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Autore Discussione: Alessandro DE ANGELIS  (Letto 8253 volte)
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« inserito:: Gennaio 30, 2015, 05:02:57 pm »

Alessandro De Angelis
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Quirinale: Silvio Berlusconi, la telefonata di Marina: "Papà non farlo"

Pubblicato: 29/01/2015 18:52 CET Aggiornato: 4 ore fa

“Ci ha tradito, questo Renzi ci ha preso per i fondelli. Noi i patti li abbiamo rispettati, e lui li ha stracciati”. L’unica certezza è la rabbia, la delusione bruciante. Silvio Berlusconi per la prima volta pare un pugile suonato. Barcollante. Quasi confuso. Al punto da passare dalla dichiarazione di resa alla dichiarazione di guerra nello spazio di quattro ore. A metà mattina, dà ragione a Gianni Letta: “Silvio, se quello va al Quirinale con i nostri voti non farà cose contro di te. Non è dei nostri, ma è uno corretto”. Solo dinanzi all’insurrezione dei suoi, Romani, Toti, il cerchio magico l’ex premier non prende in mano la cornetta per comunicare a Renzi che è pronto a votare al primo scrutinio Mattarella: “Meglio intestarcelo subito, che subirlo alla quarta” ripete Letta.

La ferita però sanguina. È nel momento più difficile che una telefonata più delle altre gli fa ritrovare il piglio del combattente. Marina, la primogenita, è durissima con Renzi. Gli fa capire che il “partito Mediaset” non ha nulla da temere dal nuovo capo dello Stato che si dimise ai tempi dell’approvazione della Mammì. E di fronte allo schiaffo non si può porgere l’altra guancia. Ecco perché alla riunione dei grandi elettori la voce provata pronuncia un urlo di guerra: “Il patto del Nazareno si è rotto, perché lo ha rotto Renzi. Ora avrà problemi a far passare le riforme”. E per la prima volta invoca il voto sul Consultellum. Forza Italia, spiega, voterà scheda bianca alle prime tre votazioni, ma anche alla quarta: “Se lo eleggano loro”. Anche se sia Berlusconi sia tutto lo stato maggiore spiegano che non è un segno di ostilità verso il nuovo capo dello Stato il cui profilo e la cui storia sono meritevoli di rispetto, ma un atto politico verso un “metodo che si è rotto”. Tanto che Berlusconi chiama Mattarella, per comunicarlo con garbo istituzionale.

Parlando con i big di Forza Italia è difficile capire se Berlusconi sarà davvero conseguente bocciando i provvedimenti da lui stesso votati o se si tratta solo di un urlo di dolore. È chiaro che Forza Italia pare un fortino espugnato. L’odio scorre sui volti del gruppo dirigente. E soprattutto verso Verdini, il nume del Nazareno. Perché è saltata l’essenza stessa del patto. Il Quirinale “condiviso” era la clausola numero uno in base alla quale l’ex premier ha dato tutto. Questa: “Tutti tranne Prodi e nome da scegliere assieme”. E non solo non è arrivato il dividendo ma ora la Ditta azzurra va in perdita: “Abbiamo ceduto su tutto – ripete l’ex premier - su legge elettorale, riforme, tutto o ora non incassiamo niente? Durissimi gli strali indirizzati verso il “ragazzo”. Prepotente. Un “giocatore d’azzardo”. Una fonte di palazzo Grazioli spiega così la cruda verità: “Il Nazareno prevedeva al Colle uno scelto anche da Berlusconi. Ora Renzi lo mette lui. E con questa mossa Renzi dice a Berlusconi. Io ti tengo per le p…e, sono io che decido sulla salva Silvio e su quello che ti riguarda, quindi se vuoi il patto lo fai con me, non con uno al Colle. Altrimenti arrangiati”. Pare che anche Verdini sia rimasto basito di fronte alla mossa di Renzi. Perché il ragazzo gioca pesante. Ma fino alla fine ha difeso le ragioni del Nazareno, chiedendo di votare Mattarella.

Alfano racconta a Berlusconi che i suoi hanno ricevuto telefonate fino a tarda notte, direttamente dal premier. Con l’obiettivo di fare pressione su Mattarella. Nella Waterloo berlusconiana, l’unico elemento che regge è l’asse con Alfano. Il “patto di unità d’azione” tiene. Angelino sente Renzi e caccia il quid: “Te l’ho già detto, Mattarella mai. Non usciremo dal governo, ma non lo votiamo”. Pochi minuti dopo l’inizio delle votazioni Nunzia De Girolamo e Paolo Romani sembrano essere tornati nello stesso partito annunciando “conseguenze sulle riforme”. E tutto il gruppo ciellino di Lupi è scatenato contro “un cattolico di sinistra” al Colle. Parlano con i parlamentari, verificano la tenuta delle truppe. Anche perché adesso nel fortino espugnato è partita la resa dei conti. Il tam tam che i fittiani potrebbero dare sottobanco voti a Mattarella per sancire la capitolazione del Cavaliere si fa sempre più insistente: “Fitto lo aveva detto – dicono – che Berlusconi si è svenduto senza niente in cambio e questi sono i risultati. Andare alla trattativa sul Colle con la legge elettorale e le riforme approvate è stato demenziale”. Pare un guerriero col coltello tra i denti Raffaele Fitto che a metà pomeriggio invoca “l’azzeramento totale del gruppo dirigente di Forza Italia nel partito e nei gruppi”. Dichiarazione che a palazzo Grazioli viene classificata alla voce “sciacallaggio”. Questo è il clima. In Transatlantico gli azzurri si dicono certi che a questo punto il voto in primavera è inevitabile. Qualcuno fa notare che difficilmente il primo atto di Mattarella possa essere lo scioglimento delle Camere che lo hanno eletto. Resa, confusione dentro Forza Italia. Nel frattempo nel segreto dell’urna a Mattarella arriveranno voti da destra. Quelli di Mario Mauro che ha fatto votare Gabriele Albertini, e anche parecchi azzurri. Mai Berlusconi è stato così debole. Dentro e fuori il suo partito.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/01/29/berlusconi-quirianale_n_6572328.html?utm_hp_ref=italy
« Ultima modifica: Ottobre 14, 2017, 12:42:17 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 16, 2015, 04:06:59 pm »

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Michele Emiliano: nelle liste per le regionali ex fascisti, indagati e berlusconiani. Ecco il Partito della Nazione in Puglia
Pubblicato: 11/05/2015 18:27 CEST Aggiornato: 11/05/2015 19:24 CEST

Da Vincenzo De Luca a Michele Emiliano. Cambiando l’ordine degli aspiranti governatori, il Partito della Nazione non cambia. Sussurrano nel Pd pugliese i vecchi “compagni”: “Emiliano è perfetto come futuro sfidante di Renzi, perché ha stessa concezione del potere”. Il perché è questo: “Emiliano ha già vinto: la destra è divisa, non ha rivali. E lui che fa? Mette su due liste civiche 'Emiliano presidente' e 'Emiliano sindaco di Puglia'. Così i voti alla lista del Pd diminuiscono e quando fa la giunta decide come vuole. E nelle sue liste imbarca di tutto”. A partire dai “fascisti”.

Il caso più eclatante è quello di Eupreprio Curto, candidato nella lista dei Popolari, uno che da giovane aveva la Fiamma nel cuore, e dunque la tessera del Movimento sociale. Poi, da adulto, Alleanza Nazionale nelle cui fila arrivò a Palazzo Madama. Quando Curto venne beccato per aver fatto assumere 22 tra amici e parenti in un concorso pubblico a Francavilla Fontana, la sua città, lui si difese dicendo che i suoi parenti erano “meno del dieci per cento”. Un’altra volta, sollecitato in tv da un finto faccendiere, si mise a disquisire serenamente di tangenti. Ora sostiene Emiliano. Non è l’unico, tra i “camerati” degli Anni Settanta. A Foggia c’è Pippo Liscio, anche lui ex Msi e ex An, così come Antonio Martucci che invece è candidato a Taranto. Mentre a Lecce è candidato Paolo Pellegrino, che viene dalla destra, ma stava con Fini in Futuro e Libertà, di cui era coordinatore.

I vecchi comunisti del Pd pugliese inorridiscono: “A vincere – dicono - con questo sistema vinci, ma poi quando governi non cambi nulla. Quelli oltre a essere impresentabili, una volta eletti, risponderanno agli interessi che tutelavano prima”. E a portare pesanti interessi ecco la carica dei “riciclati” di Forza Italia. Il coordinatore delle liste civiche di Emiliano, nella Provincia Bat (Barletta-Andria-Trani) è Francesco Spina, che fino a qualche tempo fa era con Forza Italia e ora è iscritto all’Udc. E fin qui sembra il classico “riciclo”. Ma Spina non è uno qualunque. Mentre coordina le civiche a sostegno di Emiliano è sindaco di Bisceglie in carica (con una coalizione di centro destra) e presidente della Provincia Bat, sempre col centrodestra. E già così è più ardita. Ma poiché Spina è un vero campione del trasformismo, va oltre. E oltre a sostenere Emiliano (mentre governa col centrodestra), nella stessa tornata elettorale a Trani e Andria, dove si vota per le comunali, sostiene i candidati del centrodestra. Per Emiliano è tutto normale. Anzi, è tutto nobile, tutta una questione di alti valori e princìpi. Il vincitore annunciato ha presentato l’operazione in grande stile, facendosi fotografare assieme a Spina davanti a una foto con Berlinguer e Moro: “Sarei un pasticcione – dice Emiliano presentando il patto a Bisceglie - soltanto perché ritento la strada del compromesso storico, nel solco della storia di questo territorio, e questa volta con buone probabilità di successo?”

È il partito della Nazione, bellezza. Funziona così: pezzi di centrodestra si schierano col vincitore annunciato, nello sconcerto della sinistra che si trova come alleati gli avversari di un tempo. Al comune di Molfetta il sindaco Paola Natalicchio, una di sinistra che non ha capito come funziona ormai, si è infuriata, anche pubblicamente, con Emiliano quando ha visto candidato a suo sostegno Saverio Tammarco, che a Molfetta faceva il capogruppo di Forza Italia, all’opposizione (prima sempre Tammarco era stato consigliere provinciale del Pdl in provincia di Bari). Altro pezzo pesante del centrodestra passato con Emiliano è Fabrizio D’Addario. Consigliere comunale a Bari nel 2009 nella lista di Simeone di Cagno Abbrescia, nel 2010 si candida nella lista “I Pugliesi” con Rocco Palese. La folgorazione sulla via di Emiliano (e del centrosinistra) avviene quando – ancora consigliere comunale di centrodestra – D’Addario diventa direttore generale di una municipalizzata del comune di Bari che gestisce la rete gas, l’Amgas. È una folgorazione analoga a quella che ha colpito tal Giacomo Oliveri, che nel 2005 era consigliere regionale di Forza Italia e oggi è il leader dei Moderati, per cui – anche non essendo candidato – va in tv, concede interviste, partecipa ai tavoli delle candidature. La folgorazione è legata alla nomina di presidente della Multiservizi, la municipalizzata di Bari, nomina avvenuta ad opera di Michele Emiliano.

È lungo l’elenco degli azzurri a sostegno di Emiliano. Tra i nomi più importanti quello di Tina Fiorentino, ex assessore col centrodestra ora candidata nella lista civica “La Puglia con Emiliano”. E soprattutto Anita Maurodinoia, la casalinga di Triggiano diventata miss preferenze al Comune di Bari lo scorso anno grazie al sostegno di Schittulli, oggi competitor di Emiliano. Raccontano nel Pd locale: “Schittulli la considerava una pupilla, ha litigato col mondo per farla eleggere alla città metropolitano. Ora è passata al nemico del suo padre politico. E noi abbiamo gli estranei in casa”. Ci sono anche quelli che vennero candidati nella lista “Puglia prima di tutto”, di Tato Greco, che divenne famosa per aver candidato nelle proprie liste Patrizia D’Addario, la escort dei primi scandali sessuali di Silvio Berlusconi. Come Natalino Mariella, che ha trovato ospitalità nella lista i Popolari (per Emiliano). A Foggia per Emiliano corre Luigi Damone, figlio dell’ex consigliere regionale Cecchino Damone che della Puglia prima di tutto era capogruppo.

Lo schema Emiliano prevede che i riciclati vanno a ingrossare le liste civiche per mietere messe di voti mentre gli indagati sono nel Partito democratico, che sarà il più penalizzato. Ecco che nelle liste del Pd troviamo candidato l’ex deputato leccese del Pds Ernesto Abaterusso, chiamato a candidarsi da Emiliano al posto del figlio Gabriele Abaterusso, condannato a due anni per bancarotta. Indagato anche il consigliere uscente Michele Mazzarano (finanziamento illecito ai partiti) nonché Donato Pentassuglia, assessore uscente della giunta Vendola, a cui viene contestato il favoreggiamento nel maxi dibattimento per i disastri provocati dall’Ilva. Ma forse c’è un caso che dice tutto di come Michele Emiliano amministra la sua fabbrica del consenso. Ad Altamura, provincia di Bari, Michele Emiliano ha concesso a Luigi Lorusso, un candidato sindaco, di usare a sostegno la sua lista “Puglia con Emiliano”. Niente di strano, si dirà. Se non fosse che il suo avversario, Antonello Stigliano è del Partito democratico. E dunque, avversari al Comune, corrono tutti per “Michele” alle regionali. All’ombra del capo, ogni genere del trasformismo. Anche nel tavoliere è nato il Partito della Nazione.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/05/11/michele-emiliano-partito-della-nazione-puglia_n_7257406.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 29, 2017, 08:45:09 pm »

Massimo D'Alema riunisce la sinistra anti Renzi e sdogana la scissione: "Se Renzi forza, liberi tutti"

Pubblicato: 28/01/2017 16:55 CET Aggiornato: 1 minuto fa

Di A. De Angelis

Alle 14,10 Massimo D’Alema arriva alla sintesi del suo lungo e chirurgico ragionamento. Per un’ora invoca un “cambio di rotta” del Pd, indicandone i punti fondamentali: lavoro, sociale, “più Europa, ma un’altra Europa”. E chiede un congresso, per discutere, prima del voto. Ragionamento di scuola, alto, che parte dall’analisi della situazione internazionale e arriva all’emorragia di voti nelle periferie romane. A quel punto, dopo una pausa più lunga, guarda la sala e scandisce: “Se ci troveremo di fronte alla sordità di un gruppo dirigente e prevarrà l’idea di andare ad elezioni senza un progetto politico e di governo, con l’obiettivo di normalizzare il Pd e ridurre i gruppi parlamentari all’obbedienza, beh, allora deve essere chiaro, lo dico con assoluta serenità: una scelta di questo tipo renderebbe ciascuno libero”.

Applauso, quasi liberatorio, di quelli che viene giù la sala, a sottolineare che il Pd, per come l’abbiamo conosciuto, già non c’è più. E che, i partiti sono già due. Poi, il secondo passaggio: “Aggiungo che alcuni di noi, che ritengono di avere responsabilità e obblighi nei confronti della sinistra italiana, e della sua storia, non sarebbero neanche liberi di decidere. Avrebbero il dovere di agire”. Frase che suona come una chiamata alle armi, una scossa per gli indecisi, un invito ad accelerare sulla fase operativa, perché il tempo stringe.

Centro congressi Frentani, luogo storico per la sinistra, dove una volta c’era la federazione romana del Pci, quando prendeva il 34 per cento. La riunione dei comitati del No per “un nuovo centrosinistra” si trasforma, di fatto, nell’annuncio di un nuovo partito, “se Renzi non inverte la rotta”. Eventualità a cui non crede nessuno. “Consenso” il nome dell’associazione, o del movimento, in cui i circoli del no cambiano ragione sociale, diventando i circoli di un possibile nuovo partito. Partito nuovo, di sinistra, per quelli che vedono nel Pd un partito senza il suo “senso originario”. “State pronti a ogni eventualità”, dice D’Alema, che invita ad aprire circoli, a raccogliere fondi: “La discussione sul SI e sul No è finita, l’hanno chiusa i cittadini. Ora rivolgiamoci al mondo del centrosinistra italiano, un mondo disperso, spesso non iscritto a nessun partito”.

In sala ci sono Arci, Cgil, segretari di federazioni del Pd, soprattutto del Sud. Ma soprattutto molti che raccontano che hanno lasciato il Pd perché “ha cambiato pelle da tempo”. Stumpo e Zoggia parlano fitto al bar. “Inevitabile”, così parlano della rottura. Nessuno crede che Renzi possa frenare e aprire una discussione: “Al momento delle liste proverà a sbatterci fuori o ci mette al Senato per non farci eleggere”. Ci sono Gotor, Danilo Leva, la Agostini. Si rivede un film già proiettato ai tempi del referendum. Quando Massimo D’Alema partì per primo: “L’Italicum non si cambia, si abbatte. E c’è un solo modo per abbatterlo, votare No al referendum”. La Ditta arrivò con un po’ di travaglio, dopo mesi di “se non cambia l’Italicum”. Stavolta i più giovani hanno il quadro chiaro. Più prudente Bersani. Roberto Speranza, prima di D’Alema, ci va giù duro: “Le sentenze si rispettano, ma il potere su una materia così spetta al Parlamento e vorrei che il Pd fosse protagonista di una grande iniziativa parlamentare. Mai più un Parlamento di nominati: i deputati devono rispondere ai territori e non al capo. Altrimenti si costruisce un partito di servi e non di persone perbene”.

Insomma, s’ode a destra uno squillo di tromba con Orfini e lo stato maggiore renziano che recapita ultimatum. A sinistra risponde uno squillo, con l’annuncio che la scissione è nel conto. Anche perché stavolta non fa paura, anzi potrebbe essere una tentazione irresistibile: “Renzi – spiegano – il 40 non lo fa. Dovrebbe essere lui ad avere interesse ad averci dentro, visto che c’è un sistema proporzionale”. Caustico il leader maximo, che nei momenti che contano dà sempre il meglio di sé: “Quando vedo il presidente del gruppo parlamentare che a me sta anche simpatico dire che si può andare a votare perché la sentenza della Consulta conferma l’impianto dell’Italicum… Direbbe il poeta: non so se il riso o la pietà prevale. È difficile anche aprire un dibattito, in questi casi arriva uno con il camice bianco... Noi abbiamo la responsabilità di correre in soccorso di un gruppo dirigente che sembra avere smarrito il senso della ragione”.

La sala è molto Pci, nel senso di gente tosta, che vuole un partito vero. E che sa far di conto. Ti spiegano: “Lo spazio c’è. Ci sono milioni di voti di sinistra che non vogliono più votare Renzi e non vogliono consegnarsi a Grillo”. Il progetto è ancora in fieri, ognuno ci entra con le truppe che ha. Francesco La Forgia, un brillante milanese che ha lasciato col suo gruppo Cuperlo. Un pezzo di Sinistra Italiana, da D’Attorre a Scotto. Che col suo intervento dal palco sancisce la spaccatura con l’ala di Fassina e Fratoianni. Manda un saluto Michele Emiliano, che sulla carta potrebbe essere il leader del listone della sinistra. Gli ex Pci non lo amano particolarmente e lui non ama D’Alema, però c’è una convergenza oggettiva. In questo clima di rabbia e protesta il governatore della Puglia funziona.

All’uscita senti “compagni” che si danno appuntamenti sui territori. Fissano riunioni. Altri, stanchi, risalgono sui pullman dove hanno viaggiato tutta la notte. Come accadeva e accade con i partiti veri.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/01/28/massimo-dalema-pd-renzi_n_14457304.html?1485618&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 28, 2017, 12:45:07 pm »

POLITICA

Massimo D'Alema spiega ad HuffPost la lezione francese: "Una sinistra dall'identità forte è in grado di contenere le spinte a destra"
"Si è diviso il voto anti-sistema. Macron candidato pieno di incognite.
Mélenchon ha sottratto il voto popolare alla Le Pen"

 24/04/2017 17:18 CEST | Aggiornato 2 ore fa

Alessandro De Angelis Politics reporter, L'Huffington Post

Presidente Massimo D'Alema, Macron ha fermato i populisti, questa la lettura dominante. C'è da brindare in Europa?

Innanzitutto, mi permetto di contestare l'uso dell'espressione populismo, ambigua e demonizzante. La tendenza forte, in Europa, è quella anti-establishment. Da questo punto di vista il voto francese conferma la tendenza. L'establishment tradizionale è uscito travolto, come mostra il risultato socialista e gollista.

Non la sento partecipe di tanto entusiasmo europeista, da scampato pericolo.

Perché personalmente non ho mai pensato che avrebbe vinto la Le Pen né che la Francia potesse finire come l'Ungheria, in questo clima da pericolo incombente. Bastava vedere i dati delle regionali, dove la destra ha perso tutti i ballottaggi... Insomma, la Francia è la Francia, con un tessuto anti-fascista che tiene, una solidità dello Stato, una borghesia, una struttura.

Torniamo alla catastrofe dei partiti della Quinta Repubblica.

Frutto di errori politici evidenti. I gollisti non hanno avuto la forza di rinnovare la loro leadership e si sono presentati in modo suicida. Se avessero presentato una candidatura più credibile sarebbero andati loro al ballottaggio.

I socialisti, invece, sono pressoché scomparsi.

Attenzione a una analisi superficiale. I socialisti non sono scomparsi. Hanno pagato il prezzo del fallimento di Hollande, unico presidente uscente che non si sia ricandidato. E questo li ha portati a dividersi. Una parte ha sostenuto apertamente Macron, persino le dichiarazioni di Hollande andavano in questa direzione, oltre all'appoggio esplicito di Valls, un'altra parte ha sostenuto Hamon e altri ancora Mélenchon. Il socialismo francese ha sempre avuto più anime - quella più radicale e critica verso l'Europa e quella più europeista alla Rocard – che sono state tenute insieme da forti leadership, in questo caso si sono separate. Detto questo non è già scritto che alle legislative i socialisti debbano avere il sei per cento. Non credo che il risultato di Hamon misuri la forza reale del partito socialista.

Però non c'è dubbio che, all'interno di queste anime, c'è stato un cambio dei rapporti di forza verso la sinistra più radicale.

Con un dato significativo: mi pare del tutto evidente come il successo della candidatura Mélenchon abbia sottratto alla destra una parte del voto popolare che ha costituito in questi anni uno dei volani del successo del cosiddetto populismo di destra.

Sta dicendo che il merito di aver arginato la Le Pen è di Mélenchon più di Macron?

I numeri non sono opinabili. Un pezzo del voto popolare, operaio, delle periferie è stato sottratto alla Le Pen da Mélenchon. Il che vuol dire che una sinistra che torni ad avere una identità forte è in grado di contenere le spinte a destra. Con una candidatura più debole dell'estrema sinistra la Le Pen avrebbe avuto un risultato maggiore. Anche la candidatura di Hamon era più debole ma andava in quella direzione. Aggiungo che la somma dei voti Mélenchon e Hamon fa il 26 per cento...

Non la sento neanche particolarmente entusiasta sul risultato di Macron, e sul tipo di novità politica che rappresenta.

Con molta abilità Macron ha preparato la sua candidatura uscendo dal governo, costruendo l'immagine di una novità, facendo dimenticare la sua esperienza di ministro con Hollande. La verità è che in questo voto ha prevalso la percezione delle novità, il bisogno di cambiamento, il rifiuto dei partiti tradizionali. Questo ha limitato l'espansione della Le Pen, perché non era lei da sola contro il sistema, anche Macron appariva come un candidato contro i partiti e Mélenchon anche contro il sistema. Questa è la verità: si è diviso il voto anti-sistema. Detto questo, Macron è un candidato pieno di incognite.

Spieghi meglio.

Nel suo programma ci sono elementi di modernizzazione neo liberale che in un paese statalista come la Francia sono anche in parte ragionevoli, si avverte molto forte il peso del sistema imprenditoriale e delle sue necessità, ma ci sono elementi di un programma sociale come un miglioramento netto del salario minimo. Il suo è un programma pieno di belle promesse. Si tratta di vedere le priorità concrete nell'azione di governo. Questa è l'incognita: non appare chiaro che tipo di maggioranza parlamentare si potrà costituire, se si potrà costituire, attorno alla presidenza Macron. La prova del budino, come si diceva una volta, è mangiarlo.

È il vincitore annunciato.

Certo, e io lo auspico. Ma non è detto che i suoi candidati vadano al ballottaggio dappertutto e che tipo di maggioranza parlamentare si formerà. Io non credo che i socialisti stiano al 6 per cento al voto politico, e credo che ci sarà una dialettica diversa, al netto del forte effetto di trascinamento del voto presidenziale. Tuttavia non essendoci un grande partito "En marche" siamo, come le dicevo, di fronte a una grande incognita. Un patto con i gollisti? Uno con i socialisti? La coabitazione, in Francia, c'è già stata e con risultati non sempre brillanti.

La lezione francese, dunque, per lei non è una traduzione del programma di Macron in Italia.

La lezione francese è, innanzitutto, per quel che riguarda la sinistra, l'unità. E la necessità di una certa radicalità e di una chiarezza sul piano sociale. La sinistra, anche in Italia, deve prospettare una svolta rispetto alle politiche neo-liberiste, altrimenti si disperde. Nella esperienza italiana questo può voler dire che a sinistra del Pd non c'è spazio per tre, quattro liste. Sarebbe un suicidio collettivo.

Sta dicendo che tutte le sigle e i movimenti a sinistra del Pd dovrebbero fondersi, di qui alle politiche.

Auspico una fase costituente che porti a un movimento unico, aperto e plurale che unisca Articolo 1, Sinistra italiana, Campo progressista, con l'obiettivo di creare una forza in grado di incidere. In Italia c'è un contesto del tutto diverso rispetto alla Francia - non c'è il doppio turno, il ballottaggio – ma si può prospettare uno scenario analogo, con una forza neocentrista come il Pd di Renzi al 23 per cento come Macron, e non è una cifra irrealistica, e una forza alla sua sinistra che abbia una consistenza tale da consentirle di esercitare un peso effettivo nella vita politica italiana.

Anche lei fa la similitudine tra Renzi e Macron, in sintonia con la narrazione del Macron italiano?

Non mi pare. Anche se i tratti del Pd sono quelli di un partito neocentrista c'è una differenza fondamentale. E cioè che è difficile per Renzi presentarsi come il nuovo, perché Renzi ha sulle spalle tre anni di esperienza di governo il cui esito è stato fallimentare, sul piano economico, sociale, delle riforme. Se nel voto francese c'è una componente anti-establishment, come abbiamo detto, la differenza è enorme: Macron si è presentato come alternativo al vecchio ordine, Renzi del vecchio ordine è il caposaldo.

I renziani però esultano, di fronte al voto francese.

Che le devo dire... Sono persone dall'esultanza facile, diciamo. Hanno esultato anche quando hanno perso il referendum, esaltando il loro 40 per cento e dimenticandosi del 60 per cento degli italiani che avevano votato contro.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/04/24/massimo-dalema-spiega-ad-huffpost-la-lezione-francese-una-sin_a_22053364/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 25, 2017, 11:06:19 pm »

POLITICA
ECHI DI MANOVRA ESTIVA

Nella trattativa sul voto a ottobre si esamina la possibilità di un intervento anticipato.

La preoccupazione del Colle per l'esercizio provvisorio

 25/05/2017 19:22 CEST | Aggiornato 33 minuti fa

Alessandro De Angelis Politics reporter, L'Huffington Post
Giuseppe Colombo Business editor L'Huffington Post

In questa trattativa sotterranea sul voto autunnale, c'è un tema meno rumoroso (per ora) rispetto alle fanfare dell'accordo, sia pur avvolto dal reciproco sospetto, tra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale. Ma altrettanto delicato, come il Quirinale ha fatto notare in modo felpato agli interlocutori che, in questi giorni, hanno praticamente intasato i centralini. Perché il voto ad autunno, per un paese col nostro debito pubblico, ha come rischio incorporato la ripartenza dello spread, il rischio della speculazione internazionale, insomma una nuova tempesta perfetta tra mercati e incognite politiche, perché non è affatto detto che la legge teutonica, che fa rinascere il Nazareno, dia medesime assicurazioni di nascita di un governo, con una maggioranza certa.

Per questo, negli ultimi giorni, nelle stanze che contano nel governo, si sta esaminando un'idea, che solo apparentemente può sembrare una bizzarra trovata, di un anticipo di manovra a luglio. Solo apparentemente, perché quella che sarebbe ribattezzata come una "manovrina" estiva, vanta il famoso precedente del 2008 di Giulio Tremonti, che in un cdm estivo fece approvare in nove minuti un provvedimento che, di fatto, anticipò dell'80 per cento la manovra di autunno.

È chiaro che questa ipotesi, per le fonti ufficiali del Tesoro, viene classificata al genere fantasia, perché al momento rientra nel medesimo genere la prospettiva di un voto in autunno, visto che il segretario del Pd, ufficialmente, continua a dire che si arriva al 2018 proprio mentre tratta sulle date autunnali. A tal proposito pare che decisivo, nel dire una parola definitiva, sull'impraticabilità del voto a settembre con comizi sotto il solleone e liste da presentare ad agosto quando gli uffici sono chiusi, sia stato il titolare dell'Interno Marco Minniti, molto ascoltato anche dai frenetici renziani. L'idea della manovrina, rientra in questo filone di ragionevolezza all'interno del governo e, evidentemente, risponderebbe alle perplessità sui conti che il Quirinale ha fatto circolare nei giorni scorsi proprio sul Sole24Ore. Perché, detta in modo un po' grezzo ma efficace, si presterebbe a tre obiettivi. Rappresenterebbe uno scudo rispetto al rischio speculazione in agosto (ricordate che impennate lo spread proprio ad agosto?) quando le camere sarebbero sciolte; eviterebbe che, sulla manovra di autunno, si svolgesse una campagna elettorale tanto dura quanto demagogica, tra annunci e trovate estemporanee; last but not least, si potrebbe evitare un eventuale esercizio provvisorio, bloccando l'aumento dell'Iva.

Per ora, raccontano, l'unica bussola di Renzi è la fretta. Fretta di votare – presto, il più presto possibile – fretta di tornare nel Palazzo, una fretta determinata dal timore di una nuova ondata "modello Consip", ma che ancora non si è misurata col problema dell'economia se, negli ultimi colloqui, ha spiegato che la nuova manovra spetta al governo che verrà, senza dare troppa importanza al tema dell'esercizio provvisorio. Una fonte di governo, al Tesoro, sussurra: "Finora vuole chiudere sulla data del voto, non gli importa altro. Ma non escludo che, se capirà che anche questo serve per avere il beneplacito di Mattarella, cavalcherà la cosiddetta manovrina estiva. Anzi ci inizia la campagna elettorale, all'insegna dell'abbiamo impedito l'aumento dell'Iva". E, magari, anche delle accise sulla benzina.

Le clausole di salvaguardia, dopo la manovrina appena varata, sono pari a circa 15 miliardi di euro. Disinnescarle è obiettivo ambizioso, ma non impossibile nelle coperture. Non è un mistero che al Tesoro, da sempre, sono particolarmente fiduciosi nei risultati nella voluntary disclosure, ma anche negli introiti derivanti dalla rottamazione delle liti fiscali. E poi, in questo contesto, non sarebbe lunare chiedere all'Europa qualche decimale in più di flessibilità, soprattutto come aiutino alla sfida dell'Europa contro i "populisti", che si gioca, nello stesso giorno o a poche settimane di distanza in Germania e in Italia. E anche nel renzismo di governo in parecchi invitano a ragionare il neosegretario: "Occhio Matteo che riparte lo spread", "se mandiamo il paese in esercizio provvisorio, ti indicheranno come colui che ha portato il paese al disastro", "ci sono le prossime aste dei Btp, non scherziamo col fuoco". Suggerimenti, analisi, inviti alla ragionevolezza che recepiscono una preoccupazione crescente e condivisa nei vertici nelle istituzioni.

DA - http://www.huffingtonpost.it/2017/05/25/echi-di-manovra-estiva_a_22109244/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 18, 2017, 04:25:19 pm »

POLITICA

Teste mozzate e Renzi: Pisapia agita i "compagni"
Rivolta dentro Mdp sulla proposta di rotazione dei mandati: "Questo è renzismo". In alto mare cabina di regia

 17/07/2017 16:49 CEST | Aggiornato 10 ore fa

Alessandro De Angelis Politics reporter, L'Huffington Post

Ritornano ombre, veleni e sospetti su Giuliano Pisapia tra i suoi "compagni" di viaggio della Ditta che fu. Ombre, veleni e sospetti alimentati da un paio di uscite dell'ex sindaco suonate come qualcosa di più di voci dal sen fuggite: il "non mi candido", il principio della "rotazione", ovvero il limite di due mandati nella scelta delle candidature. Le riunioni di Articolo 1 si sono trasformate, qualche giorno fa, in uno sfogatoio. In parecchi hanno evocato "la vecchia cultura piccolo borghese della destra italiana che considera la politica un lavoro sporco". Enrico Rossi è sbottato: "Il principio della rotazione è mutuato dai Cinque Stelle. È un principio giacobino teorizzato da Marat che risolveva il problema indicando ogni giorno le teste da tagliare".

In questo sfogo, le teste mozzate sarebbero, ça va sans dire, quella del perfido e ingombrante D'Alema ma anche quella del buon Bersani, entrambi con diverse legislature alle spalle. E chissà se il modello, si sono chiesti in parecchi, sia Marat o se sia assai più vicino: la Leopolda. "Nella filosofia questo è un approccio renziano... La rottamazione...". Così l'ha interpretata Susanna Camusso parlando venerdì sera all'ambasciata francese con qualche amico, anche un po' contrariata. Perché davvero è apparsa assai bizzarra la posizione di uno già investito del ruolo di leader che evita di confrontarsi col voto popolare, magari con tanto di retorica su privilegi e poltrone a cui rinunciare, e, al tempo stesso, propone regole rottamatorie, come il limite dei due mandati. Marco Furfaro, braccio destro di Pisapia, spiega all'HuffPost: "Tra rottamazione e restaurazione, noi abbiamo proposto la rotazione, per favorire un mix di esperienza e rinnovamento. Le primarie chieste da D'Alema? Rischiano di essere meccanismi che favoriscono il ceto politico. Se ad esempio vogliamo candidare il migliore ricercatore d'Italia, con le primarie mica passa".

Ecco, la questione di fondo che ha poco a che fare con carattere e umore del leader riluttante, come lo ha definito Gad Lerner. Pisapia ha chiesto agli altri in prospettiva di sciogliersi e cedere sovranità nell'ambito di un processo più ampio e gli altri gli hanno fatto capire che non se ne parla; Pisapia ha alzato un muro verso Sinistra Italiana e Speranza sta lavorando per una cabina di regia con dentro i vari pezzi della sinistra, compresa Sinistra Italiana; Pisapia vorrebbe applicare a tutti, a partire da sé il limite dei due mandati, gli altri pensano a una forma di primarie dal basso; Pisapia non ha detto una parola sul governo, mentre gli altri si preparano a un autunno caldo: "Per noi – dice Arturo Scotto all'HuffPost - è finita. E se qualcuno ha dubbi, la vicenda dello ius soli li dirada. Alfano non è d'accordo e si blocca lo ius soli. Mentre non ci fu analoga sensibilità verso i partner della maggioranza quando si reintrodussero i voucher in barba a chi aveva firmato per i referendum della Cgil. Gentiloni si cerchi altrove i voti".

E si capisce perché, su questi presupposti, la famosa cabina di regia che dovrebbe nascere in questi giorni per la costruzione del famoso "processo unitario a sinistra" è un complicato work in progress di cui si capirà qualcosa quando mercoledì si vedranno, a Roma, Roberto Speranza e Giuliano Pisapia. Perché, al fondo, non è solo questione di frasi, ma di compatibilità e visione politica. La verità è che, in cuor suo Pisapia, non ha rinunciato ancora al "modello Milano", una coalizione di centrosinistra, vera e con tanto di primarie. E razionalmente, oltre che col cuore, pensa che il discorso non sia chiuso. Infastidito da questo chiacchiericcio che lo dipinge come pronto a tornare con Renzi, simbolo di una sinistra potabile, rispetto alla sinistra comunista e baffuta, l'ex sindaco pensa però che tutto è ancora possibile. E che, dopo la elezioni siciliane, qualcosa nel Pd accadrà se, come annunciato, sarà una debacle per il centrosinistra. E che, ciò che oggi appare chiuso, si potrà riaprire. Ovvero una nuova trattativa di legge elettorale, su cui quella volpe di Berlusconi ha già dato segnali a quanti nel Pd sono interessati proponendo una disponibilità a un modello di coalizione.

Dopo piazza Santi Apostoli, dove sembrava iniziato un percorso irreversibile, Pisapia ha confidato a più di un amico il suo disappunto. Perché aveva chiesto una piazza senza bandiere di partito, e invece ha visto sventolare un mare di bandiere rosse, portate con orgoglio dai militanti di Articolo 1. Un atteggiamento piaciuto assai poco ai suoi compagni di viaggio, giudicato irrispettoso verso gente che ha viaggiato in pullman anche sei, sette ore, per applaudirlo come leader. E anche ostile, snobisticamente ostile, come spesso accaduto nel giro di Lotta Continua milanese, verso la "burocrazia comunista".

In parecchi si chiedono, dentro Articolo 1, in un clima che non ha l'orgoglio e l'entusiasmo di un nuovo inizio se sia adatto a guidare, se lo voglia fare fino in fondo, o se alla fine si disimpegnerà. In parecchi, tra i renziani, hanno visto le sue ultime uscite come uno smarcamento verso D'Alema, ma anche verso Bersani perché anche da quelle parti se uno dice "non mi candido" dopo aver chiuso una manifestazione è chiaro che sta prendendo le distanze: "Con Pisapia - dice Matteo Richetti - dialogo e confronto tutta la vita, con D'Alema e chi ci spara addosso tutti i giorni no".

E allora il punto è questo: si è capito che Pisapia farebbe il "nuovo Prodi", anche con la benedizione del vecchio Prof e con i preziosi consigli di Lerner. Ma finora, come nota Richetti, non si è mai posto come leader alternativo a Renzi, pronto a sfidarlo in tv, a fargli una campagna contro, perché un'alleanza col Pd continua a metterla in conto prima del voto, come ci sperano – a questo schema - Franceschini, Orlando, lo stesso Romano Prodi. Se poi invece lo schema fosse Leopolda contro bandiere rosse, "Renzi contro gli sconfitti da Renzi", sempre per dirla con i suoi consiglieri e ideologi, beh allora sull'irreversibilità del suo impegno in pochi sono disposti a scommettere un euro. In fondo potrà dire, dopo quella dichiarazione, che in campo non è mai sceso, non essendosi candidato.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/07/17/teste-mozzate-e-renzi-pisapia-agita-i-compagni_a_23033857/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 15, 2017, 05:57:35 pm »

POLITICA

I nomi della rosa. Immagini, sussurri e fantasie nella testa dell'establishment Pd

 14/09/2017 19:22 CEST | Aggiornato 14 ore fa

Alessandro De Angelis
Politics reporter, L'Huffington Post

"Non perdiamoci di vista", si sono detti due sere fa a FestaReggio, nel cuore rosso dell'Emilia, Graziano Delrio e Giuliano Pisapia, tra un abbraccio cordiale e una foto. Pochi minuti prima, nel corso del dibattito – molto civile, da "alleati" - l'ex sindaco di Milano, aveva detto: "Visto che mi dicono che in Sicilia il Pd abbia fatto un accordo con una parte del centrodestra, e mi dicono sia vero, scusate non potevate mettere la condizione che si impegnassero a votare lo ius soli?". Il giorno dopo, il ministro delle Infrastrutture, cattolico adulto, ala dialogante del renzismo, allontanato da palazzo Chigi ai tempi del potere del giglio magico, proprio il giorno dopo, ha messo a verbale la critica più severa, a capitolo chiuso: "Il dietrofront del Senato sullo ius soli è un atto di paura grave".

In questa lunga attesa, da qui al voto, il Re della politica italiana, il sistema proporzionale, dato ormai per immutabile, alimenta suggestioni, attorno ai "nomi" della possibile "rosa". La rosa di nomi, cioè, che sarà nelle mani del capo dello Stato quando sarà il momento di formare il governo: "È partita la corsa a tre – sussurrano i maligni, nel giro del segretario Pd – tra Delrio, Gentiloni e Minniti. È evidente. Ogni nome è legato a uno schema politico". Il sindaco, che dialoga con la sinistra, espressione della cultura cattolica, dell'attenzione ai corpi intermedi, evoca un po' l'Ulivo. Il premier, attendista e mediatore, benedetto da Cl, dall'establishment, forte del riposizionamento dell'Italia in Europa sui conti pubblici dopo la fase dell'euforia, come noto non dispiace a Silvio Berlusconi. Minniti, "Lord of Spies", così lo ha definito il Nyt in un articolo più che elogiativo per come ha affrontato il problema immigrazione, piace un po' a tutti, alla sinistra cresciuta nella cultura del realismo e del governo, alla destra, alla Meloni che lo invita alla festa di Atreju, e anche al Papa che ha ricordato che accogliere si deve, ma non tutti si può e che bisogna integrare e non solo far finta di accettare.

Tutti, o quasi. Proprio tra il ministro dell'Interno e quello delle Infrastrutture, in agosto, si è verificato un momento di autentica tensione politica, che ha reso necessario l'intervento di Sergio Mattarella, con tanto di comunicato stampa di apprezzamento all'operato di Minniti che aveva minacciato le dimissioni. È politica, si dirà, in un governo più collegiale in cui i ministri sono tali e non solo megafoni dello storytelling. Ma è anche posizionamento, segnali, in un gioco tattico. A fine mese Delrio sarà alla festa di Mdp a Napoli, in un dibattito con Pier Luigi Bersani. Presenza, assieme a quella di Dario Franceschini, ad alto impatto simbolico in un luogo pressoché vietato. Perché l'aria che tira è questa: nelle poco partecipate Feste dell'Unità, quest'anno, non solo non è mai stato invitato nessuno dei cosiddetti "scissionisti", ma anche le varie minoranze interne, da Orlando ad Emiliano, vengono affogate (vedi programma di Imola) in dibattiti a più voci.

Un gioco che però non supera mai il limite del consentito, per sfociare nel dissenso o nell'eresia. Gentiloni presenta il suo governo "in continuità" col precedente, anche se sul dossier europeo lo è poco; Minniti si pone quasi come tecnico della sicurezza, lontano da chiacchiere, retroscena e salotti, Delrio parla sì con tutti, ma sempre fugando possibili retropensieri di infedeltà: "Abbiamo un leader che ha 40 anni che è un leader vero – ha detto l'altra sera a Reggio – e capisce che il paese è sulle spalle del Pd. Se questo paese vede un po' di avanzamento è perché abbiamo fatto questa fatica. Nel nostro statuto c'è scritto che il segretario è il candidato alla presidenza del consiglio".

Ecco. Per quanto il renzismo abbia perso la sua spinta propulsiva e con essa le prime pagine dei giornali e la capacità di dare titoli, il "dopo" Renzi finché c'è Renzi rischia di essere esercizio di fantasia o di masochismo per chi lo pratica. Perché "i voti ce li ha lui, mica gli altri, e se arriva primo, con i voti veri, è chiaro che pretenderà l'incarico esplorativo". E, in definitiva, qualunque incarico passa per il suo consenso, senza il quale anche le rose più belle, semplicemente appassiscono.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/09/14/i-nomi-della-rosa-immagini-sussurri-e-fantasie-nella-testa-dellestablishment-pd_a_23209335/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 14, 2017, 12:41:59 pm »

POLITICA

Pd, il caro estinto
Ma è un festa o un addio? Il decennale dem segnato da polemiche, esclusioni e la certezza che un certo tempo è passato

13/10/2017 21:26 CEST | Aggiornato 1 ora fa

Alessandro De Angelis
Politics reporter, L'Huffington Post

Arturo Parisi, ideologo del Pd e inventore delle primarie, impaziente come sempre, non aspetta neanche che l'evento si celebri: "Dopo l'approvazione del Rosatellum, grave nel merito e nel metodo, il decennale del Pd invece di un giorno di festa s'è trasformato in un giorno di lutto". Al Teatro Eliseo non ci sarà. E non ci sarà Romano Prodi, come anticipato dall'HuffPost. E non solo per un incrocio di agende. Il federatore morale, che qualche tempo fa si propose nel ruolo di Vinavil per incollare i vari pezzi del centrosinistra, evidentemente non è gradito, perché è una fase di frantumi e non di colla. E a sua volta vede l'irreversibilità della rottura del campo di centrosinistra, dopo l'approvazione di una legge elettorale che spalanca le porte all'accordo per voto con Berlusconi.

Dieci anni dopo. Effettivamente basta rileggere l'elenco dei nomi del "comitato promotore" del Pd, e il decennale che sarà celebrato domani assomiglia a un omaggio al caro estinto, più che a una festa. Assenze che certificano come il Pd, per come è nato, non c'è più. Alla lettera B, del famoso comitato 14 ottobre, dei fondatori, c'è Antonio Bassolino, critico da tempo, a luglio in piazza Santi Apostoli con Pisapia, a settembre seduto in prima fila a Napoli alla Festa di Mdp. B come Bersani, che nei dieci anni di vita del Pd ha ricoperto la carica di segretario per quattro, dal 2009 al 2013. Un pezzo non irrilevante di questa storia.

Rosi Bindi, che nell'elenco è dopo Bersani, dice all'Huffpost: "Ma che le devo dire...Ho visto sui giornali che si faceva questo evento, ma non ho ricevuto alcun invito. Mica qualcuno mi ha scritto: ti farebbe piacere essere presente? Al netto di questo ritengo che politicamente è successo qualcosa, e non solo sulla legge elettorale che ha avuto il mio voto contrario. Credo che domani chi celebrerà non abbia tutti i requisiti per poterlo fare. È evidente che in questi anni si è verificata una vera mutazione genetica, rispetto all'ispirazione originaria". Rosi Bindi, alle primarie di quell'anno si candidò contro Walter Veltroni, raccogliendo circa 500mila voti. Visti oggi, sono i numeri della minoranza più votata del Pd. L'altro competitor era Enrico Letta, anch'esso nel comitato promotore e ora non più iscritto: "L'idea di unità dei riformismi – dice all'HuffPost – resta valida, purtroppo lontana dall'essere raggiunta. Ci vorrebbero dosi massicce di generosità e comunità".

Scorrendo l'elenco: Sergio Cofferati, Massimo D'Alema, Vasco Errani, Rosa Russo Jervolino che al referendum votò no, Linda Lanzillotta che il Pd lo lasciò per approdare all'Api di Rutelli, poi montiana, ora di nuovo nel Pd, Maurizio Migliavacca, con Bersani in Mdp, Francesco Rutelli, che lo lasciò quasi per primo. Quasi la metà dei fondatori ha abbandonato il progetto o ne vede il tradimento rispetto all'impostazione originaria. Nelle politiche, nella personalizzazione della leadership, da Pd a PdR (partito di Renzi). Insomma, non una innovazione nell'ambito di un "campo" del centrosinistra, erede delle principali culture del paese, quella cattolico democratica e quella della sinistra. Ma una fuoriuscita dal "campo".

Dieci anni dopo: il fondatori, vissuti nel tripudio rottamatorio come una zavorra, perché zavorra è il passato nella narrazione renziana, eternamente incatenata al presente; il presente, figlio di dieci anni di una fusione fredda, ultimo atto con poco amore di una nomenklatura che, invece di preparare il cambio di sé, rimase se stessa sciogliendo i due partiti di appartenenza. Torna invece Walter, che aprirà l'evento con un discorso "alto", slegato dalla quotidianità. Per l'occasione la scenografia è stata affidata a Roberto Malfatto, il "Panseca" di Veltroni, così lo ribattezzarono i cronisti ai tempi, quando per la scenografia allestita nel 2007 alla Fiera di Rho, utilizzò un profluvio di luci verdi e anche un prato di erba vera.

Il suo piddì, come si scriveva allora, era tante cose, come il famoso "ma anche", locuzione inclusiva, che partiva dalla sinistra per allargare, non dal centro per rompere, innovazione e non rottamazione. Però c'è un filo robusto tra allora e l'oggi, dice Salvatore Vassallo, politologo, che a Orvieto tenne una celebre relazione (l'altro era il compianto Pietro Scoppola) proprio sulla nascita del Pd: "Non è un caso che le assenze più significative al decennale sono quelle che, di fatto, hanno affossato Walter, poi usciti quando hanno perso il controllo della Ditta. Nel Lingotto c'era l'idea che il Pd dovesse essere qualcosa di nuovo, non la somma dei partiti precedenti. Quel modello voleva dire: conteranno di più le leadership. Renzi è una continuazione di questa ispirazione, al netto dello stile, che era comunque più inclusivo".

Ecco, in questa festa che festa non è, c'è anche un vecchio conflitto mai ricomposto, in un groviglio di mai sopiti rancori, nella famiglia che fu comunista, e rotture storiche, perché oggettivamente la nascita del Pd terremotò il governo Prodi, di per sé comunque assai fragile. Ma c'è, soprattutto, la ferita della nuova legge elettorale. Tra i nomi dei fondatori non compare quello di Giorgio Napolitano, perché al momento della nascita del Pd era già capo dello Stato. Ma, forse, in questo decennio è stato colui che più ha segnato la traiettoria del Pd, da ultimo col sostegno alla riforma costituzionale, perché in essa ravvisava un disegno comunque necessario per il paese, a prescindere dai protagonisti, la loro stile e dal loro linguaggio. Il suo "not in my name", messo agli atti quando è stata messa la fiducia sul Rosatellum, è la più severa certificazione del lutto (leggi qui il ragionamento di Napolitano). Per chi aveva visto il governo Gentiloni come il terreno su cui re-incollare i pezzi centrosinistra, la fiducia e il Rosatellum creano altri cocci: il premier, le possibili alleanze a sinistra. E il principale interlocutore per il governo diventa Silvio Berlusconi. Non proprio una festa democratica.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/10/13/pd-il-caro-estinto_a_23242879/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #8 inserito:: Novembre 18, 2017, 05:19:07 pm »

POLITICA

"Caro Piero, ecco la mia proposta per trovare l'accordo"
Intervista HuffPost a Gianni Cuperlo: "I miei consigli a Fassino, per l'amor di Dio parta dal merito e non dalla somma delle sigle"

 18/11/2017 11:53 CET | Aggiornato 1 ora fa

Alessandro De Angelis
Vicedirettore, L'Huffpost

Parliamoci chiaro, Cuperlo. Questa storia del dialogo sulle alleanze è già finito, e sta diventando un balletto incomprensibile per il paese.

Vedo il pericolo e per evitare che al danno della rottura si sommi la beffa dell'ironia c'è solo una strada, alzare l'asticella dell'ambizione. Dire che divisi si perde e si apre una strada alla destra o evocare il senso di responsabilità dei momenti gravi è sacrosanto ma non basta più. Sono cose che ho sostenuto anch'io ma capisco che appaiano inadeguate alle orecchie di chi ha vissuto questi anni come uno strappo profondo. La sinistra fuori dal Pd come taglio delle sue radici, il renzismo come volontà di colpire un leader legittimato dalle primarie.

Ecco, appunto. Qui c'è una frattura politica profonda. Irreversibile direi.

Se c'è una speranza di ricucire la tela è solo indicando un campo completamente nuovo e motivando lo scarto di contenuti come reazione al fatto che da soli né gli uni né gli altri sono in grado di affrontare il tempo davanti a noi. Non è facile, ma un altro percorso a mio avviso non c'è.

Bersani ha già detto che "uniti si perde", nel senso che c'è un pezzo del popolo della sinistra che non vuole Renzi, punto e basta.

Sì, è così. Come temo vi sia un pezzo del popolo del Pd che rifiuta l'alleanza con chi considera responsabile del logoramento di Renzi. Ma questa dinamica può solo innescare un processo distruttivo. Magari è vero che alcuni fino a ieri ti dicevano "state uniti" e adesso ti spiegano "con quelli mai". Però attenzione perché tra i compiti di una classe dirigente c'è il farsi carico di sentimenti come questi e non rinunciare comunque a orientare la parte che ti candidi a rappresentare. L'altra sera Mentana mi diceva una cosa in sé logica: chi ha scelto la scissione lo ha fatto per sconfiggere questo Pd ed è assurdo chiedere adesso a quegli stessi di allearsi con voi.

Concordo con Mentana. E dunque?

Non vivo su Marte e questo ragionamento lo capisco. Solo chiedo se di fronte a una scena del mondo che ribalta valori, poteri, classi e pare riscrivere gli equilibri delle democrazie in tutto l'Occidente la sinistra può contentarsi di risolvere i suoi problemi giocando una briscola in casa.

Ho capito, ma non crede che siamo fuori tempo massimo? Le faccio un esempio: Bersani e Speranza chiedono l'abrogazione del Jobs act. Il che per Renzi è irricevibile, perché non può andare in campagna elettorale dicendo quel che ho fatto è tutto sbagliato.

Infatti nessuno deve chiedergli di dire questo perché nella domanda sarebbe implicita la fine di ogni dialogo. Ma a sua volta Renzi non può intestarsi i quattro anni da leader come una successione di successi perché la storia non è andata così. Tanto nel giudizio popolare sulle riforme portate avanti che nel conteggio delle urne. La realtà è che ci sono stati risultati importanti e che è giusto rivendicare, ma ci sono state anche riforme che si sono rivelate fragili e talvolta dannose, e altre che semplicemente sono fallite a cominciare dalla riscrittura di un terzo della Costituzione.

Lei più volte ha chiesto una auto-critica, una analisi critica, chiamiamola come vogliamo, però Renzi si limita a rivendicare i successi e basta.

Insisto: l'emorragia di voti che abbiamo conosciuto dopo l'exploit alle europee nel 2014 non fa altro che certificare questa miscela di traguardi tagliati e capitomboli a volte rovinosi come nel referendum di un anno fa. Vedere solo i traguardi non è prova di ottimismo ma una forma di recidiva. Esaltare solo le cadute non conduce alla rossa primavera ma può consegnare le chiavi della nazione alla destra. È troppo chiedere a ciascuno di cogliere la quota di vero che sta nelle ragioni dell'altro?

D'accordo, ma sul Jobs act non ha risposto: si deve abrogare o no?

Potrei dirle che quella legge non la votai perché in dissenso con la sua ispirazione di fondo, l'idea che per creare nuovo lavoro la via fosse togliere qualche vecchio diritto. Ma sarebbe una risposta parziale e forse a oggi inutile. Invece voglio misurarmi col merito.

Entriamo nel merito, allora.

Grazie agli incentivi offerti alle imprese tra 2015 e 2017 si sono prodotte 757mila nuove assunzioni a tempo determinato. Parte di queste purtroppo sono già cessate. Il Jobs act conteneva un messaggio sperimentato altrove negli anni novanta e duemila: facilitare i licenziamenti, da qui la scelta sull'articolo 18, in cambio di una agevolazione nella ricerca di nuovi impieghi. Tutto nel segno della flessibilità del mercato del lavoro.

Quindi?

Era una strategia che puntava a aggredire il ritardo incancrenito delle nostre politiche attive, centri per l'impiego, formazione permanente, politiche di riconversione di profili e qualifiche. Da qui la scelta di dar vita a una nuova agenzia nazionale, l'Anpal, che avrebbe dovuto semplificare e unificare questo comparto. Era una sfida necessaria se è vero che per i centri per l'impiego spendiamo tra 500 e 600 milioni all'anno contro i 5 miliardi della Germania. Purtroppo nella manovra di bilancio per l'anno prossimo quelle risorse non si aumentano ma si decurtano di altri 30 milioni, che sarebbe come dire di voler andare a Firenze e pigliare il treno per Napoli.

Aspetti, mi faccia riassumere il suo ragionamento. Lei dice: il jobs act non è un totem ideologico da abbattere o difendere tout court, ma un provvedimento che ha funzionato solo a metà, la parte meno diritti, mentre tutto il sociale non è stato finanziato.

Per l'appunto. Aggiungo che in quei centri per l'impiego di cui parlavo lavoravano più o meno settemila operatori che risultavano in capo alle Province. In Francia sono dieci volte di più e in Germania un numero ancora maggiore perché gestiscono anche le indennità di disoccupazione. Tradotto, in Germania hanno un operatore ogni 49 disoccupati e in Francia uno ogni 70. Noi uno ogni 350 e fa differenza. Il punto è che l'annunciata riforma dell'intero settore si è scontrata con i vecchi squilibri tra Nord e Sud, con l'abrogazione delle province, il che ha ulteriormente diminuito il numero degli operatori e con la bocciatura della riforma costituzionale che prevedeva una riassegnazione allo Stato di quelle competenze fino ad allora decentrate.

Proviamo a tradurre, in proposta politica questa analisi molto dettagliata?

Tradotto, la stessa strategia imposta dal governo si è arenata dinanzi a una serie di ostacoli frutto in diversi casi di errori compiuti dal legislatore stesso. Detto ciò io aggiungo, bene la Naspi anche se estesa a due anni solo per chi abbia avuto quattro anni continuativi di impiego. Bene che decine di migliaia di persone, tra cui molti giovani, abbiano avuto modo di accendere un mutuo. Bene che il numero assoluto di occupati sia risalito ai 23 milioni circa del 2008, anno di avvio della crisi. Magari sarebbe saggio riflettere a fondo sul calo della media di ore lavorate per addetto, frutto non di un aumento della produttività ma della precarietà. Insomma, si metta in fila tutto questo e di quella riforma si faccia un tagliando serio, scrivendo sulla "pagina bianca" indicata da Renzi la svolta che serve quando ragioniamo di politiche per l'occupazione.

Insomma, se fosse Fassino imposterebbe così la questione sui contenuti. E secondo lei questo basterebbe a sanare la ferita su articolo 18 e non solo, e a favorire il dialogo?

A Fassino direi "Piero, per l'amor di Dio parti dal merito e non dalla somma delle sigle perché la seconda via è a fondo cieco". Secondo me impostare il confronto su queste basi ci farebbe uscire dagli slogan e dalle abiure reciproche. Ci consentirebbe di stabilire una gerarchia sana delle priorità. Dice una indagine della McKinsey che l'impatto della robotica potrebbe distruggere 54 milioni di posti di lavoro in Europa e 9 solo in Italia. Di fronte a questo dato è evidente che non basta il confronto sugli 80 euro e neppure solo su quell'articolo 18 che io avrei lasciato dov'era non tanto per gli effetti numerici ma per un valore simbolico che pure conta. Su cento nuove assunzioni, ben prima del Jobs act, solo venti fruivano di quella norma. E allora siccome una cosa sappiamo, che non torneremo più all'economia di prima della grande crisi, quella stessa "pagina bianca" dovrebbe contenere un sistema di tutele per questo nuovo mercato del lavoro. Dirò di più, un'altra cosa che probabilmente lascerà freddo Renzi ma che ritengo necessaria.

Non sarebbe l'unica su cui la pensate diversamente. Quale sarebbe?

Si dovrebbe aprire una riflessione su come garantire accesso alla cittadinanza per un numero crescente di persone che lavoreranno meno ore e con periodi di inattività. Il che vuol dire che anche un dibattito serio sull'ipotesi di reddito di base dovrebbe trovare spazio, al pari di un rilancio degli investimenti pubblici calati nella crisi di oltre il 30 per cento. E tutto ciò senza entrare nel merito di Industria 4.0, il piano del ministro Calenda o su come recuperare un gap oramai ventennale di produttività. Ma insomma questo volevo dire con la necessità di superare le divisioni alzando l'asticella delle ambizioni. Un nuovo pensiero ecco, piaccia o meno, di là bisogna passare.

Complicato che lo possa accettare Renzi.

Sì, forse sarà complicato ma non impossibile perché sarebbe nel suo interesse mettersi alla guida di un processo di innovazione radicale e coraggioso. Se pensa di aggredire la campagna elettorale più difficile degli ultimi anni con le sole armi dell'orgoglio per i mille giorni a Palazzo Chigi e dei bonus a diverse categorie sottovaluta la portata della sfida. Invece se la decisione fosse di ricomporre il campo del centrosinistra gli verrebbe riconosciuta quella dote di leadership generosa che in tanti oggi negano e non senza ragioni. Ma lo stesso vale per i capi del movimento che sta formandosi alla sinistra del Pd. La verità è che dopo una crisi come quella che abbiamo vissuto vince chi innova e lo fa da sinistra.

Insomma, Cuperlo non si rassegna a una alleanza solo con Pisapia e qualche centrista.

Non mi rassegno a concepire le alleanze come una somma di sigle, un puzzle di tessere ma senza che alla fine da quegli incastri si colga un disegno, una immagine del paese e del suo avvenire nei prossimi cinque o dieci anni. Per fare questo c'è bisogno di tutti a partire da Giuliano. Ma servono anche intelligenza, passione e un solido ancoraggio morale di questa parte del paese. Perché la destra avanza. Qui e nel resto d'Europa, ed è una brutta destra che può far male ai valori di una sinistra a quel punto sconfitta e per una fase incapace di reagire. Io mi batterò come l'ultimo dei giapponesi ma a quell'esito non voglio arrendermi.

A proposito: Alfano, lo accetterebbe come alleato?

Alfano è stato un ministro nei governi di questa legislatura e abbiamo sempre detto che si trattava di una alleanza frutto della necessità. È un uomo che rispetto ma viene da una cultura che orgogliosamente rivendica la sua radice nel centrodestra. Credo esista anche una coerenza che è un bene rispettare.

Le dico quel che penso. Da questa discussione a sinistra manca il punto di fondo. Questa legislatura è un fallimento di tutti. Tre governi, un congresso permanente del Pd, una scissione, un impianto di riforme spazzato via dai cittadini. E il centrodestra che vince ovunque con Berlusconi, che qualche anno fa stava a Cesano Boscone e che ora torna al governo. E invece di parlare di questo si consumano mozioni degli affetti dei padri nobili e gli stanchi rituali di Fassino?

In parte lei ha ragione, ma spero che questa lunga chiacchierata possa farla ricredere sulla deriva di una frattura che nella sinistra non porterebbe uno dei contendenti a prevalere sull'altro. Più banalmente perderemmo tutti e a quel punto anche la volontà di ricostruire una sinistra dal basso, di rifondarne le categorie e il pensiero, si rivelerebbe opera di difficoltà titanica.

E non parlate di ciò che è diventato il Pd, della mutazione genetica di questi anni, in cui in nome del governo e del potere si è imbarcato ceto politico del sud che veniva da destra. Un processo trasformistico che questa legge elettorale porta al parossismo.

Ma anche queste tendenze o patologie si combattono nel segno di una identità solida, riconoscibile, e di una rifondazione morale in alcune realtà. Non mi fodero gli occhi, vedo tanti limiti che testimoniano di una caduta degli anticorpi e penso che senza un'etica della responsabilità la politica si riduce a esercizio del potere. Però non è detto che debba per forza finire così.

Se io le chiedessi: comunque vada, io resto nel Pd. Sottoscrive la frase?

Io sono rimasto nel Pd dicendo dei Sì e dei No. Alcuni mi sono costati ma finora ho sempre creduto che fosse possibile battermi da dentro per ancorare questo progetto alla sua natura e missione. Che non è inseguire il potere per il potere ma essere il perno di una coalizione più larga, civica, inclusiva. Finché questa prospettiva rimarrà aperta io farò la mia battaglia. Con lealtà ma senza abiurare alla mia storia che, come per tanti, è un pezzetto della storia della sinistra.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/11/18/caro-piero-ecco-la-mia-proposta-per-trovare-laccordo_a_23281491/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 20, 2017, 05:40:49 pm »

Cronaca di una direzione annunciata: divisi e immobili
Il discorso di Renzi non sposta nulla. E a sinistra si cristallizzano le divisioni verso una sconfitta annunciata

13/11/2017 21:46 CET | Aggiornato 14 ore fa

Alessandro De Angelis Vicedirettore, L'Huffpost

A metà pomeriggio, quando Renzi ha appena finito il suo discorso da pochi minuti, si consumano gli attimi finali di un prevedibile film. Pier Luigi Bersani risponde che "le chiacchiere stanno a zero" perché "c'è un pezzo di elettorato che del centrosinistra a traino Pd e del Pd a traino renziano non ne vuol sapere". Un paio d'ore dopo, la direzione approva un documento vago, per nulla vincolante su alleanze, interlocutori, programmi, calendario di incontri, senza nessun voto contrario. Lo approva, sia pur con qualche distinguo tra le minoranze con Orlando che si astiene e Michele Emiliano che invece vota a favore.

Come un vetro rotto, impossibile da rincollare, per responsabilità che a questo punto saranno giudicate dalla storia, dopo un voto, quello del prossimo anno, in cui ormai è evidente che sinistra andrà divisa, come in una grande Sicilia. Questa è la fotografia della sinistra, nel suo insieme, consegnata dall'attesa direzione di oggi. Perché il discorso di Renzi non sposta rispetto alla situazione di partenza e all'infinito ping pong di appelli, contro-appelli di queste settimane, non solo del segretario del Pd, rivolti con lo spirito di vuole addossare agli altri la responsabilità della rottura. Con una novità, per nulla irrilevante. E cioè che dopo un voto formale del partito su parole e documenti – su una linea, si sarebbe detto una volta - la spaccatura diventa irreversibile.

Dalla vocazione maggioritaria alla vocazione al suicidio, ultimo atto di una vicenda cristallizzata da tutte le parti in questa sorta di infinito quattro dicembre lungo un anno e anche più. Il Pd è Renzi, che lo riconquistato in modo plebiscitario al congresso superando il referendum, e lo ha ripreso col voto della direzione di oggi dopo la disfatta siciliana. Eternamente uguale a se stesso, intollerante alle "abiure" (leggi qui discorso di oggi) ma anche alle critiche, oggi di fatto ha incassato una sorta di rielezione, dopo che per mesi gli oppositori interni avevano atteso questo 5 novembre come l'Apocalisse. Fuori una sinistra, che ha trovato in Pietro Grasso il leader per un nuovo inizio, ma psicologicamente e politicamente ancora incapace di elaborare il lutto dell'uscita dal Pd, la grande casa che parecchi dei suoi leader hanno contribuito a fondare. Sinistra che gravita ancora in un universo Renzi-centrico, sia pur in forma di contrapposizione, con scarsa autocritica su questi anni di responsabilità comunque comuni. Richieste di discontinuità, abolizione di superticket, patrimoniali dietro le quali si cela la richiesta vera: il passo indietro del leader del leader del Pd, nel tentativo di ricomporre un centrosinistra nuovo, orizzonte nel quale tutti si sono formati. Perché in verità solo con un passo indietro si riaprirebbe davvero un dialogo. Frase che però nessuno pronuncia, come nessuno invoca, in mezzo a tante richieste, quelle primarie di coalizione che pure, in altri tempi, furono utilizzate proprio da Bersani con Renzi per accelerare il processo di rinnovamento rispetto alla vecchia guardia.

Diceva Antonio Gramsci che l'egemonia è la capacità di comprendere quel nucleo di verità presente delle teorie dell'avversario. Ed questa incapacità, nel suo insieme, di comprensione e "iniziativa", la prima ragione di quella che a sinistra, su questi presupposti, appare una sconfitta annunciata. Parecchi dirigenti, all'uscita della direzione del Pd, facevano questo ragionamento: "Ci sono sconfitte dopo le quali riparti, come ad esempio nel 2001 e sconfitte che ti distruggono. Ci avviamo verso questa seconda strada". Perché a questo punto il processo politico in atto conta più delle parole. Da un lato una coalizione bonsai: il Pd che cerca di costruire una gamba di centro (leggi qui) per contendere qualche voto moderato a Berlusconi, e una gamba a sinistra con Pisapia, eterno Godot atteso prima a sinistra, ora da Renzi. Dall'altro la sinistra, i cui confini sono ancora in definizione, dopo mesi estenuanti di dibattito. C'è Mpd, Fratoianni, Civati, la Boldrini, più la complessa posizione della cosiddetta sinistra del Brancaccio di Montanari e Falcone, che ha annullato la sua assemblea di sabato perché in difficoltà a reggere l'operazione Grasso e, diciamo le cose come stanno, la fusione con chi è stato in questi anni nel Pd votando i principali provvedimenti dei famosi "mille giorni". Un altro segnale che, in questa parte del campo, nessuno è baricentrico rispetto agli altri, capace di una iniziativa nuova, che muti lo schema di un immobilismo identitario e distruttivo, in cui il vicino diventa il principale avversario. Come nella guerra civile di Carlo Marx, che si concluse con la comune rovina delle parti in causa.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/11/13/cronaca-di-una-direzione-annunciata-divisi-e-immobili_a_23275915/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 14, 2018, 11:19:07 am »


Uno spettro turba i pensieri di Silvio Berlusconi: l'incarico esplorativo a Luigi Di Maio
Ragionamenti sul post-voto.
La best option larghe intese complicata dal crollo del Pd e dal boom dei 5 Stelle.
Anche le agenzie di rating chiedono dell'asse M5S-Lega

 12/01/2018 20:02 CET | Aggiornato 14 ore fa

Alessandro De Angelis Vicedirettore, L'Huffpost
C'è uno spettro che ha iniziato a turbare i pensieri berlusconiani: è lo spettro di un incarico "esplorativo" a Luigi Di Maio, in quanto leader del partito più votato. E poi, si sa, non tutto nella politica è prevedibile, nel senso che è spesso accaduto che i fallimenti annunciati diventino successi inattesi.

Lo spettro poggia sugli ultimi dati analizzati ad Arcore, che hanno mutato, e non poco, il clima di ottimismo di questo strampalato inizio di campagna elettorale. Perché, racconta chi ha raccolto qualche confidenza del Cavaliere, "non c'è niente da fare, siamo bloccati a quota 270". Nel senso di 270 parlamentari che eleggerebbe la coalizione di centrodestra. La sensazione, e questo spiega molto della campagna elettorale da separati in casa, è che si sia raggiunto il "pieno" come coalizione e che le oscillazioni sono tutte interne: quel che guadagna Forza Italia lo perde la Lega, o quel che guadagna la Lega lo perde Forza Italia che fa assai fatica a superare il 16 per cento, anche con una presenza mediatica di Berlusconi, segno che il marchio non è più quello di una volta.

Percentuali comunque ragguardevoli, impensabili fino a qualche settimana fa, che fanno dire, a mo' di battuta, che per la prima volta "ci sono più posti che persone". Eppure, il confine tra l'euforia per la risurrezione e il peggiore degli incubi è assai labile. E non tanto perché si allontana la prospettiva del governo con Salvini, anzi questo è un sollievo. Quanto perché si allontanano le larghe intese. In un modo in cui tutti parlano con tutti, alle orecchie del Cavaliere è arrivata una voce particolarmente inquietante. E cioè che parecchie agenzie di rating e fondi di investimento stranieri hanno chiesto alle più affidabili società di sondaggi quanto è concreta l'ipotesi di un governo Cinque Stelle-Lega.

Ecco il punto. Gianni Letta, nelle scorse settimane, ha rassicurato più di un ambasciatore dell'attuale premier sul fatto che la best option di Berlusconi restano le larghe intese. Non è un caso che sulla Fornero si sia smarcato platealmente da Salvini e che ha mandato qualche segnale dal salotto di Vespa sull'intesa col Pd "purché accetti il nostro programma". L'opzione però presuppone una tenuta del Pd che, secondo le antenne berlusconiane, non sembra esserci. L'altro giorno Paolo Romani, altro grande fautore del Nazareno, confidava a un suo collega del Pd: "Sono preoccupato dal boom dei Cinque stelle al Sud". In parecchie Regioni pare che siano a quota trenta, rendendo incerto il grosso dei collegi del Pd che, al momento, se dovesse prendere il 25 per cento raccoglierebbe non più di 160 parlamentari tra proporzionale e maggioritario. Numeri che rendono assai stretta la base parlamentare delle larghe intese. Sommando Pd e Forza Italia, anche in questo caso, si raggiunge più o meno "quota 270".

Poggia su questa quota la preoccupazione che, più volte, il Cavaliere ha condiviso con Gianni Letta e con l'avvocato Ghedini. Perché danno per scontato che, se così fosse, il primo incarico "esplorativo", il capo dello Stato non può non darlo a Di Maio, leader del primo partito. Fallito il primo giro si consumerebbe il tentativo col centrodestra, per poi arrivare a Gentiloni. Ma il primo passaggio è pieno di insidie. Perché, "chi lo ha detto che fallisce non è in grado di mettere su un rassemblement capace di calamitare consensi in Parlamento"? È presto per stabilirne i confini, in questa fase di riflessioni e scenari, ma non ci sono le preoccupazioni di agenzie di rating e fondi. Anche il Cavaliere è convinto che il grosso della Lega possa quantomeno "andare e a vedere", ma soprattutto teme che la leadership di Renzi possa essere travolta dalla sconfitta, spingendo la nuova gestione sulla prospettiva di un accordo con i pentastellati. Pare che gli siano arrivate voci di ragionamenti dalemiani che avrebbero come punto di caduta un accordo tra "Cinque stelle, Liberi e Uguali, e un Pd de-renzizzato". E allo spettro, che si aggira per Arcore, sono spuntati anche i baffi.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2018/01/12/uno-spettro-turba-i-pensieri-di-silvio-berlusconi-lincarico-esplorativo-a-luigi-di-maio_a_23332118/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 05, 2018, 05:15:38 pm »

POLITICA
04/04/2018 21:30 CEST | Aggiornato 1 ora fa

L'incoscienza dei leader
Salvini e Di Maio come due giocatori di poker che fanno una mano al buio: al Colle senza programmi e numeri, con la paura del pre-incarico.

By Alessandro De Angelis

Come due giocatori di poker, al primo giro di consultazioni, i due ambiziosi runner della Terza Repubblica si apprestano a giocare una mano al buio. Senza carte da scoprire, dopo un mese in cui la loro campagna elettorale non si è arrestata. Ecco che Matteo Salvini, ragionando su come affrontare il colloquio col capo dello Stato, ha deciso, molto banalmente, di prendere tempo: senza appiccarsi alla richiesta di un incarico per sé, ma chiedendo di "partire dal centrodestra" e "poi vediamo".

E Luigi Di Maio, neanche fosse ancora in tv davanti a Giovanni Floris, riproporrà il mantra del "contratto" che di tedesco ha poco o nulla, ma assomiglia molto ad un'italica ammuina. È stato tutto il giorno con i suoi il leader pentastellato, a toccare con mano che, come si dice in gergo, si "è incartato". Perché dalla Lega non arrivano segnali di smarcamento da Berlusconi e dal Pd la proposta è stata rispedita al mittente. Prevedibile per una proposta presentata come una specie di contratto di locazione buono per qualunque inquilino, di destra o di sinistra, purché paghi l'affitto, più che come un patto politico, fondato su programmi, valori, riconoscimento degli interlocutori, scelta tra destra e sinistra. Ed è rivelatrice di questa difficoltà la scelta di non parlare col capo dello Stato di programmi, proprio perché al momento non c'è alcuna interlocuzione. All'inizio l'idea era di illustrare a Mattarella tre punti per il "contratto" – anticorruzione, reddito di cittadinanza, conflitto di interessi – poi però ha cambiato idea perché anche su quei tre punti, dopo un mese buttato, non avrebbe trovato convergenze.

La verità è che la salita al Colle è un bagno di realtà per i due ambiziosi leader, arrivati primi ma senza avere i numeri per governare. E dopo un mese in cui questa banalità è stata rimossa nelle fanfare dell'autocelebrazione del proprio successo. Perché al Quirinale, che non è un salotto tv addomesticato, dovranno spiegare, essenzialmente, tre cose: primo, il perimetro delle alleanze per garantire una maggioranza stabile e non risicata; secondo, programmi che abbiano una coerenza con le emergenze nazionali e le esigenze internazionali del paese; terzo, il profilo di chi sarà indicato a guidare il governo. Ed il rischio che la sbornia post elettorale produca un balbettio al cospetto del capo dello Stato e della sua antica sapienza costituzionale è assai concreto, perché puntigli e veti rendono complicate le risposte. Al punto che Salvini, di fronte all'imminente bagno di realtà, con i suoi non ha nascosto la difficoltà: "Ma davvero dopo il colloquio dobbiamo parlare? E che diciamo?".

È accaduto che il "fattore B" ha rotto l'idillio, perché Salvini non può e non vuole rompere con Berlusconi. Il parricidio vero è prosciugare Forza Italia tra un anno e non fare subito la stampella di Di Maio che ha il doppio dei suoi voti, prospettiva che più che a un parricidio assomiglia a un suicidio. E a un terremoto perché non lo seguirebbe neanche la parte di Forza Italia a lui più vicina: "Se sceglie la scorciatoia di andare al governo con Di Maio – gli ha fatto sapere Giovanni Toti – io non lo seguo".

Di Maio sta mostrando una smisurata ambizione, cercando stampelle per la sua ascesa al potere, senza neanche chiederle, in nome di un progetto. E questo ha interrotto la trattativa. E non è un caso che l'incontro tra i due runner, annunciato con le fanfare qualche giorno fa, al momento non è calendarizzato né sull'agenda dell'uno né sull'agenda dell'altro. E secondo fonti degne di questo nome "c'è già stato ma è andato male". Detta in modo un po' tranchant: il punto vero su cui si è arenato tutto è certo Berlusconi, ma soprattutto l'assenza di contropartite affinché Salvini possa reggere l'urto della rottura con Berlusconi. Detta ancora più tranchant: se Di Maio non rinuncia alla pretesa di andare lui a palazzo Chigi e propone un altro nome, è assai complicato che una qualunque forma di trattativa possa proseguire.

E se c'è un altro strumento di misurazione di questa paralisi è quella sorta di governo parallelo in attesa che possa nascere un governo degno di questo nome se mai accadrà. Quella commissione speciale che nel frattempo può fare qualcosa. E chissà se è un caso che Giorgia Meloni, una cresciuta a pane e politica (e massicce dosi di realismo), ha annunciato uscendo dal Colle che proprio in quella sede ha presentato una modifica della legge elettorale, per iniziare a discuterla. Non è malizioso leggere in questa mossa la consapevolezza della difficoltà e una possibile exit strategy a cui Di Maio e Salvini, nelle loro evocazioni di voto anticipato, non hanno ancora pensato, proponendo un ritorno alle urne col pasticcio attuale. Proprio la Meloni, nella conferenza stampa alla Vetrata, ha chiesto l'incarico a Salvini o a una figura del centrodestra. Perché la politica ha le sue regole e le sue responsabilità da assumersi se ci si sente vincitori. Deve essere venuto un brivido lungo la schiena al leader leghista che, invece, questa eventualità la teme, perché ci intravede il rischio di bruciarsi come accadde per Bersani. E la teme Di Maio perché, non avendo i numeri, andrebbe in contro a un fallimento che rompe la sua narrazione vincente. Il problema non si pone, perché il capo dello Stato non darà incarichi o "pre-incarichi", al buio. Perché diversamente dagli altri non considera le consultazioni una mano di poker.

Alessandro De Angelis Vicedirettore, L'Huffpost

Da - https://www.huffingtonpost.it/2018/04/04/lincoscienza-dei-leader_a_23403111/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #12 inserito:: Maggio 03, 2018, 09:04:01 pm »


Direzione Pd: l'ex segretario sicuro di avere la maggioranza.

Se Martina chiede la fiducia fino al congresso, sarà rottura

By Alessandro De Angelis

L'hanno ribattezzata "linea Fazio", nella war room renziana. Dove la Direzione è preparata come una battaglia campale per il controllo del Pd: "Vogliono il confronto con i Cinque Stelle? – è il ragionamento che trapela dai piani alti del Nazareno – Bene, ma in streaming. Il punto fermo è mai Di Maio a Palazzo Chigi. E no a Salvini. Noi siamo per un Governo delle regole".

Parole accompagnate dai numeri squadernati sul tavolo, dopo un ultimo giro di telefonate notturne e mattutine. Ci sono 119 parlamentari su 160 che hanno detto "mai a un governo con Di Maio". E c'è il pallottoliere della Direzione. L'ultimo aggiornamento dice che 120 sono blindati: "Ma se vogliono la conta, presentiamo il nostro documento e finisce 130 a 70".

Numeri. Calcoli. Strategie e spifferi, nell'ora della grande conta nel Pd. Pare che ogni punto di mediazione, al momento, sia saltato. Da un lato c'è l'ex segretario, in questo suo ritorno in campo per non perdere il controllo del partito, dall'altro tutti i big storici del Partito Democratico. A poche ore dall'inizio della Direzione la loro richiesta, a quel che si capisce, è di accordare la fiducia a Martina fino al congresso. Se così fosse, si andrebbe incontro a una clamorosa rottura. Col presidente del partito, Matteo Orfini, pronto ad alzarsi e a leggere lo statuto secondo cui il reggente può riceverla fino all'assemblea, ma non fino al congresso. Perché solo un nuovo segretario, non un reggente, può condurre il partito al congresso. E a quel punto ci si conta, per poi contarsi nuovamente in assemblea. Se invece Martina chiederà "fiducia" solo fino all'assemblea, allora via libera anche dagli uomini dell'ex segretario, che eviterebbero volentieri la conta perché comunque attesta che i numeri di Renzi in Direzione non sono più quelli di una volta.

Voi capite che quando un partito arriva a lacerarsi su queste questioni, siamo a un passo dalle sedie che volano, come accadeva in indimenticabili direzioni dei partiti della prima Repubblica. Normalmente accadeva prima delle scissioni. Parlando un po' di politica, tutto questo cosa significa, oltre la fotografia di un partito che ha perso il contatto con la realtà? Significa che, tra l'intervista a Fazio e il documento sottoscritto dalla maggioranza di parlamentari, Renzi ha fatto saltare la linea dell'accordo con i Cinque stelle. In tre giorni, ha picconato un accordo che equivaleva a un renzicidio sul terreno del governo, e ha messo nero su bianco i numeri i numeri della sua maggioranza tra i gruppi parlamentari e in direzione, di ciò che resta del Pd.

Si può condividere o no, può piacere o no. Può essere vista come una "linea" o come una "cieca vendetta", ma il comunicato in cui il Quirinale convoca le consultazioni senza neanche attendere la direzione del Pd (perché non c'è nulla da attendere) certifica un suo successo tattico: Di Maio Palazzo Chigi non lo vedrà mai, neanche col binocolo. Prospettiva che invece domenica mattina era ancora in vista finché il dialogo con i Cinque Stelle era nelle mani di Martina. In fondo era prevedibile perché il Pd è diventato (e non da oggi) il Pdr, nel senso di partito di Renzi.

Né andrà a Palazzo Chigi Salvini, perché non ha i numeri per chiedere un incarico. All'ordine del giorno c'è il governo del Presidente, che nasce come governo di tutti e magari si realizza come governo di chi ci sta. Non è un terreno distante dal governo delle regole proposto dall'ex segretario. Dipende dal nome che sceglierà Mattarella, dal profilo dei ministri, dalla mission complessiva, ma è un terreno su cui il Pd può scendere dall'Aventino e giocare a fare politica. E a meno di clamorose novità sui numeri il dominus della nuova fase è lo stesso della precedente e di quella prima ancora. Accade così nei partiti, come viene spiegato nei manuali. Il ricambio è possibile finché i partiti non mutano geneticamente. Poi diventa impossibile, perché i critici diventano ospiti in casa altrui.

Da - https://www.huffingtonpost.it/2018/05/03/renzi-al-nazareno-con-la-carica-dei-120_a_23426127/?utm_hp_ref=it-homepage
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