LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144253 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 03, 2009, 10:55:17 pm »

La storia - Il figlio del giornalista ucciso parla a 40 anni dalla nascita del gruppo

«Io e Lotta continua, il germe della violenza c'era già alle origini»

Andrea Casalegno: Marino non mente, in Lc lo sanno


«E’ una storia, quella cominciata qua­rant’anni fa, che sento raccontare a volte in modo compiaciuto, a volte in modo falso. E’ falso che piazza Fontana abbia rappresenta­to la “perdita dell’innocenza” per una gene­razione di militanti di sinistra. E’ falso che Marino possa essersi inventato di aver con­dotto l’auto dell’assassino di Luigi Calabre­si. Ma questo gli ex di Lotta continua lo san­no tutti».

Andrea Casalegno sta per compiere 65 an­ni. «Molti più di quelli che aveva mio padre quando fu assassinato dalla Brigate Rosse». Carlo Casalegno, azionista, partigiano, vice­direttore della Stampa su cui teneva la rubri­ca «Il nostro Stato», morì a Torino il 29 no­vembre 1977. «L’attentato» si intitola il li­bro, pubblicato da Chiarelettere, in cui suo figlio ricostruisce la tragedia della famiglia. Sempre a Torino, quarant’anni fa, era nata dall’autunno caldo Lotta continua, di cui An­drea Casalegno fu un militante.

«E’ una storia che comincia bene ma qua­si subito conosce un’involuzione. C’ero: partecipai all’occupa­zione dell’università, andavo alle assem­blee studenti-operai. Gli operai si ribellava­no dopo quindici anni di un controllo op­pressivo e oscuranti­sta, e lo facevano no­nostante il Pci e i sin­dacati 'pompieri', co­me allora li definiva­mo, avvicinandoci molto alla realtà. Cer­to, so bene che quan­do il padrone perde il controllo della fabbri­ca sono guai, non bia­simo la marcia dei 40 mila e l’operazione co­raggiosa con cui la Fiat riprese le redini. Ma ho un ricordo e un giudizio positivo di quelle lotte. Presto pe­rò nascono i partitini. Comincia l’irrigidi­mento ideologico. E comincia la violenza. Fu giusto scrivere li­bri come 'La strage di Stato', scoprire le radi­ci nere di piazza Fonta­na. Ma non fu giusto – sostiene Casalegno – definire piazza Fon­tana come 'la perdita dell’innocenza' per i rivoluzionari di sini­stra. E’ un’espressio­ne di cui si palleggiano la paternità due per­sone tra loro diverse come Luigi Manconi e Adriano Sofri; ma, pur essendo teste pensan­ti e brillanti, hanno tutti e due torto. Qualsia­si persona sensata sa, anche senza aver letto Machiavelli e Sartre, che chi fa politica non è mai innocente; dire il contrario è ridicolo. Oltretutto sappiamo per bocca di un fonda­tore, Alberto Franceschini, che i futuri briga­tisti già si preparavano alla lotta armata. At­tribuire la responsabilità del terrorismo ros­so alla bomba di piazza Fontana è una scioc­chezza. Le responsabilità sono sempre per­sonali, e vanno sempre separate le une dalle altre. Anche se la strategia della tensione eb­be certo un ruolo nel precipitare il paese ne­gli anni di piombo».

Nel maggio 1972, Andrea Casalegno fu ar­restato a Torino, per aver distribuito i volan­tini con cui Lotta continua approvava l’omi­cidio di Calabresi. «Ero entrato da poco in Lc, dopo 18 mesi di servizio militare. Quan­do seppi dell’assassinio del commissario, pensai che il nostro gruppo fosse del tutto estraneo. Ucciderlo mi pareva un’aberrazio­ne non solo morale ma politica: a noi Cala­bresi serviva vivo, in vista del processo che avrebbe dovuto far luce sulla morte di Pinel­li, di cui i principali giornali italiani avevano accreditato versioni inverosimili. Completa­mente diversa fu la mia reazione quando, se­dici anni dopo, seppi dell’arresto di Sofri. So­prattutto perché c’era di mezzo Marino». Perché? «Perché tutti sapevano benissimo chi era Leonardo Marino. Solo qualche sprovveduto può ancora far finta di ignorar­lo ». Vale a dire? «Marino non era uno qualsi­asi. Fu la prima avanguardia Fiat licenziata – e mai riassunta - per la sua attività politica. L’emblema dell’operaio-massa. Ed era politi­camente e umanamente molto vicino a So­fri. 'Marino libero, Marino innocente' non è più di una battuta. Difficile che abbia agito di testa sua; del resto, in un’organizzazione rivoluzionaria chi mette a repentaglio le vite dei compagni con un’azione inconsulta vie­ne allontanato, e questo a Marino non è ac­caduto. Ci vuol davvero molta ingenuità, o peggio, a sostenere che si sia inventato ogni cosa. Non è così. E questo gli ex di Lotta con­tinua lo pensano tutti». Ma non lo dicono. «Sì invece. A ben vedere, in molti l’hanno fatto capire, magari per allusioni. Ma non voglio esprimermi oltre. Non è mia intenzio­ne maramaldeggiare. Certo non troverete la mia firma in calce ai manifesti che protesta­no l’assoluta estraneità di Sofri. Né del resto mi è mai stata chiesta. Non frequento più i vecchi compagni, tranne un paio di veri ami­ci ».

Furono due compagni di allora, Gad Ler­ner e Andrea Marcenaro, a intervistare Casa­legno per il quotidiano Lotta continua, dopo il ferimento del padre. Un’intervista in cui Casalegno rievocava la prima azione delle Br, il sequestro Macchiarini (marzo 1972): «A noi di Lc quel rapimento non era dispia­ciuto perché, dicevamo, e forse era vero, un sacco di operai ne erano contenti. Però quel­lo era il primo passo nella logica che li ha portati a sparare in faccia a mio padre, senza neppure conoscerlo». Oggi però Casalegno dice che «quell’intervista fu sopravvalutata. Sì, molti fanno risalire ad allora la propria presa di coscienza. Però quella notte le co­pie del giornale furo­no bruciate davanti ai cancelli di Mirafiori.

Ricordo la sorpresa con cui fu annotata la commozione degli amici di papà al suo capezzale: ci si stupi­va nel notare che gli azionisti torinesi non erano esponenti della borghesia marcia e ipocrita, che erano uo­mini come noi». Gio­vanni De Luna ha rav­visato un tratto comu­ne, ad esempio nel moralismo, tra gli azionisti torinesi e i militanti di Lotta con­tinua. «Una parentela c’era, anche in senso tecnico – dice Casale­gno - . Molti di noi, da Revelli a Gobetti ad Agosti, eravamo figli o nipoti di azionisti, così come altri veniva­no da famiglie comu­niste. Ma i nostri pa­dri si erano battuti contro nazisti e fasci­sti, ed erano nel giu­sto. Noi ci siamo bat­tuti per la rivoluzione, ed eravamo nel torto.

Molti però sono tutto­ra convinti di aver sempre avuto ragio­ne, sia all’epoca sia og­gi che magari lavora­no per il nostro presi­dente del Consiglio o militano nel suo cam­po. Invece abbiamo commesso errori terribi­li. E non lo dico perché sono il figlio di una persona assassinata. Certo è impossibile ar­rivare a una memoria completa, ma non dobbiamo smettere di esercitare la riflessio­ne critica, la ricerca storica. Sono contrario a colpi di spugna, a una presunta pacificazio­ne per chiudere una guerra che non è mai esistita. La penso come il figlio del giudice Galli, assassinato nell’80 da Prima Linea, l’organizzazione terroristica nata dal servi­zio d’ordine di Lotta continua: sono contra­rio a film come quello che getta una luce ac­cattivante su Sergio Segio, che di Prima Li­nea fu uno dei capi. Tutto è lecito, ma non tutto è opportuno».

Aldo Cazzullo

03 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 09, 2009, 11:32:55 am »

Colloquio

«Ineccepibile la scelta di Rutelli, Casini addio»

Tabacci: il leader udc si è riavvicinato a Berlusconi, io non ho nulla a che fare con Arcore


MILANO — Casini addio. Bruno Tabac­ci ha passato la domenica a casa del figlio, a Milano, a scrivere le lettere di dimissioni dall’Udc e dalla vicepresidenza della com­missione Bilancio. Per il momento va nel gruppo misto, in attesa di costruire il nuo­vo grande partito di centro.

«C’è stata un’accelerazione, di fronte a cui non si può restare indifferenti. Non ho alcun intento polemico verso Casini: cre­do che il suo riavvicinamento a Berlusconi sia tattico, non strategico; ma ovviamente non è questa la mia posizione. Non penso che tra Berlusconi e Casini sia stata sanata la rottura del febbraio 2008. Allora ero can­didato alla presidenza del Consiglio per la Rosa Bianca, e rinunciai, senza porre con­dizioni. Ora le cose sono cambiate. Invece di tergiversare, in questi mesi Casini avrebbe dovuto accelerare la costruzione di un nuovo partito, superando l’Udc e gli sforzi sia pure apprezzabili per la costi­tuente di centro. Mi auguro che con Pier Ferdinando ci si possa ritrovare più avan­ti; prima o poi, pure lui dovrà ricollocarsi al centro nell’orizzonte di un partito comu­ne; anche perché immagino che ad Arcore non caverà un ragno dal buco. Io comun­que con Arcore e dintorni non intendo ave­re nulla a che fare».

Il centro che verrà, dice Tabacci, dovrà essere «distante e alternativo al populi­smo di Berlusconi e della Lega, anche se certo non agli elettori di quello schiera­mento mediaticamente ancora irretiti». E dovrà essere «un’alleanza dinamica, aperta al dialogo tra laici e cattolici, di­stinta ma attenta all’evoluzione della sini­stra politica e del Pd». Tabacci guarda ov­viamente a Rutelli e agli scontenti del Pd: «La definitiva collocazione del Parti­to democratico di Bersani nell’alveo del socialismo europeo è coerente con l’evo­luzione del filone postcomunista italia­no, molto meno per gli altri che non pos­sono cancellare la loro storia. In questo senso l’iniziativa di Rutelli è motivata e ineccepibile. Bersani fa il suo mestiere, ma noi dobbiamo fare il nostro». Che succede domani? «Ho chiesto a Pez­zotta da giorni di riunire gli amici della Ro­sa Bianca per condividere questi passaggi. Chiederò l’iscrizione al gruppo misto, in­crociando alcuni colleghi che sono già là: penso a Giulietti che arriva dall’Italia dei valori e alle rappresentanze regionali co­me quelle di Raffaele Lombardo — un’al­tra forza in movimento almeno in Sici­lia — con cui ho dialogato al momento delle incursioni leghiste sui fondi Fas. Sono certo che molti arriveranno: Ca­learo, Pisicchio, Lanzillotta, Vernet­ti; e parecchi altri. Io comunque parlo per me. A giorni si vedrà lo spazio per un’iniziativa politica e parlamentare adeguata, con Rutelli e Dellai, la cui traccia potrebbe essere il Ma­nifesto per il cambiamento e il buongover­no sottoscritto nei giorni scorsi».

Tabacci è convinto che il Paese stia vi­vendo un’ora decisiva, esposto all’offensi­va finale del berlusconismo. «Non è il mo­mento di tatticismi. Bisogna buttare il cuo­re oltre l’ostacolo. La commistione inces­sante tra pubblico e privato, l’esaltazione dei conflitti di interesse, una pratica di go­verno in cui il fare confuso soppianta la bussola dell’ideale, hanno ridotto ai mini­mi termini lo spirito etico della politica ita­liana. E ora si vorrebbe imporre un assetto presidenziale senza contrappesi, sul model­lo della Russia di Putin, e stravolgere l’equi­librio dei poteri, ponendo il legislativo e il giudiziario in capo al governo. Così non si dà il potere al popolo; così lo si spoglia, la­sciandolo indifeso. Preferisco di gran lunga un modello parlamentare certo più sobrio di quello attuale, che rappresenti le articola­zioni della nostra società. La mia opposizio­ne sarà intransigente. Oggi Berlusconi ricat­ta sulla giustizia; poi verrà il resto».

Alla riforma della giustizia del Pdl Tabac­ci proprio non crede. «Io ho provato sulla mia pelle gli eccessi della magistratura. Mi sono assunto le mie responsabilità, pure quelle che non avevo. Sono rimasto fuori dalla politica per sette anni, dal 1994 al 2001. Ma non voglio certo essere 'vendica­to' da Berlusconi, né gli riconosco alcun titolo a farlo. Ricordo bene quegli anni. Ri­cordo le monetine dei comunisti, le manet­te dei fascisti, il cappio dei leghisti. Ricor­do il ruolo di Violante con le Procure e del­la Finocchiaro nella commissione per le autorizzazioni a procedere. Ma ricordo an­che le tv di Berlusconi, con Emilio Fede che promuoveva il giovane Brosio a leader del marciapiede d’oro, in attesa davanti al Palazzo di Giustizia dell’ultimo avviso di garanzia. E ricordo che il primo atto di Ber­lusconi in politica fu di offrire l’Interno a Di Pietro e la Giustizia a Davigo. Appogge­rei e avrei appoggiato in tutti questi anni una riforma della giustizia che toccasse i cuori e gli interessi dei cittadini: si può ar­rivare alla divisione delle carriere, si devo­no accelerare i processi; ma per risponde­re a chi ha sete di giustizia, non per rincor­rere i processi di Berlusconi». Si candiderà alla Regione Lombardia? «Non ho certo fatto una mossa per suggeri­re una mia candidatura, che vedo molto lontana dalla mie condizioni esistenziali — risponde Tabacci —. Il presidente della Lombardia l’ho fatto più di vent’anni fa. Uno dei motivi della mia critica all’Udc è il sostegno a Formigoni, alla logica di potere di Cl in connessione con la Lega. Dico no al quarto mandato, all’'Impero' di Formi­goni, che ci ha dato i disastri di Malpensa e dell’Expo; e pure sulla sanità ci saranno molte cose da dire. Non ho mire personali. Voglio contribuire a lanciare un appello esemplare e credibile alla coscienza civile del popolo. Siamo nel mezzo di una crisi economica strutturale: se ne esce con rifor­me profonde, con un nuovo patto fiscale che saldi il rilancio economico alla redistri­buzione di una ricchezza che non può re­stare così sommersa. Non si può andare avanti con il 28% dell’economia in nero. Non servono i tagli lineari di Tremonti, che trattano alla stessa maniera cose diver­se; serve un’incisione rigorosa sulla quali­tà della spesa pubblica. Sono molto preoc­cupato per il Paese. Ma sono convinto che il mio stato d’animo non sia isolato. Per questo è necessario testimoniarlo».

Aldo Cazzullo

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« Risposta #62 inserito:: Novembre 15, 2009, 10:44:29 pm »

L’intervista -

L’ex SEGRETARIO: in questi mesi ho taciuto di fronte a cose insopportabili

«Torno a partecipare alla vita del Pd»

Veltroni: dobbiamo rinnovare profondamente la nostra classe politica al Sud


Walter Veltroni, lei non ha anco­ra commentato la vittoria di Bersa­ni.
«Era nell’ordine delle cose che po­tesse accadere. Il risultato va letto più in profondità. Le primarie sono andate bene: chi sosteneva che non si elegge così un segretario di partito aveva torto. Però sarebbe sbagliato nascondersi che è diminuito il nume­ro dei votanti, in un momento di scontro con Berlusconi molto più for­te che nel 2007, quando c’era il gover­no Prodi. Non c’è dubbio che ci siano stati meno entusiasmo, meno carica, meno partecipazione di giovani. Det­to questo, le primarie si rispettano».

Quindi lei resta?
«Ho detto che rispetto le primarie e il loro risultato. Rutelli se n’è anda­to. D’Alema ha dichiarato che in caso di vittoria di Franceschini avrebbe dovuto fondare un nuovo partito di sinistra. Io credo nel Pd, ci credo da sempre, anche quando tanti irrideva­no questa prospettiva. L’ho fondato. Il mio posto è qui. In questi mesi, per amore del Pd, ho taciuto anche di fronte a cose insopportabili. Vedo che ora si ricorre alle 'veline rosse', fogli secondo cui starei per andarme­ne dal mio partito. È un mondo che mi fa tristezza, che non frequento; so­no abituato a dire le cose in prima persona. Domani ci sarà la direzione del partito e andrò, con lo stesso spi­rito sereno di questi mesi. Avevo det­to che sarei rimasto fuori dalla fase congressuale, e l’ho fatto. Ora la fase congressuale è finita, e riprenderò a partecipare alla vita del Pd».

Cosa si attende da Bersani?
«Bersani è un segretario rispettato da tutti. Da me, che conosco le diffi­coltà di quel lavoro, lo sarà più che da altri. Spero che rispetti tutte le opi­nioni. Io vinsi le primarie con il 76%, e certo non ho dato al partito una conduzione solitaria: negli organi di­rigenti era rappresentato ogni orien­tamento, e le decisioni sono state pre­se senza dissensi. Bersani è stato elet­to con il 53%; il 47% non ha votato per lui. Sono convinto che la sua in­telligenza lo spinga a capire che il Pd va diretto rispettando le identità, le culture, le differenti posizioni. C’è bi­sogno di un Pd unito».

Che impressione le ha fatto l’ad­dio di Rutelli?
«Non lo condivido affatto. Ma non condivido neppure le reazioni. Non mi piace che aleggi, come nei tempi andati, l’accusa di tradimento. Quan­do sento definire un uomo indipen­dente come Calearo 'uno che ha sba­gliato ristorante', riconosco uno stile che credevo superato con la coraggio­sa svolta di Occhetto di vent’anni fa. Ma fa pensare anche sentire Tabacci, fino a ieri favorevole all’elezione di Bersani, dire oggi che con Bersani il Pd è troppo a sinistra. È come se si volesse far arretrare il Pd in un recin­to più tradizionale per fare spazio a posizioni centriste. Io resto fedele al progetto originario».

E invece?
«Il rischio è che si ritorni allo sche­ma del centrosinistra col trattino. Il modello in verità non è l’Ulivo, per­ché l’Ulivo del ‘96 è diventato nel frat­tempo il partito democratico. Il mo­dello è l’Unione: coalizzare tutte le forze contrarie alla destra per impe­dirle di vincere le elezioni. Bene; ma poi? Così si costruiscono governi che faticano a stare in piedi. Senza una maggioranza riformista coesa non si cambia l’Italia, non si fanno la rivolu­zione verde, la lotta all’evasione fisca­le e alla precarietà, la battaglia per la legalità. E non si porta l’Italia fuori dalla guerra civile permanente».

Guerra civile?
«Quale altro paese ha avuto vent’anni di fascismo, la guerra fred­da con i morti per le strade, il terrori­smo, Tangentopoli, 15 anni di berlu­sconismo, con l’elemento permanen­te della mafia, delle stragi, di un gru­mo di oscurità? Quale altro paese pas­serebbe sotto silenzio la denuncia del procuratore Grasso, che all’Anti­mafia ha detto di vedere dietro le stragi del ’92 la 'regia di un’entità esterna'?».

Quale entità esterna, secondo lei?
«Ci sono processi in corso; l’ulti­ma cosa che farei è interferire in un processo. Leggeremo le testimonian­ze. Certo c’è un rapporto tra mafia e politica. C’è una cappa di piombo che si preferirebbe non sollevare. Ve­do che Maroni e Bassolino concorda­no nel dire che il video dell’omicidio di Napoli non andava mostrato; inve­ce è giusto mostrarlo, perché ci ha da­to quella che Gadda chiamava la co­gnizione del dolore, e dell’indifferen­za. In campagna elettorale io dicevo che avrei schiantato la mafia, Berlu­sconi diceva che Mangano è un eroe. Sono segnali. Messaggi che si manda­no, come candidare o meno Cosenti­no. Ma la lotta alla mafia chiama in causa anche il Pd. Dobbiamo rinnova­re profondamente la classe politica al Sud, a partire dalle regionali. Facce nuove, energie nuove, prese anche dalla società civile. Uomini come Raf­faele Cantone, il magistrato che ha combattuto la camorra in Campa­nia» .

Gli uomini che lei scelse dalla so­cietà civile non l’hanno delusa?
«Ricordo quando Berlinguer portò in Parlamento Natalia Ginzburg, Gi­no Paoli, Andrea Barbato, Altiero Spi­nelli, Alberto Moravia; personaggi che oggi sarebbero accolti dal sorri­setto ironico dei professionisti della politica. Io rivendico di aver portato in Parlamento Pietro Ichino, Umber­to Veronesi, Achille Serra, Salvatore Vassallo, il prefetto De Sena, intellet­tuali come Carofiglio, donne e uomi­ni che si battono per i diritti civili co­me Paola Concia e Jean-Léonard Touadi, imprenditori come Calearo e Colaninno, un operaio con una robu­sta intelligenza politica come Boccuz­zi... » .

Rivendica pure la Madia?
«Mi fa piacere che si parli bene di Marianna Madia, e la si trovi intelli­gente e colta, ora che pare non so­stenga più le mie posizioni. Io la sti­mavo prima e la stimo ora».

Lei ebbe un ruolo anche nella scelta di Marrazzo. Cosa prova ades­so?
«Più che lo sconcerto politico per questa intricata vicenda, provo dolo­re per la persona e per la famiglia. Ciò non implica che sia sbagliato sce­gliere persone che non vengono dal­la politica. Ricordiamoci delle perso­ne che vengono dalla politica e si so­no macchiate di frequentazioni crimi­nali» .

Perché Prodi ce l’ha tanto con lei?
«Psicologicamente lo capisco, ma il rapporto di stima tra noi non è mai cambiato. Prodi è stato convinto che il voltafaccia di Mastella sia stato pro­dotto dalla scelta, espressa al Lingot­to, della vocazione maggioritaria del Pd. Ma ci si dimentica della fatica quotidiana di quel governo. Dei cen­to sottosegretari, della crisi dopo un anno, della maggioranza appesa al re­spiro di Turigliatto, delle manifesta­zioni in piazza di ministri contro il governo, della riduzione drastica del consenso, della sentenza di un socio di maggioranza come Bertinotti che parlò di una fase politica conclusa. E poi quanto è accaduto dopo lascia credere che Mastella avesse matura­to il proposito di passare dall’altra parte. Proposito realizzato».

La 'vocazione maggioritaria' non ha forse fallito?
«No. Non ho mai pensato all’auto­sufficienza del Pd. Pensavo, e penso, che il Pd debba costruire una maggio­ranza riformista. Posso ricordarle un dato che a molti sfugge? Nel 2008 la coalizione riformista ha preso gli stessi voti del Pdl. Nel ‘96 vincemmo perché la Lega andò da sola e avem­mo bisogno della desistenza di Rifon­dazione. Nel 2008 i riformisti hanno preso gli stessi voti della destra: mai accaduto prima nella storia d’Italia. Ora Rutelli dice: mi metto fuori e con­tratto. E in Sinistra e libertà affiorano venti di scissione. Ma se questa idea si fa strada si torna alla frammenta­zione, ai 19 gruppi parlamentari».

Il Pd non dovrebbe accettare il confronto sulle riforme, a comincia­re dalla giustizia?
«Anche questa legislatura a mio av­viso è ormai sprecata. Il mio schema era quello delle democrazie occiden­tali: maggioranza e opposizione se le danno di santa ragione, ma le rifor­me istituzionali si fanno insieme. Raf­forzare il potere di controllo del par­lamento, dimezzare il numero dei parlamentari e ridurne le retribuzio­ni, superare il bicameralismo a favo­re di una democrazia che decide non è un favore a chi governa. Siamo noi per primi che abbiamo interesse ad evitare il degrado delle istituzioni. Ma Berlusconi non vuole le riforme; vuole risolvere i suoi problemi. Non ci sono già più le condizioni per l’ac­cordo » .

Cosa pensa dell’ipotesi di D’Ale­ma ministro degli Esteri dell’Ue?
«Le nostre profonde differenze po­litiche sono note, e si sono accresciu­te. Questo non mi impedisce di vede­re che la nomina di D’Alema sarebbe un’opportunità per l’Europa, per il paese e per il centrosinistra. Mi augu­ro vada in porto».

Dalla Lanzillotta a Vernetti, chi la­scia il Pd lamenta che non sia stata seguita la linea di Veltroni. È in cor­so la sua riabilitazione?
«So come va il mondo. Leggo che l’onorevole Marini si rallegra che il Pd non sia più un 'partito frou-frou'. Da lui mi sarei atteso sem­mai qualche parola di autocritica sul voto in Abruzzo. Sono fiero della campagna del 2008, di essere stato in 110 piazze, quasi rimettendoci la sa­lute. Sono stato a pranzo con le fami­glie italiane, ho girato il paese tenen­domi agli antipodi dalla politica spet­tacolo. Ho lasciato, dopo la grande manifestazione del Circo Massimo (altro che partito liquido), un Pd con centinaia di migliaia di iscritti e un bilancio splendido. Soprattutto, cre­do di aver destato una speranza che non è ancora spenta. L’Italia oggi è un paese triste. Ma è anche un paese straordinario, pieno di talento e di energie. Un paese che potrebbe sboc­ciare. Io sento il dovere di continuare a servire il paese che amo. Di tenere vivo quel sogno che volevamo realiz­zare, e a cui insieme non possiamo rinunciare».


Aldo Cazzullo

15 novembre 2009
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« Risposta #63 inserito:: Gennaio 05, 2010, 10:16:24 pm »

PIAZZE, CENTRI E VOLTI DI UN PAESE

Che tristezza quegli outlet


L'allarme a Newark per un uomo che salta i controlli a coda dei milanesi all’outlet di Serravalle, dove i saldi non erano ancora iniziati, con il centro di Milano semideserto tranne corso Buenos Aires e via Montenapoleone, dove i saldi c’erano già, è un dato che va oltre la cronaca. Segna la definitiva trasformazione del centro commerciale in piazza, città, posto non solo di commercio, ma anche di incontro.
Non ha più senso chiamarli «non luoghi». Non sono spazi artificiali dove non si depositano memoria e identità. Sono, soprattutto per i giovani, ma ormai pure per le famiglie, i nuovi luoghi della vita, che stanno sostituendo quelli — appunto il centro storico, la piazza, il paese; ma anche la chiesa, lo stadio, il cinema — dove i nostri padri per secoli si sono conosciuti, parlati, amati, magari imbrogliati.

Non a caso, da Fidenza a Valmontone, da Noventa Piave a Mantova, i centri commerciali che hanno fatto i migliori affari d’inizio 2010 si chiamano outlet. Non a caso, sono costruiti come paesi finti, come borghi medievali posticci, con le mura, le porte, le fontane e le botteghe, dove portare il cane a passeggio, i bambini a giocare, e la moglie (o il marito) a prendere con 99 euro il maglione di cachemire che fino a qualche giorno fa in centro ne costava 400. Outlet, che in inglese vuol dire tutt’altra cosa, è parola-chiave dell’Italia di oggi. Non indica solo il centro commerciale divenuto città nuova. È metafora della svendita. Simboleggia la mercificazione dei valori.
Può significare il degrado dei rapporti umani, un tempo in cui tutto può essere comprato e venduto, con la rapidità di chi considera la conversazione una perdita di tempo e la cortesia un segno di debolezza.

Non è detto però che questa profonda trasformazione sia negativa. Certo coincide con una perdita. La piazza è un tratto distintivo della nostra civiltà: non esiste nella cultura araba, dove la città prende forma attorno al commercio e i suq sono centro commerciale ante- litteram; né in quella americana, dove i «mall» sono da sempre passatempo preferito e primo luogo di aggregazione. Ma serve davvero a poco rimpiangere il buon tempo andato; anche se va tenuto a mente che i denari spesi nel negozietto sotto casa restano all’interno della comunità anziché finire alle multinazionali. Né è utile ripeterci che le città italiane sono le più belle del mondo; il che è vero, ma dovrebbe essere uno sprone più che una consolazione. Serve di più rendere i centri storici «competitivi» con i centri commerciali: sicuri, facili da raggiungere, attraenti anche il tardo pomeriggio e la sera, grazie a quelle ricchezze — l’arte, la musica, il teatro, financo la preghiera—che nelle nostre città si forgiano da secoli, e che gli outlet (a Serravalle suonano cantautori e jazzisti, a Roma Est la domenica si celebra la messa) possono al più riprodurre. I segnali di vita non mancano. La Bocconi e le vie attorno, la sera dopo il pacco-bomba del 16 dicembre, erano piene di giovani per l’inaugurazione di una mostra. Venezia discute su come salvare le sue botteghe.

I commercianti della capitale pensano a saldi più frequenti, a ogni fine stagione.

E forse riusciranno anche a risolvere il giallo del maglione di cachemire che ieri costava 400 euro e oggi 99.

Aldo Cazzullo

05 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #64 inserito:: Gennaio 12, 2010, 09:53:29 pm »

La figlia - Stefania: lui sbagliò a non capire quanto fosse corrotto il partito

«Mio padre Craxi e quei fondi del Psi»

«Si fidò di persone sbagliate, era un uomo solo e morì in povertà»


«Il tesoro di Craxi non è mai esistito. Mio padre è morto povero. Sbagliò a fidarsi». I ricordi di Stefania Craxi, figlia del leader del Psi morto nel 2000: «Il vero errore di Bettino? Non accorgersi di quanto fosse corrotto il partito. Il Pd rivedrà la sua posizione. Bersani venga ad Hammamet sulla tomba di papà, lo invito».

«Eravamo soli in casa, io e lui. Si era alzato da tavola esclamando: "Di’ al tuo amico Boselli che noi socialisti non potremo mai andare con i comunisti". Poi mi disse che sarebbe andato a dormire, e di preparargli un caffé. Lo trovai riverso sul letto: "Papà, non stai bene?". Fu allora che rovesciò gli occhi».

Stefania Craxi parla senza lacrime né rabbia. «È cambiato tutto, lo so. Ad Hammamet verranno tre ministri importanti: Frattini, Sacconi, Brunetta. Milano e Roma avranno una via Craxi. Pure a sinistra qualcosa si muove. Ma vedo anche tornare le vecchie bugie. "Quando Craxi si beveva Milano". "Il tesoro di Craxi"». Solo bugie? «Il tesoro di Craxi è unamaxiballa. Non è mai esistito. Esisteva il "tesoro" del partito: i conti esteri del Psi. Mio padre non se n’era mai occupato. Dopo la morte di Vincenzo Balzamo, l’amministratore, la sua segreteria comunicò a Bettino i numeri di alcuni conti esteri del Psi, quelli che supponevano lui conoscesse: i conti del partito di Milano. Quindi solo una piccola parte del totale, visto che nel partito c’erano ras e correnti e ognuno badava a se stesso. Mio padre mandò la busta al nuovo segretario, Giorgio Benvenuto. Che gliela rimandò indietro. Lo stesso fece il successore di Benvenuto, Ottaviano Del Turco. A quel punto Craxi passò i riferimenti a persone di cui pensava di potersi fidare». Maurizio Raggio? «Raggio, e altri. Mal gliene incolse. Ma mio padre era un uomo solo. In quel clima di intimidazione, era facile commettere errori. E anche lui ne commise. Il finanziamento illegale genera corruzione; e il suo vero errore fu non accorgersi di quanto fosse cresciuto il livello di corruzione nel partito. Ma il finanziamento illegale non comincia certo con Craxi. Fino al 1957, il Psi era finanziato dai comunisti. Poi, quando Nenni rompe con Togliatti, attraverso l’allora amministratore Lami stringe un accordo con l’Eni. Poi, dal ’63 in avanti, il Psi — allora amministrato da Talamone — viene finanziato dalle grandi aziende pubbliche, come la Dc. Nel ’76 Craxi trova un sistema oliato da anni. Per lui il denaro era un’arma per la politica, anche per fronteggiare il Pci, finanziato da una potenza nemica. Non a caso, è morto povero».

Povero? «A Milano stavamo in affitto; infatti non abbiamo più casa. Papà non ha mai chiesto un’auto alla prefettura: il sabato lo portava in giro Nicolino, un immigrato calabrese, con la macchina della mamma, che andava a fare la spesa in tram. Avevamo la cameriera a ore, non fissa: perché non chiedete a lei com’era il nostro tenore di vita? Il sabato sera in trattoria. D’estate ad Hammamet, quando non c’andava nessuno: il terreno della casa ci costò 500 lire l’ettaro ». E voi figli? «Mio fratello e io siamo usciti di casa con i vestiti che avevamo addosso. Quel che ho, lo devo al lavoro mio e di mio marito: e ci sono stati anni in cui alla Rai non mi rispondevano al telefono e la banche ci ritiravano i fidi. Quanto a Bobo, ha il mutuo da pagare».

«Certo, a Milano il denaro girava. Nei famigerati Anni ’80 la gente usciva, andava al ristorante. La città spodestava Parigi come capitale della moda. Ma dov’è il vulnus democratico? L’economia italiana superava quella inglese e cresceva più di tutte in Europa. Sono andata a rileggermi la relazione dell’87 del governatore di Bankitalia, Ciampi, che definisce l’aumento del pil "il risultato ultimo dell’azione del governo Craxi". Il debito pubblico è un’eredità del consociativismo Dc-Pci, non sua. Tra l’83 e l’87 il disavanzo primario scese dal 16,3% al 12,5: il debito aumentò per effetto degli interessi e dell’inflazione, che peraltro fu domata». Restano le condanne. «Due. Entrambe dichiarate illegittime dalla Corte di Strasburgo. Nel processo Eni-Sai, la posizione di mio padre fu stralciata insieme con quella di Aldo Molino, che mi disse testualmente: "Non capisco cosa c’entri Craxi con questo processo". La condanna per la metro milanese fu bocciata dalla Cassazione in quanto "il principio del non poteva non sapere non può essere motivo di prova". Non sta a Craxi dire il motivo per cui in seguito la condanna fu riconfermata. Voglio ricordare che con la metro di Milano si sono finanziati tutti i partiti. E anche la Curia». La Curia? E in che modo? «Nello stesso modo degli altri. Ci sono diverse testimonianze in merito».

Dice Stefania di essere convinta che «prima o poi il Pd rivedrà la sua posizione. I segni ci sono. Veltroni è venuto a un convegno della Fondazione Craxi a tessere le lodi della sua politica estera. D’Alema riconosce che i Ds sbagliarono a seguire l’ondata giustizialista. Eppure, in questi giorni il silenzio del Pd è imbarazzante. Chiedo a Bersani di romperlo. Faccia un gesto di coraggio. Venga ad Hammamet sulla tomba di mio padre. Lo invito. Lo aspetto. In fondo, Bettino è stato un grande leader della sinistra italiana ed europea». Sua figlia però è sottosegretario nel governo Berlusconi. «Berlusconi e mio padre hanno due profili molto diversi. Ma erano due innovatori, e sono stati combattuti dai conservatori. Scorra l’elenco degli avversari di Berlusconi: sono gli stessi di Craxi». Berlusconi è alleato della Lega, il partito del cappio in Parlamento. «La Lega urlava in piazza. Ma ha responsabilità molto meno gravi di chi manovrava le procure. La verità è che dalla disgrazia di mio padre hanno tentato di trarre profitto in molti. Anche tra i suoi compagni». Si riferisce a Martelli? «Non vorrei parlarne. Quando dice che "fu Craxi a tradire me" rasenta l’impudenza». Amato? «Ho un buon rapporto con Giuliano, ma non gli si può chiedere quel che non ha». Violante? «Da lui attendo delle scuse, per come descrisse la mia famiglia in quei giorni ». D’Alema? «Deve ancora spiegare perché offrì a un "latitante" i funerali di Stato, e non la possibilità di farsi curare in patria». Ma Berlusconi fece tutto il possibile per aiutarlo? «Tra loro ci fu un’amicizia sincera. A parti invertite, mio padre avrebbe avuto il coraggio di prendere un aereo e andarlo a trovare. Lui non lo fece. Non dimentico però che i socialisti della sottomissione, che sono andati a sinistra, hanno fatto una triste fine, da ultimo Del Turco; nel governo Berlusconi occupano ministeri-chiave, e nessuno si definisce "ex socialista". Tanto meno io, che mi ritengo una donna di sinistra».

Ad Hammamet, Stefania ritroverà memorie familiari, anche dolorose. «Con mio fratello Bobo non andiamo d’accordo, è vero. Ma è mio fratello. L’unico che ho. Vorrei che i giornali avessero almeno ora per noi il rispetto che non ebbero quando Bettino era vivo. Di lui ho un ricordo molto dolce. Non che in casa fosse meno brusco, anzi. Ma era sensibile, attento. Facile alla commozione. Quando andavamo a trovare la nonna al Musocco, ci portava sempre sulla tomba degli uomini di Salò: trovava vergognoso che non avessero nome, e lasciava fiori sulle uniche lapidi conosciute, quelle di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Era affascinato dalla storia da Mussolini, e un giorno a Dongo deponemmo fiori sotto la targa che ne ricorda la fucilazione, derubricandola a "fatto storico": "Che ipocrisia", commentò». E le altre donne di suo padre? «Da ragazza ne ero gelosissima. Da adulta ho capito che un matrimonio può contenere altri rapporti di affetto. Lui piaceva anche quand’era giovane; segno che il suo fascino non era legato solo al potere. Era facile da sedurre e difficile da tenere; mia madre ha saputo tenerlo, e io le invidio la capacità di perdonare». Il clima è molto cambiato, riconosce Stefania. «Ma non dimentico la frase che mi disse mio padre al risveglio dall’operazione, un mese prima di morire: "Ho sognato che ero a Milano, in piazza Duomo". Non dimentico che i miei figli, per portare un fiore sulla tomba del nonno, devono attraversare il mare. Quanto a me, mi piace ricordare un proverbio arabo: quel cucciolo è figlio di quel leone».

Aldo Cazzullo

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« Risposta #65 inserito:: Gennaio 14, 2010, 02:23:40 pm »

«NOn tutti ci credettero quando dissi che sarei rimasta ad hammamet»

«Tra me e Bettino una promessa: il suo corpo non tornerà mai in Italia»

Anna Craxi: vivo nella nostra casa sulla collina e riposerò con lui
 

HAMMAMET (TUNISIA)— Craxi lo seppellirono su un furgone Transit, dentro una fossa scavata nottetempo nella sabbia, sotto le mura della medina di Hammamet. Nella concitazione del funerale, un fotografo ci cadde dentro, lo tirarono fuori i colleghi a braccia. La bara era troppo piccola per il suo corpo: dovettero togliere il rivestimento di zinco per poterla chiudere. Dieci anni dopo, domenica prossima, verrà qui a onorarlo mezzo governo. Il suo migliore amico è presidente del Consiglio. La sua città gli dedica una via. Rino Formica e altri propongono di riportarlo in Italia. Lui però è ancora qui, tra le tombe di coloni francesi del secolo scorso e la lapide di un bambino che «visse tra due crepuscoli».

«E qui Bettino resterà, come lui stesso ha stabilito. Per me non è cambiato nulla. Ho tenuto fede a quanto dissi allora: sono rimasta ad Hammamet, sono diventata cittadina della Tunisia. Vede quella lapide, vicina a quella di mio marito? È di mia madre, Giuseppina. Ha vissuto con me fino a quando non è morta, qui, nell’agosto del 2008, a 98 anni. Vede quello spazio accanto a Bettino? È per me. L’abbiamo tenuto libero in tutti questi anni. Ce lo siamo promessi quando vedemmo per la prima volta questo cimitero, nel 1967: un domani riposeremo insieme». Anna Craxi viene qui quasi ogni giorno, in silenzio. Non ha dato interviste per questo anniversario, né lo farà. «Non tutti ci credettero, quando dissi che non sarei tornata in Italia. Invece vivo nella nostra casa sulla collina, con la sua pensione da parlamentare: 5.127 euro. Non ci credevano neppure quando Bettino diceva che sarebbe tornato solo da uomo libero. Era una persona di parola, mio marito. Non potevo essere da meno». Dieci anni fa si celebrarono le esequie di un uomo in disgrazia. Funerali di Stato; ma dello Stato tunisino. Berbere le divise del picchetto d’onore. Litanie in arabo. Al governo c’era D’Alema, che mandò Minniti, Dini e Angius: entrarono in chiesa cinque minuti dopo l’inizio ma furono notati lo stesso e presi a monetine, come Craxi sotto il Raphael. Uno che c’era allora e tornerà adesso, Fabrizio Cicchitto, racconta che pareva di essere tra reduci di Salò: una rabbia da esuli in patria. Volti noti alle cronache — Giallombardo, Mach di Palmstein, Renato Squillante, Del Turco, La Ganga —, giornalisti amici — Onofrio Pirrotta, Alda D’Eusanio stretta a Mengacci— e una piccola folla di assessori, amministratori della Metro milanese, dirigenti siciliani del Psi che nella caduta del capo avevano visto il segno della propria disgrazia. Da quel giorno, al cimitero sono stati raccolti 25 registri zeppi di firme. Migliaia di italiani sono stati sulla tomba di Craxi. Qualcuno lo maledice, altri gli chiedono perdono. Chi invoca la punizione divina su Borrelli, chi sui comunisti. Gli rimproverano Berlusconi e lo ringraziano per Berlusconi.

Dieci anni fa, al cimitero, Berlusconi piangeva con le lacrime. Al suo fianco c’era anche Veronica, che — ricorda Anna Craxi— negli anni dell’esilio telefonava ogni sera. Berlusconi chiamava di rado, sempre dall’estero, per paura delle intercettazioni. Dice oggi Bobo, che ad Hammamet ha passato le vacanze di Natale: «La guerra del Cavaliere non è la nostra. La nostra guerra è finita con la morte di papà. Il paragone è improponibile: Berlusconi è il padrone d’Italia, non ha nulla da temere; Craxi era solo contro i giudici. Io ho cercato di tenerne viva l’eredità salvando un piccolo partito socialista. Non ci sono riuscito. Ricordo quando con De Michelis andavamo ai vertici di maggioranza, tra il 2001 e il 2006: ci trattavano con sufficienza, come intrusi; l’unico cortese era Fini. Da questo anniversario non mi attendo nulla, fuorché le parole di Napolitano. Ho parlato spesso con lui, nei due anni che sono stato nel governo Prodi. Credo che il capo dello Stato dirà cose destinate a lasciare il segno». La casa sulla collina è quasi come l’ha lasciata lui. La piscina senz’acqua, i cimeli di Garibaldi, il busto del Duce, una delle false teste di Modigliani omaggio dei burloni livornesi, il ritratto di Anna vestita di rosso. Qualche ospite ha creduto di riconoscere un quadro di sua proprietà e ha intentato una causa per ricettazione. Foto di Stefania bambina sul pony e di Craxi gigantesco con una lady Diana quasi intimidita; Bobo in divisa da recluta dell’Aeronautica, Reagan con il cappello da cow-boy. Ricorda la signora Anna che, una delle prime estati, quando i figli erano piccoli e vedevano le vacanze nella Tunisia preturistica come un incubo, il marito inventò una caccia al tesoro, animata da un personaggio immaginario: Axi. Ogni sera Axi lasciava un biglietto con l’indicazione per il giorno dopo. Stefania ha conservato l’ultimo: «Picchi picchi/ siete proprio due bei micchi/ il tesoro è qui a due passi/ e voi due cercate sassi/ il tesor, milioni e rotti/ troverete in via Condotti». Il tesoro— un baule con monete e mani di Fatima portafortuna — era nella condotta dell’acqua, trovata dal rabdomante del villaggio. Poi Hammamet (che è il plurale di «hammam» e quindi significa banalmente Bagni) divenne luogo dell’immaginario. Paolo Rossi cantava: «Dov’è finita la fontana di piazza Castello? Ad Hammamet! » . «Ad Hammamet!» gridava Pecoraro Scanio, futuro ministro, salendo in groppa a un cammello al Gilda on the Beach, dopo aver tagliato la torta per il compleanno di Tangentopoli. Tra il ’94 e il 2000 la casa sulla collina divenne la scena di una vicenda a tratti drammatica, a tratti picaresca. Arrivavano Lucio Dalla dopo un concerto a Cartagine e volenterosi con le presunte prove che Di Pietro era un agente della Cia, Vauro con un sacchetto di terra italiana emilitanti socialisti con caciotte e dolci regionali, Arafat e l’intera giunta di Aulla. Artisti minori dipingevano e scolpivano in veranda. All’ingresso vegliavano le Tigri dei corpi speciali di Ben Alì: un giorno — ricorda Bobo — riferirono con toni da cospiratori di «un italiano sorpreso mentre preparava un attentato a Craxi, che aveva detto di chiamarsi Scalfaro o Scalfari. Ci facemmo due risate». Bettino dipingeva vasi tricolori, mandava fax ai giornali anche di notte e scriveva furiosamente: un giallo, Da Parigi a Hammamet, poesie che ora saranno pubblicate, la storia di un martire cristiano in Tunisia rimasta incompiuta.

Poi, a ogni anniversario, si è celebrato qui il rito craxiano. Voli charter con mezza pensione e pernottamento, tutto incluso. Gare di processi tra i pellegrini (la spuntò Giovanni Battista Lombardozzi sindaco di Guidonia: 22 assoluzioni su 22). Antonio Craxi, il fratello, che ne vaticinava la reincarnazione, il sindaco di Aulla che progettava di trafugare la salma. Cene da Achour, il ristorante che ancora espone il suo ritratto. Chokri, il piccolo cui Bettino pagò i denti nuovi, è partito militare. Marcello, il centralinista del Raphael, si è convertito all’Islam: ora si chiama Mohammed, ha sposato una tunisina, gli è appena nato il secondo figlio. Racconta Bobo che il cimitero sotto le mura della medina è diventato anche «il rifugio del capro espiatorio. Il debito pubblico? Colpa di Craxi. Di Pietro? Colpa di Craxi. Berlusconi? Colpa di Craxi. Un giornale importante mi chiamò per informarmi che in realtà Noemi Letizia era figlia sua, e quindi mia sorella: minacciai querela. La tomba di Craxi come una discarica per ogni male della nazione». Forse. Ma anche segno di una storia patria che — sia pure in circostanze imparagonabili — non depone i leader ma li abbatte. Monza, piazzale Loreto, via Caetani. Ferita aperta, pietra dello scandalo, memento di quanto l’Italia sappia essere prima servile e poi crudele.

Aldo Cazzullo

14 gennaio 2010
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« Risposta #66 inserito:: Gennaio 23, 2010, 12:55:01 am »

Da «io donna»

Bonino-Polverini, se il gioco si fa duro

Doppia intervista alla segretaria dell'Ugl e all'esponente radicale: entrambe in corsa per la poltrona del Lazio

 

RENATA POLVERINI


Renata Polverini è nella sede del suo comitato elettorale, in via del Corso, con la sua portavoce, Francesca D’Avello, e il consulente della sua campagna, Claudio Velardi. Racconta la sua storia. «Sono rimasta orfana a due anni e mezzo. Papà faceva il fabbro. Se ne andò a trent’anni, per un cancro al pancreas. Mia madre fece tutti i lavori che una donna può fare per mantenere una figlia piccola. Anche l’elettricista».

L’elettricista?
«Faceva le insegne luminose dei negozi. Poi fu assunta alla Rinascente. Un’estate andai per un mese dalle suore, a Focene, per guarire da una bronchite. Strano a dirsi, il collegio mi piacque molto. Rimasi nove anni. Ma ero l’unica bambina che avesse una mamma che una volta la settimana la veniva a prendere».

Sua madre si risposò mai?
«Sì. Con un uomo meraviglioso, Bruno, che chiese a me la sua mano. Siccome sapeva che la mamma viveva solo per me, riteneva di dover avere il mio consenso. Se ne è andato da poco, anche lui dopo una brutta malattia. Nel frattempo mia madre aveva cominciato con il sindacato, la Cisnal, ora Ugl. Dove entrai a 21 anni».

Lei ha detto che per il sindacato ha fatto di tutto, pure pulire i bagni.
«Era un modo di dire che ho fatto la gavetta. Quando non c’erano i fax, portavo i comunicati ai giornali in motorino».

Fino a diventare segretaria generale. È vero che durante la trattativa per Alitalia si imbucava al ministero, infilandosi dietro a Epifani, Bonanni e Angeletti?
«Solo la prima volta. Se ti hanno vista al tavolo all’inizio, non ti possono più lasciar fuori…».

Suo marito è davvero un sindacalista Cgil?
«I giornali ricamano troppo. È stato nella rappresentanza sindacale interna. Ora è dirigente del Montepaschi».

La vostra casa all’Aventino è considerata uno dei salotti più ricercati della capitale.
«Non è così. Faccio una cena di compleanno, il 14 maggio. Ne ho fatta un’altra per Natale, di sole donne. Mi è spiaciuto vedere poi i nomi sui giornali, e pure il menù. Non ne farò altre».

L’Espresso ha scritto che c’erano Lucia Annunziata, Lilli Gruber, Ritanna Armeni, Concita De Gregorio: tutte donne di sinistra.
«È vero. Ma c’erano anche Giorgia Meloni, Flavia Perina, Isabella Rauti. Tutte donne di destra. Il che fa meno notizia».

Con Milena Gabanelli ha avuto una polemica sulle tessere Ugl, che sarebbero molte meno di quelle dichiarate.
«Nessuna polemica. La Gabanelli ha fatto una trasmissione parziale, come nella tradizione di Report. Le tessere Ugl sono quelle comunicate al ministero».

E cioè quante?
«In questo momento non me lo ricordo. Comunque i dati sono pubblici».

Lei è mai stata nel Movimento sociale? Aveva la tessera?
«No. Mai avuto una tessera di partito. Mai fatta politica. Solo sindacato».

Cosa pensa delle vicende estive di Berlusconi e del suo rapporto con le donne?
«Sono una donna e Berlusconi ha con me un rapporto di rispetto e di stima. Mi ha telefonato sia alla vigilia dell’annuncio della mia candidatura, sia al momento del primo comizio. Ha un grande calore umano. Parlo di questo, non di altro».

Che ha rapporto ha con la moda? Novella 2000 l’ha definita una "fashion victim".
«Nessuna ossessione. Credo che vestirsi bene sia importante: una forma di rispetto per gli altri. Ad esempio non mi piace trovarmi davanti ragazze con la pancia di fuori. Non seguo la moda. Faccio la prova dello specchio: se una cosa al primo colpo d’occhio mi piace, la prendo».

Ha uno stilista preferito?
«No. Non sono attenta alle griffe, ma ai colori».

Colore preferito?
«Quelli accesi, decisi, definiti. Il fucsia, il blu, il nero, il bianco. Anche il viola, ma solo quando è di moda; altrimenti si rischiano equivoci».

Perché è contro la pensione a 65 anni?
«Perché la parità non può cominciare da lì. Le donne entrano più tardi nel mondo del lavoro e sono pagate meno. Cominciamo a sanare queste differenze».

Perché in Italia ci sono meno donne che lavorano e si fanno meno figli rispetto alla media europea?
«Perché lo Stato non ci aiuta. Se sarò eletta alla presidenza del Lazio, la famiglia sarà la mia priorità».

Le manca un figlio?
«Sì. Non è stata una scelta».

Ha votato al referendum sulla fecondazione assistita?
«Ho votato. Tre sì e un no, sull’eterologa. Come Fini».

È favorevole all’aborto?
«Io sono per la vita. Non ho mai avuto l’esperienza, ma so che l’aborto è un trauma per qualsiasi donna. Sono consapevole che c’è una legge che lo regolamenta. Vorrei fosse applicata appieno, appunto in difesa della vita e della famiglia».

Cosa pensa della Roma di Alemanno?
«Alemanno si sta muovendo bene contro il degrado, per il decoro. La linea sui campi nomadi è giusta. Ho detto scherzando che gli manderei un sms per raccomandargli, quando va in giro con l’autoblù, di non stare troppo al telefonino ma di guardarsi attorno. Lo dico a me stessa: dobbiamo essere più attenti alla vita quotidiana delle persone».

E della Roma di Veltroni?
«Veltroni è stato un sindaco brillante, ma più concentrato sul côté internazionale anziché sulle cose vicine alla gente».

Qual è il suo giudizio sulla Gelmini?
«Ha dimostrato coraggio. Abbiamo un buon rapporto. Certo, anche l’Ugl ha scioperato contro di lei: prima ha presentato la riforma, poi ha consultato i sindacati. Poi però si è corretta».

E le altre ministre?
«La Carfagna ha fatto leggi importanti, come quella sullo stalking, che non era affatto scontata. La Meloni ha un ambito più specifico, ma mi pare che l’apprezzamento per lei sia generale. La Prestigiacomo ha un ministero molto difficile per una donna, però ha dimostrato di saper dire anche dei no».

E della sua avversaria, Emma Bonino, cosa pensa?
«È una donna che fa politica attiva da tanti anni. Sulla bioetica abbiamo idee diverse. Ma riconosco che Emma ha combattuto battaglie importanti. Ha tutta la mia stima».



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EMMA BONINO


Emma Bonino è nel suo studio di vicepresidente del Senato. Alle pareti, le foto della sua storia: con il Dalai Lama, con Aung San Su Kyi, tra le donne afghane con il burqa.

Come mai si candida alla Regione Lazio, lei che è di Bra?
«Non è una scelta diabolica. Pannella e la Bernardini non possono candidarsi alle amministrative perché condannati per distribuzione pubblica di marijuana. In Piemonte c’è la Bresso, che ha fatto bene e va sostenuta. In Lombardia avevano appena designato Penati. Ho scelto il Lazio, dove vivo da quasi 35 anni. Arrivai a Roma per il congresso radicale del novembre '75. Era atteso Pasolini. Arrivò la sua lettera. Lui era già morto».

Com’è la Roma di Alemanno?
«Con gli stessi problemi di prima, in particolare di mobilità e vivibilità: la condizione dei pendolari è drammatica. Solo un po' meno vivace e aperta».

Com’era la Roma di Veltroni?
«Più viva sul piano culturale, più internazionale, più "caput mundi". Ma la gestione del territorio non è stata risolta. Vige la cementificazione. Ci sono interi quartieri da mettere in sicurezza. Talora ci vorrebbe la rottamazione».

Cosa pensa delle vicende estive di Berlusconi e del suo rapporto con le donne?
«Non sento alcun bisogno di guardare dal buco della serratura. Mi basta quel che è di dominio pubblico per giudicare: la concezione della donna di Berlusconi appartiene al passato. Le cose che dice mi danno fastidio se le sento al bar; se poi le sento dal presidente del Consiglio, è peggio».

Che rapporto ha con la moda?
«Mi piace vestirmi bene. Da ministro me ne sono occupata: mi hanno impressionato la creatività e la ricerca del made in Italy».

Ha uno stilista preferito?
«No. Mi piacciono le giacche di Armani, ma non me le posso permettere. E poi lo shopping mi annoia. Ho una cara amica, Cristina, una donna manager alta quasi due metri, che sceglie per me. Se vede un vestito che pensa mi stia bene, me lo porta. Non sbaglia mai. Cristina è un cardine del mio piccolo gruppo di amiche. Siamo molto legate. Nessuna di loro è donne contro un personaggio pubblico».

I suoi colori preferiti?
«Da qualche anno prediligo i colori accesi. Come il verde e il bordeaux».

Perché è favorevole alla pensione a 65 anni anche per le donne?
«Mi sono battuta per averla quand’ero ministro, sono contenta che il traguardo sia vicino. Ce lo impone l’Europa. Mi fido di Brunetta, quando s’impegna a destinare i risparmi al welfare per le persone».

Perché in Italia ci sono meno donne che lavorano e si fanno meno figli rispetto alla media europea?
«Le due cose sono collegate. Le donne fanno più fatica a entrare nel mercato del lavoro, sono più facilmente precarie, e quindi si sentono meno sicure. E fanno meno figli. Non critico chi resta a casa a occuparsi della famiglia. Purché sia una scelta».

Le mancano i figli?
«No. Ho anche pensato di averne uno. Poi mi sono resa conto che lo volevo più per il mio compagno di allora che per me stessa, e per lui. Così ho rinunciato».

Però le sono state affidate due bimbe, Aurora e Rugiada. Vero?
«Sì. Nei giorni della campagna per l’aborto, capitò che due madri mi affidassero le loro figlie. Rugiada era appena nata. Rimasero con me per più di due anni».

Fu dura separarsi?
«Prima tornavo a casa e la trovavo piena di risa e di urla. D’improvviso tornavo a casa e la trovavo vuota e zitta. Cambiai casa. Con Rugiada ci vediamo ancora oggi. Ha già un bambino».

Un anno e mezzo fa disse in un’intervista di essersi innamorata, di un uomo non italiano. Poi smentì. Come stanno le cose?
«Era uno scherzo. Mi cercarono da Diva e Donna, nei giorni del vertice Fao. Pensavo di parlare su temi umanitari. Invece mi fecero la solita domanda sui rapporti con Pannella».

A proposito, i suoi rapporti con Pan…
«Risposi che non sono mai stata innamorata di lui, né lui di me. E aggiunsi che mi ero felicemente fidanzata. Accadde di tutto. I grandi giornali mi diedero una pagina intera, come non era mai accaduto. Scoppiò un dibattito sociologico sul tema "innamorarsi a 60 anni". Filippo di Robilant, il mio capufficio stampa, mi pregò di stare al gioco: sarebbero arrivati gli inviti a Porta a Porta e a Matrix. Invece dissi la verità: tutto inventato».

Rivendica ogni cosa della sua battaglia per l’aborto?
«Dalla prima all’ultima. Abbiamo sconfitto la piaga dell’aborto clandestino. E oggi si abortisce meno di un tempo».

Cambierebbe la legge?
«So che non ci sono le condizioni per cambiarla come vorrei. Meglio applicare sino in fondo la legge che c’è, compresa la parte che apre alle innovazioni in grado di rendere l’aborto meno invasivo. Come la pillola RU 486».

Senza ricovero?
«Il ricovero coatto non esiste nel nostro ordinamento».

Qual è il suo giudizio sulla Gelmini?
«Non demonizzo tutto quel che ha fatto, il lavoro per premiare il merito è giusto. Fatico però a vedere un disegno complessivo».

E le altre ministre?
«Stimo Stefania Prestigiacomo. Abbiamo fatto insieme manifestazioni per il referendum sulla fecondazione assistita. All’epoca era ministro. Dimostrò indipendenza e coraggio».

A proposito, quella battaglia è ormai persa?
«Mai arrendersi. Qui pare che la scienza sia portatrice di male. Non è così. La sentenze della Corte costituzionale e ora anche del Tribunale civile aprono una strada importante».

La Carfagna?
«Ha avuto una bella idea: il G-8 femminile».

E quando la attaccarono?
«Diedi la mia solidarietà tacendo. Non amo le cose scontate».

La Meloni?
«Mi piace molto. Ci siamo trovate fianco a fianco alla parata del 2 giugno, abbiamo scherzato sul fatto che le tocca portare il tacco 10».

Lei non porta i tacchi?
«Non sono capace».

E della sua avversaria, Renata Polverini, cosa pensa?
«Non è, come dicono, una creatura di Ballarò. La conosco e la apprezzo, anche se abbiamo una diversa visione del mondo. Faremo una campagna senza insulti».

Aldo Cazzullo

21 gennaio 2010(ultima modifica: 22 gennaio 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #67 inserito:: Febbraio 02, 2010, 02:26:12 pm »

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Il Professore a Dalla, primo a «chiamarlo»: mi hai messo nei guai, ma grazie

Bologna, la tentazione di Prodi «Mi stanno martellando...»

Ondata di richieste perché corra da sindaco, l’ex premier «commosso»


BOLOGNA — «È vero. Mi stanno martellando…». Romano Prodi ha un sorriso triste. L’altro giorno ha perso Giovanni, il matematico della Normale, il più anziano tra i suoi fratelli. Il telefono in via Gerusalemme squilla di continuo: vecchi amici, notabili cittadini, sacerdoti. Tutti gli fanno le condoglianze. Tutti o quasi aggiungono una frase: «Sei l’ultima speranza di Bologna… Pensaci».

Prodi non risponde né sì, né no. Fino a qualche giorno fa, fare il sindaco era l’ultimo dei suoi pensieri. Ora qualcosa è cambiato.
Il quarantenne a lui più vicino, Filippo Andreatta, con cui Prodi ha un rapporto quasi paterno, spiega che la suggestione non è più improponibile; e il motivo sono i bolognesi. «È impressionante quanta gente stia facendo pressione su Romano, dai colleghi ai sacerdoti, dai conoscenti ai passanti. Gli elettori del Pd, e non solo loro, percepiscono l’anomalia di un politico che ha mollato tutto davvero, che in Africa è andato sul serio. E ora che la sbornia per i professionisti della politica che hanno preso in mano il Pd è finita in pochi mesi, l’idea del ritorno di Prodi appare alla gente opportuna se non inevitabile. Anche perché, per come sono messe le cose dopo l’addio di Delbono, Prodi è l’unico sicuro di vincere».

«Prodi sindaco? Magari — dice Fabio Roversi Monaco, storico rettore dell’università, presidente della Fondazione Carisbo, uno degli uomini più influenti in città —. La sua candidatura sarebbe un evento significativo per Bologna. Non voglio mancare di rispetto a nessuno, ma è evidente che con lui navighiamo a un livello superiore rispetto a qualsiasi altro nome. Prodi è uomo di caratura internazionale, ha intuito tra i primi le potenzialità della Cina dove oggi è noto quasi come in Italia, conosce l’Europa e gli Stati Uniti. Sarebbe una grande chance per la città».

L’alternativa a sinistra sono uomini popolari sotto i portici ma quasi sconosciuti fuoriporta: Luciano Sita, uomo delle Coop, ex manager di Granarolo; Duccio Campagnoli, già segretario della Camera del lavoro, da 15 anni assessore in Regione; Maurizio Cevenini, detto Cev Guevara, molto popolare per aver celebrato 5 mila matrimoni e per la costanza con cui ogni anno invia le felicitazioni alle coppie che hanno resistito. Casini esclude di dare una mano al Pd e, più che al ritorno di Guazzaloca, pensa a lanciare in pista Galletti. Il Pdl ha dirottato su Bologna Giancarlo Mazzuca, già candidato alla Regione, l’ex direttore del Carlino. Ma ieri i giornali locali erano pieni di giudizi sull’ipotesi Prodi. Alessandro Haber, attore: «Firmerei subito un appello per Romano sindaco». Alberto Vacchi, imprenditore: «Sarebbe un valore aggiunto, cercherei di convincerlo». Franco Colomba, allenatore del Bologna: «Serve una persona di grande valore ed esperienza, e Prodi ha queste qualità». Renato Villalta, ex azzurro di basket: «È l’uomo giusto». Carlo Lucarelli, scrittore: «Per Bologna Romano è come un padre». E Stefano Bonaga, filosofo: «Io l’ho detto per primo due anni fa, quando cadde il suo governo, che Prodi deve fare il sindaco di Bologna».

Un coro quasi imbarazzante. Per questo il professore spiega di essere colpito e commosso dalle attestazioni di stima e dalle telefonate, tra cui ieri è arrivata quella di Lucio Dalla, che sul Corriere aveva proposto la sua candidatura: «Romano, io piuttosto di andare a Palazzo d’Accursio in un momento come questo mi farei tagliare una mano, ma tu sei migliore di me…». «Lucio, mi hai messo nei guai, però ti ringrazio lo stesso» è stata la risposta. Un «martellamento», appunto; che però è l’unico modo per stanarlo. «È evidente che l’unico a poter togliere le castagne dal fuoco al centrosinistra è lui – spiega Massimo Bergami, il direttore di Almaweb scuola master dell’università, altro quarantenne molto vicino a Prodi —.

Sia per le chance di vittoria, sia per dare alla città un profilo non strettamente municipale. Romano sindaco vuol dire agganciare Bologna all’Europa. Ma per lui sarebbe un sacrificio personale non indifferente. Serve una supplica corale per convincerlo a questo passo».

Nel silenzio di via Gerusalemme, nell’ora del lutto in cui la famiglia si riunisce e si ritrovano le radici, Prodi sta maturando la decisione. Il colpo di scena resta improbabile, ma non è più impossibile. In via santa Caterina, Giuliano Mongiorgi, 84 anni, ha affisso i suoi manifestini: «Romano Prodi sindaco». Tra i suoi amici ieri sera girava un sms: «Continuiamo a spingere, perché il prof comincia a sperare di essere convinto».

Aldo Cazzullo

31 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #68 inserito:: Febbraio 14, 2010, 10:19:32 pm »

L’ex segretario dei democratici a un anno dalle dimissioni: «Lasciare fu giusto»

«Faccio una scuola per i giovani contro la politica ridotta a mestiere»

Veltroni: Bersani non può fare da solo. E il Pd non è nato per avere Casini premier


Walter Veltroni, un anno fa lei lasciava la guida del partito democratico. Da allora non si è capito se lei sia dentro o fuori. Un giorno pare concentrato sui romanzi, i viaggi, la vita. Il giorno dopo pare di nuovo un leader politico. Qual è la verità?

«Ma tutta la mia vita è questa. Io sono sempre stato così. Qui sta la mia atipicità: ho sempre avuto con la politica un rapporto febbrile; ma non era mai la febbre del potere. Questo mi ha salvato dai contraccolpi psicologici, in questo anno non facile».

Lei era sindaco di Roma. Perché ha accettato di fare il segretario Pd?

«Sono stato chiamato in una situazione tragica. Il centrosinistra aveva perso rovinosamente le provinciali e nei sondaggi era ai minimi termini. C’era già stata una crisi di governo, la coalizione era spezzettata e caotica. Fu allora che vennero tutti da me, anche se ero stato l’unico, con la Bindi, a oppormi all’elezione diretta del segretario, convinto com’ero che occorresse una figura diversa da un leader».

Poteva rifiutare.

«Sarebbe stato un atto di presunzione ed egoismo, avrei rinunciato a far vivere l’idea per cui avevo rotto le scatole per dieci anni dentro e fuori il mio partito, sopportando ironie ed emarginazioni: quel partito dei democratici —che avrebbe dovuto nascere nel ’96, con l’Ulivo — per cui mi sono battuto per tutta la vita».

Addirittura?

«A Natale ho gettato via un po’ di carte, per fare spazio in casa. Mi sono ritrovato in mano gli articoli di quand’ero direttore dell’Unità: l’ispirazione era la stessa. Quando Occhetto fece la svolta, con un coraggio per cui è stato molto mal ripagato ma che spero gli verrà riconosciuto dalla storia, fui tra i dirigenti che si batterono per inserire la parola "democratico" nel nome del nuovo partito. Da ragazzo, quando andavano di moda i gruppi estremisti, lavoravo per i comitati unitari nelle scuole: uno dei giorni più belli fu il 29 novembre 1974, quando 40 mila studenti sfilarono dietro le loro bandiere. I comitati unitari erano la prefigurazione di quel che un giorno sarebbe stato il punto d’approdo: il Pd».

Il Pd di oggi è davvero un punto d’approdo?

«Sì, e può esserlo in forma definitiva a patto che non rinneghi le fondamenta su cui è nato: il bipolarismo, l’innovazione, la radicalità riformista, la legalità, le primarie. Non accetto che sia trasformato in qualcosa di diverso; altrimenti non è più il Pd. La campagna elettorale del 2008 aveva acceso un sogno: per la prima volta, un paese che pareva condannato alla coazione a ripetere — ed è per questo annoiato e prevedibile — scopriva che si poteva superare quella specie gattopardesca della rissosità italiana. Da noi ci si danno colpi bassi, ci si demonizza, si fabbricano dossier, in passato si è sparso sangue; tutto perché non cambi mai nulla. In quella campagna abbiamo dimostrato che si poteva costruire uno schieramento su un programma e non viceversa, parlare un linguaggio civile, semplificare il quadro politico. Rivendico il merito di aver inaugurato una nuova stagione, con un Parlamento con pochi e grandi gruppi anziché diciannove »

Le elezioni però andarono male per voi.

«Passammo dal 22% delle amministrative 2007 a quasi il 34%. Non è quel risultato che mi angoscia. I risultati degli altri partiti europei hanno dimostrato quanto quel dato, il punto più alto mai raggiunto dal riformismo italiano, potesse essere la base per un’ulteriore crescita. Sono angosciato per lo stato d’animo del paese. Un paese cupo, ripiegato, dominato da paura e insicurezza. Un paese di passioni tristi, senza speranze razionali. La gente perde il lavoro, i padri avvertono che per la prima volta la condizione dei figli non sarà migliore della loro, le imprese sono sole davanti alla crisi; e la politica parla di tutt’altro. Invece dovremmo, come insegna Pietro Ichino, costruire un sistema di welfare moderno aperto ai precari, che non consenta più di fare a pezzi le vite delle persone. Rivendico di aver lanciato la sfida ai conservatorismi: sull’età pensionabile, sulla Tav, sulla questione istituzionale».

Di riforme istituzionali si riparla oggi, e la maggioranza chiede l’apporto del centrosinistra.

«Dopo le elezioni sono stato il primo a dire che questa legislatura poteva essere costituente. Ma dopo gli strappi di Berlusconi escludo ora che il centrosinistra possa fare altro che condurre una battaglia di opposizione contro le forzature delle regole del gioco. Sento parlare di scambio tra l’immunità e la riforma elettorale proporzionale: follie, uno scambio tra due cose sbagliate. Noi volevamo fare un’alleanza non per mettere insieme i pezzi dell’antiberlusconismo, ma per cambiare il paese. La nostra gente non capirebbe se avessimo fatto tutto questo per avere Casini presidente del Consiglio».

È sbagliato cercare l’alleanza con l’Udc?

«Certo che bisogna cercare alleanze. Ma la prima alleanza da stringere è con i cittadini. Dobbiamo ritrovare il linguaggio della vita reale e comunicare il senso di una visione non tattica dei problemi del paese».

Lei parla come un uomo che non ha rinunciato all’idea di candidarsi a governare l’Italia.

«Sbaglia. Semplicemente, non rinuncio alle idee di una vita. E le idee non hanno bisogno di stellette, ma di qualcuno che le tenga vive. Non ho ambizioni personali. Sono l’unico che non ha incarichi nel Pd, il partito di cui sono stato fondatore e che ho portato a conquistare un terzo dell’elettorato. Non ho incarichi perché non ne ho chiesti. Non faccio correnti, parola che trovo orribile quanto "attimino" e alle mie orecchie suona fastidiosa come il rumore delle unghie sulle lavagna. Mi sono dimesso contro le correnti, che ogni giorno segavano l’albero su cui tutti eravamo seduti. E ho detto che non avrei fatto agli altri quel che era stato fatto a me. Un impegno cui mi sono attenuto».

Non crede sia stato un errore lasciare? Poche settimane dopo il suo addio sono cominciate le difficoltà di Berlusconi.

«No. Non c’erano più le condizioni per fare il partito in cui credevo. Credevo a un partito aperto, moderno, capace di aderire alle pieghe della società del 2010. L’idea di riproporre oggi il modello degli Anni 70 rischia di essere, questa sì, l’idea di un partito liquido. Volevo cambiare i gruppi dirigenti, nel Mezzogiorno e non solo, ma non avevo più la forza per farlo. Era iniziato il cannoneggiamento, che non a caso un minuto dopo le mie dimissioni è cessato. Avrei potuto vivacchiare, galleggiare. Ma è una cosa che non so fare. Ovunque sia stato, occupandomi di informazione, all’Unità, al ministero della Cultura, in Campidoglio, ho sempre cambiato le cose. Mi rendo conto che in Italia questo rappresenta un difetto ».

Che cos’è accaduto in questi mesi, secondo lei?

«La retorica del partito organizzato, finalmente in mano ai professionisti, non ha funzionato. I partiti devono al contrario reinventare la propria vita democratica; non possono essere affidati al potere di due o tre persone».

Bersani e D’Alema, ad esempio.

«Bersani è stato eletto con il 53%. Oggi, dopo quel che è accaduto in Puglia e altrove, la situazione è ancora più dinamica. Con il 53%, e magari neanche più quello, non si può pensare di fare da soli. Bersani è il primo a essere interessato a una conduzione collegiale, con l’apporto di tutti, anche di chi non l’ha votato e mantiene le sue posizioni e il suo dissenso. Il congresso è alle nostre spalle, ora si apre una fase nuova. E in questa campagna elettorale è il momento di dare il segno di una profonda unità».

Dicono che lei abbia litigato con Franceschini.

«L’amicizia e la stima che mi legano a Dario sono indissolubili. È vero che in Umbria è stato commesso un grave errore: bisognava fare le primarie sin dall’inizio, con un candidato non espressione di correnti com’era Agostini. La vicenda è stata gestita senza lealtà. Ma Dario non c’entra nulla».

Come valuta le candidature del Pd alle Regionali?

«In campagna elettorale le candidature si sostengono, e basta. Se il 28 marzo saranno confermati i dati delle politiche 2008, e visti i candidati della destra, il centrosinistra conquisterà 7 o 8 regioni. In generale, però, è emerso nel Pd un evidente fastidio per le primarie, che sono state convocate, sconvocate, e alla fine fatte solo dove c’era confusione. Il contrario di quanto si dovrebbe fare. Le primarie andrebbero imposte ai partiti per legge. E bisognerebbe tornare ai collegi uninominali. Se si rinuncia al bipolarismo e si imbocca la strada del proporzionale, con un partito del 5% che diventa arbitro della vita nazionale, l’Italia finisce peggio della Grecia»

Lei ce l’ha davvero con Casini...

«Al contrario. Ho sempre avuto con lui — e Pier lo confermerà — un rapporto chiaro, leale: non gli ho mai chiesto di venire nel centrosinistra. È giusto che Casini coltivi la sua identità. Quando si voterà per le politiche, farà la sua scelta. Ma tirarlo per la giacca ora, voler fare dell’Udc la nuova Margherita, è sbagliato. Per lui, e per noi».

Non rimpiange neppure l’alleanza con Di Pietro?

«No. Non avevamo alcun interesse ad avere fuori dalla coalizione uno che sparava sulla linea antiberlusconiana tradizionale, condizionando il Pd. E poi vedo che ora con Di Pietro siamo ai baci e agli abbracci. Mentre si sono resi più difficili i rapporti con una persona assai vicina come Nichi Vendola e con Sinistra e Libertà».

De Luca in Campania?

«In Campania quando ero segretario avevo chiesto al magistrato Raffaele Cantone di impegnarsi. Il rinnovamento del ceto politico del Sud è un’esigenza di tutti i partiti. Detto questo, scelto un candidato, lo si appoggia ».

Lei ora aprirà una scuola di politica, è così?

«Sì. Una generazione rischia di considerare la politica come un mestiere. Ma la politica non è un mestiere. E’ una vocazione. Chi lo nega esercita il suo cinismo. Se la politica non è vocazione, è una schifezza, in cui tutto diventa possibile. L’obiettivo che coltiviamo con Salvati, Vassallo è gli altri è costruire una grande scuola di formazione, promossa da personalità che vengano dalla società, da tutte le componenti interne del Pd e anche da esponenti di forze riformiste altre. Una scuola contro le correnti, perché solo il merito e le competenze possono sfondare il regime delle appartenenze correntizie, che generano conformismo, trasformismo e spregiudicatezza. Aperta anche a ragazzi esterni al Pd, che educhi alla cultura democratica, alla legalità, alla memoria, al dubbio, che faccia crescere una generazione di nuovi protagonisti della politica. Ce ne sono tantissimi in giro che hanno la luce negli occhi, che ci credono, che vogliono cambiare il paese».

E lei?

«Il mio libro su Bob Kennedy si intitola Il sogno spezzato, quello su Berlinguer La sfida interrotta. Mi rendo ora conto che erano titoli autobiograficamente profetici. Così è stato concepito da una vasta parte della nostra gente i miei 15 mesi alla guida del Pd. Oggi non ho altre ambizioni che fare le cose in cui credo. Sarà questo il modo oggi di realizzare l’ossessione che mi accompagna da sempre, spendere la mia vita per la mia comunità».

Aldo Cazzullo

14 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #69 inserito:: Febbraio 23, 2010, 03:03:50 pm »

Il colloquio

«La corruzione è dilagante L'Italia può restare schiacciata»

L'allarme dell'ex ministro dell'Interno Pisanu: subito le norme anticorrotti del premier e antimafia. Ma basterà?


Una nuova Tangentopoli? L’Italia del 2010 come quella del 1992? «No. Per certi versi, siamo oltre. Allora crollò il sistema del finanziamento dei partiti. Oggi è la coesione sociale, è la stessa unità nazionale a essere in discussione, al punto da venire apertamente negata, anche da forze di governo. Si chiude l’orizzonte dell’interesse generale e si aprono le cateratte dell’interesse privato, dell’arricchimento personale, della corruzione dilagante».

«Sono giorni che vado maturando queste parole - dice Giuseppe Pisanu, capo della segreteria politica di Moro, ministro dell’Interno, oggi presidente dell’Antimafia -. Esitavo a dirle, perché mi parevano eccessive. Apocalittiche. Poi mi sono ricordato che in Giovanni il linguaggio apocalittico è l’altra forma del linguaggio profetico. Quindi non credo di esagerare se dico che è il Paese a essere corrotto. C’è la corruzione endemica, denunciata dalla Corte dei Conti; e c’è quella più strutturata e sfuggente delle grandi organizzazioni criminali, tra le più potenti al mondo. In ordine d’importanza: ’ndrangheta, Cosa Nostra, camorra». La ’ndrangheta calabrese più importante della mafia siciliana? «Sì. A Milano controlla il 90% delle cosche. Ogni anno le mafie riversano su tutta l’Italia fiumi di danaro sporco, che vengono immessi nell’economia legale con l’attiva collaborazione di pezzi importanti della società civile: liberi professionisti, imprenditori, banchieri, funzionari pubblici e uomini politici a ogni livello. Tiri le somme, e capirà perché l’Italia è così in basso nelle graduatorie mondiali sulla corruzione e le libertà economiche».

Ma dell’inchiesta sulla Protezione Civile che idea si è fatto? «Non parlerei di nuova Tangentopoli. Il contesto è diverso anche se il fango è lo stesso. Speriamo che si arrivi presto alla verità e senza vittime innocenti. Diciotto anni fa furono troppe, e la giustizia pagò i suoi errori perdendo dignità e consenso. Bertolaso è un efficiente manager dello Stato, che ha lavorato bene; mi chiedo però se, fermi restando i suoi grandi meriti, non sia rimasto anche lui vittima della logica dell’emergenza. Lasciamo ai magistrati e agli avvocati la vicenda giudiziaria. Interroghiamoci piuttosto sul dilagare della corruzione pubblica e privata e sui rimedi necessari, prima che disgreghi le basi della convivenza civile e delle istituzioni democratiche». Dice Pisanu che «il Paese rischia di piegarsi sotto il peso dell’illegalità. Non sarei così preoccupato se fossi sicuro della tenuta della società civile e dello stesso patto costituzionale».

Non le dice nulla la coltre d’indifferenza calata sulle celebrazioni dei 150 anni dell’unità nazionale? «Nel 1961 celebrammo il centenario all’insegna del miracolo economico e della continuità ideale tra Risorgimento, Resistenza ed europeismo. Oggi l’idea dell’unità nazionale è ridotta a mera oleo g r a f i a , quando non è apertamente negata. Basta guardarsi intorno: crisi generale e immigrazione maldigerita; riletture faziose della storia risorgimentale e serpeggianti minacce di secessione; crescente divario economico e sociale tra il Nord e il Sud del Paese. È un’Italia divisa e smarrita. Non a caso, le indagini sociologiche ci rivelano un 25-30% di italiani reciprocamente risentiti e sempre più distanti gli uni dagli altri. Il peggio è che il risentimento è entrato anche in taluni gruppi politici e, tramite loro, influenza comportamenti istituzionali e prassi di governo ». Pensa alla Lega? «Certo, ma non solo. Anche ai vari movimenti sudisti, da Lombardo alla Poli Bortone a Bassolino: le leghe prossime venture. In generale, è chiaro che, quando si riduce la nozione stessa di bene comune, decade lo spirito pubblico, si allentano i vincoli della legge e si spiana la strada alla corruzione».

Quali allora i rimedi? «Si ponga mano subito alle proposte anticorruzione di Berlusconi. Al riordino della pubblica amministrazione. Al taglio dei rapporti incestuosi tra economia e politica. Al regolamento antimafia per la formazione delle liste». Sulla legge anticorruzione molti ministri sono perplessi. «Penso e spero che le perplessità siano state di carattere formale, che non riguardino l’obiettivo della lotta alla corruzione. Ma, posto che queste cose si facciano, non basteranno. Secondo me, si dovrà agire più in profondità: nelle viscere della "nazione difficile", dove il patto unitario e il contratto sociale debbono essere rinnovati ogni giorno come il famoso plebiscito di Renan. Il problema è innanzitutto politico, e non possiamo certo risolverlo con il bipolarismo selvaggio, con lo scontro sistematico tra maggioranza e opposizione che ha trasformato questo primo scorcio di legislatura in una snervante campagna elettorale. Serve invece il confronto delle idee, serve la competizione democratica, in cui vince chi indica le soluzioni migliori ai problemi che abbiamo davanti».

Sostiene Pisanu che «è necessario un profondo rinnovamento del ceto politico. A condizione che lo si realizzi con strumenti neutrali: non sia la magistratura ma la politica a guidare il processo, o meglio siano gli elettori, grazie a una nuova legge elettorale che consenta ampia libertà di scelta. Il ricambio ci potrà salvare se servirà davvero a migliorare la qualità della classe politica. Come diceva Fanfani, "si può essere bischeri anche a diciott’anni". La Commissione antimafia da me presieduta darà il suo contributo facendo, dopo le Regionali, una verifica accurata sugli eletti. Abbiamo il potere di avvalerci delle strutture dello Stato, delle forze dell’ordine, della stessa magistratura, e lo useremo. Siamo in grado di fare gli accertamenti più scrupolosi e approfonditi, e li faremo».

«La questione morale non solo esiste; è antica come le Sacre Scritture e moderna come la nostra Costituzione - dice Pisanu -. Ne parla il nuovo libro di Giovanni Galloni, che riferisce l’ultimo colloquio con Dossetti prima della sua morte, in cui il vicesegretario della Dc degasperiana ammonisce che, finita l’epoca dei partiti ideologici, si deve tornare alla cultura politica della Carta costituzionale. Certamente vengono da lì i valori e le regole di cui abbiamo bisogno per vincere non soltanto la corruzione ma anche la più estesa malattia politica che sta mettendo a dura prova l’Italia. Il pericolo che corriamo mi ricorda la frase che feci riprodurre suimanifesti della Dc in morte di Aldo Moro. Un pensiero che lo assillava negli ultimi tempi della sua vita: "Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se non nascerà in noi un nuovo senso del dovere"».

Aldo Cazzullo

23 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #70 inserito:: Marzo 09, 2010, 02:26:55 pm »

L'anticipazione

E Grillo esalta Di Pietro: farà scappare piduisti e mafiosi

«Senza di lui il Parlamento potrebbe chiudere»
   

E così, nell’ora più incandescente dello scontro politico, a stemperare gli animi viene il nuovo libro di Antonio Di Pietro. Titolo: «Ad ogni costo». La prefazione è di Beppe Grillo. Nel suo testo, Beppe Grillo si esprime così sul leader dell’Italia dei valori: «Senza la sua voce il Parlamento dell’inciucio Pdl-Pdmenoelle potrebbe essere tranquillamente chiuso. I suoi nemici, e sono tanti, non si rassegnano, ma non hanno ancora capito che più lo attaccano, più si rafforza. Le pale degli elicotteri prima o poi cominceranno a girare e da lassù, sulle nuvole, i piduisti e i mafiosi in fuga che occupano le istituzioni vedranno Di Pietro che li saluterà insieme agli italiani. Saranno fortunati se non imbraccerà un fucile».

Il libro—che Ponte alle Grazie pubblica venerdì — è una rielaborazione degli interventi di Di Pietro sul proprio blog, con le reazioni che hanno provocato. Il tema ricorrente è l’uno contro tutti, sin dai titoli dei capitoli: «Intercettazioni, unica via lo scontro»; «L’amnistia fiscale bipartisan »; «Privatizzano l’acqua»; «Tutti contro la mozione di sfiducia», presentata da Di Pietro contro il governo e non appoggiata dal Pd; «Il declino di un partito popolare », appunto il Partito democratico. Il capitolo sull’aggressione di piazza Duomo si intitola «Chi semina vento raccoglie Tartaglia». Poi vengono quelli sullo stato del Paese: «La morte della Radio televisione italiana»; «Assalto alla rete»; «Non c’è futuro nel nucleare»; da qui l’«Appello alla comunità internazionale» e, in ultima istanza, la «Lettera a Gesù bambino».

Inedita è l’introduzione, firmata dallo stesso Di Pietro, in cui si racconta il 2009 come il peggiore anno della Repubblica: «Con l’ultimo governo Berlusconi, il progetto piduista "Rinascita democratica" di Licio Gelli è stato sdoganato. Gli italiani vengono disinformati in modo scientifico dalla televisione e dai giornali. Il sistema è in larga parte corrotto da una rete affaristica, privata e pubblica, che dispone a suo piacimento dei mezzi di comunicazione di massa con cui illude e blandisce la popolazione, e soprattutto denigra, irride, ricatta, umilia gli avversari politici». Colpa della «potenza piduista del modello Berlusconi», dei «soliti sapientoni terzisti che usano la penna per criticare tutti, dando un colpo al cerchio e uno alla botte per far vedere che sanno tutto loro», ma anche colpa del Pd, della «fiacca, inefficace, pilatesca e a volte connivente inazione del centrosinistra che si è mostrato troppo spesso debole, incapace e allo sbando ». Il Partito democratico è, accanto a Berlusconi, l’obiettivo polemico del libro: «Oltre al conflitto di interessi, pesa sui governi di centrosinistra l’enorme regalia delle concessioni radiotelevisive pubbliche per le reti Mediaset, pagate con un misero uno per cento del fatturato Rti, società della galassia imprenditoriale Fininvest. Un benefit di Stato». Se però «il cerchio del golpe bianco non si è ancora chiuso, ciò è dovuto soprattutto alla presenza in Parlamento e nel Paese di un partito, l’Italia dei valori». E ancora: «Abbiamo lottato contro tutti, o "quasi". "Quasi" perché al fianco ho avuto la rete, l’unico strumento in Italia con cui sia ancora possibile sviluppare un’informazione libera, e raccontare un paese diverso e reale. "Quasi" perché conduttori come Santoro e la Gabanelli e giornalisti come Travaglio, Gomez, Barbacetto e altri ancora hanno difeso i propri spazi di libertà all’interno dell’informazione pubblica».

Sulla stessa linea si muove nella prefazione Beppe Grillo: «Antonio Di Pietro è la kriptonite della politica italiana. Così come i frammenti del pianeta Kripton provocano gli effetti più strani su Superman, Di Pietro li produce sui reduci della prima Repubblica, sugli orfani di Craxi e sui loro servi, sui ladroni di Stato riverginati dai media». Qui Grillo cita in particolare Cicchitto, Ghedini, Bonaiuti, Capezzone. «Kriptonite induce nei seguaci del Partito dell’Amore attacchi di idrofobia, li trasfigura in facce ghignanti. Li trasforma in zombie preda di attacchi epilettici. È come l’aglio per i vampiri, l’acqua santa per i demoni, le aule di tribunale per Berlusconi, un test d’intelligenza per Gasparri». Non a caso «i giornali dell’erede di Bottino Craxi dedicano a Di Pietro una cinquantina di copertine all’anno. Per Feltri, Giordano e Belpietro fa più notizia Di Pietro, tirato in ballo con le accuse più svariate e sempre infondate, del terremoto di Haiti, degli israeliani a Gaza o della strage di Viareggio».

Scrive Grillo che «Di Pietro ha fatto Mani Pulite, ma non è riuscito a fare piazza pulita. È figlio di un contadino molisano, ha fatto l’emigrato in Germania in una falegnameria, si è laureato mentre lavorava. È stato nella polizia e poi nella magistratura. Non l’hanno fermato decine di processi inventati da cui è sempre uscito senza condanna. È come si direbbe, un capatosta. I suoi avversari non riescono a trovare un antidoto a Kriptonite e diventano sempre più verdi di bile. Non capiscono. Hanno digerito Bossi, Fini, il Corriere della Sera. Trasformato l’opposizione in uno zerbino. D’Alema nell’alleato più fedele. La Confindustria in una troupe di concessionari che vive dell’elemosina di Stato. Ma Di Pietro — conclude Grillo nel passo in cui evoca il fucile—è sempre lì. Non lo hanno comprato, non si è fatto intimidire, non hanno trovato dossier e non sono neppure riusciti a fabbricarne. Va contro tutti, perché si è schierato dalla parte dell’onestà».

Aldo Cazzullo

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« Risposta #71 inserito:: Marzo 13, 2010, 11:05:02 am »

Lavinia Borromeo Elkann si racconta a Io donna

«Vi svelo quando John, Lapo e io...»

Sta con suo marito da quando aveva 20 anni. Per lui ha cambiato città ed è diventata juventina


Lavinia Borromeo Elkann è al Palavela, l’architettura ideata da Nervi per i cent’anni dell’Unità d’Italia, dimenticata dalle generazioni successive di torinesi e rinata con le Olimpiadi invernali del 2006. Qui si faranno i prossimi Mondiali di pattinaggio. La moglie di John Elkann è il presidente del comitato organizzatore. «Amo lo sport, e il pattinaggio in particolare. Ho anche preso lezioni da bambina, in un altro palazzetto olimpico, a Cortina. Ma ero un po’ troppo spesso per terra».

È accaduto pure a Carolina Kostner, alle Olimpiadi di Vancouver.
«Lei è straordinaria. Una donna molto elegante. Spero che troverà il riscatto proprio qui a Torino. Del resto non sono andate bene neppure le altre europee e le americane. Anche nel pattinaggio è il momento dell’Asia».

Segue anche la Juventus? Va allo stadio?
«Sì. È stata un’annata difficile, ma ne verremo fuori. La Juve è una grande passione di famiglia. Io sono diventata juventina per amore».

Come ha conosciuto John?
«A Milano. Ci hanno presentato i nostri fratelli, Lapo e Isabella. Avevo vent’anni. Mi sono sposata dopo sei anni di fidanzamento, il 4 settembre 2004».

Un grande amore.
«Il vero amore». Com’è suo marito? «Una persona magnifica. Vera, forte, responsabile. Una persona completa. Oltre che amarlo, lo stimo molto».

Come sarebbe stata la vostra vita se suo marito non avesse assunto quella “responsabilità”?
«Certo sarebbe molto più tranquilla, meno complessa. Quando l’ho conosciuto non aveva ruoli in Fiat. Ma lui è uno che affronta tutte le situazioni. Non si tira mai indietro».

E Lapo com’è?
«Come carattere, molto diverso dal fratello. Un creativo. Una persona buonissima, molto generosa. Uno zio incredibile, un cognato fantastico».

Non c’è verso di dargli una calmata?
«Non penso. È fatto così. Un vulcano».

Con John avete due figli.
«Leone ha tre anni e mezzo, Oceano è più piccolo di 14 mesi. Sono nati al Sant’Anna, l’ospedale pubblico dove nascono i bambini della mia città adottiva, Torino. Entrambi erano prematuri di qualche settimana. Il professor Farina ci ha parlato di “Crescere insieme al Sant’Anna”, la fondazione che si occupa dei neonati prematuri. Con John abbiamo deciso di sostenerla».

Come avete scelto i nomi?
«Non sono nomi di famiglia. Piacevano sia a mio marito sia a me. Nella rosa c’erano anche nomi più tradizionali, ma poi abbiamo scelto quelli. Solo dopo abbiamo scoperto che il 4 settembre, anniversario del nostro matrimonio, si festeggia proprio sant’Oceano eremita. Ma è una coincidenza».

Lei ha anche una linea di abbigliamento per bambini, BLav. Lav è il soprannome che le ha dato suo marito?
«Veramente in famiglia mi chiamano Lavi. BLav riunisce vari progetti che ruotano intorno al bambino: abiti, scarpe, accessori. Ora anche libri di stoffa. De Agostini pubblicherà la fiaba che ho scritto ascoltando i suggerimenti di Leone e Oceano. La presenteremo al salone di Bologna. Il protagonista, un orsetto che si chiama Pop, l’hanno scelto loro. E in futuro faremo anche oggetti per la cura del bambino, insieme ai fratelli Guzzini».

Le manca una figlia femmina?
«Vedremo. Sarebbe bello. Al momento però sono molto presa dai due maschi… Mi piace portarli ai musei. Siamo stati all’Egizio. Al museo dell’Automobile, bellissimo, Leone voleva salire su tutte le macchine. Alla Pinacoteca di Monaco di Baviera, davanti a un quadro di Klee, mi ha chiesto: Chi è il bambino che l’ha fatto?».

Sua madre, Marion Zota, è un’ex modella tedesca. Severa?
«Sì. John e io lo siamo meno. Però abbiamo fissato orari e regole».

E suo padre, Carlo Borromeo, com’era?
«Buono e autorevole. Non aveva bisogno di alzare la voce per farsi ubbidire ».

Beatrice Borromeo fa la giornalista, prima in tv con Santoro e ora con il Fatto, giornale molto duro con Berlusconi. Che impressione le fa?
«Mia sorella è una persona con le sue idee. Ha scelto il giornalismo e l’ha affrontato con molta serietà e passione. È brava in quel che fa. Sono contenta per Beatrice».

E lei, Lavinia, di Berlusconi cosa pensa?
«Berlusconi è in politica da più di 15 anni. È stato eletto dalla maggioranza degli italiani. Mi auguro che con l’ampia maggioranza di cui dispone possa affrontare e risolvere i problemi del Paese».

Quali sono i più urgenti secondo lei?
«La riforma della pubblica amministrazione. Le infrastrutture e l’energia, per aumentare la competitività del paese. Gli scandali di queste settimane sono gravi, danneggiano la nostra immagine all’estero, ma io resto ottimista: la stragrande maggioranza degli italiani sono in gamba e perbene. Persone oneste che si danno da fare per uscire dalla crisi che ha colpito tutto il mondo».

Ha conosciuto Giovanni Agnelli?
«Sì. Mi fece un grande effetto e una certa emozione. Una persona carismatica. Con poche parole diceva tutto».

Si è sentita sotto esame?
«No. Certo lui era incuriosito da me: era la prima volta che John portava una ragazza a casa. Ma mi mise subito a mio agio. Mi fece un sacco di domande: all’epoca studiavo storia, in particolare l’età napoleonica, di cui parlammo a lungo: era un uomo molto curioso».

Una volta lei ha detto che la donna più elegante mai conosciuta è Marella Agnelli.
«È vero. Qualsiasi cosa indossi, le si addice. È una persona che si conosce».

E lei, Lavinia, si conosce?
«Abbastanza, sì».

Cos’è per lei l’eleganza?
«Una cosa innata. Se non ce l’hai non te la puoi dare».

Questo ricorda Manzoni. Cosa succedeva a scuola quando si leggeva di Federico e Carlo Borromeo, suoi antenati?
«I compagni mi prendevano un po’ in giro, e a me dava fastidio. Ora ci rido su».

Alle isole Borromee si è sposata.
«Un luogo magico. Ma ho ricordi molti belli anche dell’azienda agricola di mio padre in Lomellina, dove passavamo i week-end e dove oggi i miei figli gioca no con Angera e Ludovico, i figli di mia sorella Isabella».

Angera come la rocca di Angera?
«Sì. È un castello tuttora legato alla storia della mia famiglia».

Lei ha fatto uno stage da Armani. Che cosa l’ha colpita di lui?
«L’attenzione a ogni dettaglio, a ogni reparto, a ogni modella. Una grande lezione».

Il suo stilista preferito, oltre ad Armani?
«Intanto vesto Armani sempre volentieri: ha uno stile semplice, pulito; certi suoi tailleur sono incredibili. Mi piace Dior. Poi dico Valentino. Straordinario. L’abito del mio matrimonio era suo. Il velo invece era antico: in casa ce lo tramandiamo da generazioni».

Come trova la sua città, Milano?
«A Milano ho tutti i miei ricordi d’infanzia, ma non la frequento più molto. È ancora una metropoli viva, dinamica. A Milano si vive bene. Io l’ho sempre trovata bellissima, ma devo riconoscere che Torino è più bella».

Qual è la differenza tra le due città?
«Milano è più internazionale, c’è più passaggio di persone. Torino va conosciuta. Dopodiché diventa difficile separarsene. Le persone sono riservate. È una città elegante, piena di parchi, con musei splendidi: l’Egizio, la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, il Castello di Rivoli. E poi il Salone del libro, il Salone del gusto, Artissima: ogni giorno puoi fare una cosa diversa. È l’eredità delle Olimpiadi 2006, che ora si rinnova con i Mondiali di pattinaggio: la città non è mai stata così viva»

Aldo Cazzullo

12 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #72 inserito:: Marzo 14, 2010, 03:19:05 pm »

Il personaggio

Brunetta: intercettazioni, ormai sono diventato cauto anche con la mia fidanzata

«Parlando con un amico ho precisato che "la roba" erano mozzarelle. Ho sempre la percezione di essere spiato»


«Anche io ho la percezione di essere intercettato. O, meglio, sono combattuto tra la sensazione di appartenere anche io a questo mondo folle in cui tutti sono sotto controllo, e la sensazione che non sia possibile. Perché non è giusto». Racconta Renato Brunetta che «al telefono con la mia fidanzata Titti è divenuta ormai un’abitudine salutare il maresciallo che ci sta ascoltando. L’altro giorno mi è successo anche con un amico, che mi manda straordinarie mozzarelle di bufala da Paestum. Mi diceva al telefono: "Ti ho spedito la roba". Ho risposto: "Un momento, calma, precisiamo a beneficio di chi ci sta ascoltando che si tratta di mozzarelle e di yogurt, non di altro". Poi mi sono chiesto: perché mai ho fatto questa battuta? Perché considero normale violentare una conversazione privata a beneficio o a giustificazione di un terzo ascoltatore, sia che stia parlando di affetti, di amore, di politica, di interessi o anche solo di mozzarelle? Dove siamo arrivati? Non lo dico per me, per Tizio o Caio, per i politici. Sono moltissimi gli italiani che hanno cambiato il loro modo di telefonare, e quindi il loro modo di relazionarsi, la loro vita di tutti i giorni. Non ne faccio una questione di tecnica giuridica. È una questione di libertà, strettamente parente del buonsenso. Chiedo una riflessione: attenti, perché ci stiamo incamminando su una china rovinosa».

La prima obiezione da opporre al ministro è che grazie alle intercettazioni si sono appena scoperti, ad esempio, un senatore eletto dalla ’ndrangheta e una «cricca» che manovrava gli appalti della Protezione civile. «Non obietto su questo. Anche io mi dico "male non fare paura non avere", e so bene che le intercettazioni sono uno strumento utile a soddisfare l’interesse pubblico all’accertamento dei reati. Come so bene che esiste il diritto di cronaca. Però esiste anche la tutela dei diritti fondamentali delle persone. Articolo 15 della Costituzione: la libertà e la segretezza delle comunicazioni sono inviolabili; la loro limitazione può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Il punto è questo: le regole ci sono già. Vanno completate, con questo sacrosanto disegno di legge del governo: finalità, autorizzazioni, assoluta riservatezza. Ma soprattutto vanno rispettate. Non si possono rispettare "un po’". Nel maneggiare un’arma così potente occorrono responsabilità assoluta e invasività chirurgica. Non dico di gettarla via, ma di usarla bene, in modo selettivo, responsabile. Le intercettazioni devono essere come un laser: se assolutamente mirato, funziona; se usato come un gioco, distrugge vite, reputazioni, e alla fine anche chi lo usa. Le intercettazioni sono come un bisturi: il bravo chirurgo asporta il male e salva i tessuti, il cattivo chirurgo uccide il paziente. E qui ne va della stessa sopravvivenza democratica».

Dice Brunetta che «l’Italia vive oggi una deriva inaccettabile. Ogni giorno vediamo fughe di notizie, stralci di verbali, pagine a migliaia, altrettanti vasi di Pandora pronti a schizzare su tutto e su tutti». Qui c’è la seconda obiezione: pubblicare i verbali delle intercettazioni è legittimo. «Il problema è a monte - risponde Brunetta -. Si pesca a strascico; e a quel punto il pescato lo devi mostrare al mercato; ma il guaio è stato fatto prima. Basterebbe fare come fanno in Europa. Convergere con la regolazione europea». Che è simile a quella italiana. «Ma in Gran Bretagna le informazioni ottenute con le intercettazioni non hanno valore probatorio. In Germania e in Spagna la legge e la giurisprudenza impongono, e non soltanto in teoria, di accertare se esistano altri strumenti meno invasivi per conseguire lo stesso risultato. E comunque in nessun Paese europeo la vita privata è finita sui giornali com’è accaduto in Italia». «Poi c’è un tema molto grave, e per nulla regolato. I tabulati. Le tecnologie attuali consentono di ricostruire in modo universale ogni intersezione. I contatti di tutti con tutti. La matrice delle nostre telefonate. Ex post, per anni, è possibile sapere chi ha chiamato chi, con quale frequenza e in quale data. Nulla sfugge. Ora, uno strumento investigativo a maglie larghissime, come il grande orecchio americano Echelon, può essere utile; ma deve limitarsi a profili strettamente legati alla sicurezza. La pubblicazione indiscriminata dei tabulati è invece possibile per ognuno di noi. Anche per le nostre storie d’amore, i nostri rapporti d’affari, le nostre relazioni di lavoro, per cui dovrebbero valere totale libertà e totale riservatezza».

«Non è senza costi un condizionamento di questo genere. Anzi, ha costi spaventosi. La sensazione di essere intercettati ci porta ad autolimitare le nostre potenzialità, la nostra umanità. Rende il Paese meno democratico, meno libero, meno capace di crescere, anche dal punto di vista economico. Perché l’economia vive di relazioni. Il mercato è efficiente se la comunicazione è libera, se riesco a sapere che una merce è migliore di un’altra o un prezzo più basso. È l’economia di mercato: chi ha più informazioni, vince. Se tutto questo è compresso, limitato, non c’è più neanche il mercato. Tutto diventa meno efficiente e meno libero. Siamo arrivati a limitare anche la nostra libertà di giudizio: non si può più dire al telefono che quello è un cretino, per paura di rileggere il giudizio sui giornali. Cose normalissime nell’espletamento della nostra vita di relazione finiscono nel frullatore del grande orecchio. Cosa accadrebbe, ad esempio, se vedessimo pubblicate le legittime telefonate che i magistrati si stanno scambiando nella campagna per l’elezione del Csm, con i giudizi sugli uomini, sulle correnti, sugli orientamenti politici? È un’aberrazione, un imbarbarimento, che alla lunga distruggerà lo stesso strumento delle intercettazioni e la magistratura che ne abusa».

Aldo Cazzullo

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« Risposta #73 inserito:: Marzo 19, 2010, 03:51:21 pm »

Le telefonate

Il Cavaliere e la catena (inutile) degli amici

I colloqui con Innocenzi, Masi e Gianni Letta: il quadro dei tentativi falliti di fermare il programma sgradito


E se, alla fine, la vera notizia uscita dall’inchiesta di Trani fosse che Berlusconi non se lo fila nessuno? Il presidente del Consiglio, il padrone di un impero delle comunicazioni, l’uomo più potente del paese vuole zittire una trasmissione tv. Si rivolge a un amico che ha fatto mettere all’Authority. Lo sollecita a far intervenire il presidente dell’Authority. Si appella al direttore generale della Rai. Fa in modo che siano coinvolti la commissione di Vigilanza, un consigliere del Csm, un altro «amico magistrato» e Gianni Letta. Chiama pure i carabinieri. E la trasmissione è ancora lì. L’unico che riesce a oscurarla per qualche settimana è un parlamentare dell’opposizione, l’onorevole Beltrami, che propone il black-out elettorale prontamente accettato dalla maggioranza. Ma, il Giovedì Santo, Santoro sarà di nuovo in onda, prevedibilmente con una puntata monotematica sui maldestri tentativi di zittirlo. E Berlusconi mediterà su quanto sia inefficiente la sua struttura di comando, e il paese stesso su cui in teoria spadroneggia da decenni.

È evidente che dalla penosa vicenda si possono trarre altre conclusioni, tutte giuste. Non va sottovalutata la gravità della commistione tra Palazzo Chigi, l’autorità di garanzia, la direzione della Rai e pure quella del Tg1. Così come Berlusconi non ha torto a far notare che nessun capo di governo rilegge sui giornali scampoli di conversazioni private in cui si lamenta della moglie. Resta la sensazione di un uomo che non riesce a farsi obbedire da nessuno, e al massimo trova spalle su cui piangere. Non solo Santoro lo «processa come appartenente alla mafia » e «non fa che trasmettere puntate su Mills e Spatuzza». Veronica gli chiede 90 miliardi di lire l’anno e «c’ha il giudice che è amico dell’avvocato». De Benedetti aspetta i suoi 750 milioni di euro. Il fisco ne chiede altri 900 milioni. Ora lo vogliono pure ammazzare. Tutto serio, serissimo; ma la contro- strategia del premier lo è meno. «Questo Napoli da dove arriva, da Mastella? Ma Mastella adesso è totalmente con me!».

E Savarese? «Era amico di Fini, però adesso è più amico di Gasparri» dice la spalla del premier, Innocenzi. La cui figura, più che Tigellino, ricorda uno psicanalista o in genere un sodale destinatario di sfoghi interminabili. E’ vero che Innocenzi lamenta di essere mandato a quel paese da Berlusconi «ogni tre ore»; ma alla fine non combina nulla. Né gli altri si rivelano più efficienti o disponibili. Il fido Masi paragona il Cavaliere a un governante dello Zimbabwe, con una metafora che gli resterà appiccicata per la vita. Il poeta Calabrò fa una figura quasi eroica. Gianni Letta dà l’impressione di fare il minimo indispensabile, giusto per evitare che gli possa essere rinfacciato alcunché. E’ allora che Berlusconi gioca l’arma finale e telefona al generale dei carabinieri Gallitelli: Santoro parla male persino della Benemerita, fate un esposto! Ma pure il generale dei carabinieri disobbedisce: telefona all’Authority, ma l’esposto non lo fa. Ogni volta, anche di domenica, Berlusconi si lamenta con il povero Innocenzi, che conosce da trent’anni e copre regolarmente di contumelie; ogni volta, Innocenzi lo tranquillizza, rassicura, annuisce - «sì presidente», «certo presidente» -, annuncia bellicoso che si muoverà «come un tupamaro con le bombe addosso», promette che troverà la strada giusta; e non la trova mai. A sua volta, Innocenzi esasperato si apre con Masi: «Mi ha fatto un culo che non finiva più. Mi insulta. Mi dice che l’Agcom si deve vergognare, che è una barzelletta».

Quando proprio non ne può più, Innocenzi richiama Letta - «Gianni, sei l’ultima spiaggia... » -, il quale, come annota con involontario sadismo il maresciallo intercettatore, «risponde con parole incomprensibili ». Quanto a Santoro, il massimo che si cava da lui è la promessa di una «trasmissione equilibrata »; e qui manca purtroppo il commento del premier. Il tempo, la magistratura e le elezioni regionali daranno il verdetto sulla vicenda. E’ possi- bile, anzi probabile che le richieste di Berlusconi siano eccessive e fuori luogo, tanto che pure uomini ansiosi di compiacerlo non riescono ad accoglierle. E’ possibile che il bilancio finale sia in attivo per il premier: Berlusconi ama fare la vittima, denuncia volentieri l’accerchiamento da parte dei magistrati, e l’inchiesta di Trani potrebbe giovargli. Ma nell’infinita vertigine delle possibilità è dato pure che il "tiranno" sia un uomo solo, che la sera e nei festivi inveisce e si sfoga con un amico che magari ha posato il telefonino sul tavolo; mentre il maresciallo trascrive tutto.

Aldo Cazzullo

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« Risposta #74 inserito:: Marzo 19, 2010, 06:47:51 pm »

Le telefonate

Il Cavaliere e la catena (inutile) degli amici

I colloqui con Innocenzi, Masi e Gianni Letta: il quadro dei tentativi falliti di fermare il programma sgradito


E se, alla fine, la vera notizia uscita dall’inchiesta di Trani fosse che Berlusconi non se lo fila nessuno? Il presidente del Consiglio, il padrone di un impero delle comunicazioni, l’uomo più potente del paese vuole zittire una trasmissione tv. Si rivolge a un amico che ha fatto mettere all’Authority. Lo sollecita a far intervenire il presidente dell’Authority. Si appella al direttore generale della Rai. Fa in modo che siano coinvolti la commissione di Vigilanza, un consigliere del Csm, un altro «amico magistrato» e Gianni Letta. Chiama pure i carabinieri. E la trasmissione è ancora lì. L’unico che riesce a oscurarla per qualche settimana è un parlamentare dell’opposizione, l’onorevole Beltrami, che propone il black-out elettorale prontamente accettato dalla maggioranza. Ma, il Giovedì Santo, Santoro sarà di nuovo in onda, prevedibilmente con una puntata monotematica sui maldestri tentativi di zittirlo. E Berlusconi mediterà su quanto sia inefficiente la sua struttura di comando, e il paese stesso su cui in teoria spadroneggia da decenni.

È evidente che dalla penosa vicenda si possono trarre altre conclusioni, tutte giuste. Non va sottovalutata la gravità della commistione tra Palazzo Chigi, l’autorità di garanzia, la direzione della Rai e pure quella del Tg1. Così come Berlusconi non ha torto a far notare che nessun capo di governo rilegge sui giornali scampoli di conversazioni private in cui si lamenta della moglie. Resta la sensazione di un uomo che non riesce a farsi obbedire da nessuno, e al massimo trova spalle su cui piangere. Non solo Santoro lo «processa come appartenente alla mafia » e «non fa che trasmettere puntate su Mills e Spatuzza». Veronica gli chiede 90 miliardi di lire l’anno e «c’ha il giudice che è amico dell’avvocato». De Benedetti aspetta i suoi 750 milioni di euro. Il fisco ne chiede altri 900 milioni. Ora lo vogliono pure ammazzare. Tutto serio, serissimo; ma la contro- strategia del premier lo è meno. «Questo Napoli da dove arriva, da Mastella? Ma Mastella adesso è totalmente con me!».

E Savarese? «Era amico di Fini, però adesso è più amico di Gasparri» dice la spalla del premier, Innocenzi. La cui figura, più che Tigellino, ricorda uno psicanalista o in genere un sodale destinatario di sfoghi interminabili. E’ vero che Innocenzi lamenta di essere mandato a quel paese da Berlusconi «ogni tre ore»; ma alla fine non combina nulla. Né gli altri si rivelano più efficienti o disponibili. Il fido Masi paragona il Cavaliere a un governante dello Zimbabwe, con una metafora che gli resterà appiccicata per la vita. Il poeta Calabrò fa una figura quasi eroica. Gianni Letta dà l’impressione di fare il minimo indispensabile, giusto per evitare che gli possa essere rinfacciato alcunché. E’ allora che Berlusconi gioca l’arma finale e telefona al generale dei carabinieri Gallitelli: Santoro parla male persino della Benemerita, fate un esposto! Ma pure il generale dei carabinieri disobbedisce: telefona all’Authority, ma l’esposto non lo fa. Ogni volta, anche di domenica, Berlusconi si lamenta con il povero Innocenzi, che conosce da trent’anni e copre regolarmente di contumelie; ogni volta, Innocenzi lo tranquillizza, rassicura, annuisce - «sì presidente», «certo presidente» -, annuncia bellicoso che si muoverà «come un tupamaro con le bombe addosso», promette che troverà la strada giusta; e non la trova mai. A sua volta, Innocenzi esasperato si apre con Masi: «Mi ha fatto un culo che non finiva più. Mi insulta. Mi dice che l’Agcom si deve vergognare, che è una barzelletta».

Quando proprio non ne può più, Innocenzi richiama Letta - «Gianni, sei l’ultima spiaggia... » -, il quale, come annota con involontario sadismo il maresciallo intercettatore, «risponde con parole incomprensibili ». Quanto a Santoro, il massimo che si cava da lui è la promessa di una «trasmissione equilibrata »; e qui manca purtroppo il commento del premier. Il tempo, la magistratura e le elezioni regionali daranno il verdetto sulla vicenda. E’ possi- bile, anzi probabile che le richieste di Berlusconi siano eccessive e fuori luogo, tanto che pure uomini ansiosi di compiacerlo non riescono ad accoglierle. E’ possibile che il bilancio finale sia in attivo per il premier: Berlusconi ama fare la vittima, denuncia volentieri l’accerchiamento da parte dei magistrati, e l’inchiesta di Trani potrebbe giovargli. Ma nell’infinita vertigine delle possibilità è dato pure che il "tiranno" sia un uomo solo, che la sera e nei festivi inveisce e si sfoga con un amico che magari ha posato il telefonino sul tavolo; mentre il maresciallo trascrive tutto.

Aldo Cazzullo

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