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Autore Discussione: ... nato da una conversazione con Biagio Marin nella sua casa di Grado ...  (Letto 4777 volte)
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« inserito:: Ottobre 25, 2007, 03:28:30 pm »

Intervista con lo scrittore triestino sul suo libro “Un altro mare” giunto alla sua ennesima ristampa e tradotto in quattordici lingue che è nato da una conversazione con Biagio Marin nella sua casa di Grado davanti a una finestra affacciata “su qualcosa di eterno”


Magris alla ricerca della vita vera

La storia di Enrico Mreule per ricordare Carlo Michelstaedter «Enrico, il protagonista di Un altro mare, è veramente esistito, anche se di lui si sa poco. La prima volta che ne ho sentito parlare, è stato tanti anni fa. Ero a Grado, a casa di Biagio Marin; eravamo nella sua stanza, davanti a una finestra affacciata sul mare che sembrava affacciata su qualcosa di eterno, e Biagio Marin mi parlò brevemente di questo Enrico Mreule, che era stato amico di Carlo Michelstaedter, il grande filosofo e poeta goriziano, morto suicida a ventitrè anni nel 1910 subito dopo aver finito uno dei grandi libri del secolo, La persuasione e la rettorica». Su questa vibrante intonazione Claudio Magris parla di Un altro mare (Garzanti, 103 pagine, 13,00 euro), il romanzo tornato in libreria, in cui attraverso il personaggio di Enrico Mreule, rievoca la straordinaria figura di Carlo Michelstaedter. Il libro, più volte ristampato e tradotto in quattordici lingue, mantiene anche a distanza di anni il suo grande fascino.
« Mi raccontava di Enrico – ricorda – il greco antico come noi parliamo il nostro dialetto, che girava sempre scalzo, che voleva liberarsi di tutto, e che un bel giorno era partito per la Patagonia dove era vissuto per anni solo con le sue mandrie nelle grandi pianure e tutt’al più con la breve compagnia di una donna incontrata in qualche carovana di passaggio. Mentre Biagio Marin mi parlava, sentivo che quello era un destino di cui avrei voluto scoprire il significato e raccontare la storia».

Perchè ?
«Mi sembrava di capire che Enrico doveva essere stato uno di quei fuggiaschi che spariscono non per evitare il grigiore prosaico della vita quotidiana, o per condurre una vita più intensa, ma al contrario per cancellarsi, per ridursi, per esistere di meno. Le violente e rapide trasformazioni della nostra civiltà nell’ultimo secolo sembrano aver colpito troppo intensamente alcune personalità particolarmente sensibili che, per non essere sopraffatte da quell’incalzare e da quel frastuono hanno cercato di ottundersi, di rendersi insensibili».
Che tipo di persone sono quelle che si sentono aggredite dalla vita come Enrico Mreule?
«Sono persone che vivono ogni organizzazione sociale come una tirannide e cercano di cancellare le proprie tracce e le tracce del proprio volto. È facile pensare, per esempio, a Ettore Maiorana. Qualsiasi possa essere stato l’esito finale della sua fuga, egli non è certo fuggito per scansare la routine accademica e per vivere un’esistenza più intensa e colorita, ma ha cercato il silenzio, l’oblio, l’assenza. Sono figure che si costruiscono per sottrazione, per riduzione».

Come ha coordinato le sue ricerche su Enrico?
«Sono partito dal cimitero di Salvore, il luogo sulla punta dell’Istria, ora in Croazia, dove Enrico aveva vissuto da giovane, e ho trovato la pietra tombale che reca la data esatta della morte sua e di quella di Lini, la compagna che ha condiviso la sua esistenza, o non-esistenza, per trent’anni. Nella sua casa che non aveva mai avuto né acqua, né luce, né alcun altro comfort, una sera d’ottobre, con uno studente, discendente della famiglia di Lini, abbiamo aperto un vecchio baule chiuso da decenni che aveva attraversato due volte l’oceano: un vecchio baule che assomigliava a quello del capitano Billy Bones de L’isola del tesoro. Da quel baule sono usciti fuori una zithara, due o tre metri di lazo, alcuni classici greci ammuffiti e scarabocchiati, una sella, pezzi di carta scribacchiati qua e là, un coltello rotto e altre piccole cose insignificanti; importanti, però, per capire chi era stato Enrico».

Il suicidio di Michelstaedter rappresenta anche il fallimento esistenziale di Enrico?
«Il suicidio di Michelstaedter è un problema fondamentale e difficile da capire, senza averlo accompagnato fino al passo estremo. Si può dire che i due amici si giocano uno scherzo terribile. Da una parte Carlo mostra a Enrico un assoluto, senza il quale Enrico non potrà vivere, ma che Enrico non riuscirà a raggiungere. In un certo modo, Carlo arricchisce ma anche distrugge la vita di Enrico. Forse il suicidio di Carlo lo lascia solo, gli toglie il sole della sua esistenza. Dall’altra parte, Carlo forse aveva capito che la persuasione che egli insegue, ossia il possesso vero e presente della vita, non può essere forse teorizzata o predicata ( come si può teorizzare la felicità?) ma può essere solo vissuta e per questo aveva visto in qualche modo in Enrico il suo vero erede, una specie di San Giovanni, colui che doveva realizzare nella vita la persuasione. Ed Enrico, col suo struggente fallimento, dà un colpo mortale a tutto questo».

Con questa amicizia contrapposta, cosa voleva mostrare?
«Volevo mostrare un conflitto, una contraddizione. La vita di Enrico, il quale cerca disperatamente di respingere da sé la Storia, il tempo, si incrocia con un periodo pieno di rivolgimenti epocali: la caduta dell’impero absburgico con la dissoluzione di un ordine secolare e la nascita di nuove nazioni; ascesa e caduta del fascismo e del nazismo; due guerre mondiali, tragedie e persecuzioni, l’annessione dell’Istria e di altri territori dell’Italia Orientale alla Jugoslavia, gli scontri feroci tra titoisti e stalinisti. Ho cercato di mostrare come questi eventi vengono vissuti da Enrico, rappresentandoli in un incalzare che toglie il fiato. Tutto il romanzo è scritto al presente perché viene narrato dal punto di vista di Enrico che cerca la vita vera, pura e assoluta, e cerca di spogliare questa vita da ogni aspetto superfluo, inautentico, falso. In ciò consiste la sua grandezza, ma anche la sua miseria e la sua autodistruzione perché, fino ad un certo punto, questa è una ricerca di autenticità, ma alla fine la vita, spogliata di tutto ciò che in essa appare inessenziale, finisce per assomigliare paurosamente al vuoto, al nulla, alla morte».

Quanto conta per lei oggi questo romanzo?
«Molto, perché quello che ho cercato di dire nel libro è un problema a cui ritorno sempre: credo che la ricerca della vita vera, la persuasione come potenziamento, o forse come dubbio tremendo se ci si pensa troppo, finisce per distruggere quello che dovrebbe dare. Penso che nel libro ci siano appunti fondamentali della mia vita, ma anche sempre più centrali nella nostra vita, perché la distruzione del presente, la frenesia, il precipitare in un futuro che ci distrugge senza che si abbia il tempo per vivere, è diventato un punto di riferimento centrale. Questo libro ha una prosecuzione nei tanti studi di Michelstedieder e nei progetti che lo riguardano. Anche mio figlio, Paolo, ha scritto un dramma pubblicato da Garzanti intitolato Come se fosse l’ultimo nel quale affronta il nucleo della persuasione con prospettive molto diverse dalle mie».


(24 ottobre 2007)
da espresso.repubblica.it
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