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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144613 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Ottobre 14, 2015, 02:46:06 pm »

Gli italiani e i migranti
Immigrazione, la paura della gente non è una colpa

Di Aldo Cazzullo

La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata, come fa la Lega. Ma non va neppure negata e rimossa, come fa la sinistra e anche una parte del mondo cattolico. La paura si vince rimuovendone le cause.

Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutto non ne vedono la fine. L’impressione è che il governo e gli enti locali stentino a organizzare sia l’accoglienza, sia i rimpatri; e soprattutto non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologica senza cui l’integrazione resta utopia. Il tentativo di coinvolgere l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le guerre civili nel NordAfrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizzare l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedono ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendoli ai trafficanti di uomini, e di selezionare all’origine i «migranti economici», distinguendo le figure professionali di cui l’Italia ha bisogno dalla massa che andrebbe fermata o rimandata indietro.

I migranti non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il tessuto industriale e sociale, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia.

Le reazioni emotive di fronte a migranti che non si sono ancora neppure visti, come nel paese rosso di Badia Prataglia sull’Appennino toscano, e gli scontri tra i parroci che li accolgono e i sindaci che li respingono, come a Bondeno, in riva al Po, non sono conseguenze del razzismo, ma dell’insicurezza. Che cresce proprio perché nella discussione pubblica non viene considerata, bensì liquidata con un’alzata di spalle o uno sguardo di commiserazione.

Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierata dell’immigrazione, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici; tanto i figli vanno alla scuola internazionale, e i nonni nella clinica privata. L’immigrazione può rivelarsi un sollievo per il sistema produttivo, ma comporta un prezzo, tutto a carico delle classi popolari, chiamate a combattere ogni giorno una guerra tra poveri per il posto all’asilo, il letto in ospedale, la lista d’attesa al pronto soccorso, e pure la casa e il lavoro.

Certo, alle società esangui e anziane d’Europa servono le energie formidabili che salgono dalle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo. Ma non è forse cinica la logica di rimpiazzare con i nuovi venuti i bambini che gli italiani non fanno più, anziché sostenere la maternità o almeno mettere in condizione le donne di scegliere liberamente? Anche sull’apporto dei migranti all’economia è nata una retorica, ridimensionata sul Financial Times da Martin Wolf, editorialista britannico orgogliosamente figlio di profughi: per coprire i buchi del welfare e della previdenza l’Europa dovrebbe accogliere in pochi anni decine di milioni di stranieri. Che non sbarcano nelle vaste praterie deserte d’America, ma in Paesi - come il nostro - montuosi e densamente antropizzati, cioè popolati da secoli non solo dall’uomo e dalle sue opere ma da memorie e culture, retti su equilibri precari da ricostruire ogni volta. Così diventano simboli anche l’altalena contesa nel giardino di Padova chiuso tra il campo profughi e l’asilo, o la rivolta di Gorizia in difesa del parco che custodisce i segni drammatici della sua storia, trasformato in bivacco.

C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Volontari laici e cattolici fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministrazione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerire il peso che grava sulle nostre frontiere, organizzando il viaggio dei profughi e il respingimento dei clandestini; e far funzionare la macchina dell’integrazione, legando i diritti ai doveri, che comprendono la conoscenza e il rispetto dei nostri valori, a cominciare dall’uguaglianza tra uomo e donna. Forse don Abbondio aveva torto: il coraggio uno se lo può dare. A patto di rispettare la paura ed eliminarne le ragioni.

14 ottobre 2015 (modifica il 14 ottobre 2015 | 07:32)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_14/immigrazione-paura-gente-non-colpa-a239b3d4-7233-11e5-b015-f1d3b8f071aa.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Novembre 07, 2015, 09:55:49 pm »

Il rapporto con Salvini
Forza Italia e l’alleato inevitabile
Con il centro presidiato da Renzi, Berlusconi è «obbligato» a cercare Salvini

Di Aldo Cazzullo

Ma perché dovrebbe stupire, scandalizzare, dividere Forza Italia - o quel che ne resta -, il fatto che Berlusconi vada nella piazza della Lega a Bologna? Era il caso di montare uno psicodramma? Non vale neppure la pena rispondere a chi sta cercando di creare un clima da luglio 1960: è evidente che qualsiasi forza politica democratica ha diritto di espressione in qualsiasi città; e proprio da Bologna, con una manifestazione dal titolo molto esplicito, Grillo lanciò la sua rincorsa al 25 per cento. Più interessante è capire perché desti meraviglia e acrimonia, anche dentro Forza Italia, la circostanza che il fondatore manifesti con la Lega.

Non c’è dubbio che, se dovesse scegliere un commensale o un compagno di vacanze, Berlusconi preferirebbe Renzi a Salvini. Ma, dopo la fine delle larghe intese e dopo la rottura del patto del Nazareno, l’alleanza con i leghisti e la ricostruzione del centrodestra è per lui la via obbligata. Ogni leader politico ha uno schema in testa. E con quello gioca la sua partita. Lo schema di Berlusconi fin dal ‘94 è sempre stato unire tutti gli oppositori della sinistra, dai moderati ai radicali, senza arretrare di fronte a nulla: il Bossi secessionista, il Fini secondo cui Mussolini era il più grande statista del Novecento, e poi gruppuscoli e personaggi anche meno significativi. Non si vede perché non dovrebbe cercare anche ora l’alleanza con una Lega in salute, oltretutto in un momento in cui Salvini sembra aver rinunciato, almeno a parole, alla scorciatoia populista - l’uscita dall’euro, la guerra a Berlino e a Bruxelles - che la svolta greca ha dimostrato impraticabile.

Berlusconi rischia di sottomettersi a Salvini? Ma il consenso ormai è lì, lì ormai - anche a causa degli errori di questi anni - sono i suoi elettori, non al centro, presidiato da Renzi: un’area in cui sarà molto difficile che partitini nati da operazioni di Palazzo si trasformino in una forza politica autonoma e competitiva alle elezioni. E, se vuole conservare un ruolo di raccordo, Berlusconi deve stare dov’è il consenso; tentando di orientarlo in una prospettiva ragionevole di opposizione e di alternanza, anziché verso una deriva antisistema. Che poi nel ruolo di trait d’union che fu di Tremonti ci sia oggi il suo arcinemico Brunetta - grande sostenitore della flat tax, l’aliquota unica proposta dal Carroccio - è solo un’apparente bizzarria che conferma la regola della politica italiana degli ultimi vent’anni.

Non è impossibile che sia proprio la Lega a esprimere il candidato premier del centrodestra. Anche la Cdu - mutato il molto che c’è da mutare - nel 1998 lasciò che corresse per la cancelleria il capo degli alleati bavaresi della Csu: Stoiber però fu travolto dal socialdemocratico Schröder, il cui slogan era appunto «Die Neue Mitte», il nuovo Centro. Al di là della dimostrazione di forza a Bologna, per Salvini un ballottaggio contro Renzi sarebbe ostico; tanto più che il suo sbarco al Sud per ora è fallito, perché la Lega Sud non può nascere come una sottomarca di un prodotto del Nord. Ma se Salvini e Berlusconi trovassero insieme un uomo davvero nuovo, credibile e fuori dai giochi, come è stato Brugnaro per Venezia, allora l’esito finale potrebbe riaprirsi; perché il centrodestra in Italia ha una riserva di voti più ampia, e non è scontato che lo schema di Renzi - giocarsi la partita a tutto campo, ponendosi non come antiberlusconiano ma come postberlusconiano - porti i voti necessari a compensare l’emorragia a sinistra. Restare accanto alla Lega, per ricostruire un’alleanza credibile in futuro per il governo del Paese: al di là delle intemperanze verbali che certo ascolteremo domani da piazza Maggiore, Berlusconi non ha prospettive diverse da questa.

7 novembre 2015 (modifica il 7 novembre 2015 | 07:45)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_07/forza-italia-l-alleato-inevitabile-b4bfa78a-8515-11e5-8384-eb7cd0191544.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Novembre 11, 2015, 06:13:01 pm »

Un ricordo di Glucksmann, il grande nemico del male

Di Aldo Cazzullo

Ritrovare la via che dai Grands Boulevards sale verso Montmartre ed entrare nella casa di André Glucksmann, né borghese né bohémien, dai pavimenti di legno curvi sotto il peso di migliaia di libri, dava la confortevole sensazione che si potesse ancora pensare il mondo, o almeno la Francia. In Francia si erano incontrati i suoi genitori, ebrei austriaci, in fuga dal nazismo. Il giovane André aveva studiato con Aron, ed era stato molto vicino a Sartre: fu lui a riconciliarli, invitandoli da Giscard, a chiedere aiuto per i boat-people vietnamiti (i due non si parlavano da trent’anni, da quando Sartre aveva detto a Malraux che de Gaulle era «un piccolo Hitler», e Malraux gli aveva dato uno schiaffo. Sartre ruppe sia con lui sia con Aron. Era la prima volta che Sartre entrava all’Eliseo in vita sua. Aron gli si sedette accanto e gli disse: «Bonjour, mon petit camarade»).

Glucksmann era cresciuto a Billancourt, tra la fabbrica Renault e la mensa operaia. Veniva da sinistra, e con la sinistra era molto critico. Appoggiò Sarkozy perché vedeva in lui un’idea della «Francia tutta intera, da quella giacobina a quella cattolica»; e il giorno dopo la vittoria cominciò a criticare Sarkozy, a maggior ragione quando il presidente si mise a inseguire il Front National, che Glucksmann disprezzava. Ha scritto un libro meraviglioso, Lettres Immorales de la France e de l’Allemagne, in cui spiegava la differenza tra i due Paesi partendo dai diversi finali della fiaba di Cappuccetto Rosso: «Nella versione francese la bambina muore. In quella tedesca rispunta dalla pancia del lupo. È l’idealismo. L’incapacità di vedere il male. Ieri Hitler, oggi Putin, con cui i tedeschi fanno tranquillamente affari». Putin era la sua bestia nera: fu al fianco dei ceceni e dei giornalisti perseguitati. Aveva una moglie molto bella. Era uomo di grande spirito, ma non rideva mai alle proprie battute. Diceva sorridendo le cose serie, e seriamente le cose divertenti. Persone così intelligenti si incontrano poche volte nella vita. Era un vero europeo.

11 novembre 2015 (modifica il 11 novembre 2015 | 08:49)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_11/ricordo-glucksmann-grande-nemico-male-ca3b9f3c-883b-11e5-a995-c9048b83b4c2.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Novembre 15, 2015, 09:07:40 pm »

ATTACCHI TERRORISTICI IN FRANCIA
Attentati a Parigi, un disastro per Hollande. Ma la Francia reagirà
Dopo i nuovi attacchi Charlie Hebdo, all’indomani della strage, la Francia si risveglia ancora vulnerabile correndo il rischio di farsi sopraffare dalla paura

Di Aldo Cazzullo, inviato a Parigi

Nel sabato spettrale di Parigi si consuma anche la tragedia di un capo di Stato, di una classe dirigente, di un’idea della Francia. L’attacco a Charlie Hebdo era un attacco ai valori francesi, alla libertà d’espressione, e Hollande seppe riunificare il Paese, guidando la grande marcia per le vie della capitale accanto ai leader del mondo libero. La sua bassissima popolarità ebbe un rimbalzo: il presidente era stato all’altezza della situazione. Stavolta è diverso. Stavolta è un disastro. Di sicuro, anche stavolta la Francia reagirà, si mostrerà compatta contro il terrorismo, darà prova di dignità e fierezza. Ma nulla potrà cancellare lo scacco.

Per tutti: per l’apparato di sicurezza dello Stato, per la classe politica tradizionale - non solo francese -, per le sorti del confronto delicato e difficile tra il ventre del Paese e gli immigrati, tra la Francia e l’Islam. Hollande era allo stadio. L’hanno portato via. Si giocava Francia-Germania, derby d’Europa, primo obiettivo di questo attacco al continente, diretto anche contro l’alleanza franco-tedesca, contro la nazionale francese «blanc-black-beur» simbolo dell’integrazione con le ex colonie africane e maghrebine, e contro la sua tifoseria «meticcia»: una parola che in Francia era un insulto ed è diventata un valore. Spaventato, scosso, nella notte il presidente ha parlato al Paese. Poi si è fatto vedere in strada, come dopo gli attentati del gennaio scorso. Quindi ha fatto quel che fanno i politici quando fronteggiano una tragedia molto più grande di loro: si è chiuso in una serie di vertici e riunioni, consigli dei ministri e consigli di sicurezza. Alle 11 del mattino è tornato a parlare. Un discorso efficace, con toni che a volte volevano essere sbrigativi - «saremo spietati» -, a volte volevano essere, ed erano, nobili: «La Francia trionferà sulla barbarie. Difendiamo la nostra patria e molto di più; difendiamo i nostri valori, la nostra umanità». Il presidente ha invitato all’Eliseo i rappresentanti di tutti i partiti, compreso il Front National. Il richiamo all’unità avrà il suggello della cerimonia laica di Versailles, dove lunedì Hollande riunirà l’Assemblea nazionale e il Senato in seduta congiunta. Una scelta indovinata, solenne. Che però non cambia la sostanza delle cose. È certo che la Francia saprà reagire.

È probabile che la carica di stabilizzazione, lo spirito di «rassemblement» provocati da un attacco come questo evitino nell’immediato ricadute negative per il presidente e l’assetto politico-istituzionale che si regge sull’Eliseo, sul rapporto privilegiato con Berlino, sul ruolo della Francia a Bruxelles. Ma la sensazione di insicurezza dei cittadini e di inadeguatezza della politica che si respira in queste ore è destinata a dare frutti avvelenati nel tempo. E poco importa se contro un atto di guerra diffusa come questo - sia pure previsto dopo l’intervento francese in Siria - l’intelligence e i corpi di polizia possano fare poco, almeno nelle prime ore. A gennaio Marine Le Pen rimase isolata, non fu invitata alla marcia, a differenza di Sarkozy. Questa volta l’idea di base del lepenismo - troppi musulmani in Francia, troppi immigrati in arrivo, troppo lassismo alle frontiere - è diventata un mormorio diffuso, quasi un luogo comune. Tra meno di un mese si vota per le regionali, la sinistra al governo perderà quasi dappertutto, Marine è in testa ai sondaggi a Lilla e sua nipote Marion in Provenzia-Alpi-Costa azzurra. Ma la partita in gioco è molto più ampia. Costruzione europea, integrazione, immigrazione: da oggi nulla sarà come prima. E la campana non suona solo per una Parigi fredda e deserta, che presto tornerà a vivere; batte in tutti i palazzi di governo d’Europa; batte anche per noi.

14 novembre 2015 (modifica il 14 novembre 2015 | 12:48)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_14/attentati-parigi-disastro-hollande-ma-francia-reagira-e546a2e8-8aa9-11e5-8726-be49d6f99914.shtml
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« Risposta #214 inserito:: Novembre 17, 2015, 06:58:57 pm »

Dopo gli attacchi

Le vittime devono trovare un nome
I parenti entrano per il riconoscimento dei cadaveri.
Escono barcollando, in lacrime, cercando l’aria con la bocca spalancata.
Ma dopo il dolore, c’è la dignità ferita e l’orgoglio

Di Aldo Cazzullo, inviato a Parigi

In riva alla Senna, tra la Gare de Lyon e la colonna della Bastiglia, c’è la Morgue. L’istituto di medicina legale, dove sono custoditi i corpi dei morti di Parigi. Tutti dovranno subire l’autopsia. Sono stati riconosciuti in 103. Ventisei restano da identificare. All’ingresso ci sono tre poliziotti e tre psicologi, tutti sulla sessantina, due donne dai capelli bianchi e un uomo calvo. Sono coetanei dei genitori delle vittime. Li accolgono. Li preparano. Offrono un tè caldo o un’arancia. Spiegano come dovranno comportarsi all’interno. Non hanno l’aria grave ma comprensiva, a volte tentano di sorridere. I familiari dei morti si abbandonano a loro completamente. Stanno vivendo un momento che ricorderanno per sempre, i pochi minuti trascorsi con gli psicologi creano un rapporto molto intenso. Poi entrano nell’edificio di mattoni rossi, salgono al primo piano, un unico enorme ambiente illuminato da finestroni ad arco, e attendono in un angolo, seduti su sedie di plastica, di essere chiamati. Escono barcollando, in lacrime, cercando l’aria con la bocca spalancata.

Dopo lo strazio la dignità ferita
Ma va detto che, dopo la prima reazione di strazio, viene fuori in molti un misto di dignità ferita e di fierezza, insomma di rabbia e di orgoglio, che in effetti sono i sentimenti popolari che all’evidenza prevalgono in questi casi. Ci sono i figli dell’immigrazione, neri e maghrebini, che non hanno pudore di piangere, e le tradizionali famiglie francesi, più trattenute. Chi non ce la fa viene portato sotto una tenda bianca, dov’è stato allestito un pronto soccorso. Tirano dritto il padre, la madre e il fratello minore di Ludovic Boumbas, ucciso mentre cenava con gli amici al ristorante «La Belle Equipe», la bella squadra. Sono arrivati da Lilla, hanno salutato Ludovic, ora aspettano un taxi. All’immenso dolore privato si unisce il peso del dolore pubblico. In queste occasioni c’è chi si chiude, e chi invece sente il bisogno di parlare. La madre è inebetita, il fratello piange, il padre - capelli brizzolati, cappotto blu, occhiali, quasi identico all’attore americano James Earl Jones, quello che interpreta Alex Haley in Radici - invece tiene a raccontare del figlio. «Noi siamo del Congo. Ludovic lavorava alla Federal Express, per vivere, ma gli piacevano molto i libri e la musica. Disegnava. Era un ragazzo molto buono». Buono? Il Daily Mail scrive che è stato un eroe, che si è gettato addosso ai terroristi, che ha salvato una ragazza facendole scudo con il suo corpo. «Questo non lo so. Non so se era un eroe. Per me era molto di più. Era mio figlio». Il taxi è arrivato, il padre di Ludovic Boumbas deve andare. I poliziotti lo salutano militarmente.

16 novembre 2015 (modifica il 16 novembre 2015 | 16:00)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_16/attentati-parigi-dolore-vittime-morgue-parenti-06003d22-8c6d-11e5-b416-f5d909246274.shtml
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« Risposta #215 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:33:58 pm »

Ribellarsi nel nome di Valeria

Di Aldo Cazzullo

All’inizio era solo la vittima italiana. Poi ha avuto un volto, un nome, una storia. Infine Valeria Solesin è diventata un simbolo. In cui si è riconosciuta una generazione, la sua, e anche le altre, la precedente e le successive, che hanno visto in lei una sorella più grande, una figlia, una nipote. Per questo il dolore privato è diventato un lutto pubblico, e oggi piazza San Marco ne sarà giusto scenario.

Come sia avvenuta questa immedesimazione, è difficile dire. A poco a poco si è scoperto che Valeria era davvero una bella persona. Una giovane donna. Una volontaria. Una ricercatrice. Attraverso di lei non solo abbiamo sentito ancora più vicina la strage di Parigi. Abbiamo in qualche modo esorcizzato il senso di colpa che proviamo verso i ragazzi della sua età; ma questo non può essere una consolazione, deve essere un impegno. Il Paese delle pensioni e delle corporazioni, più ricco di rendite che di opportunità, abituato a considerare la cultura e la ricerca un costo più che un investimento, è molto avaro con i suoi giovani.

Valeria Solesin non ha piagnucolato, non si è chiusa in un lamento sterile contro il mondo intero. Il mondo l’ha affrontato, è andata all’estero, ha trovato lavoro in un’università di grande prestigio. Se i kamikaze avessero attaccato la Parigi dei turisti, di venerdì sera, gli italiani colpiti sarebbero stati molti di più. Invece hanno attaccato la Parigi popolare frequentata da Valeria: «l’Italienne » come l’hanno chiamata le tv francesi, che hanno trasmesso immagini di solidarietà da molti Paesi, ma non dal nostro.

L’Italia è stata rappresentata dal sorriso di Valeria e dalle dichiarazioni - riviste decine di volte - della madre.

I genitori sono stati all’altezza della figlia. Hanno avuto l’intelligenza di capire che la loro pena interiore era diventata comune, sono riusciti a farvi fronte, e hanno trovato nella solidarietà un elemento di conforto. Oggi in piazza non vedranno solo il presidente della Repubblica e il sindaco, il patriarca e l’imam, gli amici e i concittadini. Vedranno l’avanguardia di un Paese a cui, come ha detto la signora Solesin, Valeria mancherà.

Piazza San Marco non è solo un pezzo importante dell’identità italiana, un luogo di incontro tra culture e civiltà. Fu anche il teatro della prima manifestazione di donne della storia unitaria. Le veneziane accolsero il nuovo re con un corteo che chiedeva diritto di voto e di cittadinanza nel nuovo Stato; Vittorio Emanuele non capì e credette di tacitarle con il dono di un anello bianco rosso e verde. Cominciò quel giorno ad accumularsi il debito storico del Paese nei confronti delle donne. In passato le vite interrotte dalla violenza hanno suscitato in quelli che restano sentimenti di rimpianto anche rabbioso per chi «è morto senza dire l’ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio».

Altre volte è prevalsa l’idea che «qualcosa restava; erano morti i suoi amici, morti i suoi vent’anni, ma qualcosa viveva, qualcosa che non si era ancora spezzato». Il messaggio oggi non potrebbe essere più chiaro: piangere è inevitabile ma non basta, il male va combattuto e il male non è soltanto il nemico, è anche l’ignavia, la rassegnazione, il ripiegamento su se stessi, la resa alla violenza o anche solo al destino. Se sapremo ribellarci a tutto questo, qualcosa di Valeria Solesin resterà.

24 novembre 2015 (modifica il 24 novembre 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_24/ribellarsi-nome-valeria-b23c6e52-9272-11e5-b7a6-66411f67f00e.shtml
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« Risposta #216 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:42:41 pm »

Politica L’INTERVISTA ANTONIO CAMPO DALL’ORTO
«Manager, direttori, programmi Così voglio cambiare la Rai»
Il dg: troppi talk show la stessa sera. Lo scandalo tangenti? Diffonderemo la legalità

Di Aldo Cazzullo

Antonio Campo Dall’Orto, lei si è insediato in Rai ad agosto. Siamo quasi a Natale. Cos’ha fatto in tutto questo tempo?
«Ho iniziato la costruzione delle architravi per la grande trasformazione con cui porteremo la Rai nel mondo di oggi. Per fare solo qualche esempio ho istituito una direzione creativa che contaminerà tutte le attività, e una direzione digitale, che farà della Rai una media company. Ricordo l’accordo con Sky per portare Rai 4 sul satellite e quello con Netflix per la coproduzione di Suburra. Ci vuole più tempo a costruire una macchina nuova che a mettere il carburante in una vecchia. Noi stiamo costruendo una macchina del tutto nuova».

Una rivoluzione?
«Una rivoluzione presuppone la rottura con il passato. Diciamo una fortissima accelerazione al cambiamento, per portare avanti un percorso che si è interrotto. In passato ad esempio designer, creativi, artisti lavoravano per la televisione pubblica: dobbiamo ricominciare. In questi anni è come se l’azienda si fosse mossa in un tempo rallentato».

Quale Rai ha trovato?
«Mi ha colpito la grande passione di chi ci lavora. La sua identità. Più di quanto pensassi. Ma la Rai è ferma al modello tv, e basta».

È una tv. Cos’altro dovrebbe fare?
«Il tema è partire dal prodotto. Che si tratti di un programma di informazione, di una fiction o di un programma radio, questi vanno pensati fin dalla loro origine per tutte le destinazioni possibili, dalla tv allo smart phone a internet. Il tutto cercando di rendere evento tutto ciò che lo può essere».

In che modo?
«Lavorando sulla comunicazione e il coinvolgimento delle persone. Prenda le Olimpiadi: cominciano il 5 agosto, ma la promozione partirà a Natale, e riguarderà anche le Paralimpiadi. Prenda la storia di Lea Garofalo, donna coraggiosa e poco conosciuta, che abbiamo raccontato martedì scorso. Alla base c’è sempre il talento di chi racconta, ma abbiamo fatto promozione e collegamento con gli altri nostri programmi, creando un evento destinato a rimanere nell’immaginario di chi l’ha visto. Risultato: quasi il 20% di ascolti; quasi il doppio dei due talk show in programma contemporaneamente».

I talk sono morti?
«Non dico questo. Anzi, stanno migliorando, riconosco la volontà di diventare più comprensibili. Pe esempio la formula del sabato sera di Fazio funziona. Ma sono troppi. E non ha senso schiacciarli l’uno contro l’altro nella stessa sera. Credo molto nella tv scritta, che è maggior garanzia di qualità. Certo non si può scrivere tutto; ma la parte non scritta perde forza se manca la qualità degli interpreti».

Lei è considerato renziano della prima ora. Andava alla Leopolda. Qual è il suo margine di autonomia da Renzi?
«Autonomia totale. Ho un mandato chiaro: riportare la Rai a compiere in modo più alto il servizio pubblico, basandomi su due linee: competenza e meritocrazia».

Sta dicendo che non sente mai Renzi?
«L’ho sentito il 5 agosto, quando mi ha chiesto di fare il direttore generale, ma non mancheranno i momenti di confronto. Per il resto, i miei interlocutori sono soprattutto dentro l’azienda, non fuori».

Qual è la sua idea di servizio pubblico?
«Aiutare a costruire il futuro. Lo sviluppo sociale. L’alfabetizzazione digitale degli italiani: l’agenda digitale europea impone di ridurre entro il 2020 i “digital divide” al 15% della popolazione. La Rai deve fare bene i suoi contenuti e distribuirli in tutti i modi che consentono questo salto culturale».

Cambierà tutti i direttori di rete e tutti i manager?
«Ci sarà un giusto equilibrio tra le competenze esterne e quelle interne. La direzione creativa e quella digitale non esistevano. Per la direzione digitale ho individuato un manager che proviene da esperienze internazionali. Per la direzione creativa sto facendo una ricerca che coinvolga sia interni che esterni. In altri ruoli valorizzeremo i talenti che sono già in Rai e sono disposti ad accettare la sfida della trasformazione».

Quant’è grave lo scandalo tangenti? Si parla di 38 milioni di fondi neri, di 37 dossier interni sequestrati dalla magistratura. Lei ha mandato via il capo dell’ufficio legale. Al capo dell’Audit hanno bruciato la macchina. Che succede in Rai?
«Ci sono cose coperte dal segreto istruttorio. Posso dirle questo: stiamo facendo tutto quello che serve per diffondere in Rai la cultura della legalità. Andremo avanti dritti, qualunque cosa possa essere accaduta. All’insegna della massima trasparenza, per supportare le tantissime persone perbene che lavorano giorno e notte per la tv pubblica».

Come cambierà l’informazione? Quante saranno le Newsroom? Perché se saranno tre, tanto vale tenere i tre tg.
«Il punto è usare meglio le risorse, e ancor di più le persone. Lo facciamo bene quando usiamo linguaggi diversi e dovremo farlo sempre di più in futuro. RaiNews 24 immagini e notizie; i tg racconti brevi; gli approfondimenti sono basati sul confronto tra opinioni. Abbiamo un brand molto forte sulle inchieste, Report , ma dobbiamo per esempio lavorare di più sugli approfondimenti. Dobbiamo lavorare sull’efficienza e sull’efficacia. Ci sono buone idee: il programma di Severgnini mi è piaciuto».

Cambierà il direttore del Tg1?
«Prima decideremo come cambiare l’informazione, poi guarderemo alle persone. A me pare però che l’informazione in Rai la sappiamo fare bene».

Vespa sarà ancora centrale nella sua Rai?
«Lo speciale di Vespa sui fatti di Parigi è andato bene. Nello stesso tempo se ne stava occupando Fazio, in modo molto diverso, e anche lui è andato bene. L’importante è trovare i toni giusti».

C’è un caso Rai3? La rete che fu di Guglielmi ha sbagliato troppe trasmissioni, non crede?
«È sbagliato inserire cose partendo dal nostro gusto, anziché dal gusto del pubblico. Le varie reti devono costruire spazi editoriali complementari, pensando anche ai giovani. Oggi per i giovani la Rai è un brand poco attrattivo. Sono stati fatti tentativi per innovare Rai3, ma ancora non si è trovata una strada che riesca a unire tradizione e innovazione».

Non comprate troppi prodotti fuori, anziché produrli facendo lavorare tutti i dipendenti?
«No. Ci sono aree in cui noi produciamo solo internamente, come l’informazione. Altre, come la fiction e il cinema, in cui finanziamo produzioni esterne. Nell’intrattenimento si deve trovare un equilibrio. Molte competenze negli ultimi 20 anni sono uscite dall’azienda, e vanno cercate fuori».

Gli agenti non hanno troppo potere?
«In tutto il mondo per ingaggiare gli artisti si tratta con i loro agenti. In Italia è tutto concentrato in troppe poche mani. Più l’editore ha chiara la propria missione, maggiore è la sua forza contrattuale».

Rai fiction e Rai cinema si fonderanno?
«No. Sono due modelli di business molto diversi».

Non ci sono un po’ troppe fiction edificanti, su santi e preti?
«La mia indicazione è privilegiare contemporaneità e, se possibile, ambizione internazionale».

Ad esempio?
«Una fiction come È arrivata la felicità, che racconta la società che cambia, è un buon esempio di servizio pubblico. Come Sotto copertura sull’arresto del boss Iovine. Su queste cose investiamo volentieri. Su prodotti melò come Grand hotel facciamo fatica. Non dico non si debbano fare; ma non vedo perché dovremmo spenderci soldi pubblici».

Ci saranno esuberi tra i dipendenti?
«Ci saranno efficienze. Alcune strutture sono superate; faranno altro, o saranno chiuse. Ma gli esuberi non sono certo la prima cosa da cui partirò».

Si va verso il canone in bolletta, con il governo che se ne tiene un po’?
«Il cambiamento che propongo è molto ambizioso, e richiede qualche risorsa in più. Investire sulla multipiattaforma digitale costa. Anche perché secondo me il servizio pubblico deve avere meno pubblicità. Dal primo maggio il canale Yo-yo per i bambini e i canali culturali come Rai5 non avranno pubblicità».

Dà per persa la battaglia degli ascolti?
«Tutt’altro. Io voglio una tv popolare che non abbia l’angoscia degli ascolti. E voglio anche una tv di qualità. Tornerà l’indice di gradimento. Il Qualitel darà la media mensile dei vari programmi. Quelli di Alberto Angela ad esempio hanno un buon riscontro».

Ne ha parlato con Ettore Bernabei?
«Certo. Mi ha raccontato com’era la sua Rai. Oggi la tv deve conquistarsi spazio in mezzo a mille offerte alternative. Ai tempi del monopolio il pubblico non poteva che seguirti. Oggi lo devi conquistare ogni giorno».

22 novembre 2015 (modifica il 22 novembre 2015 | 07:53)
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DA - http://www.corriere.it/politica/15_novembre_22/campo-dallorto-intervista-cosi-voglio-cambiare-la-rai-a823a6ae-90e4-11e5-bbc6-e0fb630b6ac3.shtml
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« Risposta #217 inserito:: Dicembre 17, 2015, 07:39:21 pm »

Il secondo turno delle elezioni regionali
Marine Le Pen a bocca asciutta

Ma per batterla devono unirsi tutti
Il voto non ha solo ridimensionato le aspirazioni del Front National, ma aperto interrogativi sul futuro di Hollande, Valls e Sarkozy

Di Aldo Cazzullo

Non soltanto oggi Marine Le Pen non potrebbe essere eletta presidente della Francia; non è stata eletta neppure presidente della Regione Nord-Pas de Calais-Picardie. Non ha vinto neanche sua nipote Marion in Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Questo non cancella il risultato clamoroso di domenica scorsa: il Front National è il primo partito del Paese, e per batterlo si devono unire tutti gli altri. Questo crea una tensione che durerà almeno sino alle presidenziali del maggio 2017.

La mobilitazione chiesta non solo dalla sinistra, ma anche dall’associazione degli imprenditori e da una parte del mondo cattolico, c’è stata. Sono andati a votare quasi quattro milioni di francesi che domenica scorsa erano rimasti a casa. L’affluenza oltre il 58% annacqua le militanze e le radicalità. Il meccanismo del ballottaggio, in cui spesso si vota «contro» piuttosto che «per» qualcuno, penalizza le estreme.

Marine Le Pen rivendica comunque una vittoria morale; e in effetti è un’ingiustizia che il suo partito abbia solo due deputati all’Assemblea Nazionale. Il sistema è impostato sul bipolarismo; ma i poli ora sono tre. Una larga parte dei francesi non è rappresentata dalla politica; e questo crea una stortura, un’esasperazione che Marine denuncerà e nel contempo tenterà di alimentare.

Il presidente Hollande è rimasto in silenzio per tutta la settimana. Ha tentato di rappresentare l’uomo di Stato al di sopra delle parti. Al posto suo ha parlato – fin troppo - il primo ministro Valls, che è giunto a prevedere il rischio di una guerra civile. I socialisti governavano tutte le regioni; il passo indietro è netto. Valls esce ridimensionato. Il candidato alle presidenziali del maggio 2017 sarà quasi certamente Hollande. Il problema per lui sarà arrivare al ballottaggio. Potrebbe non farcela, a meno che non sia il candidato unico della sinistra: una chance possibile solo in un clima di drammatizzazione. I risultati dimostrano che al secondo turno Hollande potrebbe battere Marine Le Pen.

Se invece il ballottaggio fosse tra Marine e un candidato della destra repubblicana, la sconfitta del Front National sarebbe certa. Ma chi sarà il prescelto? L’uomo che avrebbe maggiori possibilità è l’ex primo ministro di Chirac, Alain Juppé. Sarkozy ha ancora una certa presa sul partito. Stanotte ha colto un’apparente vittoria. Ma Sarkozy ha troppi guai giudiziari. E troppi nemici. Persino l’ex portavoce della sua campagna nel 2012, Nathalie Kosciusko-Morizet, lo sta abbandonando. I Repubblicani conquistano sei Regioni, ma a Lilla e a Marsiglia vincono grazie ai voti socialisti. Il programma con cui Sarkozy è rientrato in politica, tutto incentrato a destra, in una concorrenza difficilissima con il clan Le Pen, è messo in discussione. Le primarie dell’anno prossimo saranno una battaglia durissima.

Il voto francese cambia anche l’Europa. I populisti non sono ancora in grado di vincere un’elezione a doppio turno. Ma sono arrivati a un passo dal farcela. I partiti socialisti sono ovunque in grave crisi: domenica prossima si vota in Spagna, e i popolari di Rajoy sono favoriti; ma non avranno la maggioranza assoluta. Il centrodestra tradizionale non ha i voti per governare da solo: quel che è successo ieri in Francia – socialisti che sostengono la destra repubblicana – nella Germania della Grande Coalizione avviene da due anni. Marine Le Pen non ha vinto; ma continuerà a condizionare la Francia e l’Europa.

13 dicembre 2015 (modifica il 13 dicembre 2015 | 22:00)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_13/elezioni-francia-commento-cazzullo-e2df7f72-a1cc-11e5-80b6-fe40410507f1.shtml
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« Risposta #218 inserito:: Dicembre 19, 2015, 05:33:54 pm »

Elezioni regionali francesi
La sfida delle signore Le Pen: Marion e Marine, due idee e un clan «Siamo noi i veri repubblicani»
La leader è laica e ribelle, la nipote cattolica e anti-gay.
Alle regionali, comunque vadano i ballottaggi, hanno fatto il pieno di voti, ma l’Eliseo è lontano

Di Aldo Cazzullo

«Siamo noi i veri repubblicani. Siamo noi i difensori della nazione e dei suoi valori: libertà uguaglianza fraternità laicità». Ha fatto un discorso quasi gollista, Marine Le Pen, dopo aver ottenuto un sontuoso 42% al primo turno delle elezioni regionali francesi, che va oltre le previsioni dei sondaggi. Ha persino parlato di «grandeur», come faceva il Generale. Un capovolgimento totale, per un partito che ha sempre visto nei gollisti il proprio nemico naturale. Cinque minuti prima, l’ultimo erede di quella famiglia politica, Nicolas Sarkozy, rifiutava qualsiasi accordo con la sinistra contro il Front National: Hollande e le signore Le Pen per lui pari sono. Comincia così un’era del tutto nuova della storia francese ed europea.

Nel segno di Jeanne d’Arc
Le vincitrici di stanotte hanno lo stesso ambizioso modello - Giovanna d’Arco - e lo stesso nome: Marion (anche se la zia si fa chiamare Marine). Eppure non potrebbero essere più diverse. Le due signore Le Pen, che hanno fatto del Front National il primo partito di Francia e tra una settimana diventeranno presidenti delle due Regioni agli antipodi, il Nord atlantico di Lilla e Calais e il Sud mediterraneo di Marsiglia e Nizza, hanno storie e idee molto distanti. Questa ambiguità contribuisce alla crescita straordinaria dell’estrema destra. Ma costituisce anche il limite che le renderà difficile, se non impossibile, la conquista dell’Eliseo e del Paese. (VEDI LA MAPPA DEL VOTO).

Su fronti opposti
Marine è nata nel fatale 1968 ed è la terza figlia di Jean-Marie. Marion Maréchal-Le Pen, 26 anni giovedì prossimo, è figlia della secondogenita del fondatore, Yann. Il Front non è un partito. E’ un clan. Una famigliona dove ci si detesta. Il patriarca del resto l’ha teorizzato: «Il potere e la grandezza nascono dalla lotta. Gli europei si sono combattuti per decine di secoli, e hanno costruito una civiltà che ha dominato il mondo intero. Ora hanno fatto la pace, sono divenuti imbelli, e non contano più niente». I Le Pen sono per la guerra. Purtroppo per lui, Jean-Marie l’ha persa, ed è stato espulso. Comandano le donne. Marion è cattolica. Marine è laica, ha divorziato due volte (ora sta con l’ex segretario del partito, Louis Aliot), difende l’aborto. Marion è vandeana. Marine è rivoluzionaria. Marion ha manifestato contro i matrimoni omosessuali. Marine ha portato al vertice del partito omosessuali dichiarati. Marion è conservatrice, ai limiti della reazione. Marine è movimentista, ai limiti della confusione. Non a caso Marion ha superato il 40% nella Regione Paca, Provenza-Alpi-Costa azzurra, culla dell’immigrazione maghrebina, da anni feudo della destra per quanto divisa; mentre Marine viaggia su percentuali ancora più alte nel Nord-Pas de Calais (cui ora è stata aggregata la Piccardia), terra un tempo rossa di miniere e di industrie e ora desertificata e disperata. Marine Le Pen rifiuta di definirsi un’estremista. Per lei la divisione non passa più tra la destra e la sinistra, ma tra il sopra e il sotto della società, tra le élites e il popolo, tra gli enarchi fautori del libero mercato, dell’Europa unita e della società multietnica e la Francia profonda, “Paese di razza bianca”, sorvolata e spaventata dalla mondializzazione, dagli emigrati, ora dal terrorismo. Non a caso il Front è quasi al 50% tra gli operai e nelle banlieues popolari; mentre nel centro di Parigi non arriva al 20.

L’errore storico sul fascismo
Accusare Marine e Marion di fascismo, come da sempre tende a fare la sinistra francese, non è solo un errore tattico; è un errore storico. Il Front National non è figlio della Francia filonazista e clericale di Vichy. Jean Marie Le Pen tentava – a 16 anni – di arruolarsi nelle file della Resistenza quando Mitterrand riceveva dalle mani del maresciallo Pétain la francisque, massima onorificenza del regime. Il Front National è figlio dell’Algeria francese e dell’Oas, l’Organization de l’Armée Secrète che tentò di assassinare De Gaulle. E’ figlio delle sconfitte in Indocina (dove Jean-Marie combatté tra i paracadutisti), del crollo dell’impero coloniale, della frustrazione nazionalista; e i suoi nemici mortali, almeno fino ad ora, non sono mai stati i socialisti ma i gollisti in tutte le loro declinazioni. Questo rende ancora più importanti le parole pronunciate stanotte da Marine. Che però ha un problema: il crollo della sinistra. La figlia di Le Pen infatti spera di trovare al ballottaggio delle presidenziali 2017 Hollande, contro cui avrebbe qualche chance, anziché Sarkozy o peggio ancora Juppé, il delfino di Chirac, da cui sarebbe agevolmente sconfitta. Dietro il suo successo non c’è soltanto la richiesta di una stretta sull’immigrazione e di una lotta senza quartiere contro i terroristi, per i quali Marine invoca il ritorno della ghigliottina. C’è l’angoscia di una nazione abituata all’egemonia, che ora sente di non contare molto più di nulla. E c’è la frustrazione di scoprirsi impotente, dopo i discorsi di Hollande che Marion ha definiti «tonitruanti»: «Il presidente parla di guerra e non ha la forza di farla davvero».

La fine dell’Europa?
A dispetto della sua trasversalità, Marine rimane un personaggio anti-sistema. Se dopo Lilla conquistasse anche Parigi, sarebbe la fine dell’Europa. Il suo programma le impone di strappare non solo il trattato di Schengen, che un po’ tutti i francesi considerano superato, ma anche il trattato di Maastricht, che nel ’92 fu approvato da una maggioranza striminzita. Marine vuole restituire ai compatrioti 200 euro al mese di stipendio e soprattutto la sovranità. L’indipendenza da Berlino e da Bruxelles. Una gigantesca retromarcia. Il ritiro della Francia dalla storia.

L’eredità del padre
Marine non è una persona sgradevole. Come non lo è il padre: odiose sono le sue idee, a cominciare dall’antisemitismo rinnegato dalla figlia; ma in un Paese di politici sussiegosi, in cui il presidente socialista chiama i poveri «gli sdentati», i Le Pen sono gente alla mano. Il capo famiglia, il nonno di Marine, era un pescatore che nel 1942 affondò su una mina al largo della natia Bretagna. Lei fuma, beve, ha un tratto un po’ virile, pacche sulle spalle, cori a squarciagola. Ha la grinta del padre e l’imprevedibilità della madre, Pierrette, che dopo la separazione per vendetta posò nuda su Playboy. (Anche Marion ha avuto le sue vicissitudini: cresciuta da Samuel Maréchal, imprenditore e dirigente del Front, è stata riconosciuta solo dopo anni dal padre biologico, Raul Rauque, giornalista e diplomatico). Ma tra Marine e l’Eliseo ci sono due ostacoli. Ieri ha votato a malapena la metà dei francesi; per la scelta del presidente la partecipazione è molto più alta, e questo annacqua le militanze e le radicalità. E mentre al secondo turno delle Regionali possono partecipare tre e più candidati, e quindi il 40% basta per vincere, al ballottaggio per il capo dello Stato si arriva in due. Pur nel momento del trionfo di Marine, la maggioranza dei francesi stenta a credere che possa diventare presidente. Anche se da quando il terrore le ha dichiarato guerra la Francia cammina su un sentiero inesplorato. E per la fine dell’Europa non tifano solo i nazionalisti francesi.

6 dicembre 2015 (modifica il 6 dicembre 2015 | 22:18)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_06/sfida-signore-pen-marion-marine-due-idee-clan-fca3f2c2-9bef-11e5-9b09-66958594e7c5.shtml
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« Risposta #219 inserito:: Dicembre 23, 2015, 06:17:08 pm »

Il dopo voto
Elezioni in Spagna: quale governo?
I socialisti ago della bilancia
Il Psoe deve decidere se far nascere un governo di minoranza dei popolari o tentare l’avventura di un governo di sinistra con Podemos e i separatisti catalani. Intanto dice «no» a Rajoy premier, veto sul suo nome in particolare

Di Aldo Cazzullo, inviato a Madrid

La ragione o l’istinto? L’Europa o il popolo? Il futuro o la storia? Il dilemma è tutto sulle spalle all’apparenza erculee, in realtà fragili del leader Pedro Sanchez, e soprattutto dell’establishment del partito socialista. Il Psoe deve decidere se far nascere un governo di minoranza dei popolari – ipotesi minimalista ma realista -, o tentare l’avventura di un governo di sinistra con Podemos e i separatisti catalani, ipotesi romantica ma ai limiti dell’utopia, o ancora far precipitare il Paese verso nuove elezioni.

Ieri notte Sanchez ha riconosciuto che tocca a Rajoy, come capo della lista più votata, tentare di formare l’esecutivo. Ma stamattina, dopo la riunione dell’esecutivo, ha mandato il numero 2 del partito César Leuna a chiarire che i socialisti voteranno no a Rajoy. E se il premier facesse un passo indietro e il Pp. presentasse un candidato? Leuna non ha risposto. Quindi non ha escluso nulla. Le pressioni saranno fortissime. La base socialista guarda a sinistra: giustificare una forma di collaborazione con il nemico storico non sarà facile. Ma l’Europa considera l’ascesa al governo di Iglesias col codone da tanguero come una minaccia. E i baroni socialisti la pensano allo stesso modo; soprattutto quelli dell’Andalusia e dell’Estremadura, le regioni più povere, più legate allo Stato centrale, più ostili alle secessioni catalana e basca; e anche le uniche in cui il Psoe è arrivato primo.

La questione non è solo locale. La Germania ha già perso il bastione orientale del suo sistema, la Polonia. Non può permettersi di perdere anche il bastione occidentale, la Spagna. Il grosso del debito pubblico spagnolo è in mani tedesche. E l’Europa non è un’astrazione; esiste. L’Europa ha versato 40 miliardi di euro per salvare le banche spagnole. E non vuole avventure. Certo, Iglesias è talmente duttile che può rivelarsi un nuovo Tsipras. Ieri sera però cantava “El pueblo unido jamas sera vencido” nella piazza davanti al museo Reina Sofia, dov’è custodito Guernica di Picasso. Oggi ha proposto un “compromesso storico” per riscrivere la Costituzione e riconoscere che la Spagna è uno “Stato plurinazionale”: inaccettabile per il Pp ma anche per buona parte del Psoe. Nel dubbio, la Merkel preferisce decisamente una grande coalizione - molto difficile -, o comunque un accordo tra socialisti e popolari.

Spinge in questa direzione il vecchio Felipe González, che detesta Podemos e ne è detestato. Una coalizione di sinistra del resto non ha i numeri senza gli autonomisti baschi e i separatisti catalani. Barcellona manda in Parlamento 17 deputati indipendentisti; e la versione catalana di Podemos, grazie alla spinta del sindaco Ada Colau, è il primo partito. Iglesias vuole indire un referendum sulla secessione della Catalogna (personalmente è contrario, ma vuole che siano i catalani a decidere). Se i socialisti lo seguissero su questa via si suiciderebbero nel resto del Paese. Ma se si arroccassero in difesa dello status quo e di un governo dei popolari, Podemos punterebbe a nuove elezioni cui presentarsi come l’unica forza davvero alternativa.

Il re avrà un bel prodigarsi; ma può fare poco. I tempi sono lunghi: il Parlamento è convocato per il 13 gennaio. Se non emergeranno novità, Felipe VI proporrà come candidato presidente Rajoy. Prima è richiesta la maggioranza assoluta, poi quella semplice; se il governo ancora non nasce, restano due mesi di trattative per evitare nuove elezioni. Con le incognite economiche e finanziarie che l’instabilità, aggravata dalla questione catalana, porta con sé. La Spagna non è un’isola, fa parte dell’euro, di un sistema internazionale, della scacchiera globale. E anche quelli che hanno votato Rajoy sono popolo.

21 dicembre 2015 (modifica il 21 dicembre 2015 | 15:03)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_21/elezioni-spagna-quale-governo-socialisti-ago-bilancia-53ee6e0e-a7a8-11e5-927a-42330030613b.shtml
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« Risposta #220 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:15:57 pm »

Voto in Spagna, una carezza e un pugno per Rajoy, il leader «grigio»
Sarà un voto storico che segnerà la fine del bipartitismo.
Il premier del P.p. avrà bisogno di alleati per continuare a governare


Di Aldo Cazzullo, nostro inviato a Madrid

MADRID - Alla fine arriverà primo quest’uomo grigio, la barba grigia, il carisma di Paperoga, che chiude una campagna incolore quanto lui esibendo due sole macchie rosse: il berretto da Babbo Natale e il segno del pugno ricevuto sulla guancia sinistra da un contestatore minorenne. Alla fine arriverà primo Mariano Rajoy: «il nipotino di Franco» secondo la stampa internazionale; in realtà, un democristiano che ha fatto quel che la Merkel gli ha detto di fare.

Premurosa, l’altro giorno a Bruxelles la Cancelliera l’ha accarezzato sulla guancia colpita: se dopo la Polonia a Est dovesse perdere anche la Spagna a Ovest, l’altro Paese satellite, sarebbe un guaio. Le telecamere hanno letto il labiale di Rajoy: «Noi siamo primi, secondi il Psoe o i socialisti». «Vuoi dire Podemos?». «Sì, Podemos». «Secondi?» ha chiesto incredula Angela.

Manuela Carmena, la nuova alcaldesa (sindaco) di Madrid, è accusata di voler vietare il Natale? E allora Rajoy chiude il suo giro di Spagna con la «Cena de Navidad», una festa natalizia qui nella capitale. L’ingresso costa 20 euro, include il fazzoletto azzurro del partito, la maglietta azzurra, il porta-caramelle azzurro riciclabile come regalo ai nipoti. L’età media è alta. Padiglione 5 della Fiera, tra l’aeroporto e il campo di allenamento del Real. Il premier si è ripreso bene dal gancio incassato nelle vie di Pontevedra, la città dov’è cresciuto: «L’odio non mi fermerà. Quattro anni fa la Spagna era in ginocchio; ora è in piedi. C’è il rischio di una vittoria dell’estrema sinistra, che manderebbe il Paese in rovina. Noi stasera siamo qui per far onore al motto che ci siamo dati: la Spagna seria».

Nella settimana finale i sondaggi sono vietati. L’ultimo pubblicato da El Pais dà Rajoy al 25%. Le voci che girano nei giornali e le sensazioni che si respirano alla «Cena de Navidad» collocano il premier molto sopra. Ma arrivare primo non significa vincere le storiche elezioni di domani, che segnano la fine del bipartitismo spagnolo. Nel novembre 2011, nei giorni della caduta di Berlusconi, il Partito Popular ottenne il 44% e la maggioranza assoluta dei seggi. Stavolta avrà bisogno di alleati per governare. Rajoy non esclude un’intesa con i socialisti, purché si levi di torno il segretario Pedro Sanchez, che in Tv l’ha insultato definendolo «una persona indecente»; ma la grande coalizione non fa parte della cultura politica del Paese, la numero 2 del Psoe, la «presidenta» dell’Andalusia Susana Diaz, l’ha già definita «un’idea patetica, da sconfitti».

Gli unici con cui i popolari potrebbero accordarsi sono i Ciudadanos, i Cittadini di Albert Rivera, che ieri si è detto pronto ad astenersi per far nascere un governo Pp di minoranza; ma senza Rajoy alla testa. Il premier del resto ha impostato tutta la campagna contro il giovane emergente, e nelle urne finirà per ridimensionarlo. Rivera ha chiesto un intervento Nato in Siria; lui ha evitato di incontrare Hollande per non prendere impegni. Rivera intende accorpare i comuni al di sotto dei 5 mila abitanti; lui lancia la campagna «mi pueblo no se cierra», il mio paesino non si chiude. Rivera si presenta come il nuovo; lui lo definisce «un prodotto di marketing, con un quarto d’ora di storia». Rivera ha riempito i teatri delle grandi città; Rajoy ha girato i villaggi della Spagna profonda, cucinato piatti tipici, giocato a domino con gli anziani, preparato il caffè alle signore. Si è fatto vedere a Barcellona solo giovedì sera, poi è stato a Valencia, ora è qui a Madrid: «Noi vogliamo difendere l’identità nazionale. Noi vogliamo una Spagna unita, nel rispetto della monarchia e della Costituzione». Parte il coro: «Yo soy español, español, español!».

La campagna elettorale in fondo gliel’hanno fatta i separatisti. Con il No all’indipendenza di Barcellona, Rajoy si è guadagnato la riconoscenza degli altri spagnoli. I secessionisti sono come sempre i ricchi, in questo caso catalani e baschi. I poveri restano attaccati alla mammella dello Stato. E la Catalogna, con la volontà di dichiararsi nazione, con la pretesa di imporre la propria lingua ai «charnegos» venuti da fuori, è vista ormai con ostilità dalla Spagna cattolica, eterna, conservatrice, che stasera intona l’ Adeste Fideles e poi Noche de paz , Campana sobre campana , El pequeno tamborilero e tutti i classici natalizi.
Al tavolo con il leader - empanadas, jamon, insalata di pasta - c’è la donna che ha tentato invano di prendergli il posto: Esperanza Aguirre, ala destra del partito. Non c’è riuscita perché il Pp ha un tratto militare. Il capo comanda e gli altri obbediscono; e Rajoy è più duro di quanto sembra. Un fondista. E’ sopravvissuto a due sconfitte consecutive, nel 2004 e nel 2008, contro Zapatero non contro Churchill. Ha resistito allo scandalo Barcenas, il tesoriere al centro di un vorticoso giro di fondi neri. Ha rotto con i suoi mentori: l’ex premier Aznar e l’ex arcivescovo di Madrid Rouco Varela, che gli rimproverano una gestione economicista, poco attenta ai valori occidentali e cristiani. Lui è un pragmatico. Ha governato come un notaio.

In effetti, Rajoy è un notaio. Di serie B: «Registratore di proprietà». Nato a Santiago de Compostela, terra di pellegrinaggi. Spagna atlantica, fiera, zitta. E’ galiziano come Franco, ma la sua famiglia non è franchista: il nonno scrisse con Alexandre Boveda lo statuto autonomo della Galizia; il regime lo perseguitò e gli tolse la cattedra; Bodega fu messo al muro. Il padre invece fu un giudice disciplinato. Mariano si è sposato tardi, il che ha alimentato a lungo voci sulla sua virilità; i tre figli sono ancora piccoli. Di Franco ha la «retranca» gallega: un misto di astuzia sfuggente, ironia cinica, disincanto, accortezza. Parte del Paese nel segreto dell’urna lo appoggerà per assecondare un richiamo all’ordine, anche perché l’economia si sta rimettendo in moto.

Qui la crisi ha colpito in modo drammatico, più ancora che nel resto d’Europa. La Germania, che possiede la maggior parte del debito pubblico spagnolo, ha salvato le banche facendo arrivare 40 miliardi di euro; ma 150 mila famiglie hanno perso la casa. In 4 milioni sono rimasti senza lavoro. Ora un milione l’ha ritrovato; ma sono quasi tutti contratti a termine. Il Pil è salito del 3,4%, ma cresce come cresce la Spagna: in modo diseguale, con la forza di un popolo dinamico e amabile, pronto a chiudersi in tristezze e malinconie. La disoccupazione resta la più alta d’Europa. Il premier stasera assicura che «la priorità è mettere i nostri giovani al lavoro». La base madrilena, quasi tutta in quiescenza, applaude.

Lui pure ha 17 anni più di Sanchez, 23 più di Iglesias col codone da «tanguero», 24 più di Rivera, 30 più di Garzon di Izquierda Unida. «Dove sono i ragazzi? Sapete che servono i ragazzi!» si affanna il servizio d’ordine, per organizzare la foto da mandare ai siti. I commensali sciamano sazi e ottimisti. A Plaza Mayor, in centro, tra le giostre e le luminarie, i senzatetto vanno a dormire sotto i portici, e non solo per stare un po’ al caldo. L’ex sindaco Ana Botella, la moglie di Aznar, aveva tentato di mandarli via. Loro si sono rifiutati: vogliono restare lì, nel cuore del Paese, per ricordare a tutti quanto sia ancora duro oggi essere spagnoli.

19 dicembre 2015 (modifica il 19 dicembre 2015 | 12:32)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_19/voto-spagna-carezza-pugno-rajoy-leader-grigio-8116ba50-a63e-11e5-b2d7-31f6f60f17ae.shtml
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« Risposta #221 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:28:13 pm »

Il reportage
Elezioni Spagna, Podemos e Ciudadanos tentano l’assalto al potere ma l’ultima parola è del re Pablo Iglesias ha vinto tutti i duelli televisivi e il premier conservatore ha evitato di affrontarlo.
Rajoy resta in testa e attacca i «prodotti da marketing»

Di Aldo Cazzullo

È il primo voto democratico senza re Juan Carlos e con quattro grandi partiti. Stasera arriverà primo con un buon margine Rajoy, il presidente in carica, che potrebbe formare un governo di minoranza magari in vista di altre elezioni; ma questa domenica resterà nella storia grazie a tre volti nuovi. Albert Rivera di Ciudadanos, 36 anni, in declino rispetto ai trionfali sondaggi di venti giorni fa, che però occupando il centro sarà decisivo per far nascere qualsiasi esecutivo. Il re al battesimo del fuoco, Felipe VI, 47 anni, che finora non ha sbagliato una mossa. E Pablo Iglesias detto «El Coleta», il Codino, che con una campagna da istrione carismatico ha portato Podemos dal 14% al 20 e punta a superare i socialisti.

«Remontada! Remontada!» gridava alla fine di ogni comizio. Iglesias è tecnicamente un mitomane. Dice frasi tipo «sarò il primo leader spagnolo che parla inglese», «sono Davide contro Golia», «se avessimo fatto un dibattito a quattro prenderei la maggioranza assoluta». In effetti ha vinto tutti i duelli a cui ha preso parte, e Rajoy ha evitato con cura di affrontarlo. I suoi lo adorano. Le ragazze impazziscono. «I suoi meeting hanno una forte carica romantica, quasi religiosa - ha notato John Carlin su El País, giornale certo non ostile -; e la figura di Iglesias coincide con quella di Gesù Cristo». Non a caso lui parla di «poveri in spirito», «sale della terra» e «potenti da confondere».

L’altra sera a Valencia l’ex braccio destro Monedero, accusato di aver preso i soldi da Chávez, l’ha baciato sulla bocca. Lui canta, si batte il pugno sul cuore, piange abbracciando la mamma. Orecchino, decine di braccialetti, barbetta incolta. Molto simpatico. Di una spregiudicatezza intellettuale impressionante: è passato dal Venezuela alla Svezia, dall’anarchia alla socialdemocrazia, dall’uscita dalla Nato all’ossequio al re. Continua però a detestare Felipe González, «personaggio moralmente decrepito», ogni volta che lo nomina la platea esplode in un «buuu» carico di disprezzo. L’ha molto aiutato Ada Colau, sindaco di Barcellona, e lui ha promesso ai catalani un referendum per l’indipendenza. Padrone dei social media, su cui i fan caricano video di Iglesias che combatte il male con la spada laser di Star Wars, Iglesias che si allena con la tuta di Rocky, Iglesias guerriero medievale che fa strage di nemici; lui del resto è convinto di vivere in una puntata di Game of Thrones. Il vecchio Lula l’ha incoronato: «In Pablo rivedo qualcosa di me stesso da giovane». Una mano gliel’ha data anche il candidato socialista Pedro Sánchez, apparso modesto, sempre bisognoso di alzare la voce per farsi sentire. Per spaventare i moderati Rajoy evoca la minaccia di un governo Podemos-Psoe, con Iglesias presidente, e aggiunge: «Noi sì che siamo un partito serio. Non siamo nati in un talk-show. Non siamo un prodotto di marketing».

Il «prodotto di marketing» sarebbe Rivera. In effetti, quando Podemos era primo partito, l’establishment spagnolo ha cercato un anti-Iglesias e l’ha trovato nel giovane catalano. Nato a Barceloneta, antico quartiere marinaro e popolare, Rivera è però un rivoluzionario borghese. Il maggior peso politico di Rajoy l’ha ridimensionato, riportandolo sotto il 20%. Nei dibattiti è parso nervoso, irritabile. Resta un personaggio interessante. Nell’ultimo comizio, venerdì sera a Madrid, in Plaza Santa Ana, la piazza dei teatri e dei caffè, ha tenuto una lezione di storia a tremila ragazzi ignari, evocando i grandi momenti di unità nazionale: la rivolta del 1808 contro i francesi invasori, la transizione postfranchista guidata da Adolfo Suárez, suo leader di riferimento, che quasi nessuno dei presenti ricordava. Il messaggio in realtà era chiaro: Rivera si presenta come l’unico in grado di dare una prospettiva al Paese; «in Parlamento ci asterremo per far governare chi arriva primo». Stasera cominceranno le trattative. L’articolo 56 della Costituzione stabilisce che il monarca «arbitra e modera il funzionamento regolare delle istituzioni». Juan Carlos non aveva mai avuto problemi a indicare il capo del governo; le urne indicavano sempre un vincitore, e se mancava la maggioranza assoluta i catalanisti erano pronti a dare una mano in cambio di prebende. Stavolta i capi partito dovranno trovare un accordo per non mettere in difficoltà il re; un po’ come accadde in Inghilterra nel 2010, quando si ruppe il bipartitismo e Cameron riuscì a governare grazie al liberaldemocratico Clegg; qui in Spagna il ruolo di Clegg tocca a Rivera, che spera di non fare la stessa fine.

Re Felipe peraltro se la sta cavando bene, anche sulla questione catalana. Sia Rivera sia Iglesias sono repubblicani, ma non intendono mettere davvero in discussione la monarchia. Si parla anzi di cambiare la Costituzione, per consentire alla primogenita Leonor di regnare: il padre non le ha dato il titolo di Infanta ma di principessa delle Asturie, che spetta all’erede al trono. Gli spagnoli non rimpiangono Juan Carlos ma l’hanno perdonato, dopo che nell’ora più nera della crisi era partito per la caccia all’elefante. Indimenticabile il suo messaggio tv di quattro secondi: «Lo siento mucho, me he equivocado, no volverá a ocurrir»; ho sbagliato, mi spiace, non succederà più. L’anziano re ha abdicato al momento giusto. Si è anche riavvicinato alla regina Sofia: non convivono ma compaiono insieme in pubblico. Lui ormai somiglia in modo impressionante ai ritratti un po’ grotteschi che Goya fece al suo antenato Carlo IV. Fuori dal Prado, i mendicanti presidiano gli incroci. Molti sono ex borghesi che hanno perso la casa. Il meccanismo è stato feroce: con i salari bloccati, per mantenere alti i consumi si sono moltiplicati i debiti, garantiti da case sopravvalutate o mai costruite; quando la catena si è spezzata, le banche sono state salvate, i titolari dei mutui no. Altri questuanti sono musicisti, giocolieri, artisti di strada. Un giovane su due è disoccupato, nei primi sei mesi dell’anno in 50 mila sono andati all’estero: il film che ha segnato l’epoca è la storia di un gruppo di ingegneri spagnoli che vanno a Berlino a lavorare come lavapiatti nel ristorante di un turco. Per la prima volta dal 1944, l’anno della carestia quando si pativa davvero la fame, i morti sono più numerosi dei neonati. È proprio la rabbia dei giovani a spingere Iglesias e Rivera. È il rifiuto del P.p. e del Psoe, entrambi corrottissimi, che continuano a essere i più votati dagli anziani e in provincia. A Barcellona il movimento dei senzatetto ha fracassato le vetrine delle sedi di tutti i partiti, tranne quelle di Podemos. Stasera Rajoy uscirà in testa dalle urne; ma nulla sarà più come prima. La Merkel è preoccupatissima.

20 dicembre 2015 (modifica il 20 dicembre 2015 | 12:08)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_20/elezioni-spagna-podemos-ciudadanos-tentano-l-assalto-potere-ma-l-ultima-parola-re-841f084a-a6f4-11e5-9876-dad24a906df5.shtml
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« Risposta #222 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:35:51 pm »

Cucchi, il carabiniere e le vie dell’ingiustizia

Di Aldo Cazzullo

È una strada già percorsa indicare «responsabili» di un «omicidio di Stato». Una strada che non conduce alla giustizia, ma a nuove ingiustizie. Una strada che non ripara a un lutto, ma ne prepara altri. La storia non si ripete mai allo stesso modo; e in particolare i richiami agli anni Settanta sono sin troppo frequenti. Ma i post con le foto dei «colpevoli» sembrano davvero la versione digitale di gogne che negli anni di piombo, in un contesto ovviamente diverso, venivano costruite con le montagne di carta degli appelli, delle vignette, dei volantini.

Non si assomigliano le vicende, si assomigliano i fenomeni, che crescono in modo esponenziale: non a caso, il giorno dopo che Ilaria Cucchi ha additato all’odio del web un carabiniere indagato per la morte del fratello, la sorella di un’altra vittima, Lucia Uva, ha fatto lo stesso con un poliziotto. Ed è un fenomeno da fermare. Per le stesse ragioni che ci hanno indotti e ci inducono ad appoggiare la battaglia di giustizia che Ilaria Cucchi ha portato avanti in questi anni. Il rispetto del corpo dell’arrestato è il fondamento dello Stato di diritto. Qualsiasi violazione va perseguita con rigore. Il caso Cucchi era stato liquidato con leggerezza. Solo la tenacia di una sorella e di una famiglia l’ha tenuto vivo. Ma la strada passa dai processi, non dai social network. Ilaria stessa l’ha scritto su Facebook: «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello...».

È davvero così: in questo modo ci si fa del male. E si rischia di farne involontariamente ad altri. È una tentazione, quella di vendicare o rivendicare in rete, cui anche uomini dello Stato hanno ceduto. E hanno sbagliato. Alcuni sono stati sanzionati, altri dovrebbero esserlo. Ma gli errori altrui, talora i crimini, non consentono il ricorso a una giustizia rapida ma sommaria come quella digitale. Resistere è difficile, in un Paese dove troppo spesso il male resta impunito. Ma resistere è sempre necessario.

5 gennaio 2016 (modifica il 5 gennaio 2016 | 07:36)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_05/cucchi-carabiniere-vie-dell-ingiustizia-8cfd0644-b372-11e5-9fa2-487e9759599e.shtml
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« Risposta #223 inserito:: Gennaio 14, 2016, 06:41:51 pm »

D’Alema: «All’estero non siamo più protagonisti. Arabia e Israele da alleati a problemi»
L’ex premier: «Non siamo mai andati in Europa con il cappello in mano. A picchiare i pugni sul tavolo provarono Tremonti e Berlusconi. Non li seguirei. Libia? Renzi ha rivendicato il ruolo guida, purtroppo l’Onu ha scelto un ambasciatore tedesco»


Di Aldo Cazzullo

Massimo D’Alema, rispetto a quando lei era premier e poi ministro degli Esteri, le alleanze in Medio Oriente sembrano essersi capovolte. I nemici di ieri sono diventati nostri alleati. A cominciare dall’Iran.
«Era sbagliato l’ostracismo verso l’Iran. Ed è divenuto insostenibilmente sbagliato con il passaggio dal conservatore Ahmadinejad al riformista Rohani. L’ostracismo era dettato non dagli interessi dell’Occidente, ma da quelli dei due alleati dell’Occidente: Arabia Saudita e Israele. I quali, più che alleati, si sono rivelati due problemi».

Come spiega la sfida dell’Arabia Saudita all’Iran?
«È un conflitto di potenze che tende a degenerare in un conflitto religioso; e i conflitti nazionali ammettono risoluzioni, quelli religiosi no. Eppure sciiti e sunniti hanno convissuto per secoli. La vera questione è l’egemonia nell’area. L’Arabia Saudita teme l’ascesa dell’Iran. E con un atto deliberato, privo di senso, ha messo a morte un chierico che non era un estremista, Nimr Al Nimr, per provocare la reazione dell’ala conservatrice del regime iraniano».

Nimr Al Nimr aveva avuto espressioni poco cortesi nei confronti del defunto re saudita…
«Il defunto re saudita auspicava che fosse “schiacciata la testa del serpente”, vale a dire che venisse distrutto l’Iran sciita con le bombe atomiche. Diciamo che è stato uno scambio di espressioni poco cortesi… Il punto è che l’apertura all’Iran non è contestata solo in Occidente. Ha nemici anche tra gli estremisti di Teheran. L’Arabia Saudita tenta di farla saltare nella speranza di restare partner privilegiato degli americani. La nuova leadership ha attitudini belliciste preoccupanti; si pensi all’avventura militare in Yemen. Io conoscevo bene il principe Faysal, figlio dello storico re Faysal, che è stato ministro degli Esteri per 39 anni — questa è stabilità, altro che l’Italicum —: era uomo di grande saggezza, non avrebbe mai fatto azzardi muscolari».

Nell’ultimo numero della rivista di Italianieuropei un approfondimento sulla crisi Arabia Saudita-Iran
Nell’ultimo numero della rivista di Italianieuropei un approfondimento sulla crisi Arabia Saudita-Iran

Chi sconfiggerà l’Isis?
«Fino a quando resterà questa tensione tra Arabia Saudita e Iran, l’Isis non sarà sconfitto. Purtroppo gli Usa hanno commesso errori gravissimi nella regione, dalla guerra in Iraq alla scelta del governatore Bremer — il quale non passerà alla storia come un genio — di liquidare, con Saddam, anche lo Stato e l’esercito iracheno. Oggi alcuni capi dell’Isis sono ex ufficiali di Saddam».

Quali sono i rapporti tra Riad e l’Isis?
«L’estremismo dell’Isis ha una radice culturale nell’islamismo più retrogrado, che ha il suo epicentro proprio nel Golfo. Questo non vuol dire che sia un’emanazione del regime saudita; ma non dimentichiamo che gran parte degli attentatori delle Twin Towers provenivano dalla migliore élite saudita».

E di Netanyahu cosa pensa?
«Il governo della destra israeliana sta giocando un ruolo negativo nella regione. Con l’espansione delle colonie, la prospettiva di uno Stato palestinese è di fatto scomparsa. La coltiva ancora la leadership politica, che vive di aiuti internazionali; ma la società civile no. Gli intellettuali credono ormai allo scenario che chiamano sudafricano».

Vale a dire?
«Un unico Stato, in cui i palestinesi dovranno battersi per i propri diritti. È nata così la nuova Intifada. Ma Israele, negando uno Stato palestinese, mette in pericolo la propria stessa idea di Stato ebraico. E la comunità internazionale accetta il doppio standard: Israele non rispetta gli impegni sottoscritti, viola le risoluzioni dell’Onu. Questo alimenta nel mondo arabo l’odio verso l’Occidente. Usa e Europa dovrebbero smetterla di avere nella regione alleati privilegiati, ai cui interessi finiscono per essere sacrificati gli interessi della stabilità e della pace. Noi abbiamo bisogno di un equilibrio fra i diversi Stati e di una convivenza basata sul rispetto dei diritti umani e dei principi del diritto internazionale».

Lei nel 2006 fu molto criticato per la sua passeggiata a Beirut sottobraccio a un deputato di Hezbollah.
«Spesso in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano».

Come andò?
«Arrivai a Beirut il mattino del 14 agosto, un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte, visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti: l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro».

Ora i guerriglieri sciiti sono nostri alleati?
«Alleati no; ma combattono il nostro stesso nemico. E in Siria noi dobbiamo costruire un fronte anti-Isis tra il governo, i suoi sostenitori interni tra cui la minoranza cristiana, i suoi sostenitori esterni che sono la Russia e l’Iran, e i gruppi sunniti appoggiati dall’Occidente».

In Libia cosa si può fare?
«Dopo il disastroso intervento di Francia e Gran Bretagna, in Libia c’è stata una gestione debolissima della crisi da parte dell’Onu. Né si è capito perché l’Europa l’abbia accettata. Ci si è impantanati in un’estenuante mediazione tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli, anziché individuare una forte personalità politica, un alto rappresentasse delle Nazioni Unite, in grado di coinvolgere i diversi Paesi arabi che su un fronte e sull’altro hanno fomentato il conflitto».

Si era parlato di Prodi.
«Prodi avrebbe potuto essere una soluzione adeguata. Nel frattempo invece l’Isis si è insediato sulla sponda meridionale del Mediterraneo».

Qual è oggi il ruolo dell’Italia?
«Non siamo tra i protagonisti. Questo ci ha evitato se non altro di commettere errori. Non siamo tra coloro che hanno destabilizzato, ma neppure tra coloro che cercano di rimettere insieme i pezzi».

In Libia siamo stati una potenza coloniale.
«Ma in Libia non c’è affatto un sentimento anti-italiano, come mi hanno confermato i sindaci delle principali città. Anzi, tutti sperano che assumiamo un ruolo. Purtroppo il giorno dopo che Renzi ha rivendicato un ruolo-guida in Libia, l’Onu ha nominato l’ambasciatore tedesco».

L’Italia è passata dalla fase in cui «si andava in Europa con il cappello in mano» a quella in cui «si picchiano i pugni sul tavolo». Ma qual è la strategia giusta?
«Non siamo mai andati in Europa con il cappello in mano. Il centrosinistra vi andò con l’autorevolezza di governi che ridussero il debito pubblico dal 132 al 102% del Pil, portando l’Italia nell’euro e ottenendo per Prodi la presidenza della Commissione. Quando Ciampi prendeva la parola a Ecofin, non era considerato un questuante. A picchiare i pugni sul tavolo provarono Berlusconi e Tremonti, senza grandi fortune. Non seguirei quella strada. Renzi, anziché baccagliare con la Merkel, dovrebbe farsi promotore con gli altri leader del socialismo europeo di una nuova politica. Che fine ha fatto il piano di investimenti Juncker?».

I socialisti europei a Bruxelles e a Berlino fanno i vice dei conservatori.
«In tempo di rivolta contro l’establishment, i socialisti rischiano di rinchiudersi nel fortilizio con i loro antichi avversari, per giunta in una posizione subordinata. Invece devono dialogare con i nuovi movimenti. Che possono essere deviati a destra, in nome dell’antipolitica. Ma possono anche essere declinati a sinistra. Sono segnali interessanti sia il nuovo governo portoghese sia la scelta del socialisti spagnoli, che respingono le pressioni per una grande coalizione con i popolari e dialogano con Podemos».

11 gennaio 2016 (modifica il 11 gennaio 2016 | 09:40)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_10/d-alema-all-estero-non-siamo-piu-protagonisti-arabia-israele-alleati-problemi-da1da5d4-b7df-11e5-8210-122afbd965bb.shtml
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« Risposta #224 inserito:: Gennaio 27, 2016, 06:46:09 pm »

L’INTERVISTA
Veltroni: «Renzi deve aver cura della storia della sinistra»
L’ex leader: sul Senato dirò sì, ma al Parlamento più poteri di controllo
Non amo il dibattito sul partito della Nazione, il contrario della vocazione maggioritaria

Di Aldo Cazzullo

«Ci sta succedendo quel che di più pericoloso possa accadere a una comunità umana: stiamo perdendo la coscienza della storia».

Walter Veltroni, dice questo proprio nel Giorno della memoria?
«La memoria non è solo quella del computer, senza la quale siamo come gattini ciechi. La memoria è essenziale per la costruzione del futuro e la lettura del presente. La mia generazione è abituata a pensare la democrazia come unica forma di governo possibile; ma si sbaglia. Certo è la migliore; ma non è l’unica. Non è irreversibile. Ed è una creatura giovane. Per una parte dell’Occidente la pienezza della vita democratica, il suffragio universale, il voto alle donne sono giunti solo dopo che si erano conosciuti i campi di sterminio; in Grecia, Spagna, Portogallo verso la metà degli anni 70; nei Paesi del blocco comunista dopo l’89. Se non si capisce che ora bisogna curare la democrazia malata si fa un grande errore».

Sta dicendo che la democrazia è in pericolo?
«Le forme di governo non sono altra cosa dal contesto storico, economico, geopolitico e persino antropologico del tempo in cui si vive. Noi siamo in un momento di crisi delle democrazie. Ha senso dirlo oggi, perché è dalla tragedia dei lager che nasce la più bella delle nostre conquiste. La Germania di Weimar ci insegna che quando gli istituti della democrazia non funzionano nascono bisogni nuovi; e se si saldano a determinate condizioni storiche possono portare all’autoritarismo».

Dove sono i segni della crisi della democrazia?
«Dappertutto. Negli Stati Uniti emergono i due candidati delle ali radicali degli opposti schieramenti; Bloomberg, che ebbi modo di apprezzare quand’era sindaco di New York, potrebbe essere il primo presidente eletto fuori dai partiti che hanno fatto la storia d’America. In Inghilterra la sinistra è schizzata dal New Labour a una radicalizzazione estrema. In Spagna non si riesce a fare un governo. In Francia il primo partito è quello di Marine Le Pen. L’Europa rischia di saltare sui valori, a cominciare dalla libera circolazione delle persone stabilita a Schengen. Nel Nord culla della socialdemocrazia prevale una destra dura. A Est, crollato il comunismo, si ricostruiscono i muri, stavolta contro i migranti».

Perché accade questo?
«Perché ovunque i meccanismi della decisione sono messi a repentaglio dalla recessione più lunga e dalla rivoluzione scientifico-tecnologica più grande della storia. Talmente grande che lo spirito del tempo fatica a interpretarne i mutamenti. La pensiamo come un gigantesco luna park pieno di colori, suoni, meraviglie; senza capire che il luna park sta cambiando il nostro modo di essere. I cittadini ne escono diversi. Cambia la concezione del tempo, del rapporto tra le persone, del rapporto tra sé e gli altri. Cambia la condivisione di esperienze collettive. Anche questo spiega il successo di Trump e Le Pen in Paesi di antiche tradizioni democratiche».

Di solito la rivoluzione tecnologica viene letta come una grande opportunità.
«In parte è vero. Paradossalmente viviamo il tempo migliore della storia. Il tempo più lungo senza guerre in Occidente; e il tempo di vita più lungo che gli uomini abbiano mai avuto. Migliorano le condizioni delle zone più povere; non è mai stato tanto facile viaggiare e comunicare. Dovremmo essere più felici della generazione che è andata due volte in guerra. Eppure c’è un senso di rabbia e di paura, che ci imprigiona in una spirale dove l’odio e la timore per la perdita della nostra condizione generano risposte irrazionali».

La politica cosa può fare?
«Se sta dentro il luna park, contribuisce a rendere tutto questo più un incubo che una possibilità. Il cittadino moderno applica la stessa velocità delle tecnologie alla democrazia. Che ha i suoi tempi, ma deve accelerare i processi di decisione rafforzando i processi di controllo. Più velocità, più trasparenza: solo così ci si salva dal baratro. E la politica deve ritrovare la grandezza che ha perduto, il senso di una missione storica, il sentimento di una grande impresa collettiva. Oggi la politica viaggia rasoterra. Si è persa nei rivoli del presentismo, un altro guaio dei nostro tempo: tutto si consuma in 24 ore; si anticipa pure il Capodanno. Dobbiamo ritrovare il respiro, la forza di un senso collettivo, la vocazione a migliorare la vita di ciascuno».

La riforma costituzionale approvata dal Senato rappresenta un passo in avanti?
«Sì, perché va nella direzione del rafforzamento dell’esecutivo; non so se va anche verso il rafforzamento del controllo. Tutti gli organismi dovrebbero avere maggior potere di decisione: pure i presidenti delle federazioni sportive farebbero bene a pensare più ai risultati che a farsi rieleggere. Ma il Parlamento, anziché uno strumento di cogestione com’è ora, dovrebbe diventare l’organo di controllo di un governo investito di un consenso popolare determinato dal suo programma e dalle sue decisioni».

Il governo Renzi non è passato dalle urne.
«Sto parlando di modelli. Credo proprio che Renzi si proponga questo. Altrimenti la democrazia si squilibra, come in Turchia e in Russia».

Quindi lei voterà sì al referendum costituzionale?
«Sì, anche se avrei preferito un Senato più rappresentativo delle assemblee locali. C’è un’altra questione fondamentale: dobbiamo attivare un grande circuito di democrazia dal basso. Il cittadino non può partecipare solo dicendo su Twitter che tutto fa schifo; dev’essere chiamato in prima persona a decidere il destino del suo quartiere, della scuola di suo figlio. Deve diventare parte di una gigantesca rete di partecipazione democratica».

L’attuale Pd ha queste caratteristiche? Non basta dire che non deve entrarci Verdini, le pare?
«Certo che non basta. Il Pd è il più forte partito europeo. Questa forza conferma le ragioni della sua nascita: è possibile per la sinistra italiana avere una cultura maggioritaria. Non amo il dibattito sul partito della Nazione, il contrario della vocazione maggioritaria, perché riproduce l’errore di mettere insieme tutti pur di governare; come ai tempi dell’Unione, quando erano ministri Mastella e Ferrero. Il governo per noi è un mezzo per trasformare il Paese; non può essere un fine».

Ma Renzi è di sinistra?
«Renzi è segretario di un partito di centrosinistra. Sinistra non è una parolaccia. Il sentimento della sinistra esiste. Non parlo di quella conservatrice, ma di quella della legalità, del cambiamento sociale, dei valori. Non è un armamentario del passato; è l’anima del Pd. Della storia bisogna avere cura, altrimenti comincia una lenta diaspora, una perdita di consenso con conseguenze anche elettorali. Il Pd esprima un pensiero politico proprio, quello della cultura democratica; non diventi un pendolo che quando si sposta al centro perde voti a sinistra, e quando si sposta a sinistra perde al centro».

Unioni civili: avanti con le adozioni? O meglio fermarsi?
«La società è andata molto più avanti su questi temi di quanto la politica sia in grado di rappresentare. Le relazioni umane non possono essere compresse dalle norme. Papa Francesco ha fatto grandissimi passi avanti».

Ma ha ribadito che non si può confondere la famiglia tradizionale con le altre.
«Questo lo capisco. Ma non saranno codicilli a impedire il libero dispiegarsi delle varie forme d’amore. Alzare barriere in questi campi vuol dire erigere cavalli di frisia destinati a essere travolti».

Renzi dovrebbe esprimersi più chiaramente al riguardo?
«No. Mi pare abbia espresso in modo chiaro una volontà su cui sarà difficile tornare indietro».

Neanche dopo il Family Day?
«Ci si indigna se De Rossi o Sarri dicono una cosa sbagliata, e non si tollerano opinioni diverse dalla propria. È normale, anzi è bello che una piazza esprima la propria sensibilità, diversa dalla nostra. Non va delegittimata o demonizzata per questo. Non è che loro sono i conservatori e gli altri i rivoluzionari. L’importante è garantire la possibilità di esprimere le forme dell’amore nella molteplicità che oggi obiettivamente esiste».

27 gennaio 2016 (modifica il 27 gennaio 2016 | 09:52)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_27/democrazie-pericolo-renzi-deve-aver-cura-storia-sinistra-8808f8b4-c466-11e5-8e0c-7baf441d5d56.shtml
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