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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144612 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:37:52 am »

Il forzista Stracquadanio: Gianfranco ha scelto un ruolo privo di spinta politica

E il nascente Pdl litiga sul web

«Il Predellino» contro gli ex An

La nuova testata online esalta Silvio «il Capo».

Su «Farefuturo» la fronda finiana


ROMA — Se c’è una parola che fa saltare sulla sedia Fini e i suoi uomini è: predellino. Dovendo trovare una testata per il nuovo quotidiano on line, destinato a diventare la punta di lancia del berlusconismo, è stata scelta l’ipotesi più oltranzista: Il Predellino. «Predellino—dice l’ideatore, Giorgio Stracquadanio— come rottura della vecchia alleanza. Scatto in avanti. Bagno di popolo», oltretutto in piazza San Babila, un tempo luogo sacro della destra. Che si è già premunita da par suo. E da un mese e mezzo manda in rete FfWebMagazine, dove Ff sta per Farefuturo, la Fondazione vicina a Fini animata da Alessandro Campi e Angelo Mellone. Linguaggio moderato, toni istituzionali e linea frondista rispetto al governo, come si deduce dai commenti dei giorni scorsi: il direttore Filippo Rossi prende posizione in difesa di Beppino Englaro indagato a Udine —«un’ingiustizia» —; Campi chiede un partito «plurale»; ci si preoccupa, come fa anche Il Secolo d’Italia, che il congresso fondativo del Pdl sfugga a liturgie craxiane o nordcoreane; si dà voce in sostanza alle preoccupazioni della parte di An ancora leale al presidente della Camera.

Fin dall’esordio non è difficile prevedere che Il Predellino sarà invece la voce degli «avanguardisti» di Berlusconi, indicato spesso come il Capo, con la maiuscola. Basti vedere come vengono trattati i suoi avversari. Esterni—«è finita la Settis- cemia» è il titolo sull’addio del presidente del consiglio superiore dei beni culturali: «Finalmente Settis se ne va. Purtroppo, non in pensione » — e interni. «Leggendo il suo nome sulla carta di identità, Letizia Brichetto Arnaboldi coniugata Moratti si sarà detta: “Caspita come siamo in tanti!”. Invece Letizia Brichetto Arnaboldi coniugata Moratti, sindaco di Milano, l’altra grande sconfitta dopo Veltroni, è terribilmente sola. La sua personale disfatta sulla gestione dell’Expo la pone in grave difficoltà...». Sul magazine di Farefuturo capita di leggere elogi dell’avversario: come quando Umberto Croppi, l’imprevedibile assessore alla Cultura della giunta Alemanno, apprezza «l’intelligente provocazione di Baricco » contro i finanziamenti ai teatri. Il Predellino invece è partito subito forte con un’intervista esclusiva a Berlusconi, inchiodato con domande spietate tipo: in questi quindici anni si è riaccesa la luce della speranza e della fiducia? Quelli del Pci avevano cambiato il nome ma non le idee? Il 27 marzo nasce il Pdl, qual è il suo stato d’animo? «Quell’intervista è stato il nostro modo di accreditarci » spiega Stracquadanio. Milanese di 50 anni, formazione radicale, portavoce del comitato per il No al referendum contro le reti Mediaset — «interrompemmo un’emozione, e nessuno ne soffrì» —, consigliere politico della Gelmini, autore con Brunetta dei libri di Libero, di Berlusconi scrive spesso i discorsi. «Dicono che io sia lo spin-doctor del presidente. E’ vero il contrario. E’ lui che dà lo "spin", la linea a me. Lo vedo poco; ma aderisco a lui in modo naturale ».

Stracquadanio cioé pensa e sente come Berlusconi. «E, come lui, considero il predellino il simbolo del nuovo partito. Il Pdl è come una holding di partecipazioni, che procede per fusioni successive, con aumenti di capitale a ogni elezione ». Per cui, come scrive Il Predellino, «anzitutto c’è Forza Italia, il partito architrave del Pdl, che porta in dote 400 mila iscritti, 4.200 coordinamenti comunali, un esercito di amministratori: poco meno di 10 mila tra sindaci, consiglieri, assessori comunali, provinciali, regionali... ». Certo, «in secondo luogo» ci sarebbe Alleanza nazionale, «con un buon radicamento particolarmente nelle regioni del Centro- Sud». Ma «ridurre il Pdl alla sommatoria di Fi e An sarebbe un grave errore». Seguono parole calorose per Rotondi, Giovanardi, Baccini, Pionati, Fatuzzo, Caldoro, Mastella, circoli di Dell’Utri e quelli della Brambilla. E Fini? «Se Fini avesse voluto impegnarsi in prima persona avrebbe chiesto gli Interni—risponde Stracquadanio —. Invece ha scelto un altro ruolo, che di recente non ha dato grande spinta politica. Bertinotti e Casini insegnano che alla fine si va a fare i presidenti della Fondazione Camera. In passato qualche ex ambiva al Quirinale; nessuno ha mai gareggiato per la leadership politica». Entrambi i giornali online nascono come luoghi di discussione sul nuovo partito. «Un partito che pensiamo plurale, aperto, non dogmatico, non personalistico—dice Filippo Rossi —, così come il nostro non è giornalismo urlato, partigiano, propagandistico».

Un partito, scrive Campi, «che avrà anche bisogno di regole chiare e cogenti, in modo da garantirne la democrazia interna e rendere un giorno possibile e agevole il passaggio da Berlusconi al berlusconismo». Passaggio remoto nei tempi, a giudicare dall’entusiasmo che traspare dai titoli del Predellino. Sulla Sardegna: «Cappellacci vola»; «Berlusconi esilia Soru». Sull’ingaggio di Mastella: «Tutti mugugnano. E se fosse un capolavoro?». L’ultimo sondaggio pubblicato dà il Pd al 21% e il Pdl al 42: il doppio. E ancora: «Uno dei motivi del suo consenso è questo: la maggior parte degli italiani ha capito che il Capo ha la testa sul pezzo». Non solo: «Silvio Berlusconi parla anche alla sinistra. Riesce a interpretare anche istanze che sono storicamente di sinistra. Riesce a dire “cose di sinistra”, laddove i leader della sinistra istituzionale rifluiscono verso forme di snobismo elitario e di sostanziale conservatorismo». I riferimenti storici sono ambiziosi. «Veni, vidi, vici, racconta Plutarco di Cesare, dopo una sua grande vittoria: “Subito marciò contro di lui Farnace II con tre legioni e dopo una gran battaglia presso Zela lo fece fuggire dal Ponto e distrusse totalmente il suo esercito”». «Silvio Berlusconi è oggi l’uomo più potente del Paese. È un leader vero, che porta avanti le sue idee con forza e determinazione. E, per usare una figura a lui cara, Erasmo da Rotterdam, con quel pizzico di follia che rende possibile le imprese più importanti ». «Berlusconi ha tutto: anche una grande capacità di sdrammatizzare. Diceva Giorgio De Chirico: “La potenza intellettuale di un uomo si misura dalla dose di umorismo che è capace di utilizzare”. Finalmente il Paese (tutto, a giudicare dai sondaggi) se ne è accorto ». Un solo dubbio: «Che, dopo anni di egemonia gramsciana, stia per cominciare l’egemonia berlusconiana? ».

Aldo Cazzullo
28 febbraio 2009

da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 08, 2009, 05:21:34 pm »

L'INTERVISTA

Brunetta: «Basta lamenti, in Italia i migliori ammortizzatori sociali»

Il ministro: non sono d'accordo con Marco Biagi.

L'assegno? Una proposta da apprendisti stregoni
 
 
Ministro Brunetta, è vera la voce che gira?
«Quale voce?».
Lei ha portato in Consiglio dei ministri un dossier per sostenere che gli ammortizzatori sociali funzionano benissimo così?
«E' vero. Il ministro Sacconi e io abbiamo fornito ai colleghi alcuni dati. Che confermano una mia convinzione: il mercato del lavoro italiano, al di là delle sue contraddizioni, è mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, e a modo suo equo. Molto "italian", ma con più luci che ombre. Con tanta gente che rischia e troppi privilegi, d'accordo. Ma, per come è andato costruendosi nel dopoguerra, con un insieme di pesi e contrappesi, sotto l'influenza di forze imprenditoriali e sindacali, istituzioni, territori, culture, è il più efficace d'Europa. Relazioni industriali e ammortizzatori sociali compresi. Marco Biagi diceva che era il peggior mercato del lavoro».
E lei?
«Io non sono d'accordo con Marco Biagi. Ed è proprio nei momenti di difficoltà come questo che il mercato del lavoro italiano dà il meglio di sé».
Adesso, che i precari sono esposti al vento della crisi?
«Mi rendo conto di andare controcorrente. Ma, nella realtà, nessuno è lasciato fuori. Vediamo il quadro generale. In Italia lavorano in 22 milioni. Il tasso di occupazione media e quello femminile è un po' sotto lo standard europeo; ma, se si aggiungono i 3 milioni e mezzo del sommerso, siamo in pari».
Del sommerso c'è poco da rallegrarsi, non crede?
«Il sommerso è stato una scelta sociale implicita, che svolge una funzione soprattutto nei tempi di crisi. Il sommerso è un grande ammortizzatore sociale. Attenzione: non grido "viva il sommerso". Prendo atto della realtà».
Sicuro che nessuno sia lasciato fuori?
«Noi abbiamo un buon sistema di ammortizzatori sociali. Certo, con figli e figliastri. Però capace di distinguere, di adeguarsi, di coprire tipologie diverse: i lavoratori delle imprese industriali, quelli del settore agricolo, i lavoratori a termine, gli autonomi, ognuno ha i propri strumenti: cassa integrazione ordinaria, cig straordinaria, cgis in deroga, indennità di mobilità, indennità di disoccupazione, ammortizzatori in deroga... Resta fuori un pezzo dei cocopro».
Cocopro?
«Lavoratori coordinati e continuativi a progetto. Una forma ibrida: lavoro autonomo ma con un solo committente. Anche qui però è prevista una specifica indennità una tantum. E poi in Italia il peso del lavoro atipico è il più basso d'Europa».
Sta dicendo che non serve l'assegno per chi perde il lavoro proposto da Franceschini?
«Roba da apprendisti stregoni. Da riformatori immaginari. Un po' ignorantelli, un po' radical chic, che non riescono a capire il funzionamento del mercato del lavoro e i valori sottesi. Gli ammortizzatori sociali funzionano proprio in quanto segmentati e diversificati. Sarà una balcanizzazione; ma funziona. Questo non piace alla sinistra astratta e ideologica, che vorrebbe un assegno uguale per tutti. Benissimo. Facciamo un test. A quale livello fissiamo l'importo dell'assegno? Alto, medio, minimo?».
Chiediamolo a Franceschini.
«No, me lo dica lei. Medio? Ma allora il lavoratore atipico troverà più conveniente smettere di lavorare e incassare l'assegno. Basso? Peggio ancora: si lamenterebbero i lavoratori in cassa integrazione, che oggi prendono di più. Alto? Scoppierebbe la rivoluzione: i disoccupati ci inseguirebbero con i forconi, gli altri sarebbero indotti a incassare e lavorare in nero».
Tutto bene così, allora?
«Non dico questo. Servono interventi per rispondere alla crisi: infatti ci sono 8 miliardi per la cassa integrazione in deroga. Il sistema ha bisogno di manutenzione; non di stravolgimenti. Si tratta di mantenere il giusto equilibrio: non abbandonare chi perde il lavoro a se stesso; ma neppure dare troppe garanzie. Ammortizzatori sociali, non bancomat. Investire solo lì significherebbe condannare le imprese a chiudere; e invece il vero sforzo — credito, fidi, filiere tecnologiche — va fatto per tenerle in vita. Vuole un'altra prova del fatto che il sistema funziona?».
Un'altra prova?
«Gli unici che non hanno ammortizzatori sociali, perché non ne hanno bisogno, sono i miei 3 milioni e 600 mila dipendenti pubblici. E la pubblica amministrazione è anche l'area meno efficiente. Nessun rischio di disoccupazione, e poca produttività ».
Avete anche voi lavoratori a termine, però.
«Circa il 10%, tutelati con due forme di indennità di disoccupazione, ordinaria e a requisiti ridotti. Una percentuale fisiologica, a parte l'aberrazione — da sanare — dei contratti prorogati di volta in volta per una vita».
La riforma delle pensioni va fatta o no?
«Affrontare il tema ora significa creare uno stress inopportuno per il sistema e la coesione sociale. Resta un fatto: il vero problema è il welfare pensionistico. E resta valido l'obiettivo di superare le pensioni di anzianità e passare al contributivo per tutti, senza però creare oggi questo stress».
Per ora niente pensione a 65 anni per le donne?
«E' un discorso diverso. Su donne e pubblica amministrazione siamo stati condannati in Europa. Credo che la soluzione sarà l'innalzamento perequativo decennale, senza particolari stress. E ciò che sarà risparmiato andrà investito nel mercato del lavoro femminile. Perché l'altra grave anomalia italiana, accanto alle pensioni, è la discriminazione delle donne».

Aldo Cazzullo

07 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 10, 2009, 11:57:45 am »

La crisi Il progetto

Tremonti e il G8: il mio team di giuristi per riscrivere le regole

Nella commissione Enrico Letta, Giulio Napolitano, Guido Rossi e Visentini jr
 

Una commissione, per affiancare il lavoro degli sherpa italiani in vista del G7-G8 e in prospettiva per un «Manifesto del diritto futuro», da far lievitare a partire da un grande incontro internazionale, questa primavera a Roma. Un contributo per scrivere le regole mancate in questi dieci anni di «eclissi giuridica e globalizzazione selvaggia», portare testi innovativi al vertice della Maddalena, gettare le basi per una nuova Bretton Woods. Attorno a Giulio Tremonti ci sono giuristi come il comparatista Gabriele Crespi Reghizzi, Alberto Santamaria, cattedratico di diritto internazionale alla Statale di Milano, e l’unica donna, Silvia Cipollina.

E ci sono Guido Rossi, Enrico Letta, Giulio Napolitano, figlio del presidente della Repubblica. E ancora Gustavo Visentini, figlio del Gran Borghese Bruno, Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro, Carlo Baldocci, consigliere diplomatico di Tremonti. Un nucleo aperto alla contaminazione di culture, compresa quella di centrosinistra, ma che non va interpretato come un segno di quella strategia dell’attenzione verso l’opposizione attribuita al ministro dell’Economia. Il vero senso non è politico, ma culturale.
Non a caso tutti i componenti sono giuristi. Guido Rossi, il «decano», ha tenuto con Tremonti e don Verzè un seminario al San Raffaele. Di Giulio Napolitano il ministro dell’Economia ha apprezzato molto il saggio sulla crisi finanziaria americana. Letta ha partecipato al seminario del gennaio scorso a Parigi, dove Tremonti era relatore insieme con Sarkozy, la Merkel e Blair. L’orizzonte del ministro è il vertice del G7-G8 alla Maddalena, sotto la presidenza italiana: «Le presidenze fanno le proposte. In tempi normali, fanno proposte normali. A questa altezza di tempo, non possono limitarsi a proposte normali. Devono fare proposte di pari altezza. Lo impone lo spirito del tempo».

Uno spirito che, nello scenario di Tremonti, riporta alle origini del vertice dei Grandi e, ancora più indietro, a Bretton Woods. Era il 15 novembre 1975, quando Giscard riunì al castello di Rambouillet i capi di Stato e di governo e i ministri dell’Economia, per serrare le fila di fronte a una doppia gravissima crisi, economica ma soprattutto politica, a fronte della massima espansione globale del comunismo. Ancora dieci anni fa, il G7 controllava l’80% del pil mondiale, ed era unificato da un unico «codice» politico — la democrazia occidentale —, un unico «codice» linguistico — l’inglese —, e un unico «codice» economico: il dollaro. Ora tutto è cambiato. Il G8 controlla appena il 50% del pil. Le democrazie occidentali non sono più il modello politico unico accettato dall’Occidente. L’Occidente accetta di sedersi attorno a un tavolo sistematicamente anche con altre forme politiche. Con il comunismo mercantilista cinese.

Con «misteriose entità politiche asiatiche». Con la Russia, «con la sua rendita mineraria e con il suo hardware paleoindustriale, potenza continentale priva però della spinta globale che le veniva dal software del comunismo: quel software che come uno spettro d’acciaio si aggirava attorno al caminetto del castello di Rambouillet», la cui assenza induce oggi Tremonti a non credere agli allarmi sul ritorno della guerra fredda. Il G20 è un corpo politico fondamentale ma asimmetrico; manca il mondo arabo; manca l’Africa. Il riferimento di base, nei ragionamenti del ministro, non è comunque solo Rambouillet, quanto Bretton Woods: la località sperduta nei boschi del Nord America, da cui nel ’44, nel pieno corso della guerra, «si traguardava la pace», si disegnava un assetto che governò il mondo fino all’inizio degli Anni Settanta, il cui ripudio causò la prima grande crisi del dopoguerra.

Ora la seconda grande crisi incrocia la presidenza italiana del G7-G8. Da cui vengono due proposte. La prima — lanciata da Tremonti nella Commissione europea e sulla prima pagina di Le Monde dell’11 settembre 2001, «una coincidenza fatale...», poi ripresa da Gordon Brown quand’era cancelliere dello Scacchiere — è la Detax: destinare una quota dell’imposta sui consumi ai Paesi in via di sviluppo; ma non per il tramite tradizionale dei governi, bensì attraverso i cittadini e il non profit. Finora sono stati i poveri dei Paesi ricchi a finanziare i ricchi dei Paesi poveri — è il ragionamento del ministro —. Una logica a volte postcoloniale, che ha funzionato in linea di massima ma che ha anche portato denari ai trafficanti di armi o in Svizzera. Se però una frazione dell’Iva viene destinata, anziché agli Stati, alla rete di volontariato cui il commerciante è iscritto, allora il cliente può con il suo acquisto finanziare ad esempio un nuovo ospedale in Africa.

La seconda proposta, che Tremonti aveva elaborato nel 2004, prima di «essere dimesso», e che è stata approvata all’unanimità al vertice di Villa Madama del febbraio scorso, è un nuovo «global legal standard». «In sostanza, a partire dagli Anni Novanta, gli Stati hanno rinunciato a fare gli Stati—è la valutazione del ministro —. Hanno permesso che una funzione sovrana come la funzione monetaria fosse trasferita alle banche, dando alle banche private il potere di battere moneta. Una moneta "cattiva", parallela a quella buona, una moneta stampata sul nulla». Da un lato la globalizzazione ha creato enormi squilibri, perché ha mosso enormi masse di capitali, lavoro, informazioni, dall’altro lato non ha compensato con un equivalente standard di regole; è stato così che la forza del mercato ha sovrastato la forza del diritto.

Al vertice del 2004 di Boca Raton, Florida, Tremonti aveva portato le mappe delle varie Tortuga in giro per il mondo, i «kingdom of anomia», regni dell’anomia, aree senza diritto; paradisi non solo e non tanto fiscali, quanto legali; piazze nelle quali si poteva fabbricare un capitalismo parallelo, fatto fuori dalle regole. «Mentre il mercato diventava globale, il diritto restava locale, e non solo; dove restava locale cedeva quote del suo potere con la deregulation, ma soprattutto consentiva la formazione di arcipelaghi giuridici che avevano la forma ma non la sostanza del diritto, giurisdizioni la cui unica regola era quella di non avere regole. Ora si capisce perché la Goldman Sachs fosse diventata forte come nel Trecento i Templari. E, nel regno dell’anomia, così come gli Stati hanno ceduto quote di potere, allo stesso modo i giuristi hanno ceduto rispetto agli economisti».

Il Tremonti che parafrasa Schmitt, che traduce il silete, iureconsultes in «tacete, economisti», vede nel declino della «pseudoscienza » o della «triste scienza» economica e nel ritorno della «scienza eterna del diritto» il segno di un mondo che ritrova un equilibrio, e che recupera i grandi principi del diritto. «Il pendolo del potere culturale e della visione politica si sposta dal mercato al diritto, dagli interessi alle regole»; e non a caso porta alla Casa Bianca un giurista già direttore della Law Review di Harvard. In vista del G7-G8, Tremonti ha coinvolto l’Ocse. La Commissione europea. E appunto il gruppo di cui fanno parte Napolitano jr e Visentini jr che ha due mandati di base. Sostenere il lavoro degli sherpa del governo per il vertice della Maddalena. E quello che Tremonti definisce «un sogno in più». La bozza di un «codice cosmopolita kantiano», che non si limiti alla finanza ma si apra alle questioni della proprietà, delle società, della trasparenza, della vigilanza, dell’anti- corruzione, della lealtà fiscale. La commissione si è già riunita alcune volte — la prossima è prevista tra una settimana —, mentre è sempre continuato lo scambio di materiali via mail. L’esito dei lavori — che sarà presentato e discusso in parallelo alla Maddalena, in un incontro internazionale a Roma, «culla del diritto», in una «sede solenne»—non sarà ovviamente un sistema di regole dettagliato, ma un insieme di principi, una sorta di «Manifesto del diritto futuro ». Espressione in cui non è impossibile sentire un’eco del Manifesto futurista di cent’anni fa: idee d’avanguardia, di «sconfinata ambizione », per un mondo in cui nulla è destinato a restare come prima.

Aldo Cazzullo
10 marzo 2009

da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:35:14 am »

«All'estero si tende a sottovalutarlo. ha dimostrato un talento politico eccezionale»

«Silvio ultimo caudillo, ma democratico»

Lo scrittore Vargas Llosa: «Ha saputo unificare la destra. La sinistra? È anacronistica»



MADRID—Mario Vargas Llosa, Grande Vecchio della letteratura mondiale e del liberalismo, sta lavorando al prossimo romanzo, ambientato tra l’Africa e Londra, al tempo del genocidio rimosso dei belgi in Congo. Sul tavolo ha i giornali europei che danno conto del nuovo partito fondato da Silvio Berlusconi. L’occasione per una disamina politico- culturale sull’Italia e non solo, nell’anno della crisi.

Qual è il suo giudizio sulla figura di Berlusconi? È davvero un uomo di destra? «Berlusconi è un caudillo. Una figura scomparsa da tempo, di cui nessuno si attendeva il ritorno sulla scena della storia. Non solo: Berlusconi è un caudillo sui generis. Un caudillo democratico. Non ha nulla dell’autoritarismo di Mussolini. Il suo tratto pubblico è semmai l’ilarità, la battuta, la barzelletta. È un istrione che a volte si presenta come un clown. Ma gli va riconosciuto uno straordinario olfatto politico. Così come bisogna riconoscere che si è mosso dentro i parametri democratici; centrando i suoi obiettivi. Ha unificato per la prima volta la destra, da sempre divisa in fazioni che non si riconoscevano le une con le altre. E ha sconfitto più volte la sinistra italiana, vale a dire la più poderosa dell’Occidente».
A dire il vero, la sinistra italiana di sconfitte ne ha collezionate molte.
«Ma ha sempre esercitato un’egemonia culturale. Aveva dalla sua parte alcuni tra gli intellettuali e gli artisti più importanti d’Europa. E, nel ’94, pareva sul punto di prendere il potere. Ma sulla sua strada ha incontrato Berlusconi». Lo storico Piero Melograni sostiene che Berlusconi è l’uomo che chiude la Guerra fredda italiana, con la sconfitta definitiva del comunismo nostrano, e chiude la rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite. Condivide? «Sì. Guardi, come avrà capito, a me Berlusconi non è simpatico...»
L’ha mai incontrato?
«Una volta sola, al matrimonio tra Agag e la figlia di Aznar, ma non ci siamo parlati. All’estero si tende a sottovalutarlo: pare impossibile che un personaggio superficiale, poco colto, che offre poche credenziali sul piano etico, abbia governato per tre volte un paese sofisticato come l’Italia. All’inizio pareva un opportunista, mosso dall’istinto del potere e dell’interesse personale. Però devo riconoscere che Berlusconi ha dimostrato un talento politico eccezionale. I suoi governi hanno garantito all’Italia ordine, stabilità, continuità. E hanno mandato all’opposizione una sinistra che avrebbe fatto del male al Paese».
Il centrosinistra si è unificato nel Partito democratico, ma non vede crescere i propri voti. È un esperimento già fallito?
«La sinistra italiana è un anacronismo. Non si è accorta di vivere in un mondo completamente mutato. È vecchia. I suoi uomini sono sempre gli stessi. Le sue idee sono state pensate in tempi remoti. Ha bisogno di un rinnovamento profondo. La sua debolezza è un guaio per Berlusconi e per il Paese. Senza un’opposizione forte, la democrazia è in grave pericolo».
I critici di Berlusconi ricordano che non ha ancora sciolto il conflitto di interessi, che fa di lui l’unico capo di governo a possedere tv e giornali. I suoi difensori sostengono che il conflitto è stato sanato dal voto degli elettori. Lei cosa ne pensa?
«La cosa più grave non è il conflitto di interessi, ma il fatto che agli italiani palesemente non importi nulla. Berlusconi non sarebbe lì senza le sue tv. La sua è la vittoria della cultura dello spettacolo; anzi, lui stesso è lo spettacolo. Perciò non venderà mai. Anche questo è un segno dell’involuzione etica della democrazia, evidente in tutto il mondo. L’Italia ha anticipato una questione che ci riguarda tutti».
Ora che è nato un partito dal 40%, come in Italia non si vedeva dai tempi della Dc, il berlusconismo sopravvivrà a Berlusconi?
«No. I partiti carismatici sono effimeri: non stanno insieme senza il carisma del leader. Il Pdl è come una bouillabaisse: saporita, ma eterogenea. Ci sono i conservatori e i riformatori, gli statalisti e i liberali, i cattolici e i radicali, gli uomini della vecchia destra e gli ex socialisti. Berlusconi non ha luogotenenti né delfini, né li può avere. Lui è irripetibile. Autoreferenziale, perché il suo unico riferimento è se stesso. Solo un Berlusconi jr potrebbe succedere al padre. Ma l’Italia non è la Corea del Nord».
Come valuta l’evoluzione dell’altro socio del Pdl, Alleanza nazionale, il partito erede del postfascismo?
«Stimo Fini. Una persona seria. È stato bravo a portare il suo partito dal fascismo a una destra moderna. Ma è un hombre de gabinete. Un uomo di apparato. Non sarà il successore di Berlusconi, e il primo a saperlo è lui».
Il Pdl è alleato con la Lega Nord. Come le pare Bossi?
«A differenza di Fini, Bossi ha carisma. Ma per ovvi motivi non sarà mai un leader nazionale. La sua è una forza di rottura, pericolosa in uno Stato dalla storia breve come l’Italia. Però la prima vittima di Bossi è la sinistra. Perché la Lega ha un elettorato popolare».
Cosa pensa della nuova destra che si ritrova nel partito popolare europeo? Sarkozy le piace?
«È un personaggio carismatico, con una vena populista, peraltro radicata in Francia fin da De Gaulle e Mitterrand. Ma è dinamico, affronta i problemi, ottiene risultati. E sta integrando la Francia nel resto del mondo, ricuce con l’America, torna nella Nato».
E Angela Merkel?
«Magnifica. Il leader europeo più sensato. Non è carismatica, il che per me rappresenta una qualità, perché significa che non è pericolosa. È invece democratica, diligente, flessibile. Sa lavorare in squadra. Era molto che la Germania non aveva una guida così».
A Londra voterebbe Gordon Brown o Cameron?
«A Londra sono maturi i tempi per l’alternanza. La maggioranza degli inglesi vuole Cameron, e credo l’avrà».
In Spagna che succede? Zapatero è in difficoltà?
«Grave difficoltà. È andato incontro spensierato al ciclone senza vedere le nuvole che si addensavano sulla sua testa. La crisi in Spagna è a uno stadio molto avanzato, e le prossime elezioni europee —le più importanti della storia non solo a Madrid, perché arrivano in un momento topico — potrebbero sancire il sorpasso dei popolari. L’unica nota positiva per Zapatero è che, per la prima volta, i partiti costituzionali superano i nazionalisti e sono maggioranza nel Paese basco».
Il leader del Pp Rajoy le piace?O era meglio Aznar?
«Rajoy è migliore come uomo di governo che come uomo da campagna elettorale, e potrebbe avere presto l’occasione per dimostrarlo».
Qual è l’impatto della crisi economica sulle culture politiche? La preoccupa questo passaggio brusco dal liberismo allo statalismo?
«Mi preoccupa molto. La storia recente ci insegna dove porta, in tempi lunghi o brevi, l’intervento statale nell’economia: alla rovina delle nazioni. Non è il liberalismo a essere andato in crisi; sono le istituzioni finanziarie, il loro funzionamento, le loro regole o la loro mancanza di regole, i loro tanti piccoli Madoff. Pensare di riempire questo vuoto con lo Stato sarebbe un rimedio peggiore del male».
Tutti i governi però hanno predisposto un piano di intervento.
«Temo si stia gettando il denaro nella fornace della crisi, con il risultato di sottrarre banche e imprese alle loro responsabilità. La crisi può anche essere un’utile purga. Una catarsi. Purché salvi la parte buona del mercato e rigeneri le istituzioni liberali, anziché soffocarle con il ritorno al passato».
Che impressione le fa Obama?
«Obama è molto positivo per gli Stati Uniti, che hanno pagato un prezzo terribile agli anni di Bush e sono arrivati alla fine del suo secondo mandato con il morale e il tasso di popolarità nel mondo più bassi che mai. Obama ha l’enorme merito di portare con sé una carica di entusiasmo e idealismo. La vera novità non è il fatto che sia nero; è il fatto che sia un intellettuale. Genere mai amato negli States».
Come le sembrano le sue prime mosse?
«Obama ha un compito terribile, ma sulla crisi Usa non sono pessimista. Gli americani possono uscirne prima del previsto, ne stanno già uscendo. Certo dovranno organizzare diversamente le loro vite, risparmiare di più, amputare le escrescenze. Ma mi pare che il patrimonio di idee e di valori dell’America sia ancora saldo».
In America Latina sembra prevalere un nuovo populismo, da Chavez a Morales. Che effetto le fa?
«Distinguo. C’è un populismo totale, anacronistico, antidemocratico che è quello di Chavez, che porta il Venezuela verso il modello cubano: miseria, corruzione, dittatura. Anche se i cinque milioni di voti contro di lui nell’ultimo plebiscito mi fanno sperare. Ma in America Latina c’è anche una sinistra democratica che ieri non c’era. Lula ad esempio ha accettato l’economia di mercato. Il Cile ha una sinistra di governo moderna e liberale. L’Uruguay è una grande sorpresa, i tupamaros che un tempo erano estremisti hanno saputo rinnovarsi».
E la presidenta Kirchner?
«Un desastro total. L’Argentina sta conoscendo la peggior forma di peronismo: populismo e anarchia. Temo sia un paese incurabile. La forza oscura, che mezzo secolo fa prese a trascinare una terra tra le più ricche del mondo verso la rovina, è ancora in moto».

Aldo Cazzullo
20 marzo 2009

da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:33:10 am »

Il discorso di Fini

La scossa ai colonnelli: sto con gli italiani del futuro

Il leader commenta con la compagna Tulliani le parole dei suoi: bene i «luogocomunisti» di Alemanno


ROMA — Non è solo una nota di costume, l'esordio imbarazzato di Elisabetta Tulliani: accolta con entusiasmo dai fotografi e con distacco dai colonnelli, La Russa le fa a malapena «ciao», altri la ignorano, solo Giovanni Malagò viene a darle un bacio sulla guancia, mentre Giulia Bongiorno le si siede vicino quando il fidanzato-leader sale sul palco. È il segno del distacco emotivo tra la platea e un capo che non solo ha cambiato frequentazioni e affetti, ma ormai non si rivolge più al suo ex partito e neppure al centrodestra, quanto al complesso delle istituzioni e dei cittadini.

Così il congresso resta, più che freddo, basito quando Fini parla di Partito popolare europeo, dialogo con l'Islam, distinzione tra la sfera politica e sfera religiosa «che deve restare personale e privata», e del dovere di «non discriminare nessuno, nemmeno l'immigrato, nemmeno il clandestino». Un congresso che anche ieri si è scaldato davvero una volta sola, quando Alemanno ha citato Menia, l'unico a esprimere le riserve di molti sulla fusione con Forza Italia. Non che Fini non sia più leader. I delegati, così come i colonnelli (di cui Gasparri ha chiesto per due volte la promozione a generali «ora che abbiamo pure il ministro della Difesa»), non mettono in discussione l'antica gerarchia, né la sua manifesta superiorità intellettuale. Solo che faticano a seguirlo, quando Fini corregge La Russa e dice che il Pdl non dev'essere la Destra, non deve rappresentare identità passate ma «gli italiani del futuro», «tra cui molti saranno italiani pur non essendo figli di italiani». Applaudono all'evocazione del «giovane militante del Fuan che si chiamava Paolo Borsellino», ma fingono di non capire quando precisa che «dobbiamo guardare a lui come a un esempio non perché era un giovane militante del Fuan, ma perché era Paolo Borsellino».

Il congresso invece asseconda appieno, per residuo orgoglio di partito, la polemica indiretta con Berlusconi. Il Cavaliere non è venuto, su richiesta dei «generali » di An, ma ha mandato Verdini con un messaggio che rievoca la scelta del novembre '93, «quando mi schierai con Fini contro Rutelli e ricevetti per questo attacchi inauditi».
E Fini ottiene gli applausi più calorosi quando precisa che non ci fu «nessun regalo, nessuna grazia ricevuta, soprattutto nessuno sdoganamento; perché si sdoganano le merci, non le idee». Il Pdl «non è nato in piazza San Babila », e in ogni caso dovrà essere «il partito della nazione, non il partito di una persona », non chiuso nel «culto della personalità» ma «aperto all'impegno di altri oltre al leader». A cominciare da lui, il presidente della Camera, «terza carica dello Stato» come ricorda con puntiglio, e quindi non disponibile a vedere umiliato il Parlamento: «Fateci fare piuttosto meno leggi, ma restituiteci il potere di controllo e di indirizzo». Sì alle riforme istituzionali e al presidenzialismo, ma che sia come in America, dove al presidente più potente al mondo si contrappone un Congresso forte; e per fortuna ieri l'ospite d'onore era il sindacalista Bonanni e non Schifani, che così non ha dovuto ascoltare di persona la richiesta di ridimensionare il Senato a «luogo di rappresentanza dei territori».

Non da oggi An sta stretta a Fini, che se n'è servito come serbatoio di voti e militanza senza rinunciare a rivolgersi a tutti i moderati, ora anche a tutti gli elettori. Certi passaggi del suo discorso sono stati applauditi solo dalla prima fila, dove accanto alla segretaria Rita Marino e al portavoce Fabrizio Alfano (la figlia Giuliana Fini è rimasta sobriamente dietro le quinte per tutto il congresso) esordiva appunto la nuova compagna Elisabetta Tulliani, paralizzata dall'emozione. Coda di cavallo bionda, orecchini voluminosi, tailleur pantalone gessato, collana di pietre colorate sulla camicia di raso azzurro. Fini fa chiedere ai fotografi di lasciarle un po' d'aria, si china a sussurrarle all'orecchio — «Hai sentito Alemanno? Questa immagine dei "luogocomunisti" non è male» —, si fa dare una mentina, le strizza il ginocchio prima di salire sul palco. Lei applaude i «generali» con circospetta cortesia, l'intera platea più che per votare decisioni già prese è usata come un grande applausometro: il ministro Matteoli appariva più vispo la sera prima nella tribuna dell'Olimpico; Alemanno — rosso in viso, le vene gonfie — suscita un'ovazione in difesa di Benedetto XVI; Renata Polverini cita la Yourcenar, Italo Bocchino Darwin, Gasparri Pansa e Bruno Vespa. Poi rivendica le critiche a Napolitano sul caso Eluana («Rifarei tutto») e fa un numero contro Veltroni «nullità politica », la Merloni del Pd che «licenzia seicento operai per fare più ricca la sua famiglia e più poveri gli italiani », Modiano «banchiere di sinistra» invitato a dare ai poveri il suo bonus da tre milioni e passa di euro, e inoltre «cosa aspetta Cappon a mandare in onda sulla Rai la fiction sul Sangue dei vinti?».

«Siamo il partito della legge e dell'ordine!» grida Gasparri. «È vero, ma non l'ordine delle caserme, l'ordine inteso come rispetto della dignità di ogni uomo» ragiona Fini. Forse in minoranza nel suo stesso popolo, ma in grado di dimostrare come — forse per la prima volta nella storia repubblicana — in un uomo venuto da destra possa riconoscersi chiunque; anche l'ambasciatore israeliano e quello tedesco, che si incrociano mentre vanno a stringergli la mano.

Aldo Cazzullo

23 marzo 2009
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« Risposta #35 inserito:: Marzo 25, 2009, 08:46:37 am »

L'intervista

«Silvio ha smontato l'egemonia culturale della sinistra italiana»

Cicchitto: basta complessi di inferiorità Il premier è anti establishment come Craxi

«Una delle conquiste del Pdl dev'essere quella di superare il complesso di inferiorità culturale verso la sinistra. La sinistra è sconfitta anche perché la sua egemonia è stata smontata pezzo a pezzo, sul terreno di una grande battaglia culturale. E oggi c'è un'egemonia berlusconiana».

Presidente Cicchitto, al Pdl di solito si rimprovera scarsa attenzione agli intellettuali e un deficit di elaborazione culturale.
«Non è così. Intanto, tutti gli intellettuali italiani più importanti degli ultimi trent'anni sono stati avversi alla sinistra. Renzo De Felice. Lucio Colletti. Augusto Del Noce. Luigi Giussani. E non è affatto vero che Berlusconi non c'entri nulla con loro».

Qual è il legame?
«Berlusconi ha un antico rapporto con i ciellini, in cui ha visto gli unici che, pur prendendo calci in faccia, hanno resistito al '68. Ha del fascismo la stessa visione "laica" di De Felice e in fondo della borghesia italiana: nessuna simpatia o indulgenza, ma diffidenza verso l'antifascismo di maniera e strumentale. Quanto a Del Noce, ha portato in Parlamento suo figlio. Così come Piero Melograni e Colletti: il più importante studioso italiano del marxismo, che ha distrutto il marxismo. Penso poi al rapporto con Giuliano Ferrara e Gianni Baget Bozzo».

Proprio Melograni sostiene che a Berlusconi di intellettuali e cultura non importa molto.
«E invece Berlusconi ha saputo valorizzare l'elaborazione culturale di grandi intellettuali e imporla grazie alla sua iniziativa mediatica e televisiva. La sconfitta dell'operazione giudiziaria del '92-94 è avvenuta prima sul piano culturale e mediatico e poi su quello politico: il giudizio diffuso sulla magistratura oggi non è certo quello di quindici anni fa. Lo stesso è avvenuto per la demistificazione culturale del comunismo, e di tutta un'interpretazione della storia d'Italia portata avanti dalla sinistra».

Quale interpretazione?
«È stato smontato il connubio Gramsci-Togliatti, mostrando come sulla strategia del primo, basata sulla conquista dei cervelli, sia prevalsa quella del secondo, fondata sul totalitarismo criminale sovietico. È stato smontato il mito dell'autonomia del Pci, mostrando come dietro la svolta di Salerno ci fosse Stalin. Ed è stata smontata la narrazione postcomunista, che indicava in democristiani e socialisti i grandi ladri e rimpiazzava l'operaismo e il bolscevismo con il primato della magistratura come una sorta di nuova classe generale e del giornale di Scalfari come fonte di legittimazione. La svolta di Violante, uno dei registi dell'operazione, è indicativa. Anche se riconosco che Scalfari è un grande giornalista e, aggiungerei, grande intervistatore, capace di migliorare il pensiero dell'intervistato. Ricordo due interviste a un personaggio incolore come De Martino che, riscritto da lui, pareva brillantissimo...».

Berlusconi però ha combattuto la battaglia con una superiorità schiacciante di mezzi.
«La battaglia si è combattuta anzitutto con i libri».

Quali libri?
«Il lavoro di storici come Perfetti. Le traduzioni di Furet e Glucksmann. I saggi controcorrente di Giuseppe Gargani, Giancarlo Lehner, Mauro Mellini. Gli stessi libri di Pansa ancora qualche anno fa non avrebbero avuto lo stesso successo. E poi il colpo di teatro: Berlusconi che al congresso di Verona di An, propensa (o indotta) a legittimare i postcomunisti per legittimare se stessa, porta migliaia di copie del Libro nero del comunismo. Quale altro leader politico ha fatto qualcosa del genere?».

Quale altro leader politico possiede giornali e tv?
«Ci voleva un personaggio con la sua forza finanziaria e mediatica per affrontare l'invincibile armata di Cgil, Rai, alcune grandi banche, alcuni grandi gruppi industriali, tutte le grandi procure. E poi di qui c'è un conflitto d'interessi alla luce del sole. Il conflitto d'interessi del Pci-Pds-Ds-Pd è rimasto occulto, sino a quando è esploso con Consorte».

Ancora nel '94 però le tv di Berlusconi appoggiavano la Procura di Milano.
«Se Berlusconi si fosse presentato agli elettori come il continuatore del pentapartito sarebbe stato travolto. Ha avuto l'intelligenza di capire che doveva fare una cosa nuova, che i vecchi partiti erano morti, ma le loro culture politiche erano vive. Da qui la scelta di recuperare uomini di formazione cattolica, socialista, liberale ».

Alla sinistra non resta nulla?
«Resta l'organizzazione della cultura. Finita nelle mani della sinistra peggiore, quella giustizialista. L'università. I libri di testo. Il teatro. Il cinema e la distribuzione del cinema: si rende conto che non si riesce a vedere Katyn, il film di Wajda sul massacro degli ufficiali polacchi? Lo sa che in tutta Italia lo danno solo in 12 sale? Guardi Bondi alla Cultura: uomo di grande intelligenza, alle prese con una nomenklatura di sinistra che lo pressa da ogni parte».

Lei invece si è trovato alla prese con la rivolta dei 101.
«A parte il fatto che sono di meno, molti non sapevano che in commissione si stava già lavorando a rivedere il decreto sicurezza».

Lei ha condiviso la linea del governo sul caso Eluana?
«Guardi, io non sono credente. Non sono un laico anticlericale, ma neppure un laico devoto. Sono contrario al divieto di diagnosi preimpianto sull'embrione, sulle staminali la penso come Obama, rispetto ma non condivido le idee del Papa sul condom. Credo che Welby avesse il diritto di staccare la spina, come dovrebbe averlo chi non è cosciente ma ha manifestato in passato una volontà chiara. Ma su Eluana sono stato del tutto d'accordo con il governo. Non si può far morire una persona di fame e di sete, com'è toccato a Terry Schiavo».

Com'è davvero il rapporto tra Berlusconi e Fini?
«Su due livelli diversi. E, per questo, migliore che in passato. Tanto è imprevedibile-carismatico il primo quanto è razionale-calibrato al millimetro il secondo, come ha confermato con il suo discorso di domenica. E' evidente che per tutta questa lunga fase il leader è senza dubbio Berlusconi. Il vero contraltare di Fini, in prospettiva, è Tremonti».

Come si sta comportando il ministro dell'Economia?
«È stato tra i primi a capire la crisi e il ritorno dell'intervento pubblico. Però sarebbe un errore per il governo inasprire i rapporti con la Banca d'Italia, fondamentale per la tenuta del sistema del credito e anche per il successo delle aste dei Bot».

 E tra Berlusconi e Craxi, lei che ha lavorato con entrambi?
«Entrambi avevano contro l'establishment. Ma Craxi cercava lo scontro; Berlusconi, il consenso. E poi non l'ho mai visto maltrattare un amico o un collaboratore. Non posso dire lo stesso di Bettino, che aveva un carattere insieme forte e aggressivo».

Aldo Cazzullo

25 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #36 inserito:: Marzo 28, 2009, 03:53:11 pm »

Il premier evita di citare la svolta del «predellino» e ricorda il corteo anti Prodi 2006

Silvio celebra «il carissimo Bettino»

«Lui per primo aprì alla destra»

Il Cavaliere diviso tra «amarcord» e facce nuove. Le attenzioni per Fini


Pareva il 27 marzo, sì, ma del 1994. I comunisti, Pol Pot, «milioni di adoratori di Stalin e Mao», l'oro di Mosca, i «cento milioni di morti», la deriva giustizialista, la salvezza «grazie anche agli amici Gianfranco e Umberto», la rivoluzione liberale. Discorso che vince non si cambia. Berlusconi si cita. Ampi stralci dal testo della discesa in campo (26 gennaio '94). Rievocazione della grande vittoria di due mesi dopo. E rilettura della storia d'Italia, con alcuni passaggi-chiave, di gran lunga i più applauditi dal congresso.

Bettino Craxi, indicato come precursore del Pdl, «il primo ad aprire alla destra», «il mio carissimo amico», qui rappresentato «da Stefania figlia ed erede politica», cui il premier manda un bacio; grande ondeggiare di garofani rossi, portati dall'on. Barani da Aulla. Pinuccio Tatarella, «il primo a credere in un centrodestra unito », celebrato dai delegati in piedi, in lacrime quelli di An. «La gloriosa macchina da guerra di Occhetto», e qui di mutato c'è l'aggettivo: era «gioiosa », ma fu travolta comunque. Di Pietro, mai nominato ma evocato come presenza maligna. La stampa «schierata contro in massima parte, con l'azionariato sovrastante». Il patto con la Lega, «di cui saluto il fondatore Umberto Bossi, mio carissimo amico». L'intervista al supermarket di Casalecchio, «quando non esitai a scegliere tra Rutelli e Gianfranco»; Fini è l'unico che non applaude, piega il capo infastidito, ma Berlusconi capisce e precisa: «Solo gli osservatori superficiali parlarono di "sdoganamento", un'espressione che giustamente a Gianfranco non piace».

La platea contribuisce all'amarcord. Accanto alle «facce nuove», tutte giovani e belle, i Revenants del glorioso '94, gli Angelo Codignoni, i Niccolò Querci. In gran forma Maria Luisa Todini. Antonio Martino è in terza fila, volto cupo tipo esequie. Sirene di autoblù dai vetri oscurati in ritardo. Tajani, di cui Dell'Utri dice che mai si sarebbe atteso di vederlo così in alto, ha portato il capo del Ppe Martens, che tiene allegra la platea: «Mon cher Silviò...». Berlusconi parla più di 90 minuti, ma la crisi mondiale si affaccia appena al 63': tanto «l'Italia ne uscirà prima e meglio degli altri». Obama è citato al 67', dopo il consueto aneddoto sul cimitero di guerra americano — «questa ve l'ho già raccontata: c'era una volta un padre che fece giurare al figlio...» —, che comunque fa sempre il suo effetto: «Quel padre era mio padre, quel figlio ero io». Certo dal '94 è cambiato tutto, anche il Cavaliere. Che però dimostra una tenuta fisica impressionante. Solo al 35' ha un attimo di appannamento, si incespica, va giù di voce ma rifiuta di bere, si riprende subito.

Nuovo è l'inno, Meno male che Silvio c'èal posto del coro di Forza Italia, molto rimpianto dai nostalgici. Per tenere testa alle «facce nuove», Stefania Prestigiacomo è andata dal parrucchiere e si è fatta i ricci, la Gelmini ha messo un rossetto rosa quasi fucsia. La Carfagna siede accanto a Tremonti, poi s'alza e si isola con Bocchino. Outing di Bondi, al fianco di Manuela Repetti detta la Zarina per il ruolo crescente. Ministri senza posto, Melania Rizzoli litiga con la hostess che vorrebbe farla alzare («se ce prova con me la mando affanculo» mette in chiaro la Mussolini), Brunetta scavalca le sedie svelando una falcata da ostacolista. Con Fini, dopo la discussione del giorno prima, Berlusconi è prodigo di attenzioni. Non cita il predellino e piazza San Babila, ma il corteo anti- Prodi del 2 dicembre 2006 e le successive vittorie elettorali. E comunque «Gianfranco merita un grazie, per aver anteposto l'interesse del Paese a quello personale». Lui sembra apprezzare.

Per oggi prepara un intervento molto diverso da quello del capo: il presidente della Camera eviterà di attaccare la sinistra, rivendicherà l'ambizione di rivolgersi all'intero Paese, riconoscerà i meriti di Berlusconi ma metterà in guardia dal culto della personalità. Stasera però la scena è tutta del premier, che ha in pugno la platea, la invita all'applauso modulando il tono della voce, le infligge un lungo excursus sul significato di Popolo e di Libertà, con citazioni dei rivoluzionari americani e francesi. Al 57', stremata, la Boniver guadagna l'uscita, dove si allunga la coda alla toilette. Provatissimo il filosofo Mathieu.

Passaggio-chiave quello sul Papa, anzi «Benedetto Decimosesto», di cui Berlusconi cita «tra virgolette» l'intervento dell'aprile 2008 sui «segnali di un clima nuovo, più fiducioso, più costruttivo» dopo la vittoria del Pdl. Applauso tiepidissimo quando i delegati apprendono che il loro partito «celebra la Resistenza e la Repubblica». «Siamo l'unico governo possibile» è la sintesi del presente. Schifani porta democraticamente il pass al collo. Di pass Giulio di Donato ex vicesegretario Psi ne ha due, ospite e delegato, provassero a fermarlo. Maria Pia Fanfani è venuta in divisa da crocerossina con medaglie, ma fanno storie pure a lei. Aveva aperto l'on. Calabria chiamando sul palco il Cavaliere con voce tremante: «E' arrivato il momento... sono emozionatissima...», a Fini scappa da ridere, invito... invito...», l'on. Calabria non riesce a pronunciare il nome di Berlusconi, s'ode nitida una voce dal banco dei fotografi: «E che è, padre Pio?».

Si chiude con il premier che convoca «i leader che ci porteranno i simboli e le bandiere dei loro partiti»: Sergio De Gregorio sorride come una popolana appena uscita dalla sala parto, la Brambilla e la Mussolini conquistano il posto d'onore nella foto ricordo, poi tutti, compresi Caldoro del nuovo Psi e Baccini dei cristianopopolari si prendono per mano e ondeggiano al ritmo del nuovo inno. Il Cavaliere cita pure Giovanardi, «mio carissimo amico», il ministro Rotondi, Dini, Dell'Utri e lo sconosciuto Luciano Bonocore della sedicente Destra libertaria; ignorato inspiegabilmente Pionati, mentre il repubblicano Nucara è convocato più volte ma per sbaglio; lui nel Pdl non entra, Berlusconi però è troppo felice per accorgersene.

Aldo Cazzullo
28 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #37 inserito:: Marzo 29, 2009, 11:39:43 am »

Congresso pdl

Tremonti, il Cavaliere e la vera storia di FI

Le riunioni in albergo con Maroni, Vertone e Mondadori. «I camerieri convinsero Silvio a scendere in campo»


«Lasciatemi salutare con affetto una persona che conosco da tanti anni. Dal 1982. Una persona che nella sua avventura umana ha avuto in sorte di essere già nella storia, una storia che non finisce ma continua. Abbraccio con affetto Silvio Berlusconi». In un intervento breve, asciutto, porto a voce bassa, il passaggio più applaudito è stato quello in cui Giulio Tremonti ha rivendicato il proprio antico legame con il presidente del Consiglio, e indirettamente con la storia di Forza Italia; o meglio con quella che può essere considerata «la vera storia di Forza Italia», di cui l'attuale ministro dell'Economia fa parte fin dall'inizio. Dopo i primi contatti tra professori della primavera del '93, a luglio c'è anche Tremonti ad Arcore, nell'incontro con Berlusconi, Urbani e Martino. Non si parla ancora di un partito che veda il Cavaliere alla testa, ma di una «formula ampia», un'alleanza tra tutte le forze di centro, Lega compresa, con Berlusconi come sostenitore numero uno però dall'esterno, grazie anche al peso delle sue televisioni. Ed è in questa veste che Berlusconi partecipa di tanto in tanto, tra fine estate e inizio autunno, a una serie di riunioni riservate. La sede, il seminterrato dell'hotel Four Seasons di Milano.

Riunioni finora mai raccontate. Presiedute da Leonardo Mondadori. Oltre a Saverio Vertone, intellettuale torinese che sarebbe entrato in Parlamento con Forza Italia nel '96, partecipano futuri ministri del centrodestra: Roberto Maroni, Elio Vito e appunto Tremonti, che stende anche un piano per i primi cento giorni del governo prossimo venturo. Talora arriva pure Berlusconi, dopo un po' si mette a discutere con i camerieri che vengono a «corteggiarlo», e lascia già intuire ai presenti «da che parte sta il popolo», e chi sarà il leader naturale del nuovo schieramento. Ma sono giorni in cui si ragiona ancora di un accordo vasto, che culmina con l'intesa tra Lega e centristi, annunciata da Maroni e Mario Segni. Però Bossi sconfessa il proprio vice. Berlusconi scende in campo in prima persona. E Tremonti si sente impegnato con Segni. Dopo la vittoria del Cavaliere, si profila nel Patto Segni la linea dell'astensione. «E, se quella linea fosse stata mantenuta, io non sarei diventato ministro» ha fatto notare Tremonti nelle conversazioni private. Invece il leader referendario, dopo essersi consultato con Arturo Parisi, decide di votare contro il governo Berlusconi; che chiama Tremonti alle Finanze.

Più che a rievocare il passato, ieri sera il ministro teneva a rivendicare «azione e pensiero». «L'azione da ministro, il pensiero per il congresso». In altre occasioni, ad Assago 2004 all'assise di Forza Italia, a Milano 2003 in quella della Lega, Tremonti aveva infiammato la platea. «Stavolta non farò battute, né polemiche» ha anticipato ai collaboratori ieri sera, prima di salire sul podio: il suo non sarebbe stato un discorso da trascinatore, ma un intervento filosofico-culturale. «Serio». Fin dall'esordio: «Vi parlerò della crisi», argomento finora ampiamente ignorato. Definito dalla speaker «l'uomo la cui genialità l'Europa ci invidia», invocato dal coro Giulio-Giulio, lui si aggiusta gli occhiali con il sorriso del timido e parla a braccio, tenendo sotto gli occhi un foglietto su cui ha appuntato le parole-chiave. «Paura» e «speranza», citando non il suo pamphlet ma il discorso di insediamento di Obama, e riconoscendosi nella sfida di far prevalere la speranza sulla paura. «Crisi» appunto, affrontata «non dall'alto dell'economia ma dall'alto della politica e della storia». Segue una sintesi dell'elaborazione culturale di Tremonti: le radici giudaico-cristiane, la patria narrata come «la terra dove riposano i nostri genitori», l'intuizione della «crisi americana stile '29», la riscoperta del ruolo pubblico; «la fine non del mondo ma di un mondo», il primato del lavoro sulla finanza, la «terra incognita » che però non è «la mezzanotte della storia» ma «la svolta che batte la sua ora nelle nostre vite».

Il federalismo fiscale, molto caro all'alleato leghista, «dovrà unire, non dividere, e fare in modo che chi ha di meno possa avere di più; e mi riferisco al Mezzogiorno». Poi il passaggio sulle opposizioni. Che per il ministro dell'Economia sono due, una costruttiva e una distruttiva. «Ci sono davvero, queste due attitudini » spiegherà alla fine dell'intervento, sull'auto che alle nove di sera lo riporta a Roma. Da una parte c'è la Cgil, che il 4 aprile convoca uno sciopero «contro la pioggia»; dall'altra ci sono ammortizzatori sociali e piano casa che «passano anche dalla sinistra», a cominciare dalle Regioni che «hanno avuto un atteggiamento costruttivo ». Il retrotesto dell'intervento di Tremonti non è sfuggito alla platea: la situazione è grave e chiama a raccolta le migliori energie del Paese, non è il momento di cercare lo scontro; però la parte più avveduta del centrodestra ha visto la crisi prima del centrosinistra e di altri governi europei, ha pochi soldi da spendere ma ha gli strumenti per limitare i danni, «farà tutto il possibile per non lasciare nessuno indietro», e lavora a riscrivere le regole di sistema tenendo insieme competenze e culture diverse. Con uno spirito non molto lontano da quello delle riunioni riservate nel seminterrato del Four Seasons, sedici anni fa.

Aldo Cazzullo

29 marzo 2009
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« Risposta #38 inserito:: Aprile 11, 2009, 04:13:18 pm »

Amato: il premier ha agito bene, ma si ricordi che rappresenta tutti


ROMA — Un terremoto al tempo della crisi. Del bipolarismo. Di Berlusconi. Una catastrofe che trova un’Italia già molto cambiata rispetto a quella del ’68, del ’76, dell’80, financo del ‘97, e la sta ulterior­mente cambiando.

Nel giorno del lutto na­zionale, che però lascia trasparire motivi di speranza, ne ragiona Giuliano Amato: due volte presidente del Consiglio, mini­stro del Tesoro, ministro dell’Interno, ora presidente dell’Enciclopedia italiana.

«Certo, un terremoto in tempo di crisi è quanto di peggio possa capitare a un Pa­ese che più di altri è oberato dalla crisi proprio sul versante della finanza pubbli­ca: perché ha un debito particolarmente alto e teme di diventare il vaso di coccio sul mercato dei titoli pubblici, sui quali proprio a causa dei crolli finanziari la con­correnza aumenta enormemente; basti pensare al debito americano. D’altra par­te, il terremoto aiuta a far emergere un sentimento di cui in tempo di crisi c’è bi­sogno e che spesso proprio a causa della crisi tende a scomparire: il sentimento della solidarietà. C’è sempre qualcuno che sta peggio di te, cui dovresti pensare in tempo di crisi; se si aggiunge il terre­moto, i terremotati li vedi, sei indotto alla solidarietà, ed è possibile che tu accetti quell’aumento magari limitato e tempora­neo della stessa pressione fiscale per aiu­tare le vittime del terremoto, senza che lo Stato debba aumentare il suo debito».

Quell’una tantum che in altri contesti avrebbe suscitato una rivolta fiscale oggi sarebbe accettata. Anche perché, sostiene Amato, «se oggi venisse aumentata l’una o l’altra imposta, per destinarne gli introi­ti alla ricostruzione, sono sicuro che ci sa­rebbe una trasparenza nell’utilizzo che mai c’è stata in passato. Uno dei lasciti del nostro recente passato è che le tasse ten­denzialmente non si aumentano; ma, se lo fa, l’operatore pubblico tutto si può per­mettere fuorché di scialacquare quei sol­di e di gestirli senza trasparenza. La difesa del contribuente, e quindi la difesa di quello che lui dà allo Stato, oggi è diventa­ta un must. Un tempo erano i soldi dati a titolo privato che avevano questo tipo di tutela, mentre i soldi del contribuente fini­vano nel calderone della macchina pubbli­ca. Mi ricordo che, quando venne raccol­to attraverso tv e giornali compreso il Cor­riere un fondo per le vittime dello tsuna­mi, la Protezione civile cui era affidato questo denaro privato nominò un comita­to dei garanti presieduto da Emma Boni­no, di cui ero componente con, in ordine alfabetico, Andreotti, Monorchio e Napoli­tano: dovevamo verificare euro su euro e informare i donatori di quello che si stava facendo con i loro soldi. Oggi mi aspetto che lo stesso accada a favore del contri­buente; proprio perché la lunga stagione liberista, che ha quasi delegittimato l’au­mento delle imposte, ha reso molto più prezioso il denaro che poi in concreto il contribuente può essere costretto a dare. E questo non è né destra né sinistra. In qualche modo consiglierei il governo di profittare di questa circostanza: ci vorran­no molte risorse per l’Abruzzo, e non cre­do sia possibile reperirle nel bilancio pub­blico senza qualche contribuzione da par­te dei cittadini».

La percezione comune è che il Friuli sia stato ricostruito grazie all’iniziativa in­dividuale, mentre in Irpinia e nel Belice l’intervento pubblico sia fallito. «In realtà — dice Amato — l’intervento pubblico ci fu anche in Friuli, ma portò frutto perché non sostituì bensì integrò l’iniziativa pri­vata. Sostengo il modello friulano anche in Abruzzo: non tanto perché mi aspetti che lo Stato sprechi, quanto perché mi aspetto che lo Stato rimanga, via via che passa il tempo, prigioniero di lentezze che poi fanno durare le tendopoli, le ca­sette di legno, le sistemazioni provviso­rie fino a dieci anni; anche senza bisogno del Belice, purtroppo gli umbri ne sanno qualcosa. Il meccanismo che dovrebbe in­nescarsi è questo: siccome la solidarietà dei miei concittadini è per me, tu Stato fai da collettore e poi passami i soldi; veri­fica caso mai che io rispetti le tue norme; ma all’interno delle mie procedure, non delle tue. Con la mentalità abruzzese, il modello può funzionare. Non dimenti­chiamo che l’Abruzzo ha saputo crescere non attraverso l’insediamento pubblico, ma avvalendosi delle infrastrutture essen­ziali che lo Stato ci ha messo. Come l’auto­strada. Molti non ci credevano. Gaspari sì, e ha avuto ragione lui: l’autostrada ha consentito a molte parti altrimenti inac­cessibili della regione di sviluppare attivi­tà che trovavano il loro mercato grazie al­l’autostrada. Tra le poche cose pubbliche significative c’era l’ospedale dell’Aquila, il cui crollo pone i tanti punti interrogati­vi che ci stanno oggi angosciando».

E’ la prima volta che un terremoto met­te alla prova una politica bipolare, domi­nata da una figura forte. E le reazioni sul luogo della tragedia sono diverse dal pas­sato. «C’è una politica — nota Amato — che compare tra i terremotati e che fami­liarizza facilmente con loro, e loro familia­rizzano facilmente con i politici. Questo è un portato dei media e della tv, intelligen­temente sviluppato nelle sue potenzialità dai politici, a partire da Berlusconi, che in questo tipo di situazioni mette in evi­denza le sue qualità comunicative». Un fe­nomeno che l’ex premier giudica in mo­do positivo: «Non è necessariamente ve­ro che, a causa della reiterata frequenta­zione dei politici attraverso la tv essi di­ventino personaggi al limite tanto imma­ginari quanto sono quelli delle fiction. Noi ci abituiamo a vederli, a sentirli parla­re, e se loro hanno l’intelligenza di non limitare il rapporto al momento della tv ma vengono da noi fisicamente, ci fre­quentano di persona; a quel punto la tv ha creato in noi quel sentimento di fami­liarità che ci permette di parlarci alla pa­ri. Anziché essere falsato, il rapporto ne esce arricchito». Quindi Berlusconi ha fat­to bene ad andare all’Aquila tutti i giorni? «Sì, ha fatto bene. Certo, avrà un vantag­gio competitivo. La par condicio ne sof­fre. Ma lui è il presidente del Consiglio, e ci va in tale qualità. Un politico dell’oppo­sizione non è titolare di funzioni, espri­me molto meno, e più facilmente rischia di apparire quello che fa passerella. D’al­tra parte, se una cosa del genere ci aiuta a capire che le figure istituzionali apparten­gono al Paese e non alla sola maggioran­za che li ha espressi è un fatto sano. Pur­ché capiscano anche le figure istituziona­li che non sono rappresentative solo del­la maggioranza».

Aldo Cazzullo
11 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #39 inserito:: Maggio 03, 2009, 05:34:07 pm »

LA CITTA’ E L’AZIENDA

Ha vinto Torino (di una volta)


Alla fine non è stata la nuova Torino a conquistare l’America, ma l’antica. A vincere non è la città neogozzaniana mai stata così bella, con le mostre sul barolo e sul cioccolato, i caffè restaurati, le signorine sempre più graziose che mangiano le paste nelle confetterie.

È la sapienza tecnica della metropoli industriale aspra e sobria, squadrata come la città dell’Apocalisse, l’abilità dei capisquadra che sapevano fe’ i barbis a le musche, rifilare i baffi agli insetti, e dei geni ignoti come Dante Giacosa che disegnavano le auto più belle al mondo e nel contempo sapevano progettare un carburatore. Non la città delle Olimpiadi e del turismo e neppure quella inquietante dell’occulto (tutte frottole in verità come i torinesi sanno benissimo) e della movida notturna che ispira l’ultimo preoccupato romanzo di Culicchia: lo sballo all’ombra dei Murazzi del Po, feste, alcol e gioventù bruciata. Bensì la Torino dell’Avvocato, che ovviamente è molto cambiata ma dev’essere ancora parente di quella che Giovanni Agnelli raccontava come «una città di guarnigione, in cui i doveri vengono prima dei diritti, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche e anche il profitto».

La Torino di oggi ha un clima più mite e non solo. La vita sociale è più ricca, come testimonia l’antico centro storico, il quadrilatero romano, un tempo deserto già alle sette di sera e divenuto ora una Brera torinese. L’economia si è diversificata. È cominciata l’era terziaria, se è vero che a Torino ci sono più dipendenti comunali (comprese le aziende controllate) che operai Fiat. Non si tratta ovviamente di mettere in contrapposizioni due città e due epoche. Ma forse adesso si capisce meglio che la nuova Torino è figlia di quella antica. Che le eccellenze di oggi —il design, il Politecnico, la ricerca, la comunicazione, il cinema, l’arte contemporanea, financo le Olimpiadi —non ci sarebbero state senza la grande industria, insomma senza quella Fiat con cui la borghesia torinese ha sempre avuto un rapporto ambivalente: da un lato, era spaventata dall’immigrazione e dalle trasformazioni imponenti; dall’altro, orgogliosa per ciò che la Fabbrica Italiana Automobili Torino rappresentava nel resto del Paese.

Lo si vide, quell’orgoglio, quando i torinesi sfilarono di giorno e anche di notte, con i ritmi di una città che la notte è abituata a lavorare, davanti alla bara di Giovanni Agnelli. Fu proprio il funerale dell’Avvocato il vero punto di svolta. Torino, che nei mesi precedenti appariva come paralizzata dalle incognite che la sovrastavano, seppe reagire. Prima con l’omaggio a un personaggio insostituibile, che ovviamente le manca. Poi con la coscienza di potercela ancora fare, di avere davanti un periodo difficile ma non impossibile da superare. Eventi come la fusione Sanpaolo-Intesa e la retrocessione della Juventus, che un tempo sarebbero stati letti come l’ennesimo scippo di Milano e l’ultimo segno di declino, sono stati interpretati per quel che erano: l’occasione di restare agganciati alle trasformazioni finanziarie e di aprire una nuova stagione anche nel calcio. Oggi Torino è una città che ha cambiato umore.

E assomiglia al suo museo più noto, l’Egizio, così com’è uscito dal recente restauro: una parte nuovissima e avveniristica, allestita da Dante Ferretti lo scenografo di Hollywood, che ha immerso le statue di Seth e Osiride nel buio illuminandole con sciabolate di luce; e la parte storica, con le teche ottocentesche molto meno scintillanti, ma che custodiscono attraverso le generazioni i veri tesori della collezione. Un secolo fa, il viaggio a Detroit di un altro Agnelli, il Senatore, aprì in Italia la stagione fordista. Fare come in America divenne il motto di Torino. Che oggi siano la tecnologia e il lavoro italiani a essere esportati a Detroit è segno che Torino, la città che nell’800 e nel ’900 ha fatto l’Italia due volte— a San Martino e a Mirafiori, con il Risorgimento e con il boom industriale —non ha abdicato al suo ruolo storico. Anche perché questo non è il successo di una sola città. In Italia ci sono molte Torino.

Poco conosciute, talora prive di accesso ai circuiti della pubblicità e della comunicazione, ma concentrate sul prodotto, sull’innovazione, sulla conquista dei mercati. Eccellenze che non si sono lasciate spaventare dalla mondializzazione ma ne hanno colto le opportunità, che hanno approfittato della concorrenza per migliorarsi, che non hanno inseguito le sirene del disimpegno e del bel vivere ma hanno continuato a far affluire linfa vitale al cuore dell’economia italiana: il sistema manifatturiero. Le notizie che vengono dall’America ci raccontano anche di quella «Torino diffusa» che affronta in silenzio la crisi e ce la sta facendo.

Aldo Cazzullo
03 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #40 inserito:: Maggio 04, 2009, 04:58:28 pm »

INTERVISTA Al leader pd

«Italia a rischio Turkmenistan Il premier vuole prendersi tutto»

Franceschini: «Ma a destra non vedono che si sente al di sopra di legge e morale? O hanno paura? L’8 giugno se ci sarà netto disequilibrio tra maggioranza e opposizione, ci sveglieremo in una repubblica asiatica »

«Vorrei fare una domanda alla bor­ghesia produttiva, agli imprenditori, agli intellettuali, ai moderati, anche a una parte delle gerarchie ecclesiastiche italiane: possibile che non vediate dove ci sta conducendo Berlusconi? Possibile che non vediate che ormai si considera al di sopra della legge e di ogni morale, che pensa di avere così tanto potere da permettersi tutto? Vorrei suonare un campanello d’allarme: siamo ben oltre il conflitto di interessi e il controllo del­le tv; siamo all’intreccio di ogni potere, economico, bancario, finanziario. Sulla spinta della crisi, intrecciando la sua for­za di imprenditore con il controllo dello Stato, Berlusconi sta allungando le ma­ni su tutto, sta riducendo ogni potere autonomo. La Sardegna è stata la prova generale. Vuole stravincere se l’8 giu­gno, dopo le Europee e le Amministrati­ve, l’Italia si risveglierà con un netto di­sequilibrio tra maggioranza e opposizio­ne, vale a dire tra Pdl e Pd, sarà un’altra Italia. Berlusconi cercherà di prendersi tutto: non solo la Rai, non solo le modifi­che costituzionali; diventeremo un Pae­se profondamente diverso da quello di oggi. Altro che Peron: il modello di Ber­lusconi sono alcune delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, dal Turk­menistan all’Uzbekistan. Paesi in cui il potere personale del capo è intrecciato con il potere dello Stato e i poteri econo­mici ».

Dario Franceschini, non le pare di esagerare?

«Questa sua domanda mi conferma che lo spirito diffuso è ormai di assuefa­zione. L’Italia si sta assuefacendo a cose che in qualsiasi Paese occidentale provo­cherebbero una rivolta morale, a comin­ciare dalla stampa. Invece arriva la noti­zia della classifica di Freedom House, che colloca l’Italia al 73˚ posto, tra i Pae­si 'parzialmente liberi', e sui giornali ve­do al più un titoletto. Intendo rivolger­mi non tanto al mio campo, quanto agli ambienti che negli altri Paesi tendono a stare dall’altra parte, sul fronte conser­vatore: non vedete che Berlusconi non c’entra nulla con le destre europee? Che non ha niente in comune con la Merkel, con Sarkozy, con Aznar, con Cameron? Non parlate perché non avete capito i ri­schi per il vostro Paese? O perché avete paura?».

Franceschini, lei farebbe bene a ri­volgersi anche al campo che in teoria è suo. I giornali riferiscono anche un sondaggio Ipsos, secondo cui la mag­gioranza degli operai vota per Berlu­sconi, non per il Pd.

«È un problema serio. Ma non è un alibi ricordare che, dal ’94 a oggi, ogni partita elettorale è truccata, perché si svolge in condizioni totalmente anoma­le. Se McCain avesse affrontato Obama avendo il controllo delle tv e di una par­te crescente dell’apparato finanziario e produttivo o cento volte in più di fondi per le campagne elettorali, avrebbe for­se perso? Il problema non è solo la tv. In Italia si stanno assuefacendo anche i mondi che contano. Noi siamo ancora qui a contare i secondi che ci dedicano i vari tg, peraltro con un disequilibrio ver­gognoso, ma intanto la tv in questi vent’anni ha costruito un modello socia­le: non ha solo informato, ha formato gli italiani a gerarchie di valore e di com­portamento. Eppure a Berlusconi non basta: attacca Sky, blocca la concorren­za. Il degrado populistico si intreccia con il degrado morale, e comporta un forte rischio neoautoritario».

Diranno che lei è dilaniato dal­l’odio.

«Ma quale odio? Anzi, quando lo ascolto mi mette di buon umore. Ma questo non mi impedisce di vedere che Italia ha in mente. Ho sperato che la na­scita del Pdl consentisse di superare il rapporto proprietario di Berlusconi con Forza Italia, che introducesse un ele­mento di controllo. Ma non è così».

Come no? E Fini?

«Il fatto stesso che dire qualcosa di buon senso trasformi chi lo fa in una sorta di 'eroe civile', è un altro segno di dove siamo arrivati».

Che effetto le fa Veronica Berlusco­ni che chiede il divorzio?

«Ripeto: tra moglie e marito non met­tere il dito. La saggezza popolare torna sempre utile. E poi ogni italiano si sarà già fatto un’opinione senza bisogno di commenti politici».

La Chiesa secondo lei si è ormai schierata con il governo?

«No. Questa è una semplificazione tutta italiana. Né io ho titoli per dare consigli. Ma un’attenzione rigorosa alla coerenza tra valori proclamati in pubbli­co e comportamenti personali di chi ha responsabilità politiche, me la aspette­rei ».

Una mano a Berlusconi gliela date anche voi. Il Pdl candida il leader e i ministri, voi rispondete con Cofferati e Berlinguer: non proprio un segno di rinnovamento.

«Le nostre candidature sono tutte in­dicate dai partiti regionali e radicate nel territorio. Tranne i cinque capilista, scel­ti con il criterio dell’autorevolezza e del­la competenza: l’età non è un ostacolo, semmai una garanzia. E poi non sono li­ste bloccate: saranno gli italiani a sce­gliere chi eleggere con le preferenze, non i politologi o i blog».

Ma perché lei non è sceso in campo di persona a fronteggiare Berlusconi?

«Finché rivesto questo ruolo, sono pronto a condividere i risultati positivi con tutto il partito, e ad assumermi da solo la responsabilità di quelli negativi. Ma non arretro di un centimetro su un’esigenza: la serietà. In nessuno dei ventisei Paesi d’Europa si candidano il capo del governo e il capo dell’opposi­zione. Ho posto la domanda a Parigi, a Madrid, a Berlino: non capivano, se la facevano ripetere. Sarkozy, Zapatero, la Merkel governano e affrontano la crisi, non puntano a un plebiscito permanen­te ».

D’Alema le chiede di rompere l’alle­anza con Di Pietro.

«Le alleanze si fanno per governare. Noi siamo all’opposizione, con Di Pie­tro, Casini e la sinistra radicale. Sarebbe bene che l’opposizione fosse il più possi­bile unita: le liti interne sono a somma zero. Purtroppo, Di Pietro e Casini attac­cano ogni giorno me e il Pd molto più di quanto non contrastino Berlusconi. Ma io non risponderò».

Una parte consistente del suo parti­to, a cominciare da Enrico Letta, pre­me per l’alleanza proprio con Casini.

«Fare bene l’opposizione insieme è il modo migliore per preparare un’allean­za. Ma dobbiamo sapere che tenersi le mani libere è la ragione sociale dell’Udc: le alleanze alle prossime Politiche non le deciderà prima del 2012. Può farci pia­cere o dispiacere, ma è così».

Sempre dall’interno del Pd, in parti­colare dagli ambienti vicini a Rutelli, viene la richiesta di cambiare linea sul referendum elettorale: il sì rafforze­rebbe Berlusconi.

«Anche qui: serietà. Il referendum ci chiede se abolire o no la legge che il suo stesso autore ha definito 'una porcata'. La risposta di chi ha contrastato questa legge non può che essere sì. La direzio­ne del Pd ha approvato questa linea con oltre cento voti contro cinque. Tornare indietro per una battuta detta da Berlu­sconi camminando nelle vie di Varsavia significherebbe non essere un partito, ma solo un gruppo di persone impauri­te ».

Il Pdl avverte che, se vince il sì, non si farà una nuova legge elettorale.

«Dimentica di avere 271 deputati su 630. Gli altri potrebbero decidere di far­la ».

Resta il fatto che Berlusconi è così forte perché il Pd appare inconsisten­te.

«Il problema non è solo il Pd. Io non chiedo agli elettori di farsi carico dell’op­posizione, ma del Paese in cui vivranno i loro figli. È evidente che, se il Pd terrà, il progetto ne uscirà rafforzato. Ma è il futuro dell’Italia la vera posta in gioco. Se il giorno dopo le elezioni il disequili­brio sarà troppo netto, troppo lontano dalla differenza tra il 37,4 del Pdl e il 33,2 del Pd delle Politiche, se Berlusconi sarà messo in condizioni di portare al­l’estremo la sua volontà di conquista del Paese, allora rischieremmo di risve­gliarci davvero in una repubblica ex so­vietica dell’Asia centrale. E se succedes­se gran parte della colpa sarà di chi, da qui ad allora, sarà rimasto inerte o zitto. Per scelta o per paura».

Aldo Cazzullo
04 maggio 2009

DA corriere.it
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« Risposta #41 inserito:: Maggio 15, 2009, 12:26:13 pm »

La ricostruzione dell’ex direttore del giornale di Lc

Mughini: «Adriano Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi»

Lotta continua e la grande bugia degli innocentisti. Una requisitoria durissima
 


Giampiero Mughini ha in casa una cartelli­na intitolata «La confessione di Sofri». Dentro c’è il ritaglio dell’articolo che il fondatore di Lotta continua ha pubblicato sul Foglio un an­no fa, e che Mughini considera «la sconcertan­te e drammatica prima puntata di una parzia­le 'confessione' sul come sono andate le cose a via Cherubini», la strada milanese dove fu assassinato il commissario Calabresi. Ma So­fri, scrive Mughini, «rimane in debito con la verità». Ed è Sofri il vero destinatario del li­bro che Mondadori manderà in libreria la prossima settimana, Gli anni della peggio gio­ventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione. Un libro che è una requisito­ria durissima contro Lotta continua, fatta da un gior­nalista che — pur non par­tecipando alla fattura — i settimanali di Lc li ha diret­ti.

Quell’articolo del 2008, Mughini lo traduce così: «Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi, ma non ne era stato il responsabi­le, non era stato quello che l’aveva decisa e ordinata». Eppure si addossa tutta in­tera la storia della sua orga­nizzazione, al punto da de­finire «non malvagi» e an­zi «mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime» gli autori dell’omi­cidio Calabresi. Deduce Mughini che «se uno spen­de parole talmente impe­gnative nei confronti di chi uccise Calabresi, vuol dire che li conosce per no­me e cognome e curri­culum».

La ricostruzione di Mu­ghini comincia a Pisa, il 13 maggio 1972, il giorno del comizio di Sofri al termine del quale Marino avrebbe ricevuto il mandato a uccidere. Mughini quel giorno c’era. E, scrive, «non è vero che a comi­zio concluso sarebbe stato assolutamente im­possibile, a causa della pioggia battente, bivac­care ancora un po’ in piazza». Perché «la piog­gia in quel momento era finita». «C’era stato, lo dico in via di ipotesi, il tempo perché alme­no un attimo si incontrassero» Sofri e Mari­no. Anche perché «non è vero quel che ha so­stenuto con veemenza la difesa, che i bar pisa­ni fossero chiusi quel pomeriggio del 13 mag­gio. Non lo erano affatto». In ogni caso, Mu­ghini precisa: «Io non reputo che Sofri abbia dato l’ordine di uccidere. O più precisamente non lo reputo provato. Che è poi la sola cosa che conta». E chiede al presidente della Re­pubblica di dargli la grazia. Ma non rinuncia a denunciare un’ipocrisia collettiva.

Ricorda di aver provato, alla notizia della morte di Cala­bresi, «orrore che lo avessero fatto dei 'com­pagni', cosa di cui non dubitavo allora e di cui nessuno in Italia ha mai dubitato veramen­te»; eppure «è lunga la fila di intellettuali e giornalisti convinti della colpevolezza di Lc, che non aprono bocca per non disturbare la platea dei loro lettori di sinistra». E denuncia quello che definisce il «fanatismo innocenti­sta», «una Grande Bugia e una Grande Ipocri­sia che non hanno alcun fondamento nei fatti processuali e nelle relative sentenze».

I suoi bersagli polemici sono illustri. Luigi Manconi: «Non ho dubbi, Manconi lo ha sapu­to da subito come andarono esattamente le co­se nel maggio 1972». Carlo Ginzburg: «La tesi secondo cui la confessione di Marino sarebbe stata concertata da magistrati e carabinieri è talmente risibile che in un processo di qualsia­si altro tipo non sarebbe stata presa in consi­derazione dai giornali e dall’opinione pubbli­ca neppure cinque minuti. Ancor più risibile la tesi che le sentenze dei giudici di primo gra­do e poi d’appello fossero animate da una sor­ta di spirito di 'vendetta' contro quelli di Lc, personaggi di cui all’alba dei Novanta non si ricordava più nessuno». Antonio Tabucchi, che «si è dato a recitare sgangheratamente la parte che era stata di Emile Zola nell’'Affaire Dreyfus'». Gad Lerner, cui Mughini rimprove­ra una frase detta in tv — «Lotta continua non c’entrava proprio niente con la violenza dei Settanta» —, mentre «quelli di Lc nel 1972 nella violenza e nella sua apo­logia c’erano dentro fino al collo, ne erano ebbri».

Ma l’interlocutore resta co­munque Sofri. Per cui Mughini ha parole di stima e affetto, ma ha anche paro­le severe («lasciamo stare l’argomento ripetu­to da tanti, 'lo conoscevo, non può averlo fat­to'. È un argomento che vale niente»), anche a proposito del suo ultimo libro, La notte che Pinelli, in cui «un po’ crede e un po’ ammic­ca» a «inumane panzane» sulla morte del­l’anarchico. Compresa «l’evocazione di una macelleria sudamericana da contrapporre simbolicamente al lutto e al pudore di cui tra­boccava il recente e fortunatissimo libro di Mario Calabresi. Un libro che per gli ex di Lot­ta continua è stato uno schiaffo in volto più violento che non una sentenza di tribunale».

Gli «anni della peggio gioventù» rivivono attraverso la reazione euforica di Lc all’assassi­nio in Argentina del dirigente Fiat Oberdan Sallustro. L’arresto di Maurizio Pedrazzini sul­le scale della casa milanese del missino Servel­lo, in pugno una pistola proveniente dalla ra­pina a un’armeria raccontata ai giudici da Ma­rino. Le telefonate dei compagni in casa Sofri, il giorno dell’arresto: «È Marino che ha parla­to?». Le «vanterie» di Chicco Galmozzi, ex Lc, rivolte ai brigatisti: «Mentre voi ancora brucia­vate macchine, noi sparavamo a Calabresi». E quella scena terribile, la vedova che esce dal­l’obitorio dove ha riconosciuto il cadavere del marito, e viene accolta da estremisti di sini­stra che la scherniscono, con il fratello che le copre la testa dicendo di non ascoltare. «Un’immagine che mi porto appresso da tanti anni — scrive Mughini —, l’immagine che ha fatto scattare l’idea di scrivere questo libro. Qualcosa che attiene a un debito. Perché quel­li che schernivano Gemma Calabresi erano co­munque i miei compagni di generazione».

Aldo Cazzullo
15 maggio 2009

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« Risposta #42 inserito:: Maggio 28, 2009, 10:26:07 pm »

Dopo 40 anni

Due borse, due bombe

E la nuova tesi su Valpreda e Pinelli

«L'anarchico precipitò di spalle»
 
La ricostruzione con un manichino della caduta di Pinelli dalla finestra della questura di Milano 


«Sì, due borse. Lo scriva. Così la finiamo». È la frase che Silvano Russomanno, l'alto dirigente del Sisde che la sera del 12 dicembre 1969 andò a Milano per gestire le indagini, dice a Paolo Cucchiarelli, il giornalista dell'Ansa che da dieci anni lavora all'inchiesta di oltre 700 pagine che oggi Ponte alle Grazie manda in libreria — titolo: «Il segreto di piazza Fontana», - e che il Corriere ha potuto leggere in bozza. Due borse, due tipi diversi di esplosivo, e quindi due bombe. Una portata in piazza Fontana dall'anarchico Pietro Valpreda. E una — predisposta e collocata dai fascisti — che fa esplodere anche l'altra, con una duplice conseguenza: causare una strage, e addossarla politicamente all'estrema sinistra. «Sebbene la bomba di Valpreda non dovesse, nei suoi piani, fare vittime, la sua corresponsabilità finì per inchiodare al silenzio lui e tutta la sinistra, abbarbicandola a una difesa politica che con il tempo ha trasformato un segreto in un mistero».

Le fonti

Oltre ai colloqui con Russomanno, Cucchiarelli fonda la sua tesi sugli incontri con Ugo Paolillo, il magistrato che per primo indagò sulla strage. Sulla testimonianza di un neofascista rimasto anonimo. Sulle carte dell'ufficio affari riservati del Viminale, solo in parte utilizzate nelle inchieste e nei processi. E sulla controperizia del generale Fernando Termentini, esplosivista che fornisce riscontri alle ipotesi formulate nel libro. Fondamentale poi l'inchiesta di Salvini che il libro sviluppa descrivendo gli ostacoli frapposti al magistrato milanese.

Le due bombe

Nel salone della Banca nazionale dell'Agricoltura fu ritrovato uno spezzone di miccia a lenta combustione. Subito dopo la strage, un rapporto della direzione di artiglieria sosteneva che anche a Roma, alla Bnl di via Veneto, era stata utilizzata una miccia. Eppure, nel suo primo rapporto datato 16 dicembre, il Sid cita il timer e solo il timer, dando il proprio sigillo all'idea di una strage per errore, sostenuta nel tempo da Taviani e da Cossiga. «Il timer, caricato prima dell'esplosione, dava modo di costruire il mito della strage preterintenzionale; la miccia invece consentiva al massimo pochi minuti di ritardo tra l'accensione e lo scoppio, e decretava che chi aveva deposto la bomba sapeva, vedendo tutte le persone accanto a sé, che avrebbe sterminato tanti innocenti». I timer usati il 12 dicembre erano timer particolari, a deviazione: «L'ideale per costituire una vera e propria trappola». Poiché erano gli unici con le manopole e i dischetti conta-minuti intercambiabili. Scrive il libro che Franco Freda si procurò timer in deviazione sia da 60 che da 120 minuti: «Se Freda avesse montato una manopola da 120 su un timer che avrebbe corso solo per 60 minuti, chi doveva deporre la bomba avrebbe immaginato che sarebbe esplosa a banca ormai deserta».

Le due borse

Tra i reperti individuati dal perito Teonesto Cerri, il primo a entrare nel salone devastato della Banca, c'erano frammenti del materiale di rivestimento e frammenti della struttura metallica: «Entrambi indicano che in quel salone sono esplose due borse». Una di similpelle nera, marca Mosbach&Gruber, e una di cuoio marrone. Ma quest'ultima borsa «scompare». Forse per un errore dei magistrati che aprirono la pista nera: «Tutto fu condizionato dalla scoperta che il 10 dicembre 1969 a Padova, la città di Freda, erano state vendute quattro borse Mosbach&Gruber, dello stesso modello ritrovato alla Commerciale», dove il 12 dicembre fu scoperta una bomba inesplosa. «Tutte in similpelle». I magistrati che puntavano a incastrare i fascisti Freda e Ventura cercarono in ogni modo di ravvisare nei reperti proprio quelle quattro borse. «Alessandrini e Fiasconaro avanzarono il dubbio che potessero esserci state due borse e due bombe; tuttavia, condizionati dall'acquisto di Padova, scartarono l'ipotesi».

I due esplosivi

Il perito Cerri identificò subito la presenza di nitroglicerina e di binitrotoluolo, tipico degli esplosivi al plastico. Più tardi, nel determinare con il collegio dei periti il tipo di esplosivo più probabile, si concentrò su due gelatine dinamiti. In sintesi: «In piazza Fontana abbiamo due borse con due bombe. Nella prima, accanto alla cassetta con candelotti e timer, è stato collocato un detonatore esterno. La seconda bomba fu attivata non con un timer ma con un accenditore a strappo, che ha dato il via a una miccia. Grazie al detonatore esterno aggiunto alla prima borsa, la seconda bomba per simpatia fa esplodere anticipatamente anche l'altra: creando una devastazione di potenza doppia». Ma chi avrebbe messo le due bombe? «Le due bombe furono poste da gruppi diversi. La prima — che doveva esplodere a banca chiusa, come fatto dimostrativo — fu collocata da mano anarchica ma "teleguidata" da Freda e Ventura; la seconda, che doveva trasformare la prima in un'arma letale, fu predisposta e sistemata da mani fasciste. Ma tutto fu calcolato perché la firma risultasse inequivocabilmente di sinistra”.

Il ruolo di Valpreda

La «mano anarchica» sarebbe proprio quella di Pietro Valpreda. «Il 12 dicembre furono due i taxi sospetti che arrivarono in piazza Fontana. Sul primo c'era Valpreda, anarchico con ambigue amicizie tra i fascisti romani»; e c'era Cornelio Rolandi, il tassista che lo riconobbe. «Sull'altro taxi c'era un uomo di destra che a Valpreda rassomigliava molto. Tutto, attraverso i depistaggi, fu predisposto perché il taxi diventasse uno solo, come una sola doveva essere la bomba». Il libro ipotizza che l'uomo del secondo taxi possa essere Claudio Orsi, amico di Freda (una foto mostra la somiglianza con Valpreda). Era stata la difesa dell'anarchico a parlare per prima di un «sosia». In genere, però, la versione di Valpreda appare costellata di bugie: il libro sostiene che l'anarchico ha mentito sul suo pomeriggio del 12 dicembre, sulla sua fantomatica influenza, sul viaggio a Roma, sul cappotto datogli dai parenti subito dopo la strage per cambiare immagine in vista di un possibile arresto. «Tutte le bugie profuse da lui e dai suoi parenti portano a ritenere che Valpreda abbia collocato la sua bomba a piazza Fontana».

I manifesti anarchici

Il libro riporta la foto inedita di uno dei manifesti trovati il 12 dicembre, «ricalcati» sui manifesti del Maggio francese: «Parte del piano studiato da servizi segreti per attribuire la strage alla sinistra», e in particolare a Giangiacomo Feltrinelli. Il magistrato Paolillo si ricorda bene del manifesto. Ricorda anche di averlo autenticato, e testimonia che fin da subito c'era chi aveva capito che la provenienza di quei manifesti era di destra, legata all'Oas e all'Aginter Press. Capo militare dell'Aginter era Yves Guérin-Sérac, tra i fondatore dell'Oas, citato nell'informativa del Sid del 16 dicembre come mente degli attentati, ma definito «anarchico». L'incaricato alla diffusione di manifesti e volantini anarchici era a Milano Pino Pinelli, scrive il libro, ipotizzando che fossero proprio questi i manifesti trovati dal capo dell'ufficio politico Antonino Allegra addosso a Pinelli.

Il ruolo di Pinelli

L'alibi di Pino Pinelli per il 12 dicembre — sostiene il libro — non regge. Pinelli tace sull'incontro con Nino Sottosanti, uno degli estremisti di destra infiltrati nei circoli anarchici; mentre «racconta un incontro con i due fratelli Ivan e Paolo Erda, che non esistono». Nella notte in cui cade nel cortile della questura, Pinelli è sotto torchio non per piazza Fontana, ma per altre bombe. Quelle del 25 aprile, di cui Antonino Allegra gli chiede conto, attorno alle 23 e 30, citando come fonte altri anarchici, informatori della polizia. E altre due bombe presto scomparse dalle inchieste, trovate quel 12 dicembre a Milano, presso una caserma e il grande magazzino Fimar di corso Vittorio Emanuele. Il libro ipotizza che Pinelli avesse «qualcosa di ben preciso da nascondere: il fatto che quel 12 dicembre si era mosso per bloccare le due bombe milanesi "scomparse" che gli anarchici avevano preparato».

La caduta

Cucchiarelli riporta la testimonianza di Antonino Allegra al direttore dell'ufficio affari riservati Federico Umberto D'Amato — divenuta accessibile nel 1997 però «mai rivelata ai magistrati e mai presa in considerazione finora in un'inchiesta» —, secondo cui Pinelli era caduto di spalle. Testimonianza che il libro incrocia con una delle ricostruzioni esaminate dal magistrato D'Ambrosio, prima di approdare alla conclusione del malore attivo: «Un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo che ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». La posizione di spalle spiegherebbe il dettaglio delle suole delle scarpe — l'ultima immagine di Pinelli che tutti i testimoni ricordano —, l'assenza di slancio e la caduta radente al muro, dinamica confermata dal giornalista dell'Unità che assiste alla scena dal basso. E il gesto di difesa, ipotizza il libro, potrebbe essere stato compiuto nei confronti di Vito Panessa, il brigadiere che andava incalzando Pinelli sulle altre bombe; «colui che nelle testimonianze ai processi si inceppò, contraddisse, ingarbugliò in maniera più marchiana».

Aldo Cazzullo
28 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #43 inserito:: Giugno 07, 2009, 07:52:57 pm »

Nell’ossario ci sono resti di milanesi, veneti, trentini, toscani, e giovani del Sud

Tra i combattenti anche Collodi, l’inventore di Pinocchio

Graffiti sul sacrario del Risorgimento tra disegni osceni e invettive politiche

A fine mese Napolitano e Sarkozy a San Martino della Battaglia

DAL NOSTRO INVIATO


SAN MARTINO DELLA BATTAGLIA (Brescia) — La Francia considera sacra Verdun, l’America non permetterebbe mai che fosse profanato il no­me di George Washington, l’Inghilterra tiene al villaggio belga di Waterloo al punto da aver chia­mato così la stazione dove arrivavano i treni da Parigi. Anche noi abbiamo una battaglia fondati­va. Un luogo, San Martino, e una data, 24 giugno 1859, un secolo e mezzo fa: prima l’Italia non c’era, e dopo sì. Ma non si può dire che noi italia­ni ne abbiamo rispetto.

 
«Se Garibaldi se ne stava a casa era meglio per tutti»
L’affresco racconta che fu re Vittorio Emanue­le a comandare le cariche, e la scritta a fianco che Maurizio ama Sonia (o almeno la amava il 2/3/89). Qui Garibaldi guida i Mille, e accanto Lu­ciano ha inciso la data delle nozze con Patrizia (25/10/2008). Lassù Cadorna e i bersaglieri apro­no la breccia di Porta Pia, e «la famiglia Sala gri­da: forza Inter!». Decine, centinaia, migliaia di scritte, graffiti, incisioni si sono accumulati da più di vent’anni nel sacrario che celebra San Mar­tino, dove Napolitano e Sarkozy verranno tra due settimane per il centocinquantesimo anni­versario della battaglia che vide italiani e france­si sconfiggere gli austriaci e dare a un popolo una patria.

Il luogo è bellissimo, una torre su un colle che guarda il Garda, e lungo la scala grandi affreschi che ricordano tutte le guerre d’indipendenza, e anche il conflitto ’15-‘18. Ma è divenuto il ricetta­colo d’ogni bizzarria di generazioni di visitatori. Scritte vagamente politiche: «Le guerre fanno tut­te schifo», «se Garibaldi se ne stava a casa sua era meglio per tutti», e ovviamente «Padania libe­ra » (più volte). Ma anche insulti, profferte ses­suali, disegni osceni, motti di spirito — «qui De­borah e Marco tentarono di fare un figlio ma fu­rono disturbati da un visitatore» —, citazioni An­ni ’80 di Bob Marley e recentissime di Jovanotti, una firma di Renato Zero si spera apocrifa, e una grande statua di re Vittorio Emanuele II con una ragnatela sulla spada, un’altra sull’orecchio de­stro, una terza lungo i calzoni… L’altoparlante che diffonde il Va pensiero e l’Inno di Mameli rende il quadro se possibile più surreale.

La colpa è di tutti, quindi di nessuno. Certo non dell’associazione «Solferino e San Martino» e del comune di Desenzano, che anzi hanno appe­na restaurato le lapidi del viale che porta all’ossa­rio, con le iscrizioni in cui le cariche sono ovvia­mente «impetuose» e le fanterie «eroiche» (qui si intravede «strenua artiglieria», qui «indomito valore»). Non dell’amministrazione provinciale e regionale che certo hanno cose più urgenti cui badare, così come il ministero della Difesa. Ma neppure le migliaia di grafomani probabilmente hanno creduto di profanare qualcosa di sacro, o almeno di importante. Devono aver pensato che in fondo lo fanno tutti, e che il loro nome non vale meno di quelli dei generali sabaudi o dei vo­lontari napoletani incisi nella pietra; loro, oltre­tutto, sono vivi.

Il Risorgimento non è di moda. Lo sono molto di più i briganti, i Borboni, il Papa Re. Cavour è stato ribattezzato Cavour in mezza Italia. Vengo­no rivalutate le insorgenze, si cita spesso la Napo­li- Portici prima ferrovia della penisola (ometten­do di ricordare che serviva a portare i cortigiani da una reggia all’altra), si piange sugli zuavi pon­tifici. Degli 846 caduti di San Martino — cui van­no aggiunti i 375 morti nei giorni successivi per le ferite, i 3707 mutilati, i 774 prigionieri o disper­si — non sembra importare quasi a nessuno.

Peccato, perché è una storia affascinante, di quelle da raccontare ai bambini. Due imperatori in campo, di là Francesco Giuseppe, di qua Napo­leone III (molti visitatori sono francesi, che van­no ancora giustamente fieri della prova offerta dall’Armée, piene le città di vie dedicate a Solferi­no, a San Martino, a Mac Mahon). Un re popola­no, Vittorio Emanuele II, che alle esangui dame dell’aristocrazia europea preferisce la figlia di un tamburino. Brigate che portano nomi piemonte­si — la Casale, la Pinerolo, la Acqui, la Cuneo, la Savoia, la Aosta, oltre ai granatieri di Sardegna — ma rafforzate da volontari venuti da tutta Ita­lia. L’ossario custodisce resti di milanesi, veneti, trentini, toscani e anche giovani del Sud, che for­se non afferrarono tutte le parole che Vittorio Emanuele gridò in dialetto — «o gli prendiamo San Martino o ci fanno fare sanmartino» (san­martino in piemontese è il trasloco, dal giorno in cui scadevano i contratti dei mezzadri) —, ma che dovettero aver compreso benissimo quel che il re intendeva dire. Tra i volontari toscani c’era Collodi, l’inventore di Pinocchio. E tra i testimo­ni ci fu lo svizzero Henri Dunant, che — impres­sionato dai lamenti dei feriti lasciati senza soccor­so, qui e a Solferino — disse a se stesso che quel­la sarebbe stata l’ultima battaglia tanto crudele. Così il 24 giugno 1859 nasceva, con l’Italia, la Cro­ce Rossa.

Più che il Risorgimento, forse è l’idea di patria a essere ancora fuori moda, o comunque non del tutto rivalutata. Ciampi in particolare ha lavora­to molto sui simboli dell’unità nazionale: il trico­lore, l’inno di Mameli, il Vittoriano. Quel che con­tinua a sfuggirci è l’idea del bene comune, di una storia condivisa, di un valore che ci riguarda tut­ti e nello stesso tempo ci trascende. Perciò, per un governo che ha dichiarato guerra ai graffiti, i primi da cancellare sono quelli di San Martino.


Aldo Cazzullo
07 giugno 2009

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« Risposta #44 inserito:: Giugno 08, 2009, 11:03:36 am »

IL RACCONTO.

La lunga notte del leader Pd.

«Eravamo Davide contro Golia Qui non vincerebbe neanche Obama»

Franceschini: «Non mi dimetto, è stata l'ennesima partita truccata». «Non ci saranno scissioni»


ROMA — «Eravamo Davide contro Golia; e non sempre Golia perde. E' stata l'ennesima partita truccata; e ormai siamo talmente assuefatti che diranno che cerco scuse. Ma non è così. In questi giorni ho toccato con mano una disparità enorme di soldi, di mezzi, di tv, di giornali tra il Pd e Berlusconi. Non c'è una sola democrazia al mondo in cui il confronto politico sia così squilibrato. Nelle condizioni «italiane», neppure Obama avrebbe mai battuto McCain. Non per questo è il momento di cedere; anzi, ora più che mai dobbiamo restare uniti. Ieri sera, alle otto e mezza, ho convocato nella sede del Pd il gruppo dirigente, a urne chiuse. C'erano tutti: i capigruppo, i segretari regionali, i big. E ho detto: «Questo è il momento di serrare i ranghi, di essere solidali tra noi. Tutto sommato un certo recupero di fiducia c'è stato; se in questi tre mesi avessimo litigato come stavamo facendo prima, sarebbe andata peggio. Se da stanotte i litigi riprendessero, se ricominciassimo a dividerci, allora davvero sarebbe la fine. I militanti che si sono battuti anche stavolta, gli elettori che ci sono rimasti fedeli, non ce lo perdonerebbero mai».

«NON MI DIMETTO» - E' l'una e mezza di notte, Dario Franceschini risponde al cellulare. «No, io non mi dimetto. Perché dovrei? Sono segretario da tre mesi e dieci giorni, ho un mandato sino a ottobre, farò il mio dovere sino in fondo. Rinviare il congresso? E perché? I tempi sono dettati dallo statuto. Scissioni? Non mi pare proprio l'aria. Non è in gioco la sopravvivenza del partito; tornare indietro non avrebbe senso. Tutti hanno fatto il loro dovere in campagna elettorale. Certo, anche Rutelli ed Enrico Letta. D'Alema si è dato molto da fare. Ho avuto tutti al mio fianco, dal mio predecessore Veltroni al fondatore, Prodi. Non mi sono sentito solo, anche se forse l'impressione dall'esterno può essere stata quella, visto che ero io ad andare in tv». Un merito Franceschini lo rivendica: «Non ho fatto una campagna elettorale sul fatto del giorno, mi sono battuto sui temi di fondo, l'economia, i valori, il modello di società. Dobbiamo restare uniti perché è il tempo di costruire non solo il partito, ma anche un sistema di principi alternativo alla destra. Dobbiamo stare nella società, darle uno scossone, svegliarla, ribaltare la gerarchia di valori imposta dalla tv. Ho fatto campagna in mezzo alla gente, non solo tra i militanti, e ho visto energie fresche, un paese diverso da quello coperto e raccontato dalla televisione. L'Italia non è il Grande Fratello. Dobbiamo ricordarcene soprattutto adesso, nell'ora più dura». Dario Franceschini ha passato la domenica in famiglia. Pranzo al mare, a Fregene, con la moglie e le due figlie. Pomeriggio sul terrazzo di casa, un appartamento pieno di libri, sulla via vicino alla fontana di Trevi dove viveva Vittorio Foa. Poi la riunione, il richiamo all'unità, l'invito a evitare polemiche. «Ai big ho detto di mantenere il metodo di questi mesi. Non discutiamo all'esterno, non litighiamo sui giornali. Discutiamo, prendiamo insieme anche le prossime decisioni, a cominciare dal rapporto con il Pse e dal referendum elettorale; ognuno dice la sua, poi si decide e si tiene fede alla scelta collettiva».

«SPROPORZIONE DI MEZZI» - Quanto a Berlusconi, «ha vinto, ma non ha sfondato. Certo, un pezzo d'Italia lo adora a prescindere, qualunque cosa dica e faccia; ma non è il 45%. Mi sarebbe piaciuto affrontarlo ad armi pari; purtroppo, da quindici anni a questa parte non è possibile. E' stato come giocare tutto il campionato in trasferta, come salire sul ring con un braccio legato dietro la schiena. Mai come stavolta si è toccata con mano la sproporzione di soldi, potere, spazi televisivi. Ma ormai non ne parla più nessuno: non è chic, non è snob». Franceschini fa due esempi: «Ricevo molte mail da elettori del centrodestra che mi rimproverano di aver fondato la campagna sul gossip. Ma quando mai? Io non ho detto una parola sulle vicende familiari di Berlusconi. Non una. Ho detto che un politico deve rispondere alle domande. Non ho mai citato i figli di Berlusconi. Mai. Ho parlato dell'educazione dei nostri figli, dei valori da trasmettere alle nuove generazioni. Eppure l'apparato mediatico del premier ha manipolato le mie parole e le ha strumentalizzate. In realtà, al centro della campagna il Pd aveva messo la crisi, i disoccupati, i precari mandati a casa, le famiglie che soffrono. Abbiamo formato un gruppo che ha lavorato per sei mesi al programma per l'Europa, e sui giornali non è uscita una riga. Sono andato a Sky all'ultima trasmissione, mi hanno fatto sette domande su Berlusconi, l'ottava era: "Ma perché di Europa non parlate mai?". E come facevo, se mi chiedevano solo del Cavaliere?». Il Pd arretra un po' dappertutto, in particolare al Nord. «Ma al progetto io ci credo ancora — dice Franceschini —. Il Partito democratico resta una grande idea. Purtroppo, appena nato, l'anno scorso ha dovuto affrontare una prova elettorale durissima. Abbiamo perduto il leader dopo il voto amministrativo in Sardegna. E subito è ricominciata un'altra campagna molto difficile. Adesso ci attende un lavoro politico lungo e in profondità, che non sia finalizzato al voto successivo. Dobbiamo dialogare con le opposizioni, certo, ma in primo luogo dobbiamo batterci per costruire un'alternativa sociale e culturale a Berlusconi».

Aldo Cazzullo
08 giugno 2009

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