell’azienda un quotidiano tradizionale è stato trasformato in un moderno tabloid full-color, senza tradirne l’identità e senza perdere autorevolezza, ed è cresciuto sul mercato, in un momento di calo generalizzato delle copie.

Il successo va però inquadrato nella grande crisi economico-finanziaria che, iniziata negli Stati Uniti, ha coinvolto l’informazione, e in primo luogo la carta stampata: in tutto il mondo un settore già indebolito da una crisi strutturale deve fare i conti col crollo improvviso della pubblicità. Parlare di «ultima copia del New York Times», fino a poco tempo fa, poteva apparire una battuta da intellettuali un po’ snob, inclini a veder nero. La stessa frase sintetizza oggi, sia pure deformandoli per eccesso, gli umori diffusi tra gli operatori dell’editoria. Nell’incertezza si accavallano le tentazioni più svariate: aspettare la ripresa, cambiare modelli, sperimentare sulla via della multimedialità.

Un’ininterrotta serie di aggiustamenti e correzioni è richiesta da prodotti che, per loro natura, devono essere capaci di cogliere i fermenti della società. Tocca ai giornalisti sperimentare i tentativi di innovazione: nella consapevolezza che carta e computer sono strumenti adeguati a esigenze e pubblici diversi, mentre il patrimonio irrinunciabile di un giornale, qualunque sia la trasformazione a cui lo si voglia sottoporre, è rappresentato dalla sua storia, dalla sua qualità, dalla sua credibilità, dalla sua indipendenza, in poche parole dagli elementi identitari che lo connotano e lo legano ai lettori. Questi elementi vanno difesi. Con rigore, con passione civile, nella consapevolezza che il ruolo dell’informazione è distinto e separato da quello della politica. Può apparire perfino ingenuo ricordarlo, ma certo non è superfluo dirlo in un momento in cui si ascoltano inopportune minacce contro i giornali e i giornalisti.

Assumendo quattro anni fa la direzione de La Stampa, ho preso l’impegno di fornire ai lettori un’informazione né faziosa né settaria, ma autonoma e critica, a prescindere da chi fosse al potere. Credo di averlo onorato. Oggi consegno a Mario Calabresi, un giornalista che conosco bene e che stimo, una testata libera e che gode di buona reputazione: gli auguro successo. Ringrazio l’Editore, che mi ha messo in condizione di operare in piena libertà. Saluto con calore i colleghi della redazione, che hanno partecipato con generosità e determinazione alla sfida. E abbraccio i vicedirettori, quelli che sono rimasti sempre al mio fianco e quelli che hanno percorso con me solo un tratto di strada: Umberto La Rocca, Massimo Gramellini, Giancarlo Laurenzi, Vittorio Sabadin, Federico Geremicca, Roberto Bellato.

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