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Autore Discussione: Nicola Tranfaglia - Caso Maiani, la logica (perdente) dei veti papisti  (Letto 3026 volte)
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« inserito:: Ottobre 23, 2007, 11:37:36 pm »

Gli Usa sapevano dov’era Moro

Nicola Tranfaglia


Gli Stati Uniti sapevano dove le Brigate Rosse tenevano Aldo Moro.

È la rivelazione di Giovanni Galloni, uno dei collaboratori più stretti dell’allora segretario Dc Benigno Zaccagnini ed ex vicepresidente del Csm. Una notizia shock emersa ieri nella biblioteca del Senato durante il dibattito sull’ottimo saggio di uno storico come Giuseppe de Lutiis che ha appena pubblicato «Il golpe di via Fani» per le edizioni Sperling e Kupfer. Al dibattito partecipavano persone che di quel caso si sono a lungo occupate: dal giudice Rosario Priore all’ex presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino, dall’ex presidente del Csm Giovanni Galloni all’ex presidente del Copaco Massimo Brutti.

Che cosa emerge da una discussione fitta e intensa che ha richiamato in quella biblioteca una folla di giovani e di esperti che hanno lavorato nei vari organismi che ho citato? Una serie di problemi della nostra storia, di cui giornali e televisioni parlano assai poco, ripetendo al contrario verità ufficiali ormai logorate dalla loro improbabilità.

Innanzitutto la rivelazione di un viaggio segreto a Washington del capo dei servizi italiani, Miceli, passato dopo i guai giudiziari all’elezione in Parlamento come deputato del Movimento Sociale Italiano. Miceli voleva probabilmente salvare Moro ma non ci riuscì, ed ebbe colloqui riservati con la Cia e personaggi politici americani e probabilmente con Henry Kessinger che anni prima aveva pubblicamente condannato l’on. Moro per la sua politica di apertura al Pci. «Miceli capì che gli americani sapevano molto - ricorda Galloni - sapevano perfettamente dove era la prigione, dove era Moro».

Un altro aspetto emerso ieri è la conoscenza di una dichiarazione riservata del capo dei servizi della Germania comunista a proposito di un intervento del Mossad israeliano per la liberazione e la salvezza dello statista democristiano.

Terzo punto, i rapporti che furono assai stretti tra la Raf, la principale organizzazione terroristica della Germania occidentale, e le Brigate Rosse. Non a caso è stato notato che il sequestro di Hans Martin Schleier, leader degli industriali tedeschi, avvenuto nel settembre 1977 ad opera della Raf si svolse con modalità simile a quella percorsa sei mesi più tardi dalle Br per rapire e alla fine uccidere Aldo Moro (come era avvenuto in Germania per Schleier.)

Le contraddizioni e i misteri sul caso dopo un trentennio appaiono ancora numerosi e importanti, per non dire decisivi. Quello che ancora non regge nella ricostruzione ufficiale del mistero di via Fani riguarda più di un particolare.

Il senatore Pellegrino ricorda il fatto che, anzitutto, il corpo di Moro depositato il 9 maggio all’incrocio tra via Caetani e via Botteghe Oscure parla una lingua assai chiara. È impossibile che l’uomo politico democristiano sia stato custodito come hanno sempre detto i brigatisti in uno spazio ristretto ricavato da una stanza: le condizioni fisiche e igieniche di Moro non sarebbero potute essere come quelle del corpo che fu sottoposto ai magistrati e all’esame autoptico nelle ore successive al ritrovamento e fanno pensare che la prigione consentiva al presidente della Dc di muoversi e di lavarsi in maniera normale.

Così non si sa ancora quanti e chi fossero i brigatisti che parteciparono all’assalto di via Fani: di certo non i sette o i nove di cui hanno parlato sempre i terroristi. Basti pensare che, per un sequestro come quello assai più facile del giudice Mario Sossi nel 1974, è stato accertato che vi parteciparono diciannove brigatisti. C’è da supporre che in via Fani siano stati almeno venti o trenta e ancora non si conosce la loro identità, salvo rendersi conto - dopo le perizie balistiche - che l’eliminazione della scorta di Moro è stata compiuta da due soltanto, capaci per la loro abilità militare, di sparare una gragnuola di colpi in modo da uccidere i cinque uomini della scorta con matematica precisione senza torcere un capello al presidente che era a pochi centimetri da loro.

Due altri elementi che sono emersi dal dibattito riguardano la loggia P2 di Licio Gelli. Il primo è che, durante le indagini per il rapimento di Moro nella primavera del 1978, i tre capi dei servizi di sicurezza italiani fossero tutti uomini di Gelli legati alla P2 e che la loggia non fosse, come alcuni per molti anni hanno ripetuto, un’accolita di spregiudicati affaristi ma, al contrario, uno straordinario centro di potere che annoverava più di duemila tra politici, imprenditori militari, magistrati e giornalisti penetrati profondamente nelle istituzioni e negli apparati dello Stato (e non novecento, come sembrava dall’elenco sequestrato da Turone e Colombo nella villa gelliana di Castiglion Fibocchi). E si trattò di un centro di potere, forse il massimo, dell’oltranzismo atlantico e anticomunista nel nostro Paese.

Si potrebbe continuare con altre contraddizioni che restano intatte dopo otto processi che si sono svolti (l’ultimo è ancora in corso) per il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, ma quello che risulta con grande chiarezza, e che è confermato dal libro di Giuseppe De Lutiis, è il quadro internazionale entro cui si svolse il grave episodio.

Si trattò di un vero e proprio “golpe” politico ed ebbe un grande successo perché riuscì a raggiungere il proprio maggior obbiettivo: sconfiggere il compromesso storico e stabilizzare al centro la situazione politica che aveva inclinato pericolosamente a sinistra in piena guerra fredda.

Pubblicato il: 23.10.07
Modificato il: 23.10.07 alle ore 8.35   
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 30, 2008, 10:59:15 pm »

La crisi vista da sinistra

Nicola Tranfaglia


La settimana abbondante di consultazioni del Quirinale ormai vicina alla fine ha generato, dopo la caduta del governo Prodi, un curioso stato d’animo a sinistra. Tra editoriali e interviste (penso in particolare a quella, brillante ma disperata, di Vauro sul Giornale di ieri) si palesa un atteggiamento che francamente non capisco. Da una parte si dimentica che, in questi diciotto mesi, il governo Prodi non è stato con le mani in mano. Ha compiuto nel suo intenso lavoro alcuni errori che io stesso e questo giornale hanno sempre sottolineato.

Penso al numero dei ministri e sottosegretari, all’indulto con un grande accordo trasversale, tutti insieme, e a molti altri minori... ma, in compenso, ha risanato i conti dello Stato e ha varato alcune buone leggi e una legge finanziaria 2008 che garantirà un inizio di redistribuzione sociale a vantaggio dei lavoratori e dei ceti economicamente più disagiati.

D’accordo, un’esperienza non esaltante, e per molti aspetti inferiore alle attese come alle speranze degli italiani, con alcune assenze imperdonabili come la legge sul conflitto degli interessi e quelle sulla riforma della Rai e del riassetto radiotelevisivo.

In politica estera, molte buone cose ma, almeno sulla missione in Afghanistan, l’incapacità di convincere gli alleati sulla necessità di modificare il registro e le caratteristiche della missione. Ma in definitiva è stata la politica americana di Bush che ha impedito a Prodi risultati migliori.

Insomma, possiamo dire che Prodi non è riuscito a realizzare il programma dell’Unione sia per la maggioranza minima al Senato sia per i poteri dei veti di alcuni alleati, a cominciare da Mastella.

Ora dovrebbe esser chiaro a tutti che sono stati i centristi, e non la sinistra cosiddetta radicale, a indebolire il governo e, alla fine, a distruggerlo soprattutto per l’imminente referendum e la nuova legge elettorale vicina alla “bozza Bianco” e non tanto per le disavventure giudiziarie del leader di Ceppaloni, del senatore Dini e dei suoi pochi seguaci.

Semmai si deve ricordare che la strategia adottata da Veltroni per il Partito Democratico ha (forse al di là delle intenzioni) a sua volta indebolito il governo in quanto ha avvertito tutta la sinistra che il maggior partito della coalizione di centro-sinistra correrà d’ora in poi “da solo”, senza i suoi alleati tradizionali dell’ultimo quindicennio.

Del resto, quasi nessuno ha ricordato (guarda caso) in questi giorni che i leader centristi come Mastella e Dini hanno fatto negli ultimi quattordici anni un cammino costante tra centro-destra e centro-sinistra e non c’è da stupirsi se l’andare e venire prosegue di fronte ai grandi cambiamenti in vista e all’origine eminentemente personale di simili forze politiche.

Se questa è una diagnosi attendibile sulla crisi politica in atto, non ha molto senso - mi pare - cadere in uno stato di disperazione che equivale all’antico e tradizionale “tanto peggio tanto meglio”, che prevede come sicuro il ritorno al potere di Berlusconi (sicuramente probabile ma non ancora avvenuto) e tira quasi un respiro di sollievo di fronte all’eventuale rientro nei ranghi dell’opposizione dopo le deludenti esperienze di governo.

Un simile atteggiamento ha due gravi inconvenienti che vale la pena segnalare.

Il primo è che non facilita una visione equilibrata del passato recente come del presente. Anche se il giudizio sul governo Prodi non è soddisfacente, a me sembra sbagliato equiparare l’ultima nostra esperienza del 2006-2008 a quella del lungo governo Berlusconi del quinquennio precedente.

Abbiamo già dimenticato le leggi-vergogna del Cavaliere, la grande evasione fiscale permessa dal governo Berlusconi e finita con il centro-sinistra, l’esaltazione della illegalità mafiosa e così via?

Se questo è vero, come si può considerare il probabile ritorno di Berlusconi come qualcosa che ci lascia più o meno indifferenti? E come si può ritenere inutile tentare una battaglia contro il centro-destra e per la ricostruzione di una nuova alleanza di centro-sinistra? Del resto il “programma realistico” che Berlusconi ha rivelato al Giornale che metterà il bavaglio definitivo ai giudici e farà leggi reazionarie sulla criminalità e contro gli immigrati. Si può restare indifferenti di fronte a simili prospettive?

L’altro inconveniente è che quell’atteggiamento può condurre a una sconfitta particolarmente rovinosa e consentire a un Berlusconi vittorioso nelle urne tentazioni antidemocratiche diffuse nel suo partito come in quelli con cui si è sempre alleato.

Di fronte a una simile prospettiva occorre, a mio avviso, evitare un’altra tentazione che mi sembra diffusa in queste settimane.

È ormai chiaro che il Partito democratico si sta collocando in una posizione di centro nello schieramento complessivo ed aspira a dialogo con forze che sono ora nel centro-destra come l’Udc di Casini piuttosto che con quelle di sinistra. Preso atto di questa situazione, i partiti della sinistra, oggi assai frammentati, dovrebbero, a mio avviso, non dimenticare che soltanto se affretteranno i tempi della Confederazione e si presenteranno uniti alle elezioni con un nuovo programma potranno attrarre nuovi elettori. E che, peraltro, il Partito democratico resta per la sinistra l’unico possibile alleato. O c’è qualcuno a sinistra che pensa a una possibile vittoria della sinistra senza alleanze con il centro? O si rassegna a restare in eterno all’opposizione? E quale sarebbe il vantaggio di questa posizione per i milioni di elettori che possono e vogliono seguirci?

Finora nessuno, mi pare, ha risposto a questi interrogativi.

Pubblicato il: 30.01.08
Modificato il: 30.01.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 01, 2008, 05:13:50 pm »

Caso Maiani, la logica (perdente) dei veti papisti

Nicola Tranfaglia


In una lunga sala di un piano alto della Camera dei deputati a Montecitorio, la Commissione Cultura si riunisce periodicamente per presentare proposte di legge su materie che riguardano le scuole, le università e dà pareri sulle nomine degli amministratori dei vari enti. Ieri mattina la Commissione ha dato parere favorevole alla nomina del prof. Luciano Maiani, nuovo presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

C’è stata una discussione tra ieri e oggi di oltre quattro ore tra la maggioranza e l’opposizione.

Quello che mi ha colpito è stato il livello della discussione che Forza Italia, Alleanza Nazionale, l’Udc e la Lega Nord hanno portato avanti per rinviare la nomina di Maiani o dare parere negativo. Ma le ragioni portate dalle quattro forze di opposizione che erano al gran completo (c’era persino l’ex ministro delle Comunicazioni Gasparri che non è riuscito a pronunciare uno dei suoi interventi caratteristici perché è arrivato tardi) hanno messo in luce un livello culturale, a dir poco discutibile.

Sul piano della personalità scientifica e culturale del candidato, era impossibile mettere in crisi la candidatura di Maiani, conosciuto in tutto il mondo per le sue pubblicazioni di Fisica e le citazioni che le riviste scientifiche hanno dedicato al suo lavoro (oltre 2600 negli ultimi anni).

Il tentativo, messo in opera da una deputata di Forza Italia di trovare nel suo curriculum gli ultimi quattordici anni come privi di pubblicazione ha ottenuto un’immediata smentita grazie al fatto che è pervenuto immediatamente l’elenco di altri ventisei titoli che si sono aggiunti alla ricchissima produzione scientifica nell’ultimo periodo.

Non è mancato neppure un altro intervento, sempre di Forza Italia, che ha eccepito sul numero limitato di apparizioni televisive che avrebbe contrassegnato la carriera di Maiani.

Un criterio davvero singolare e, nello stesso tempo, pericoloso per scegliere il presidente del più importante ente di ricerca italiano. Ma, accanto alle obiezioni procedurali di cui si è fatto promotore in primo luogo il deputato dell’Udc (di solito sereno e documentato), ma particolarmente acceso contro Maiani, a metà di ogni discorso si è fatto strada la vera ragione che ha determinato la dura opposizione del centro-destra. Maiani, professore di Fisica nell’Università La Sapienza, ha firmato l’anno scorso, con altri 66 colleghi una lettera al Rettore critica nei confronti che Guarini aveva indirizzato a Benedetto XVI invitandolo a tenere durante l’inaugurazione dell’anno accademico la lectio magistralis.

Un atto svolto con altri accademici di differenti discipline che non si pronunciava affatto contro qualsiasi intervento del pontefice ma eccepiva rispetto alla lectio magistralis che aveva un preciso valore di indirizzo di un’università pubblica. I deputati dell’opposizione hanno finto di non sapere che il ministro degli Interni Amato aveva assicurato la Santa Sede che non c’era alcun pericolo o possibile attentato alla persona se Benedetto XVI avesse deciso di andarci.

Il fatto è che il pontefice, offeso per il cambiamento dell’invito da parte del Rettore con il passaggio dalla lectio magistralis al semplice intervento tra i tanti, ha approfittato dell’incidente, per varare una campagna decisa quanto falsa invocando dalla pubblica opinione una difesa sul piano della libertà di parola. Ma, in Commissione Cultura, l’esatta ricostruzione dei fatti è stata messa da parte e invece si è insistito sull’inesistente oltraggio al Papa di cui lo stesso Maiani sarebbe complice e coprotagonista.

Sul fatto che nella Repubblica italiana non si può richiedere, neppure oggi, essere cattolici e papisti per diventare presidenti del Cnr. Ma su questo semplice giudizio, non ci si è messi d’accordo neppure alla fine della discussione e la Casa delle libertà ha votato compatta il no contro il candidato presidente. Per fortuna non ha prevalso.


Pubblicato il: 01.02.08
Modificato il: 01.02.08 alle ore 8.16   
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