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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144125 volte)
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« Risposta #240 inserito:: Febbraio 01, 2018, 04:30:07 pm »

GIOVEDÌ 1 FEBBRAIO 2018

Perché degli «Imi» non si parla mai

  Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
le sottopongo una curiosità personale. Per quale motivo le vicende storiche che hanno riguardato il quasi milione di Imi (Internati Militari Italiani) non vengono mai ricordate fra le tragedie causate dal regime fascista durante la guerra? Io stesso ammetto di averne conosciuto i dettagli solo recentemente, anche se il mio nonno paterno è uno dei sopravvissuti a questa tragedia. Perché questa pagina non viene raccontata dai libri di storia?
Alessandro di Leo aleleo@cisco.com

Caro Alessandro,
Lei ha ragione: sulla vicenda gli internati militari in Germania è calato per decenni il silenzio. I motivi sono evidenti. I comunisti celebravano la Resistenza come cosa propria; e quelli erano militari (anche se tra loro c’era una minoranza di comunisti, come Alessandro Natta, che però dovette attendere il 1997 per pubblicare, a 79 anni, un libro che la casa editrice del partito non aveva voluto, intitolato non a caso «L’altra Resistenza»). L’esercito non aveva interesse a valorizzare una vicenda da cui gli alti gradi, visto il disastro dell’8 settembre, non uscivano certo bene. La neonata Repubblica stava ricucendo con la Germania, in nome della solidarietà atlantica, e tendeva a celare più che a riscoprire sia le stragi naziste sia le terrificanti condizioni in cui i nostri soldati e ufficiali furono tenuti nei lager. Gli Imi si ritrovarono così figli di nessuno. E molti di loro preferirono non raccontare neppure in casa le sofferenze che avevano superato.
Le cifre non si conoscono con esattezza, ogni fonte ha le sue, ma non si è lontani dal vero nello scrivere che circa 800 mila militari italiani furono fatti prigionieri dopo l’armistizio. Quasi tutti finirono nei campi nazisti. Vennero picchiati, spogliati, affamati, umiliati. Poi venne loro detto: ora vi diamo cibo e una divisa, potete tornare in Italia, ma dovete fare la guerra al nostro fianco. Oltre 600 mila, quindi la netta maggioranza, rifiutò di combattere altri italiani per conto di Hitler e Mussolini. Non tutti quelli che firmarono andarono poi davvero a Salò, qualcuno riuscì a fuggire, qualcuno combatté con i resistenti; in ogni caso, giudicarli al calduccio delle nostre casette sarebbe ingeneroso. Di sicuro fu eroica la scelta di restare nei lager, spesso a morire di fame e di stenti. Anche quella fu Resistenza; e troppo a lungo non se n’è parlato. Un grande contributo alla riscoperta degli Imi fu dato da Carlo Azeglio Ciampi, un presidente cui ora la sua città, amministrata dai 5 Stelle, rifiuta di dedicare una via.

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Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/01-02-2018/index.shtml
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« Risposta #241 inserito:: Marzo 09, 2018, 06:37:05 pm »

VENERDÌ 9 MARZO 2018

Come riuscire a frenare la fuga dei giovani

  Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
si denuncia l’emorragia di cervelli italiani e si auspica che i giovani facciano sì esperienza all’estero, ma poi possano/debbano avere l’opportunità anche di tornare. Ma esistono le condizioni per il loro rientro? Mio figlio per esempio, vive all’estero da 5 anni. Morgan Stanley (dove lavora, prima a Mosca e oggi a Londra) lo ha promosso da semplice analista ad associato e poi a vicepresidente: a 26 anni è il più giovane VP della Banca ed ha già concordato la road map che prevede il passaggio a Executive Director entro due anni e a Managing Director all’età di 30 anni. Ci sarebbe una prospettiva simile in Italia?
Franco Tollardo

Caro Franco,
La grande fuga dei ragazzi italiani non va drammatizzata, ma ha assunto dimensioni ormai eccessive e preoccupanti. Nessun Paese può permettersi di perdere i suoi giovani più intraprendenti. Nessun sistema alla lunga può reggere se forma con il denaro pubblico professionalità che poi si realizzano all’estero.
Non voglio cadere nel piagnisteo, nuovo sport nazionale. È evidente che alcune città del Nord Europa offrono più possibilità dell’Italia. Londra ad esempio è la capitale dell’industria culturale, vi si parla una lingua conosciuta in tutto il mondo; è inevitabile che sia più facile fare cinema, teatro, tv, giornalismo rispetto al nostro Paese. Qualche anno fa mi sono trovato in un talk-show con una giovane coppia di architetti, originaria di un piccolo centro dell’Abruzzo. Lamentavano che a casa non c’era lavoro, mentre da quando si erano trasferiti a Zurigo stavano benissimo. I politici in studio emettevano alti lai e promettevano imminenti riscosse. Non trovai il coraggio di ricordare che Zurigo è la città più ricca e meglio organizzata al mondo, ed è chiaro che una coppia di architetti vi troverà più lavoro che in un piccolo centro dell’Abruzzo.
Ma qui siamo arrivati oltre il livello di guardia. Andarsene dall’Italia è per i nostri ragazzi un riflesso condizionato. Una scelta a volte dettata dalla necessità, ma altre volte dalla sfiducia nel nostro Paese. Ci sono due soli rimedi: grandi investimenti pubblici e privati per creare lavoro, in particolare nei campi in cui dovremmo essere forti, cultura arte bellezza turismo, oltre ovviamente alla scuola; e riforme coraggiose che smontino rigidità e privilegi, a cominciare dai meccanismi scandalosi di selezione della classe dirigente, che dall’università agli ospedali manda in cattedra preferibilmente figli allievi e fidanzate.

Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/09-03-2018/index.shtml
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