A un secolo dall'enciclica contro il modernismo.
Il contributo della "Civiltà Cattolica" alla redazione della "Pascendi"
Da "La Civiltà Cattolica" 2007 IV 9-19 quaderno 3775
di Giovanni Sale S.I.
Un secolo fa, l’8 settembre 1907, Pio X promulgava l’enciclica "Pascendi Dominici gregis", la quale condannava il movimento modernista, anzi «l’errore moderno», fino a quel momento soltanto riprovato o a volte per mitezza tollerato. Tale movimento all’inizio si era sviluppato soprattutto fuori dell’Italia in Paesi e in contesti dove gli studi ecclesiastici, in particolare quelli di carattere storico-esegetico, si misuravano per la prima volta con nuove metodologie critiche di ricerca, le quali sembravano scardinare i princìpi fondamentali della fede e della tradizione cristiane, giungendo in alcune opere fino a negare la divinità di Cristo e l’efficacia salvifica dei sacramenti e della Chiesa.
Naturalmente accanto a un «modernismo radicale», che la Chiesa condannava, esisteva anche un «modernismo moderato», che si sviluppò soprattutto nell’ambiente dei seminari maggiori — avendo come sostenitori giovani sacerdoti zelanti — teso a quel rinnovamento della scienza sacra, che era stato promesso negli ultimi anni del suo pontificato da Leone XIII, all’aggiornamento della liturgia e, più in generale, della stessa vita della Chiesa, alle nuove istanze della modernità in ambito sia culturale, sia sociale e organizzativo. Alcune di tali istanze, all’inizio osteggiate da una parte della Curia romana e della stessa Gerarchia, trovarono poi piena accoglienza in alcuni documenti del Concilio Vaticano II.
Nella lotta contro il modernismo troviamo fin dall’inizio, in prima linea, la nostra rivista: a tale scopo già Leone XIII negli ultimi anni dell’Ottocento volle che i maggiori studiosi di Sacra Scrittura dell’Ordine fossero invitati a collaborare con "La Civiltà Cattolica", per confutare le teorie più radicali in materia biblica poste in circolazione nelle Università tedesche. Ma fu sotto il pontificato di Pio X (1903-14) che la lotta diventò più dura — in particolare quando Ernesto Buonaiuti in Italia assunse la direzione morale e culturale del movimento — e che "La Civiltà Cattolica" svolse una sorta di «ministero culturale» a sostegno della ortodossia cattolica e delle posizioni assunte dalla Santa Sede in tale delicata materia.
Tra i gesuiti che si occuparono della lotta al modernismo, il più importante, anche per le controversie che ebbe con Buonaiuti, fu il p. Enrico Rosa, da pochi anni scrittore della rivista, il quale però fin dagli inizi aveva dato buona prova circa le sue competenze in ambito filosofico e teologico. Egli non fu uno dei redattori dell’enciclica in questione, ma a nostro avviso ne fu uno dei maggiori ispiratori dal punto di vista teologico e culturale (1).
Pio X e l’enciclica "Pascendi"
Nei primi anni del Novecento, a molti uomini di Chiesa e, in generale, a molti cattolici sembrava che il movimento modernista, il quale in un primo momento pareva interessare soltanto l’ambiente degli studiosi e delle accademie d’Oltralpe — sebbene un testo come "Il vangelo e la Chiesa" di Alfred Loisy avesse avuto fin dall’inizio un discreto successo editoriale —, si stesse estendendo a macchia d’olio, inquinando tutte le branche della scienza sacra nonché la coscienza dei credenti, e che quindi l’autorità ecclesiastica avrebbe dovuto al più presto porre rimedio a questo stato di cose, pronunciandosi con una parola autorevole e definitiva. Una certa impressione fece sicuramente sulla Curia romana l’apparizione in quegli anni di alcune riviste moderniste internazionali di spirito apertamente anti-cristiano (2). Esse infatti, a differenza delle riviste di Romolo Murri e di Salvatore Minocchi, come anche di quella successiva di Ernesto Buonaiuti, che si muovevano all’interno del solco della tradizione cattolica, prescindevano a priori dal fatto cristiano e si facevano propugnatrici di un vago sentimentalismo religioso — atematico, panteista e, in ogni caso, di spirito sincretistico —, quando non proprio di un vero e dichiarato ateismo. Ciò spinse la Curia e molte persone vicine al Papa a convincerlo dell’opportunità di un suo pronunciamento in materia.
Un altro fatto che impensieriva Pio X era la protezione che la stampa di grande divulgazione (3), per lo più in mano ai liberali, — in modo particolare "Il Giornale d’Italia" e il "Corriere della Sera" — accordava ai modernisti, prestando loro volentieri, e non in modo disinteressato, una buona tribuna per divulgare le loro idee tra il grande pubblico. Preoccupava inoltre il Pontefice l’atteggiamento assunto da una parte della stampa cattolica progressista cosiddetta del "Trust" (di cui era proprietario il conte Giovanni Grosoli), la quale prese apertamente le distanze da certa propaganda antimodernista condotta da alcuni zelanti «fogli integralisti» — tanto poveri di idee quanto inutilmente aggressivi nella lotta in difesa della fede cattolica — e accusata di creare confusione nel mondo cattolico.
Ancora un altro motivo spinse la Santa Sede a intervenire tempestivamente sulla questione modernista, per bloccarne la propaganda ereticale che di giorno in giorno diventava più insidiosa: l’uso generalizzato che i «novatori» facevano nei loro scritti dell’anonimato e dello pseudonimo, sia in Italia sia in Francia, per divulgare le loro idee. La Santa Sede era infatti convinta che dietro la selva degli pseudonimi si celassero persone ben concrete, ostinate a portare avanti la loro lotta contro il dogma cattolico fino in fondo e con tutti i mezzi; e che inoltre i sempre più frequenti attacchi contro la fede rivelata, condotti da «singoli» modernisti, non fossero motivati da semplici vicende isolate, sporadiche, ma che facessero parte di un progetto unitario ben orchestrato — si parlava di un «complotto internazionale modernista» —, volutamente orientato alla rovina della Chiesa e del cristianesimo.
Già nell’aprile del 1907 nel discorso che il Papa rivolse ai neocardinali (Cavallari, Lorenzelli, Maffi, Lualdi e Mercier) era evidente che ciò che preoccupava di più il Pontefice erano non tanto le recenti vicende sulla separazione tra Stato e Chiesa, da poco consumate nella Francia anticlericale di Combes e Waldeck-Rousseau, quanto il timore che le nuove idee propagate subdolamente dai modernisti inquinassero la fede professata dai cattolici. Denunciando apertamente la dottrina modernista, il Papa affermava il 15 aprile 1907, anticipando la Pascendi, che essa non era semplicemente «un’eresia ma il compendio e il veleno di tutte le eresie, che tende a scalzare tutti i fondamenti della fede e annientare il cristianesimo» (4). E invitava i nuovi cardinali e la Gerarchia cattolica a lavorare alacremente per la repressione dell’errore. Ma non dobbiamo pensare che fino a questo momento Pio X fosse rimasto all’oscuro di quanto stava accadendo nel campo delle scienze sacre. Già da tempo egli meditava di intervenire autoritativamente nel dibattito teologico in corso, ma evidentemente attendeva il momento più opportuno.
A differenza di quanto a volte viene affermato in ambito storico, i gesuiti della "Civiltà Cattolica" non ebbero alcuna parte di rilievo nella redazione materiale dei due documenti contro il modernismo: né nella compilazione del decreto del Sant’Uffizio "Lamentabili" del 3 luglio 1907, né nella stesura dell’enciclica Pascendi dell’8 settembre 1907, cioè del testo dottrinale che confutava largamente le tesi dei novatori.
Va ricordato, però, che già all’indomani della pubblicazione della "Pascendi", il p. Rosa si trovò impegnato in prima linea in una campagna accesissima in difesa dell’enciclica, che ebbe una grande eco non solo sulla stampa cattolica, ma anche su quella laica (5), oltre che naturalmente tra i diretti interessati, e impegnò tutto il suo acume e la sua intelligenza non solo nella difesa del documento pontificio contro gli attacchi degli avversari, ma anche nella preziosa opera di spiegazione, divulgazione e commento che ne fece. Gli articoli sulla "Pascendi" che il p. Rosa scrisse sulla Civiltà Cattolica negli anni 1907-08, sapientemente ordinati per materia, seguendo lo schema del documento pontificio, furono successivamente da lui stesso riuniti in volume, pubblicato alla fine del 1908. Esso fu molto lodato sia dai superiori della Compagnia sia dal Papa. Per illustrare la "Pascendi", infatti, il p. Rosa in quegli anni scrisse circa 50 articoli, che «toccavano tutti gli aspetti sistematici e dottrinali dell’eresia, mostravano la giustizia della condanna e, più ancora, facevano vedere ai fedeli, specialmente a quelli interessati agli studi, le deformazioni sottili quanto funeste che il modernismo aveva insinuato anche nella vita pratica» (6).
Con il suo libro di commento alla "Pascendi" il p. Rosa intendeva dialogare non solo con gli specialisti della materia, ma con tutti quelli che si interessavano di problemi teologici o religiosi in genere, e lo fece in verità con grande competenza, mettendo a servizio della verità cattolica tutto l’armamentario speculativo di cui egli era fornito. Riteneva infatti, come scrisse nella prefazione all’opera, che il modernismo non fosse soltanto un’eresia di scuola, della quale cioè soltanto i teologi di professione avrebbero dovuto darsi pensiero: «È invece tutto un cristianesimo nuovo che minaccia di sopprimere l’antico e si trafora per ogni parte nelle idee, nello spirito e nella vita» (7). Che se la maggior parte delle persone non si intendono di dottrine moderniste, perché si tratta di un sistema complesso e astruso, tutti — scriveva il p. Rosa — «se ne possono servire e perciò se ne debbono premunire, in quanto è metodo o indirizzo anticristiano, in quanto è soffio universale di naturalismo e di irreligiosità» (
. Il nostro studio, continuava, vuole inoltre rifuggire da ogni vana e inutile polemica e apparire spurgato da ogni riferimento troppo particolare a persone o a fatti concreti.
In realtà esso si presentava come un lavoro serio, ragionato, equilibrato, condotto con rigore di metodo e profondità e solidità di dottrina, seguendo in questo le teorie neoscolastiche del suo amato maestro, il gesuita Santo Schiffini. Soltanto in questo modo infatti, secondo il p. Rosa, poteva essere difesa la verità cattolica, astenendosi cioè, per quanto fosse possibile, dalla troppa animosità della polemica spicciola, episodica, la quale spesso mortifica la verità cristiana e non l’aiuta certo a prevalere sull’errore.
Il p. Rosa iniziava il suo commento all’enciclica di Pio X proponendo un collegamento di merito tra i due recenti documenti — il decreto "Lamentabili" e l’enciclica "Pascendi" — di condanna del modernismo, e quelli con i quali nel 1864 Pio IX aveva condannato apertamente le teorie liberali e razionaliste, cioè il "Sillabo" e l’enciclica "Quanta cura". Molti sono i punti di somiglianza o di riscontro, egli scriveva, tra l’una e l’altra enciclica, «ma a noi qui basta l’insistere in quello che è di maggior importanza al nostro intento, come l’una e l’altra, sebbene in diverso tenore e in termini diversi di condanna, siano indirizzate contro gli errori enormi del naturalismo, errori contrari insieme alla fede e alla ragione, alla religione e alla scienza, alla Chiesa e alla società civile» (9). Anzi, continuava, possiamo anche dire che la recente enciclica di Pio X dà effettivo compimento a quella di Pio IX, riprovando l’errore (naturalismo e razionalismo) che in quella precedente era già annunciato e sotto diversa forma condannato. Sarebbe insomma il vecchio naturalismo, più volte riprovato dalla Chiesa, a ripresentarsi sotto mentite spoglie — cioè mutando il nome ma non la sostanza — con la nuova denominazione di «modernismo», ma con una perfidia e pericolosità anche maggiore, tesa a sopprimere con l’inganno ogni forma di religiosità positiva.
Il modernismo, continuava il p. Rosa, è diventato un «vero e proprio sistema scientifico e religioso» (10): un sistema che muove da princìpi propri di filosofia e particolarmente di quella che ora chiamiamo epistemologia, e che conduce per necessità logica — a prescindere dalla mente dei suoi autori — a forme sempre più radicali di razionalismo filosofico. Esso poi invade, come un cancro divoratore, tutte le branche della scienza sacra, iniettando dovunque il veleno dell’agnosticismo, del relativismo o soggettivismo, cioè del naturalismo puro e semplice, di natura sua scettico e ateo. Alla base cioè dell’errore teologico c’è quello filosofico, atto a intaccare ogni fiducia umana sulla possibilità di una conoscenza certa e oggettiva delle cose. All’origine di tutto questo c’è il tarlo del kantismo e del razionalismo agnostico, figlio legittimo dell’eresia protestante e della Rivoluzione francese.
I gesuiti della "Civiltà Cattolica" e l’enciclica "Pascendi"
Secondo i gesuiti della "Civiltà Cattolica", e in particolare secondo il p. Rosa, il modernismo, benché estendesse il suo raggio di azione in diversi campi delle scienze sacre (teologia, esegesi, storia, dogma, apologetica ecc.), aveva il suo fondamento unificante in alcuni presupposti filosofici da cui poi tutto il resto scaturiva. Questi erano: il soggettivismo di origine kantiana, che intacca ogni tipo di conoscenza oggettiva e certa, inclinando verso l’agnosticismo e lo scetticismo, e l’immanentismo, che pone dentro l’uomo, e cioè nella sua coscienza (o incoscienza secondo alcuni), l’origine stessa della realtà e della verità, e non solo di quella naturale ma anche di quella divina e soprannaturale. A partire da questi presupposti filosofici, il modernismo investiva successivamente l’ordine teologico e infine quello morale e pratico, dando luogo così a ogni forma di deviazione dalla verità rivelata e di ribellione nei confronti dell’autorità costituita, sia religiosa sia civile. In tal modo essi riconoscevano un’assoluta preminenza alla filosofia rispetto alla teologia e all’ordine speculativo rispetto a quello pratico-morale.
Per i gesuiti della nostra rivista, infatti, era stata una filosofia malata di soggettivismo e di immanentismo a contagiare con il suo veleno mortifero tutta la teologia cattolica e a dare campo a ogni forma di errore dottrinale. Perciò, per garantire la teologia era necessario partire dal punto da cui il male aveva avuto origine. Fuor di metafora, secondo essi, per combattere i recenti errori teologici ed estirparli alla radice, bisognava prima di tutto confutarne gli errori filosofici che ne erano alla base e riaffermare, con forza e senza ambiguità, la verità della cosiddetta filosofia perenne del genere umano, la sola capace di dare al teologo gli strumenti adatti per pensare correttamente il deposito della fede cristiana.
Partendo da questi princìpi, il p. Rosa diede avvio alla sua lotta contro le dottrine dei «novatori», iniziando dalla confutazione dei loro errori filosofici. Questi però non erano soltanto da ricercarsi nelle opere specificatamente filosofiche scritte dai modernisti — come se fossero specificamente individuabili —, ma in tutti i loro lavori riguardanti la scienza sacra. Infatti l’errore filosofico si trovava di solito trasfuso all’interno di dottissime trattazioni teologiche o esegetiche, ed era proprio all’interno di queste che il p. Rosa andò a scovarlo e a smascherarlo.
In altre parole, secondo lui il modernismo era un metodo «di condotta e di propaganda, che segue modi ed arti sue proprie» (11) e, allo stesso tempo, un sistema di dottrine che partendo da un centro (che la "Pascendi" stessa chiama «modernismo filosofico») si propagherebbe a tutte le parti della scienza sacra e della vita. Perciò, il primo aspetto «sotto cui è d’uopo considerare il modernismo ed in cui meglio si manifesta è quello della filosofia» (12), poiché è proprio da una filosofia falsa e confusa che sgorgano tutti gli altri errori.
Questo schema interpretativo adottato dal p. Rosa e da altri antimodernisti fu immediatamente rigettato dai «novatori»; soprattutto il Buonaiuti rimproverò al p. Rosa di non capire a fondo il programma dei modernisti e di non intendere a pieno il loro progetto innovativo; secondo essi infatti il movimento di riforma delle scienze religiose, come era chiamato da loro, non era iniziato partendo da determinate teorie filosofiche, bensì dalla critica storica e dalla nuova esegesi della Sacra Scrittura. Essi cioè ponevano a fondamento della loro svolta non la filosofia, bensì la storia, o meglio la storia sacra, liberata dalle adulterazioni e restituita alla sua genuinità originaria, attraverso il nuovo metodo storico-critico.
La battaglia in difesa della tradizione dottrinale cristiana fu portata avanti dal p. Rosa con uno zelo particolare. Egli sentiva questo lavoro come una vera e propria missione da svolgere al servizio della Chiesa e, in particolare, dei credenti. La sua lotta contro il modernismo aveva infatti come fine principale non tanto quello di convertire, o in qualche modo persuadere, coloro che per motivi ideali si erano allontanati della tradizione cattolica, o quei preti che in aperta ribellione all’autorità ecclesiastica avevano lasciato il sacerdozio o, peggio ancora, la Chiesa cattolica, quanto quello di evitare che il contagio modernista corrompesse la mente dei giovani o si estendesse tra le masse popolari. Il che, com’è noto, non avvenne mai, così che il movimento dei «novatori» (almeno quello dottrinale e teologico) rimase confinato entro cerchie ristrette di studiosi cattolici, per lo più giovani preti o seminaristi.
La dottrina teologica del p. Rosa, come anche degli altri scrittori della nostra rivista che si occuparono di tale delicata materia, ebbe un forte influsso nella stesura dell’enciclica contro il modernismo. Le idee di fondo che infatti troviamo chiaramente delineate nella "Pascendi", secondo il nostro punto di vista, devono molto all’elaborazione intellettuale del p. Rosa. Tanto che, quando uscì l’enciclica, molti ne attribuirono la paternità al gesuita, basandosi esclusivamente sul suo contenuto e sulla sua impalcatura dottrinale. Egli invece non partecipò alla redazione «materiale» dell’enciclica, come pure nessuno degli altri gesuiti della rivista. Infatti le fonti che abbiamo esaminato escludono qualsiasi ipotesi di questo tipo: sia il diario del p. Angelo De Santi, generalmente abbastanza informato su queste cose, sia le carte del p. Rosa, sia le relazioni di casa tacciono assolutamente su questo punto. Ricordiamo inoltre che il p. Rosa quando uscì la "Pascendi" aveva appena 37 anni, era considerato da tutti un buon giovane padre e, a quel tempo, non doveva neppure avere rilevanti entrature in Vaticano. Pensiamo però che i redattori dell’enciclica, il cui nome è oggi conosciuto (13), ebbero concretamente tra le mani più di uno degli articoli scritti in quegli anni dal p. Rosa sulla nostra rivista e ne furono sicuramente influenzati.
I princìpi fondamentali che i compilatori della Pascendi, a nostro avviso, mutuarono dalla «dottrina» del p. Rosa, così come era stata divulgata dalle pagine della Civiltà Cattolica, sono i seguenti:
1) L’errore dottrinale in materia religiosa ha la sua origine nell’errore filosofico. L’enciclica espone il «sistema» modernista, considerando specificatamente i diversi aspetti sotto i quali esso si presenta: «Ogni modernista — afferma la "Pascendi" — sostiene e quasi compendia in sé molti personaggi; quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore» (14). L’enciclica inizia così la sua analisi prendendo le mosse dal cosiddetto «modernista filosofo», perché secondo essa «il fondamento della filosofia religiosa è riposto dai modernisti nella dottrina che chiamiamo dell’agnosticismo» (15). Per essa, infatti, il modernismo filosofico, ispirato al criticismo kantiano, nega alla ragione la facoltà di conoscere la realtà dell’oggetto o altro che sia fuori dal mondo dei fenomeni: quindi per il modernista filosofo non può in ogni caso ammettersi nessuna vera conoscenza di teologia naturale: prove dell’esistenza di Dio, motivi di credibilità, rivelazione esterna ecc. Insomma tutto si riduce a una forma radicale di agnosticismo e di naturalismo. Parlando poi del modernista teologo l’enciclica afferma che in questioni di teologia egli si giova «degli stessi princìpi che vedemmo usati dalla filosofia, adattandoli al credente: tali sono i princìpi dell’immanenza e del simbolismo» (16). Lo stesso concetto troviamo espresso anche dove il documento pontificio parla del modernista apologeta: «Anche costui dipende doppiamente dal filosofo. Prima indirettamente, pigliando per sua materia la storia scritta, come vedemmo, dietro le norme del filosofo: poi direttamente accettando dal filosofo i principii e i giudizi» (17). Infine anche il modernista storico o esegeta si comporta allo stesso modo. L’enciclica in proposito intende controbattere la tesi modernista secondo la quale tale movimento avrebbe preso origine non dal campo speculativo, ma da quello storico e in specie esegetico. «Taluni dei modernisti — essa dice — che si danno a scrivere storia paiono oltremodo solleciti di non passar per filosofi [...] affinché nessuno creda che essi siano infetti di pregiudizi filosofici, e non siano, perciò, come dicono, affatto obbiettivi. Ma il vero è che la loro storia o critica non parla che con la lingua della filosofia; e le conseguenze che traggono vengono di giusta ragione dai loro princìpi filosofici» (18).
2) L’errore filosofico è considerato dall’enciclica sotto due diversi aspetti: quello negativo che sarebbe appunto l’agnosticismo, di cui abbiamo appena parlato; e quello positivo che consisterebbe nell’immanentismo, o meglio «nell’immanenza vitale» secondo la quale «la religione non è altro che una forma della vita, la spiegazione di essa dovrà ritrovarsi appunto nella vita dell’uomo. Di qui il principio dell’immanenza religiosa» (19).
3) La "Pascendi" si ferma per lo più a condannare il modernismo sotto il profilo dottrinale e speculativo. Soltanto limitatamente essa tratta di modernismo pratico o politico. Quest’ultimo aspetto sarà invece al centro della violenta polemica antimodernista, portata avanti, spesso con pochi scrupoli, da alcune forze conservatrici cattoliche, negli anni immediatamente successivi alla "Pascendi". Altri personaggi e altre strategie emergeranno in quegli anni nella battaglia contro il modernismo, con l’approvazione e benedizione dello stesso Papa. Essi un poco alla volta sposteranno il centro della lotta contro l’errore moderno dal piano teorico e speculativo verso quello più propriamente pratico e politico. Per uomini come mons. Umberto Benigni, ad esempio, e per i suoi amici, il modernismo pratico costituiva ormai il nemico più pericoloso da combattere, perché, una volta abbattuto quello filosofico-teologico ad opera dell’enciclica "Pascendi", questo sarebbe diventato, secondo il Benigni, il veicolo principale scelto dai «capi occulti» del movimento modernista per continuare la lotta contro la Chiesa cattolica e il Papa (20). I modernisti infatti, secondo lui, subito dopo la "Pascendi" indirizzarono il grosso delle loro truppe sul piano pratico, cioè sul terreno politico e sociale, e proprio su questo terreno bisognava combatterli e annientarli (21). Frutto di questa strategia, successivamente, fu la condanna del "Sillon" e, in generale, del sindacalismo cattolico e di tutto il cosiddetto «modernismo sociale». "La Civiltà Cattolica" non si allineò completamente con questo nuovo indirizzo.
In ogni caso l’enciclica, nonostante il suo tono «dottrinario» e a volte anche duro e censorio — considerato, inoltre, che da alcuni ambienti conservatori della Chiesa fu interpretata, forzandone a volte anche il dato letterale, secondo uno spirito eccessivamente integralista e intransigente — svolse in quegli anni convulsi di inizio secolo un ruolo importante e necessario per combattere «l’errore modernista». In particolare essa contrastò l’errore biblico-teologico, che intendeva minare le fondamenta della dottrina cristiana, riducendola semplicemente a un fatto storico rilevante per la storia dell’umanità e per il suo sviluppo verso un umanesimo più maturo, ma privo di contenuto salvifico e soteriologico. Invece l’enciclica voleva indirizzare la scienza teologica verso una riflessione più pacata e meno orientata ideologicamente.