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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 145625 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Dicembre 28, 2009, 09:57:48 am »

28/12/2009

Raffreddare l'amore
   
LUCIA ANNUNZIATA


Il centro sinistra sembra aver cominciato a ragionare su come raggiungere un diverso clima politico nel Paese, dopo l'attacco al premier. E se ne sta accollando le conseguenze: le cronache politiche sono piene in questi giorni delle tensioni che percorrono l’opposizione su se e come e in che tempi avviare una diversa fase del confronto.

Ma il premier? Cosa sta facendo, a sua volta, il premier, per stabilizzare questo nuovo clima? Non possiamo affrettare, naturalmente, la riflessione di Silvio Berlusconi. Né vogliamo lanciarci in giudizi. Ma la solidarietà e anche la convinzione di dover cambiare molte cose nella politica attuale, non possono diventare esenzione dalle critiche. Per cui, senza alcun intento di lesa maestà, si può forse dire, ora che il premier sembra aver recuperato il suo spirito e il suo ottimismo, che la sua continua riproposizione dell'amore come base della ricostruzione di un clima di concordia nazionale, è un clamoroso rischio se non addirittura un clamoroso errore.

Non parliamo qui del «partito dell'amore», di cui si è già scritto molto. Richiamando Ilona Staller, o l'allucinata descrizione del ministero dell'Amore di George Orwell nel romanzo «1984» («Fra tutti il ministero dell'Amore era quello che incuteva un autentico terrore. Era assolutamente privo di finestre. Accedervi era impossibile, se non per motivi ufficiali, e anche allora solo dopo aver attraversato grovigli di filo spinato, porte d'acciaio e nidi di mitragliatrici ben occultati.

Anche le strade che conducevano ai recinti esterni erano pattugliate da guardie con facce da gorilla, in uniforme nera e armati di lunghi manganelli»). Parliamo di errore, perché evocare l'amore come base della arena istituzionale è operazione esattamente uguale a quella di chi rivendica l'odio come base della lotta politica.

L'odio, si dice, giustamente, va bandito perché è un avvelenatore della vita comune, perché focalizza sulle persone, restringe il campo, premia il dettaglio sulla visione di insieme.

Ma l'amore ha lo stesso potere divisivo, frazionante, assolutista. Quando è stato infatti invocato in politica ha sempre avuto i connotati delle dittature, e del consenso forzato. Che si tratti di regimi su basi ideologiche, o su basi religiose, che si tratti delle dittature del ‘900 o di quelle teocratiche odierne, non abbiamo bisogno di andare molto lontano per ricordarci che il filo fra odio e amore è molto sottile, e che i morti fatti dall'uno e dell'altro sentimento ammontano agli stessi milioni.

Quando si condanna dunque l'odio in politica, non si sta parlando di uno specifico atteggiamento negativo. Si sta in realtà evocando una concezione della politica profondamente diversa. Le ragioni per cui si condanna l'odio è perché l'interesse comune richiede una gestione della cosa pubblica priva - per quel che è possibile - di deviazioni individuali, di personalizzazioni, di un uso del potere piegato alle convinzioni e alle passioni negative di chi in quel momento lo detiene, o di chi lo contesta.

Si invoca dunque una democrazia «raffreddata», in cui la stella polare non sia l'individuo con i suoi dettagli, ma una macchina della compatibilità, una terza entità - che è il bene del Paese - che proprio nel suo distacco dalle passioni dei suoi stessi gestori diventa garanzia di uguaglianza di tutti.

Naturalmente, gli uomini hanno passioni. Naturalmente, non si vive né si può vivere senza avere presente sempre e comunque il proprio particolare. Ma quando si parla di istituzioni, quando si dice di dover prendere una strada che vale per tutti, si indica un processo di «raffreddamento» e persino di «dismissione» di una parte di questi interessi individuali.

Se non ci siamo del tutto sbagliati, quando si parla di un nuovo clima si intende questo.

Il richiamo di Silvio Berlusconi all’amore suona dunque come una sua incomprensione, se non addirittura una sua ostinazione. In maniera diversa, questo richiamo ci sembra riproporre infatti la sua idea di sempre di una democrazia personalizzata. E se la sua idea, al rientro nella vita attiva, è quella di trovare un Paese in cui si stendano ai suoi piedi tappeti rossi, è probabile che si stia preparando per lui una forte delusione.

Come cittadini, il nostro principale diritto non è né all'odio né all'amore, ma a uno Stato che funzioni, che restituisca in beni comuni quello che paghiamo in tasse, e che difenda le diversità, di fede e di opinione, che ciascuno, nella sua individualità, abbraccia. Se poi uno statista vuol farsi amare, basta che eserciti la sua pietas incanalandola nel suo esercizio pubblico.

Non è difficile neppure capire come fare. Basta guardarsi intorno in queste sfortunate feste odierne.

Ci sono molti operai, molti disoccupati, molti sventurati che trascorrono questi giorni di celebrazioni nell'angoscia e nella incertezza. Presentare una solida piattaforma di aiuti a queste parti della nostra società, e farla approvare subito e bene, dandogli una assoluta priorità rispetto alle riforme istituzionali, sarebbe un’ottima iniziativa per avviare un nuovo clima. Un ottimo gesto da statisti. E non sarebbe nemmeno un povero sostituto dell'Amore.

da lastampa.it
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« Risposta #106 inserito:: Gennaio 08, 2010, 11:03:25 am »

8/1/2010

Craxi e le strategie sulla giustizia
   
LUCIA ANNUNZIATA


Si scrive Craxi e si legge Riforme o, viceversa, si scrive Riforme e si legge Craxi. Come preferite. Si può combinarlo in entrambi i modi, ma il risultato è lo stesso - è il nuovo assioma della politica italiana.

Non si spiegherebbe altrimenti la forza con cui il decennale della morte del leader socialista ha fatto irruzione sulla scena politica. Dopo tutto di anniversari ne capitano uno all’anno per ogni evento. Quello che sta succedendo in verità è che il memoriale per Bettino Craxi si è trasformato, de facto, in una convinta, seria e (quasi) aggressiva richiesta di riabilitazione. Una richiesta che prende atto, e si avvantaggia, delle condizioni in cui è entrato il dibattito italiano.

Ci sono intanto una serie di coincidenze, che definiscono il contesto di perfetti rimandi. La prossima settimana, dominata dalle celebrazioni in memoria di Craxi, inizia anche con un vertice a Palazzo Grazioli per decidere la strategia del governo sulla Giustizia. In aula al Senato sono in arrivo sia gli emendamenti al ddl sul processo breve, sia la nuova versione, stavolta di iniziativa parlamentare, del Lodo Alfano in veste costituzionale.

Alla Camera si lavora invece al legittimo impedimento e, dietro le quinte, si discute di immunità parlamentare. Tutti sono passaggi considerati una prova generale per poter decidere o no se procedere con le Riforme.

Coincidenze, certamente. Ma il risultato è sconcertante. Oggi per Berlusconi, come un decennio fa per Bettino Craxi, il rapporto fra giustizia e politica è lo stesso, è irrisolto e - addirittura - ha il volto degli stessi protagonisti.

Non siamo così ingenui da appiattire questi due leader l’uno sull’altro. Politicamente rappresentano esperienze quasi incomparabili: il primo, Craxi, è uno «scardinatore» che rimane dentro il sistema dei partiti; il secondo, Berlusconi, è il fondatore di un sistema anti-partiti. Eppure sulla questione della giustizia fra i due c’è una assoluta continuità.
Sostiene oggi Berlusconi, come ieri Craxi, che i giudici sono strumento di attacco a una leadership politica non gradita. E per il premier di oggi, come per il premier di allora, il tema che si pone è come «difendersi» dallo scontro giudiziario. Entrambi hanno in merito raggiunto le stesse conclusioni: il rifiuto di accettare il processo di una giustizia «ingiusta».
Ma questo parallelismo - dopo tutto noto, e di recente sottolineato dalla stessa Stefania Craxi - non basterebbe da solo a dare all’attuale anniversario di Hammamet la forte carica politica che ha assunto. L’effetto nasce anche dalla evoluzione stessa del quadro in cui ci troviamo.

C’è intanto il nuovo clima post attacco a Berlusconi. La avvertita e condivisa necessità di mettere fine all’odio e agli attacchi personali, si vuole ora estenderla anche ai nemici di ieri.
C’è poi la nuova storia degli ex socialisti. Nel governo attuale la loro componente - a partire da 4 ministri - è tale da poter far dichiarare chiusa, e bene, la crisi nata dalla fine del craxismo. Molti socialisti hanno ritrovato ruolo personale e, in particolare sulla giustizia, hanno riportato le loro opinioni al governo.

Quello che manca loro, per avere una definitiva rivincita, è la riabilitazione del passato. Nell’unica forma concreta possibile: ottenere oggi, via Berlusconi, quel rapporto fra politica e giustizia che Bettino non riuscì invece a ottenere.

Il cortocircuito di tutte queste componenti è perfettamente rappresentato da Fabrizio Cicchitto - uomo di primo piano nella difesa di Berlusconi sulla giustizia, gran sacerdote della memoria di Craxi, e gran sostenitore delle Riforme «a patto che». Un recente episodio, che lo ha visto protagonista, ci ha raccontato quasi teatralmente il grumo di emozioni, guerre vecchie e nuove, e conti aperti che dal passato ritorna sul tavolo oggi: in un violento scontro che, dopo l’attacco a Berlusconi, si è scatenato fra lui, Cicchitto, e Antonio Di Pietro, si parlava di odio, giustizia, riforme ma, appunto, l’eco che è arrivata alle orecchie di tutto era Craxi, Hammamet, Tangentopoli. Come in una macchina del tempo erano infatti ancora lì, ancora gli stessi, con gli stessi argomenti alla mano.

Non sappiamo come intenderà procedere la politica. Ma se la strada è questa, se l’atmosfera rimane così carica, il percorso delle riforme si fa molto difficile.
Dialogare è obbligatorio. Diverso è fare un pacchetto di mischia in cui insieme si devono cambiare leggi, opinioni, e Storia.

Bettino Craxi è sicuramente una parte ancora controversa e da discutere del nostro vicino passato. La sua è una storia che fa ancora male, comunque e chiunque la tocchi. A maggior ragione va affrontata fuori dalla cronaca. E fuori dalla strumentalizzazione politica.
Forse lo chiederebbe lo stesso Craxi.

da lastampa.it
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« Risposta #107 inserito:: Gennaio 14, 2010, 02:26:35 pm »

14/1/2010
 
Povertà sangue e voodoo
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Ero lì quando Baby Doc lasciò in stracci e sangue la sua piccola nazione, Haiti. Baby Doc Duvalier, figlio di Papa Doc, François Duvalier, il despota nero di pelle e di cuore, che per anni, indossando i panni del padre della nazione, aveva senza scrupolo ucciso chiunque avesse letto un libro, avesse una lingua, o avesse un soldo.

Lasciando poi il suo regno di sciacallo arricchito a un figlio semi-demente. Papa Doc aveva preso il potere nel 1957 in nome dell’anticolonialismo Usa; Baby Doc, che aspettavamo, lasciava il paese in una notte del 1986, ben 31 anni dopo.

Lo attendeva, a motori accesi, un cargo militare Usa. Baby Doc arrivò preceduto da un corteo di limousine nere, cariche di bagagli Vuitton. Poi arrivò la sua macchina, lui seduto dietro. Michelle sua moglie, la famosa Michelle, la nera dagli occhi verdi, la più bella mezzosangue di Haiti e dei Caraibi, e la più rapace, sedeva invece di fronte. Mentre Baby Doc si copriva il viso, lei fece fermare la macchina, alzò il suo sguardo magnetico verso i flash dei fotografi e con calma tirò una boccata dalla sigaretta.

Nemmeno il rombo del motore dell’aereo riuscì a coprire il rullo di tamburi che riempì la lunga notte dell’isola. Nel buio si svolgeva la caccia ai TonTon Macoutes, le guardie pretoriane dei Duvalier, che negli anni avevano ucciso in notti come quelle gli oppositori, e che ora venivano massacrati con il loro strumento preferito, il machete. Machete, dittatori, tamburi. Era una piccola anticipazione di quello che negli Anni Novanta avremmo poi visto nelle grandi guerre tribali africane. Haiti era infatti Africa allora, lo è sempre stata, lo è ancora oggi: e, come in Africa, una natura incontrollabile ha sempre punito questo pezzo di terra, aggiungendosi, imprevedibile, alle violenze degli uomini.

Fascino, paura, passione, unicità.

Emozioni che Haiti ha sempre suscitato, attirando poeti e scrittori come Graham Greene, creando una scuola di pittura naïf che è la più importante del mondo, mettendo in circolazione nelle vene dell’Occidente il virus dell’Aids passato ai bianchi benestanti del Nord, scesi a godersi a ore i piccoli e le piccole dee degli slums di Port-au-Prince. Emozioni che si spiegano solo per questa anima arcaica e africana dell’isola: il suo essere, nel cuore dell’Occidente, l’isola degli Schiavi che non sono mai riusciti ad affrancarsi.

Emozioni che oggi, di fronte al disastro umanitario, possiamo meglio chiamare mala coscienza. Il dannato circolo di violenze, povertà e distruzione, cui con foga si associa la natura, è un testo scolastico della storia del colonialismo. Quello di Washington, che da un secolo alternativamente manda nell’isola marines e spedizioni di aiuti umanitari - senza mai salvarla -; e quello europeo. Haiti è infatti un neo purulento sul volto di due delle più luminose pagine di storia del nostro mondo: la rivoluzione francese e quella americana.

Nell’isola, colonia francese per eccellenza, le idee di liberté égalité e fraternité furono accolte, celebrate e applicate con entusiasmo uguale a quello della madrepatria. Nel 1790, a meno di un anno dalla rivoluzione in Francia, 350 schiavi la imposero in Haiti. Peccato che la rivoluzionaria Francia fece sapere, nel 1791, che poteva dare diritti agli haitiani liberi, ma non affrancare gli schiavi. Dopo tutto la liberté non è da tutti.

Nasce lì, da quel rifiuto, la vera disgrazia di Haiti. Una schiera di schiavi neri, colti, entusiastici, cresciuti sugli stessi testi illuministi dei loro padroni, non accettò la disparità. Un cocchiere, Toussaint L’Ouverture, divenne leader rivoluzionario, poi generale e infine imperatore (una carriera tutta sullo stile di Napoleone, come si vede) e fece la sua rivoluzione: contro i bianchi francesi. Teste vennero tagliate, sangue fatto scorrere, piantagioni bruciate.

Quella di Haiti è stata la prima rivolta nera del mondo, e il primo Stato di schiavi affrancati. Piantata nel cuore dei Caraibi pieni di neri d'Africa, sotto le coste di Stati Uniti che di schiavi neri vivevano, la rivolta di Toussaint L’Ouverture divenne una minaccia per tutti. Liberò gli schiavi spagnoli dell’altra metà della sua isola, Hispaniola, istigò ribellioni ovunque, nell’America del Nord come del Sud. A un certo punto quattro milioni di schiavi cominciarono a guardare a lui come al loro imperatore. Un’idea inconcepibile, persino per gli uomini cui oggi guardiamo come ai padri della modernità.

Toussaint incrociò il suo destino con Napoleone e Thomas Jefferson: nessuno di loro due ebbe mai dubbi sul trattare questo schiavo come un ribelle da schiacciare. Jefferson non aiutò il generale nero, nemmeno per usarlo contro i francesi; e Napoleone segnò la fine del governo di Haiti imponendo un blocco commerciale, un embargo durato più di un secolo.

Haiti rivoluzionaria venne strozzata così nella culla dalle rivoluzioni moderne - ed è difficile trovare ancora oggi parabola migliore sui limiti delle nostre democrazie.

Gli Usa hanno provato a farsi carico nell’ultimo secolo di questo disastro. Nel 1915 inviarono i marines a imporre l’ordine e una costituzione che era stata preparata dal futuro presidente Franklin Delano Roosevelt. Uno dei primi atti del «riluttante» imperialismo americano. Da allora hanno ingombrato Haiti con soldati, religiosi, organizzazioni umanitarie, dittatori pur di tener lontana l’ombra della rivolta nera, questa volta nella forma del comunismo caraibico. Ma il risultato non è mai cambiato. Haiti è sempre rimasta povertà, sangue, voodoo, predicatori, sesso, liquore, prostituzione, e morte. Ferma nel tempo di una rivoluzione fallita, finita nella autodistruzione.

Chissà se il primo Presidente nero della storia degli Stati Uniti saprà fare occasione della immane tragedia attuale per provare a salvare il salvabile non solo delle vite umane, ma di questa lontana dignità storica.
 
da lastampa.it
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« Risposta #108 inserito:: Gennaio 16, 2010, 11:51:22 am »

16/1/2010

La cattiva coscienza degli Usa
   
LUCIA ANNUNZIATA

Un sogno luminoso sembra sorgere dalle macerie di Haiti, il sisma è una drammatica forma di eterogenesi dei fini. Per dimensioni, per miseria, per contrasto, l’orrore in cui sono morti gli ultimi della terra, sembra far scorgere di nuovo all’Occidente un segno morale nelle sue azioni. Guardare nell’abisso e chiedersi se non sia possibile reinventare la storia. Guardare al biforcarsi della strada tra quello che gli uomini possono fare o vogliono fare, tra decisione e passività, tra immaginazione e realtà. In fondo ai due sentieri c’è non solo il futuro di milioni di persone, ma il rispetto per sé stesse delle nostre buone democrazie occidentali.

Di questo parla l’incredibile sforzo umanitario messo in atto dalle nostre nazioni. Stati Uniti innanzitutto - che in queste ore sembrano aver guardato negli occhi il loro ruolo di padri-vessatori-padroni dei Caraibi, assumendosene le responsabilità. Il soccorso ad Haiti di Washington ha assunto dimensioni materiali e intellettuali che non si ricordano a memoria recente. Un ingente stanziamento di soldi e di uomini, benedetto da una promessa che ricalca le parole che Obama di solito riserva al suo Paese: «Voglio parlare direttamente alla gente di Haiti. Non sarete abbandonati, non sarete dimenticati. Nell’ora del vostro più intenso bisogno, l’America è con voi». Un intento firmato da una straordinaria unità politica della leadership americana: accanto a Obama, Hillary Clinton, Biden, ma anche Clinton e Bush.

Impossibile non leggere in questa coreografia, intensità di sforzi e unità di intenti, il disegno che gli Stati Uniti evocano: riprendere in mano la storia - quella fra Haiti e gli Usa - e riscriverla, per il bene di milioni di persone, ma, in definitiva, soprattutto per il bene e l’onore della stessa America.

I torti che Washington ha da farsi perdonare non sono infatti solo quelli delle origini: che la rivoluzione americana sia stata schiavista è ormai un fatto passato. Più dolenti sono invece le colpe maturate dalle amministrazioni Usa negli ultimi venti anni - democratici e repubblicani, Clinton e Bush, uguali. Non a caso i due ex Presidenti sono stati chiamati ad aiutare e non a caso entrambi si sono immediatamente - e umilmente - resi disponibili.

Ci sono ragioni specifiche per cui Haiti non è governabile da due decenni, cioè dalla fine dei 30 anni di dittatura dei Duvalier. Stato senza Stato, frontiere attraversabili con poche centinaia di dollari di corruzione, mano d’opera disperata, hanno fatto di questa isola il maggiore aeroporto illegale per lo smercio del traffico di droga dall’America Latina verso Usa e Europa. Secondo le stime ufficiali del governo americano, il 20 per cento di tutta la droga che arriva in Usa viene spedita attraverso Haiti. È ormai l’unica industria del Paese, dopo la fine del turismo a causa della criminalità. Nel 2003 Haiti è stata poi messa sotto osservazione americana per un secondo tipo di traffico non meno pericoloso: secondo Washington l’isola è la base per entrate clandestine in Usa di potenziali terroristi o immigrati da Paesi a rischio, come Pakistan e Palestina.

Dei due ex Presidenti, forse Bush è quello che porta sulle spalle la responsabilità minore - se minore è il peccato dell’oblio. Che Bush abbia scelto infatti di non focalizzare la sua attenzione politica su questo disastro, mentre gli Usa erano impegnati in Iraq e Medioriente, è stato quasi naturale. Ma è grazie a questa disattenzione che il ciclone del 1998 fu quasi ignorato in America. L’ultima volta che si è sentito parlare di Haiti, nell’epoca di George Bush è stato attraverso un appello dell’Onu nell’aprile del 2003, in cui si chiedeva alla comunità internazionale una donazione di 84 milioni di dollari per combattere la crisi umanitaria del Paese.

E’ Bill Clinton, che invece tentò una politica vera, ad avere la responsabilità del maggiore fallimento. Due giorni fa, nelle prime ore del disastro, è stato proprio un suo collaboratore, David Rothkopf che guidava l’agenzia clintoniana per la ripresa economica di Haiti, a fare pubblicamente autocritica. Nel 1991 venne eletto nelle prime elezioni democratiche del Paese il sacerdote Jean-Bernard Aristide, considerato dai democratici americani come un Mandela dei Caraibi. Ma Aristide provocò il definitivo collasso politico del nuovo Stato. Venne quasi immediatamente deposto, riportato al potere nel 1994 con l’appoggio militare e politico di Clinton; venne di nuovo deposto e di nuovo nel 2001 rimesso in sella. Questo indiscusso appoggio, dice ora David Rothkopf, fu il vero errore: «Alla fine venne fuori che Aristide non era il santo che le commosse star di Hollywood e i giornalisti americani liberal sostenevano». Eppure, continua, «sapevamo, ce lo aveva detto l’intelligence, chi era Aristide, ma abbiamo guardato dall’altra parte». Non fu un errore dovuto a malafede, ma, al contrario, a un’illusione: «Vedemmo Aristide come la possibile affermazione di una politica fondata sulla speranza». Ma il risultato è lo stesso. Per questo Clinton è rimasto impegnato con Haiti. Per questo oggi viene richiamato ad avere un ruolo.

Il fardello di decenni è ora tutto raccolto da Barack Obama, nero lui stesso - e il colore della pelle non è un dettaglio. Se Obama ridesse speranza ad Haiti, salverebbe gli errori del passato, e bilancerebbe forse nel suo cuore, e in quello di molti dei suoi votanti, le decisioni di guerra fatte dagli Usa, e oggi da lui stesso, su altri fronti.

Da Haiti insomma qualcosa può ripartire. La storia forse si può riscrivere. Di questo parlano queste ore. E se Cuba, l’Arcinemica, ha deciso di acconsentire ad aprire agli Yankee i suoi spazi aerei, per facilitare le operazioni di soccorso, forse a questo nuovo inizio gli Usa non sono i soli a pensare.

da lastampa.it
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« Risposta #109 inserito:: Gennaio 18, 2010, 12:07:23 pm »

18/1/2010

L'imbarazzo celato per il Pontefice tedesco
   
LUCIA ANNUNZIATA

Commozione, certo. Impossibile non sentirne. In via Catalana, una delle arterie del Ghetto, la veste bianca del Papa sfiora, dopotutto, le stesse pietre consumate dai passi di tanti uomini e donne che in quei pochi metri quadri sono stati costretti a vivere per secoli, chiusi da altri uomini con la veste bianca, da altri Papi come lui, Benedetto.

Commozione dunque, sì, certo. Ma filtrata, un po’ guastata, dall’imbarazzo. Un sentimento che nasce da ombre nominate ma non allontanate, decisioni prese e non spiegate, memorie onorate ma non risolte. Persino il peso di una tonalità di voce che echeggia a volte più rumorosa delle stesse parole: quel riflesso inconfondibilmente tedesco che risuona nella Sinagoga.

Bisogna essere ebrei per sapere che la memoria del passato ha una eco - quella della musica di un Wagner che accompagnava le giornate dei campi di concentramento, o quella dello stridore di un treno sugli scambi ferroviari, o di un accento, appunto, che da solo, irrimediabilmente, con un riflesso involontario, apre echi di voci che davano ordini, maltrattavano, condannavano. «Siamo cresciuti in una generazione - ricordava ieri Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica, poche ore prima dell’arrivo del Papa - che rifiutava di comprare ogni cosa che fosse stata prodotta in Germania; ci sono persone che per decenni non hanno preso nessun aereo che avrebbe anche solo volato nello spazio aereo tedesco. Oggi non è più così, racconta Pacifici, «ma bisogna sapere che i segni dei traumi e del dolore hanno molte forme, inclusa questa dell’udito».

Non è politicamente corretto dirlo, e nessuno lo ha ufficialmente detto, ma il fatto che un accento tedesco sia risuonato in Sinagoga, è stato ieri una parte vera, palpabile, e drammatica di un grande evento. Un accento che sottolineava la straordinarietà della visita: non è un caso che siano stati un Papa Polacco e un Papa Tedesco i due Capi della Chiesa Cattolica che hanno visitato il Tempio di Roma, il primo nel 1986, il secondo ieri. Che sia toccato a loro chiudere in maniera virtuosa un circuito maledetto nato dentro le loro nazioni di origine è per certi versi la maggiore prova del riscatto oggi degli Ebrei nel loro rapporto con la Chiesa.

Ma se la razionalità trova sempre una strada per farsi comprendere, non così il cuore. Sulla base di questo assunto si può così riassumere l’incontro di ieri: il Ghetto Ebraico ha accolto Papa Benedetto con intensità, e riconoscimento, ma non con facilità.

Nelle strade del piccolo borgo romano, affacciato sul Tevere e sull’Isola Tiberina, la più antica comunità ebraica della storia, che era lì ancora prima dell’Impero Romano, e che oggi vive all’ombra dei colonnati che ne costituivano i Portici, si è molto discusso dell’arrivo del Papa. Il Ghetto è piazza permanente, è una vita comunitaria senza soluzioni, dall’apertura dei negozi la mattina presto, al caffè prima del lavoro, fino a sera, con le sedie messe sui marciapiedi. In questi capannelli - rumorosi, per altro, perché gli ebrei di Roma amano parlare ad alta voce come tutti i romani - l’opinione su Benedetto XVI non è definita. Dal Papa espansivo che venne qui 24 anni fa e gridò abbracciando tutti che «gli Ebrei sono i nostri fratelli maggiori» sfondando gli ultimi muri psicologici del Ghetto, a questo Papa: la connessione in fondo non è mai stata ben fissata.

Per la prima volta, tuttavia, i dubbi degli Ebrei su un leader cristiano sono stati espressi e si sono sentiti con chiarezza, e hanno diviso una comunità che comunque, per un vecchio riflesso di autodifesa, alla fine fa sempre fronte comune. Le critiche pubbliche come quelle del rabbino Laras, di Milano, o di intellettuali come Luzzatto, sono state solo la punta dell’iceberg pubblico. A Roma, principale comunità italiana, influente per numero e centralità, si sono ascoltate nelle mattine nei bar e nelle sere in rosticcerie, le voci di chi, fino all’ultimo, non era convinto. Come quella di Terracina, un vecchio rispettato, amatissimo, sopravvissuto all’Olocausto, che ha detto (con espressione molto romana) «piuttosto sto a guardarmi la partita».

Chi è Benedetto XVI? Cosa davvero pensa di Lefebvre, cosa pensa davvero di Pio XII? Pio XII che ha taciuto, e la cui ombra si aggira sempre sulle bocche di tutti, qui al Ghetto, esattamente come il silenzio in cui il Pontefice si tenne chiuso allora mentre deportavano gli ebrei di Roma. Anche in questo, bisogna essere ebrei per sapere quanto quel silenzio ancora conti.

Alla fine, è prevalsa la gioia per un altro incontro con il Papa. L’orgoglio di potere esporre, aperto, e rivestito di fiori e frutta, il proprio Tempio, i propri rabbini, i propri ospiti, per accogliere il Capo della Chiesa cattolica, ha alla fine, ieri, gonfiato le stradine del quartiere. Ma qualcosa è rimasto, al fondo, di non detto. Qualcosa di non convincente. Come un affidamento non maturato. O un sospetto mai sedato.

Ma forse è meglio così. Esprimere apertamente dubbi, fare critiche, farsi domande, e non ricoprire ogni cerimonia della melassa della celebrazione a ogni costo, è prova di trasparenza, realismo, dunque di onestà.

La visita fatta ieri al Tempio da parte dell’attuale Pontefice non si ricorderà dunque come gloriosa, ma è possibile, che, proprio per questo, sia una tappa per grandi risultati.

da lastampa.it
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« Risposta #110 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:42:10 pm »

27/1/2010

No, disastro nei soccorsi
   
LUCIA ANNUNZIATA

E’ vero: gli Stati Uniti sono la nazione che più si è impegnata a fornire aiuti ad Haiti. Ma il fatto che siano i maggiori protagonisti dell’operazione, vuol dire anche che fanno tutto bene? Le parole di Bertolaso, capo della Protezione civile italiana, rappresentante cioè di un governo «amico», hanno causato una reazione del tutto spropositata.

A meno che non vi si legga il monito che nessuno può criticare gli Usa. Cosa ha detto, dopo tutto, Bertolaso? Che gli aiuti ci sono, ma che non arrivano alla popolazione in fretta, come dovrebbero arrivare. Ha detto che gli Americani hanno una grande struttura militare, che però non è adatta a gestire una emergenza post disastro.

La domanda è: le affermazioni di Bertolaso sono false? Non è forse quello che tutti i nostri inviati scrivono e ci fanno vedere da Haiti tutti i giorni? E’ forse normalizzata Port-au-Prince? Avete visto da qualche parte tendopoli? E’ normale che quindici giorni dopo il sisma la principale piazza della città - non un piccolo quartiere nel dedalo delle viuzze - ospiti una massa di migliaia di persone senza tende e senza regolare distribuzione di acqua e cibo? Sono invenzioni di Bertolaso le critiche di Sarkozy, il collasso del governo locale, e quello delle Nazioni Unite? E sarà un caso che le sue parole siano state ampiamente riprese anche da altri media internazionali, specie quelli inglesi? Se queste affermazioni hanno avuto tale eco, non è certo per la importanza del personaggio (ci perdoni Bertolaso), ma forse perché hanno toccato un nervo scoperto.

Sì, è vero che anche l’Europa sta facendo poco e male (baronessa Ashton, se ci sei batti un colpo!) e che molte critiche dovremmo farle anche a noi stessi. Ma gli Usa sono ad Haiti in maniera così massiccia non perché sono più bravi degli Europei, ma perché da un secolo sono il vero governo dell’isola. Dal 1915, anno del primo sbarco di marines sull’isola, fino ad oggi, Haiti è di fatto un protettorato americano. Ed è proprio nella consapevolezza di questa storia che Obama si è mosso (parole sue). Tra i presidenti Usa che si sono molto occupati di Haiti c’è anche Bill Clinton. Un impegno - anche quello - generosissimo, ma non necessariamente con successo: se si va a consultare Foreign Policy si potrà leggere l’autocritica su quegli anni scritta da David Rothkopf, l’uomo che guidava la agenzia clintoniana per la ripresa economica di Haiti. Oggi Clinton ha avuto da Obama l’incarico di seguire l’emergenza Haiti. Purtroppo è innegabile che ci sia andato una sola volta.

Indicare oggi dunque alcune mancanze di questo intervento non significa svilirne la generosità, ma capirne la complessità. A proposito: Clinton è anche marito di Hillary Clinton. Siamo certi che un segretario di Stato americano è al di sopra di ogni sospetto - ma non credo di sbagliare se dico che se si fosse trattato di un caso italiano avremmo indicato in questo intreccio un conflitto di interessi.

da lastampa.it
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« Risposta #111 inserito:: Febbraio 05, 2010, 12:13:13 pm »

5/2/2010

I leader parlano solo per il consenso
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il problema, con la leadership carismatica, è che diventa come un blog su Internet: ha bisogno di essere alimentata continuamente.
Il rapporto fra la persona e il suo magico consenso deve essere tenuto in vita con gesti, fatti, eventi, con un continuo climax in cui converge ogni momento la riaffermazione o la caduta di una proposta politica.

Sarà per questo che le relazioni internazionali, una volta reame di passi felpati e voci sussurrate, sembrano aver preso la strada dello strappo, dell’annuncio, e del grido. Con il risultato che raramente come in questi ultimi mesi viviamo come in una caverna che risuona di voci discordanti. Una cacofonia che rende quasi incomprensibili molti passaggi cui stiamo assistendo.

Ancora una volta il fenomeno è trainato dagli Stati Uniti. Negli ultimi mesi il Presidente Obama ha fatto una serie di scarti che hanno lasciato del tutto sorpresi - soprattutto per la sequenza in cui sono stati intrapresi.

L’esempio migliore è quello della Cina. Non avevamo fatto in tempo a sprecare parole sulla nascita del G2, questa quasi inevitabile alleanza tra le maggiori potenze attuali, Cina e Usa, che il G2 si è frantumato. Tutti i primi passi della nuova amministrazione di Washington sono stati segnati dal riconoscimento di fatto di questa inevitabilità: i primi passi del segretario di Stato Hillary Clinton sono partiti non a caso dalla Cina, e non dall’Europa, come tradizione.

Quando lo stesso presidente si è poi recato in Cina, pochi mesi fa, alla nascita del G2 Washington ha sacrificato le questioni del diritti umani, del Tibet, e della libertà individuale nell’ex Paese di Mao. Alla Cina sembrava tenere così tanto, Obama, che in dicembre ha inghiottito con grazia anche la mazzata sferrata da Pechino sul summit ecologista di Copenhagen.

Pragmatismo, realismo - Obama si è preso le sue brave lodi su queste decisioni; forse non dagli appassionati delle varie cause, ma dall’establishment mondiale di sicuro.

Solo un mese dopo l’amministrazione si è spostata sul versante esattamente opposto alla conciliazione. Hillary Clinton ha preso posizione contro la censura a Google, poi c’è stato l’annuncio della vendita delle armi a Taiwan e, ora, quello dell’incontro fra il presidente Usa e il Dalai Lama. Praticamente tre dita negli occhi della dirigenza cinese.

Ma ci sono altri casi clamorosi: quello dell’Iran è certamente il più drammatico. Washington ha tenuto una linea erratica: richiesta di sanzioni dure, richiami energici a tutti i partner (e gli alleati italiani ne sanno qualcosa di questa bruschezza di modi washingtoniani in merito all’Iran), alternata ad aperture a possibili trattative; difesa dell’opposizione iraniana nelle strade, seguita dal silenzio più totale mentre dall’Iran arrivano come uno stillicidio i numeri degli oppositori arrestati, impiccati, fucilati.

Dall’altra parte, va detto che l’oscillazione Usa ha attecchito in tutte le nazioni. Teheran negli ultimi giorni ci ha fatto sapere alternativamente di essere disposta a inviare l’uranio per l’arricchimento all’estero (posizione minima per una trattativa), ma anche che ha sperimentato un nuovo missile, e che Israele sarà cancellata dalla faccia della Terra. La Cina ha risposto al duro «nuovo Muro di Berlino» di Hillary, prima con un diplomatico: «richieste irragionevoli»; ora però è vicina all’aut aut sulla questione del Dalai Lama.

Di affermazioni bombastiche non ne mancano dal Brasile e dal venezuelano Chávez; né va dimenticato l’Osama bin Laden in versione (questo sì sorprendente) ambientalista. Qualche contributo a questa atmosfera è venuto anche dall’Italia. Il nostro premier è sembrato ondivago sulle critiche fatte dal Commissario Bertolaso agli aiuti Usa per Haiti prima smentendolo e poi celebrandolo. A proposito di Usa-Italia: qualcuno ha dimenticato il pesante intervento di Hillary sulla giustizia italiana per difendere l’Amanda di Perugia, per poi fare un immediato passo indietro? Durante la visita di Silvio Berlusconi in Israele abbiamo infine sentito il nostro Premier scagliarsi contro Teheran (rompendo così il ruolo di mediazione che in quel conflitto l’Italia intende da anni ritagliarsi) e celebrare in Israele l’operazione «Piombo fuso» a Gaza, e subito dopo dichiarare ai palestinesi «inaccettabili» gli insediamenti nei Territori.

La cacofonia è questa, questo accavallarsi di voci in cui è difficile ritrovare un filo conduttore.

«Mosse tattiche», «fragilità da coprire», si dice nel mondo diplomatico. Ma è egualmente difficile ritrovare un senso a tutto questo. A meno che, come si diceva, non si assuma il punto della leadership carismatica.

Le caratteristiche della vittoria di Obama, quel mix di fascino, proposte, speranza, affabulazione e esoterismo, sembra in realtà aver avuto una profonda influenza in tutto il mondo. Il patto diretto, emozionale, che un presidente stabilisce con il suo popolo è divenuto, quasi istintivamente, il segno che tutti i leader del mondo (salvo i pochi che proprio non ci riescono, come Brown) hanno copiato. Ma, come si diceva, la leadership carismatica è difficile da mantenere. Proprio perché si fonda su un patto diretto con i cittadini, rischia di spezzarsi in ogni momento, su ogni decisione «impopolare». Si è visto con Obama, quanto sensibile sia il consenso: e non è dunque difficile immaginare che molte mosse con la Cina (ad esempio) siano la risposta alle critiche che ha ricevuto sull’economia, o la mancata difesa del clima, o dei diritti umani. Identici meccanismi che si intravedono per Teheran, e tutti i leader fin qui citati. Senza escludere - tanto per far capire quanto pervasivo è il fenomeno - la stessa opposizione italiana.

La leadership carismatica può trasformarsi dunque in una sorta di trappola, che va alimentata in continuazione da misure «popolari», da gesti e annunci. A spese di quella che - come ben si sa - è la capacità di scelta che contraddistingue la vera leadership. Con il rischio di finir governati non dalle schede elettorali, ma dai poll di gradimento.

da lastampa.it
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« Risposta #112 inserito:: Febbraio 12, 2010, 02:12:39 pm »

12/2/2010

Adottiamo un iraniano
   
LUCIA ANNUNZIATA

Raramente il nostro ipertrofico ego occidentale è più umiliato che in giorni come questi - mentre migliaia di persone in queste stesse ore sono sotto attacco in Iran per affermare quel valore supremo che diciamo di avere come nostra bandiera di civiltà, la Libertà.

Noi non sappiamo fare altro che stare a guardare e prendere atto della nostra impotenza.

Noi che abbiamo addirittura teorizzato in decine di occasioni che la libertà va esportata anche sulla bocca dei cannoni, noi che chiediamo l’esame di «diritti civili» a paesi membri che vogliano entrare in Europa, noi che ci vantiamo di poter dettare le regole, monetarie e politiche, a tutto il mondo, di fronte all’Iran taciamo. Da almeno nove mesi - cioè da quanto dura la presente ondata di protesta «verde» nella Repubblica Iraniana - siamo precipitati in una balbettante confusione non tanto su «cosa fare», ma (addirittura!) su «se fare qualcosa».

Sfociando nel paradosso che, mentre nulla facciamo, ci scervelliamo sul livello di durezza che potremmo sfoggiare con l’Iran: mettere le sanzioni, chiudere i depositi bancari all’estero, montare una operazione di intelligence, scatenare una guerra cibernetica, o magari una guerra vera e propria. Se mi si permette di parafrasare una recente frase del segretario di Stato americano Hillary Clinton, questa sì che pare la discussione da bar nel dopo partita.

È tempo forse, invece, di riporsi la domanda, l’unica: davvero non si può fare nulla per la rivolta popolare verde o, anche solo, per le violazioni dei diritti umani in Iran? Davvero dobbiamo limitarci a registrare l’elenco di arresti e di impiccagioni che viene annunciato quotidianamente da Teheran? Tra l’oggi, il qui e ora, e una guerra totale, davvero non si può fare nulla?

Uno dei metri di misura della difficoltà in cui ci si trova sull’Iran è che chiunque pone questa domanda, pure ovvia, fa la figura dello scemo - tale e tanta è la superfetazione politologica del processo decisionale.

Si fa la figura dello scemo perché subito ti viene fatto notare, nell’ordine: 1) che l’Iran è troppo potente per poter essere attaccata militarmente, per cui inutile minacciare, o provocare; 2) ci sono troppi interessi industriali intrecciati fra noi e l'Iran per cui non possiamo davvero fare una politica di sanzioni efficace senza nuocere anche a noi stessi; 3) che la peculiare natura islamico-teocratica del governo di Teheran rende impossibile a noi occidentali intervenire senza fomentare una reazione religiosa ancora più severa e dunque in definitiva più dannosa per gli stessi oppositori.

Tutto vero. Ma tutto questo non prende in considerazione che quello che succede in Iran cammina sui piedi di milioni di persone e che sta camminando ormai da mesi, senza fermarsi. Questo movimento dunque va visto come la variabile che svela in fondo la rigidità di tutte le nostre analisi. Se tale movimento c’è e sfida carcere e morte per tanto tempo, forse c’è in Iran qualcosa che non rientra nelle perfette equazioni della nostra politologia. Forse c’è un vero tallone d’Achille, come credo, nella forza monocratica della Repubblica Islamica. Se questo fosse vero, anche il discorso politico potrebbe cambiare.

Certo, gli Stati debbono essere cauti. Le nazioni fanno bene a garantire affari e trattati internazionali.

Ma un movimento di persone chiama intanto la solidarietà di altre persone. Mentre gli Stati discutono e decidono, forse qualcosa possiamo fare noi - «noi» intesi nel modo più ampio: comuni cittadini, informazione, imprenditori singoli, o politici che si vogliono impegnare, o comunità del diritto.

Il più semplice degli aiuti che possiamo dare all’onda «verde» ci viene offerto intanto dalla cronaca. Teheran non vuole testimoni: non ha voluto ieri, per la festa islamica, giornalisti stranieri, e si appresta a non volere Google. Google che già negli ultimi mesi ha sperimentato molte interruzioni, anche se il governo sostiene che sono solo difficoltà tecniche.

La battaglia per impedire la chiusura di Google va fatta in Iran, come in Cina: perché questo è il nuovo luogo di difesa dei diritti umani. Ed è una battaglia che si può fare con efficacia e senza danni al business tradizionale, perché su Internet si muove una potenza economica e finanziaria che nulla ha a che fare con la vecchia economia, e che serve agli Stati molto più di una censura alla comunicazione individuale di un qualsiasi dissidente.

Una volta c’era nelle scuole l’incoraggiamento a crearsi degli «amici di penna», alunni di altri Paesi con cui ci si scriveva per «conoscere altri mondi». Sarebbe forse così impossibile oggi adottare un amico di e-mail per ogni cittadino iraniano che ha bisogno di farci sapere qualcosa?

Ci dicono le voci che arrivano da dentro l’Iran che il movimento verde è a una svolta, che nessuno sa più con certezza se, a fronte di queste repressioni di massa, ci sia più lo spirito o la convinzione per continuare. C’è già chi vuole fermarsi, e chi radicalizzarsi. In ogni caso a noi tocca non lasciare solo nessuno davanti agli attacchi e alle violazioni delle ragioni individuali.

da lastampa.it
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« Risposta #113 inserito:: Febbraio 27, 2010, 09:49:20 am »

27/2/2010

Sacrificato dai servizi pachistani

LUCIA ANNUNZIATA


E’ possibile che Pietro Antonio Colazzo, l’agente dell’Aise, l’agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna, cioè i servizi di sicurezza italiani destinati a operare all’estero, non sia stato sacrificato dai taleban, ma da suoi «colleghi» (e mi scuso per accomunarlo anche solo nel termine) pachistani. L’attentato a Kabul, contro un centro commerciale, col passare delle ore sembra assumere infatti un profilo molto più complicato di quello che si è dato per scontato all’inizio.

Secondo fonti dell’intelligence afghana, raccolte da vari giornalisti stranieri, l’attacco sarebbe stato ideato e portato a termine non dai taleban, ma dai servizi segreti del Pakistan, con lo scopo di inviare un pesante avvertimento all’India. Questa versione, in maniera più edulcorata, l’ha fornita del resto in una nota ufficiale lo stesso Karzai, che ha indicato nell’India - e non negli stranieri in generale - l’obiettivo della strage.

Non che tutto questo faccia alcuna differenza per i familiari del nostro agente caduto, né per tutte le altre vittime; ma potrebbe farlo per il nostro dibattito politico interno che, ancora una volta, accenna a riprendere fiato, come sempre ogni volta che un italiano resta sul terreno nella missione afghana.

I pachistani, arcinemici dell’India, e con l’India impegnati da molti anni in una guerra di frizione in zone della loro frontiera, temono oggi la crescente influenza indiana nel Paese di Karzai. Secondo una versione più o meno oggi accertata, sono stati loro a progettare e portare a termine, insieme ai taleban, i vari attacchi all’ambasciata indiana a Kabul: quello nel luglio 2008, costato più di 60 morti, e l’altro, nell’ottobre scorso, con 17 morti.

Cosa significhi questa aggressiva presenza a Kabul dei servizi pachistani, ai fini del nostro dibattito sulla missione in Afghanistan, è presto detto: la guerra in quel Paese è ormai ben oltre il punto di non ritorno di una possibile negoziazione. Per la semplice ragione che, negli ultimi anni, la situazione interna del Paese si è frammentata e frantumata in molte schegge di conflittualità ed interessi: si è divisa in zone rurali e non, fra aree controllate o no dai taleban, in aree di influenza in cui i giochi sono molti. E’ il profilo di un conflitto che continua a muoversi sotto i piedi della missione Onu, e quella americana. Troppo in movimento perché si possa fare - almeno finora - un punto fermo da cui ricominciare un processo politico.

In termini di decisioni nazionali dei Paesi che hanno lì delle truppe questo significa una sola cosa: che il ritiro delle truppe - che deve essere giustificato da una qualche stabilizzazione interna - è ben lontano dall’essere possibile. L’offensiva lanciata dagli americani nelle ultime settimane, seguita al rinnovato impegno militare del presidente Obama, è in fondo la presa d’atto proprio che le forze occidentali, a quasi un decennio dal loro primo impiego nel Paese, non hanno mai davvero raggiunto il controllo del territorio. Tanto per capire la dimensione dell’impegno che gli Usa hanno ancora davanti, basta leggere le dichiarazioni dell’Amministrazione americana, che proprio ieri ha detto che la grande operazione appena finita, che ha portato alla conquista della roccaforte talebana di Marjah nell’Helmand, è solo «un preludio tattico» a una più ampia operazione nella provincia di Kandahar.

Questo in fondo è tutto quello che c’è da dire sull’ennesimo attacco dentro la capitale afghana. Una sintesi che, nella sua scarsità di parole, riflette quanto scarna sia diventata la verità di quel che succede in quel Paese.

Eppure, per quanto ridotta all’osso sia ormai la situazione afghana, non è detto che non peggiori.

Nell’agenda mediorientale c’è un nuovo appuntamento che contiene ulteriori incognite. Il 7 marzo, fra due domeniche, si va al voto in Iraq. Sono le seconde elezioni (le altre nel 2005) dopo l’invasione del 2003 da parte degli americani, e hanno la potenzialità di farci capire se la pax americana lascia dietro di sé, dopo sette anni, un Paese in grado di reggersi da solo, o se ancora una volta prevarrà la strada della lotta intra-etnica, del frazionamento religioso e politico. Gli iracheni vanno alle urne sullo sfondo del ritiro delle truppe Usa, che dovrebbero essere ridotte a 50 mila uomini in settembre, e poi azzerate nel 2011.

Per capire la frammentazione del Paese basterà sapere che alle urne si presentano 306 organizzazioni, di cui 251 in liste coalizionali e 55 da sole, per eleggere 325 membri del Consiglio dei Rappresentanti dell’Iraq, che a loro volta eleggeranno il primo ministro e il Presidente del Paese.

Ha scritto di recente Thomas Freedman sul New York Times: «Le elezioni ci faranno capire se l’Iraq è quel che è a causa di Saddam, o se è quel che è a causa di se stesso». Una bellissima affermazione su guerra e cultura o, se preferite, su politica e storia.

Ma al di là della letteratura, il rischio che giace al fondo delle urne irachene vale non solo per l’Iraq, ma, come si diceva, per tutta la zona di instabilità del Medio Oriente.

Negli ultimi dieci anni la guerra è stata come un pendolo che alternativamente ha oscillato fra Iraq e Afghanistan, passando per l’Iran. Nelle elezioni irachene, che saranno guardate anche per misurare il peso che l’Iran ha guadagnato in Iraq, si capirà soprattutto se questo pendolo può fermarsi.

La stabilizzazione dell’ex Paese di Saddam darebbe infatti agli americani sia la forza politica di aver stabilito un punto fermo, sia la forza militare di potersi concentrare sull’Afghanistan. Altrimenti il pendolo riprenderà a muoversi, con gli effetti distruttivi di sempre.

da lastampa.it
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« Risposta #114 inserito:: Marzo 16, 2010, 10:24:23 am »

16/3/2010

Tutto Obama in sette giorni

   
LUCIA ANNUNZIATA

Nella storiografia presidenziale americana esiste un passaggio considerato essenziale, di natura quasi mitologica.

È il «the defining moment», il momento in cui un Presidente, dopo essere stato votato, trova sé stesso, definendo la Storia.

Senza questo salto non ci sarebbe la stessa Presidenza americana, il suo valore esemplare, che la distingue - almeno nelle aspettative - dall’essere una carica puramente istituzionale. Per George Washington il momento fu l'attraversamento del fiume del Delaware la notte di Natale del 1776, per Kennedy fu il discorso di Berlino, per Franklin D. Roosevelt la decisione di entrare nella Seconda guerra mondiale. Ci sarà, quale sarà, e quando sarà il momento di Obama? Che sia proprio questo, che sia vicino, che sia questa settimana, che sia la riforma della assistenza sanitaria?

Nel clima infuocato di Washington, si ascoltano, tra le molte accuse e proteste, anche queste domande. Il clima è di fuoco perché la settimana che inizia potrebbe davvero definire se non la Storia con la maiuscola di sicuro una importante parte del lavoro fin qui fatto da Barak Obama.

Se tutto va infatti secondo i piani, i Democratici potrebbero essere in grado di inviare a fine settimana la legge sulla riforma sanitaria al Presidente. Cioè pensano di ottenere il voto della Camera dopo il sì ottenuto di misura al Senato, e di poter dunque presentare al Presidente il testo in maniera che possa firmarlo per tradurlo in legge.

Ma, a settimana iniziata, nessuno davvero sa se il testo sarà pronto, nel senso che dal testo dipende il numero di voti che gli si raccoglieranno intorno. Dunque si può ben dire che nonostante la sicurezza che i Democratici sfoggiano, i voti non ci sono, altrimenti, come dice l’opposizione, «al voto si sarebbe già andati». In corso c'è così una specie di gioco di guardie e ladri, in cui la abilissima Nancy Pelosi tesse la tela dei contatti per cercare consensi, ma senza scoprire le sue carte, mentre i Repubblicani moltiplicano le denunce del bluff.

Lasciamo qui perdere la descrizione delle molte manovre e possibili compromessi legislativi che nei prossimi giorni si affronteranno, per poter arrivare al voto - dopotutto l'attività parlamentare è fatta di cavilli e accordi a tutte le latitudini e in tutte le nazioni.

Quel che conta è che al di qua dei corridoi, e delle aule del Congresso, questo voto sulla riforma sanitaria ha acquisito, o forse acquisito per la prima volta, una dimensione definitoria per la Presidenza. Obama ne è perfettamente consapevole; sembra anzi voler sottolineare questo aspetto: ha spostato infatti il suo viaggio in Asia per attendere il voto, e il gesto da solo ha drammatizzato l'appuntamento dandogli la valenza di vittoria o sconfitta. La Casa Bianca insomma ha rimesso definitivamente il suo volto, e dunque il suo operato, su questa riforma.

Voto che a sua volta assume, nel tipo di consenso che raccoglierà o meno, anche il valore di fotografia dello stato del partito democratico. Molte delle difficoltà dei congressisti a votare la riforma dipende infatti dal loro elettorato e dall'impatto che il voto a Washington può avere nei loro territori di origine. Ci sono resistenze di natura etica, legate al finanziamento indiretto dell’aborto.

Pochi mesi fa in Senato fu trovato un modo per aggirare questo problema, restringendo con una mossa molto spregiudicata da parte di Nancy Pelosi, famosa abortista, quasi ogni finanziamento ai settori pro-choice.

Oggi alla Camera si propone lo stesso problema, ma paradossalmente in maniera meno rilevante. I democratici sono pronti a cancellare ogni discorso sull'aborto che la riforma potrebbe legalizzare.

Ma a differenza di quando si votò al senato, oggi le preoccupazioni maggiori paiono essere più di natura economica che morale. Come verrà finanziata questa riforma? E' sempre stato il dubbio di tutti. Oggi non è nemmeno un dubbio, nel senso che la risposta è ormai chiarissima anche nelle parole dei Democratici: la riforma sarà un inevitabile peso sulla spesa pubblica.

E la spesa pubblica di Obama oggi continua a salire, e non dà nessuna indicazione di frenata.

La terza grande componente che, in questa vigilia di voto, contribuisce a fare del passaggio della Riforma un momento definitorio per Obama, è proprio la preoccupazione per una crisi economica che, nonostante tutti gli sforzi, rimane fuori controllo. Il debito pubblico americano è oggi il più alto della sua storia, e con un governo che ha profonde riforme in mente e non può alzare le tasse, non si vedono segni di soluzione. E' esattamente il problema che ha l’Europa, dopotutto, ed è paradossale ma anche pericolosissimo che si presenti, e non abbia soluzioni in vista, anche in Usa. In fondo a tutto questo, in autunno, si profila la tagliola: le elezioni di mid-term sono infatti già state definite da alcuni nel giro dei più stretti collaboratori di Obama come un potenziale «massacro».

Quella che si addensa questa settimana, intorno al voto, è dunque davvero una sorta di tempesta perfetta, come amano dire qui in Usa quando si concentrano multiple avverse condizioni di maltempo.

Ma, come si diceva, proprio questa tempesta perfetta può essere la materia in cui si fa o si disfa la Presidenza Obama. I mesi passati sono stati per il leader americano un faticoso alternarsi di alti e bassi, di successi e insuccessi. In molti punti la tela del suo charme, della sua politica e delle sue alleanze, mostra la corda. Contrasti interni cominciano a scoppiare nel circolo più intimo dei suoi collaboratori, e deputati e senatori cominciano a guardarsi intorno. Alcuni sostengono che la stessa magia del «cambio» si è appannata. La ostinazione con cui Obama ha deciso ora di tenere, difendere, e sostenere la Riforma sanitaria, a dispetto di tutto, sembra essere una sua riscossa.

Forse sarà l’errore della sua vita, forse sarà una sconfitta, dicono in molti. Ma a questo punto di sicuro ha preso le forme di un suo incontro con il destino. Un punto dove si capisca, (e magari lo capisca lui stesso) per dirla con David Brooks, «Chi è Barack Obama».

da lastampa.it
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« Risposta #115 inserito:: Marzo 18, 2010, 08:46:45 am »

18/3/2010
Obama-Israele molte ripicche scarsa visione
   
LUCIA ANNUNZIATA

Una spirale di ripicche e offese ha portato le relazioni fra Usa e Israele, nel giro di un fine settimana, al livello di bandierina rossa. Uno stato di eccezionale emotività, che si può misurare con efficacia dal riverbero che ha avuto nelle parole di un grande giornalista, nonché difensore (finora) inflessibile di Israele. Thomas Friedman, pluripremio Pulitzer, sul «New York Times» domenica ha marchiato il comportamento di Gerusalemme con parole di fuoco: «Il vicepresidente Biden avrebbe dovuto tornare immediatamente a bordo dell’Air Force Two e lasciare il seguente messaggio dall’America al governo di Israele: gli amici non permettono agli amici di guidare ubriachi. E in questo momento voi state guidando ubriachi. Pensate davvero di poter mettere in imbarazzo il vostro unico alleato al mondo, per rispondere alle vostre beghe interne, senza pagarne le conseguenze? Avete perso totalmente contatto con la realtà. Chiamateci quando sarete seri».

Non a caso, Friedman parla di telefono. Riprende infatti quasi letteralmente un’altra citazione telefonica usata per mandare a quel paese Israele. Nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo, l’allora segretario di Stato James Baker, dell’amministrazione di Bush padre, stanco di dover convincere Israele a sedersi al tavolo delle trattative di Oslo, sbottò: «Conoscono il mio numero, possono chiamarmi». Aggiungendo: «F... the Jews. Comunque non ci votano».

Finora era stato quello il punto più basso nella storia delle relazioni fra i due Paesi, ma la crisi attuale sembra averlo però ampiamente superato. Umori come quelli di queste ore non si coglievano effettivamente da anni. Che non ci sia grande amore fra Barack Obama e Bibi Netanyahu, fra l’attuale amministrazione democratica e il governo di Gerusalemme, è ormai un dato (tristemente) acquisito. Ma che il governo israeliano si lanciasse in una pubblica campagna di deterioramento delle iniziative americane in Medio Oriente non lo avrebbe previsto nessuno. Meno di tutti l’uomo cui è stato fatto lo sgarro, l’elegante vicepresidente Joe Biden, recatosi la scorsa settimana in Israele nell’ennesima visita per il processo di pace, e trovatosi spiaccicato in faccia l’annuncio del governo di Israele di aver avviato la costruzione di 1600 nuove case a Gerusalemme Nord-Est, confine zona araba.

Viceversa, si può dire che nemmeno Israele aveva anticipato le conseguenze di questo suo gesto di pubblica umiliazione. Washington ha risposto con indignazione, denunciando lo «schiaffo», ventilando conseguenze, arrivando a parlare del primo ministro israeliano senza mai citarne il titolo ma chiamandolo solo con il nomignolo, Bibi. Bibi come il bullo del quartiere, la testa calda del cortile di casa. Questa reazione emotiva da parte di Washington sta scuotendo il mondo diplomatico. Può piacere o no, è però di sicuro una diversità rispetto al passato, una forma di trasparenza rispetto al manierismo che spesso soffoca il dibattito pubblico fra nazioni.

In questo senso, la franca incavolatura della Casa Bianca va presa come una indicazione in sé: il segnale di quanto preoccupati siano gli americani per la situazione mediorientale. Secondo quanto è stato fatto circolare nella capitale, Obama pensa che Israele non abbia sufficiente cognizione della delicatezza della sua posizione, e della politica americana. Forse il maggior impegno preso in politica estera dal Presidente è stato proprio quello di affrontare di petto la riappacificazione con il mondo arabo. Nella convinzione - da Obama più volte sottolineata - che la tensione fra Est e Ovest non sia uno scontro di culture, ma uno scontro politico.

Naturalmente già in questa distinzione fra scontro di culture e tensione politica si può leggere un mare di distanza fra Israele, che legge la sua missione come quella di «faro» dell’Occidente, e il pragmatismo a-ideologico di Obama.

Ma fin qui le posizioni fra i due alleati potrebbero anche convivere. Se non fosse che la politica Usa ha dovuto fare in questi mesi un bagno di realtà. Il Presidente democratico, che pure si è preso la responsabilità di parlare al mondo arabo recandosi di persona in una delle sue capitali, Il Cairo, oggi, poco più di un anno dopo, si ritrova con in mano due guerre con gli arabi - una in Afghanistan e l’altra non del tutto conclusa in Iraq - e una potenziale deflagrazione mondiale con l’Iran. L’avvio di un qualunque colloquio fra palestinesi e israeliani, fosse anche solo formale, darebbe al presidente Obama una boccata di ossigeno, una carta da giocare, una prova che il meccanismo può essere da qualche parte disinnescato.

La teatralità, le ripicche di Gerusalemme sono in questo senso avvertite a Washington come un personale affronto, ma, ancora di più, un irresponsabile calcio negli stinchi all’unico alleato, come dice appunto il giornalista Friedman. Dunque una immaturità totale di Israele. Che è poi la conclusione cui porta la tensione di queste ore. Fra Israele e Stati Uniti ogni rottura è impensabile. Eppure, il rapporto automatico, senza ombre, paritario fra loro sembra decisamente in declino. Per colpa di Obama, amano dire molti in Israele. Per colpa di Israele, rispondono molti a Washington, convinti che mettere in imbarazzo un Presidente americano per dare soddisfazione ai propri elettori è segno di una grave perdita di visione e di grandezza da parte del governo di Gerusalemme. Sono due linee non di collisione, ma certo non più di reciproca e indiscussa appartenenza.

da lastampa.it
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« Risposta #116 inserito:: Marzo 22, 2010, 12:27:23 pm »

22/3/2010

Sanità Usa, le insidie non sono ancora finite

   
LUCIA ANNUNZIATA

L’happy ending non è stato ancora apposto in calce ma, mentre scriviamo, l’approvazione della riforma dell’assistenza medica, la più ostica e intensamente ideologica legge del dopoguerra americano, sembra essere molto vicina. Se questa speranza dei democratici si materializzasse nel corso della nostra notte, da questa mattina anche in Usa - il Paese della libera concorrenza, del capitalismo senza pentimenti, dell’individualismo senza mitigazioni - i poveri potranno (più o meno) avere cure mediche. E Obama avrà firmato il primo vero passo del promesso «cambio», e rovesciato il corso declinante in cui era entrato.

La eventuale vittoria conseguita non porta tuttavia necessariamente al consolidamento della sua Presidenza. Anzi.

La battaglia per far passare questa riforma ha infatti profondamente inciso nel tessuto politico americano, cambiando il sistema degli alleati e quello dei nemici. Davanti al Presidente, nel momento stesso in cui prenderà atto di aver vinto, si presenteranno dunque nuovi terreni di conflitto persino più insidiosi di quelli finora affrontati. Fra gli amici persi nei mesi scorsi ci sono sicuramente i democratici pro aborto.

La vittoria della legge ieri è apparsa vicina quando il decisivo gruppo di antiabortisti, repubblicani e democratici, guidati dal democratico Bart Stupak ha deciso di votare a favore. La Casa Bianca ha subito annunciato una nuova misura per rassicurare la sua base a favore dell’aborto. Ma, come si dice, nessuno è scemo: e tutti a Washington hanno ben valutato il significato del gruppo di Stupak.

Ci sarà dunque da aspettarsi molta delusione nel fronte pro-choice ma, per dirla con Shakespeare, si tratterà alla fine di «molto rumore per nulla». Il sostegno pro-aborto all’interno del Partito democratico è da anni ormai più una battaglia di identità, legata a un certo periodo, gli anni Sessanta, che una reale battaglia di libertà. Negli ultimi 30 anni la questione femminile in America si è completamente ridisegnata, e non a caso nessuna delle grandi donne al potere oggi, che pure negli anni Sessanta sono state protagoniste della battaglia pro aborto, ha fatto sentire la sua voce. Né è un caso che il sacrificio di questo fronte sia stato portato a termine con sveltezza e senza pentimenti da una abortista convinta quale è Nancy Pelosi. Taglio saggio, dunque, taglio di un mito, a favore di una più concreta assistenza sociale: ma ugualmente, dello scontento di pezzi del partito democratico sentiremo molto nei prossimi mesi.

Il fronte più pericoloso per la Casa Bianca oggi è quello dei nemici che, nella opposizione alla riforma, si è approfondito nei toni, negli umori, e si è allargato, includendo il potenziale risentimento di forti settori economici che non sono solo le grandi industrie della sanità.

Con quali umori si debba confrontare Obama lo abbiamo visto - tanto per fare un solo esempio - dalla manifestazione inscenata dai militanti del movimento Tea Party alla vigilia del voto. Hanno aspettato rappresentanti democratici, chiamandoli «Nigger», o «Faggot», dispregiativi per nero e omosessuale, e innalzando cartelli oltraggiosi, quale il disegno di Obama defecato da un asino a illustrare lo «sterco d’asino». Ma anche di questi il Bardo di Avon direbbe probabilmente «tanto rumore per nulla».

Obama ha nel prossimo futuro da temere molto di più da nemici che per ora non sfilano. Come si sa, il colpo che davvero uccide è quello che cala svelto, silenzioso, inatteso, e nel segreto del buio. E di colpi come questi se ne stanno preparando molti, nei segretissimi santuari del potere economico americano. Si sa dello scontento delle Farmaceutiche. Ma nella equazione di Washington è entrata ora anche Wall Street. La Wall Street che dalla crisi del 2007 è uscita indebolita ma non vinta e che, dopo essere stata salvata da un presidente democratico, guarda oggi con favore ai repubblicani. Dei democratici le banche temono infatti la legge di riforma delle regole per le istituzioni finanziarie.

Sulla natura e l’impatto di questa sfida val la pena di leggere direttamente Frank Rich, che sul New York Times scriveva tre giorni fa: «La battaglia intorno alla riforma delle regole è cominciata la scorsa settimana con la presentazione al Senato del progetto di legge di Chris Dodd… e la guerra che sta per iniziare ha a che fare non solo con chi controllerà Wall Street, ma su quali saranno le regole. La domanda ora per i politici è: con chi si schiereranno? La leadership repubblicana si è già dichiarata inequivocabilmente la settimana scorsa. Parlando alla American Bankers Association il leader repubblicano della Camera, John Boehner, ha promesso una netta opposizione alla legge di riforma». Il feeling fra banche e i repubblicani, d’altra parte, è stato già confermato dalle donazioni di sostegno. Perfetto esempio del cambio di clima: la JP Morgan Chase e i suoi dipendenti, che nel 2008 avevano garantito corpose sottoscrizioni ai democratici, l’anno scorso hanno dato il 73 per cento delle loro donazioni ai repubblicani.

È dunque un percorso in salita quello che aspetta Obama. Ma la vittoria di queste ore gli fornisce una sorta di orientamento, una bussola per navigare dentro la frammentazione degli interessi della società americana. Se è riuscito oggi a far prevalere sugli interessi elettorali ed economici di forti settori sociali quelli di una parte di società senza grande potere, forse ha trovato una chiave di volta per riallineare in maniera diversa l’interesse privato e quello pubblico del sistema di cui è a capo.

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« Risposta #117 inserito:: Marzo 24, 2010, 08:34:55 am »

24/3/2010

L'America che odia Wall Street
   
LUCIA ANNUNZIATA

Sembrava quasi dimenticata. Lo tsunami di licenziamenti e difficoltà seguito alla crisi del 2007 sembrava aver dato a Wall Street il beneficio di almeno un attimo di riposo dalla rabbia della pubblica opinione. Guerre, disoccupazione, riforma dell’assistenza medica sembravano aver spinto il Quartier Generale del Denaro in fondo alla lista degli interessi dei cittadini.

Ma sotto sotto la rabbia contro la grande finanza ha continuato a scavare nella percezione degli americani, costituendo una fertile base per un clima antisistema, in un Paese che è da sempre incline al rifiuto di grandi ingerenze. Grazie a una serie di rivelazioni, libri, iniziative, e passaggi politici - fra i quali innanzitutto la presentazione al Senato della nuova legge sulle regole - Wall Street sta ritornando alla grande sotto attacco.

Di come la grande crisi abbia scavato un fossato nella psiche americana si è occupato la scorsa settimana il Los Angeles Times. Nulla di psicologico: in realtà l’articolo era dedicato ai mutui. Ma, essendo la bolla edilizia la miccia che ha acceso la crisi, c’è molto da capire dai comportamenti di coloro che hanno un prestito sul collo in Usa.

La storia è questa - ed è una storia tutta nuova -: circa 11 milioni di mutui, cioè un quarto del totale, è «under water», sott’acqua; vale a dire che sono stati utilizzati per comprare case il cui valore è oggi sotto il prezzo che avevano al momento dell’acquisto. Con buona probabilità di non tornare più a quel livello. Dalla crisi del 2007 il prezzo medio delle case in America è in parte risalito, ma è rimasto ampiamente al di sotto del picco che aveva toccato prima.

Nulla di nuovo, dunque nella sofferenza del settore. Molto di nuovo invece da segnalare sul comportamento di coloro che hanno contratto questi mutui. Invece di continuare a nuotare «under water», molti cittadini che pure sono in grado di pagare, preferiscono oggi semplicemente lasciare la casa e liberarsi del pagamento. Preferendo nuovi acquisti o nuovi affitti, che la crisi ha reso disponibili a minor costo. In gergo, queste decisioni sono state battezzate «strategic defaults», per distinguerli dai fallimenti obbligati. E le perdite? Le perdite tornano alle banche, e in parte alla comunità dal momento che lo Stato con i soldi delle tasse ha salvato le banche.

Il fenomeno ha già raggiunto una consistenza tale da essere rilevato dal sistema. Per inciso, è un professore italiano, Luigi Zingales, della Booth School of Business dell’Università di Chicago, a seguirne lo sviluppo, che a dicembre costituiva il 35 per cento del totale dei fallimenti, rispetto al 23 per cento del marzo 2009. Il timore è che questo atteggiamento cresca al punto da avere un impatto sulla ripresina del settore.

Ma al di là degli effetti economici, è l’indicatore morale che lampeggia rosso in questa tendenza. Questo comportamento è del tutto nuovo in un Paese dove la capacità di mantenere il proprio livello di vita e i propri impegni economici ha sempre costituito parte essenziale dell’onorabilità pubblica e privata della persona. «È il segno di una crescente rabbia, una crescente consapevolezza che esiste un doppio standard in base al quale le banche sono state salvate e i cittadini invece devono rispettare i loro impegni», secondo Brent T. White, professore di Giurisprudenza alla University of Arizona che ha scritto un saggio sul fenomeno.

Dal default economico, al default etico? È questa una possibile conseguenza di questi anni di crisi? Sono un po’ le domande che si pongono oggi sul tavolo della politica. D’altra parte, non farsi prendere dal menefreghismo, se non addirittura dal cinismo, è un po’ difficile di fronte al permanente malcostume degli ambienti finanziari. Alle notizie sui dividendi che continuano ad essere distribuiti a dispetto della crisi, si è aggiunta la settimana scorsa la conclusione dell’indagine sulla «madre» di tutti i fallimenti, quello di Lehman Brothers Holding Inc., il cui collasso il 15 settembre costituì l’inizio della fine per molti.

L’inchiesta, ordinata dalla Corte Federale di Manhattan, sulla bancarotta di Lehman Brothers Holding Inc., e istruita da Anton Valukas, spiega in 2200 pagine una verità che si traduce in una riga: i top manager di Lehman sapevano della bancarotta e, invece di avvertire, si impegnarono in una manovra illegale per muovere 50 milioni di dollari, al fine di continuare a truccare i bilanci, dimostrando una liquidità che non avevano. Secondo Anton Valukas, i capi della Lehman «sapevano già il 2 settembre», cioè due settimane prima della crisi, della loro insolvenza. In almeno un caso la consapevolezza arriva ben prima: «In una occasione - scrive Valukas - nel maggio del 2008, un vicepresidente della Lehman avvertì i dirigenti di potenziali irregolarità, ma il rapporto fu ignorato dalla società di revisori Ernst & Young». Interessante è anche capire la manovra illegale messa in atto: la Lehman vendette 50 milioni di pacchetti azionari in cambio di denaro liquido, con impegno a ricomprare più tardi gli asset. Un regolare e legale accordo, che però venne registrato come vendita, in modo da poter contabilizzare la liquidità. Partners in questa manovra furono due grandi banche, JP Morgan Chase & Co. e Citigroup Inc. Sapevano, dunque, tutto a Wall Street. E hanno continuato fino all’ultimo a fiancheggiarsi a vicenda.

All’oltraggio generale causato da questo rapporto - ampiamente riportato nei media - si sono aggiunti altri fuochisti. È uscito ad esempio l’ultimo libro di Michael Lewis, «The Big Short: Inside the Doomsday Machine» (Ed. Norton), in cui l’autore, scrittore già molto popolare di temi economici, esplora proprio il tema del «saper tutto prima». Peraltro facendo una serie di casi specifici di investitori e manager che avevano capito la caduta e che, proprio mentre il mercato si liquefaceva, hanno fatto fortuna per sé e per i propri clienti. L’accumulazione di questo malumore contro il Big Business è destinata, ovviamente, a riversarsi tutta su Washington.

La legge per approvare un sistema di nuove regole per il mercato è stata approvata dalla commissione Finanza e passata al Senato proprio il giorno dopo l’approvazione della riforma sanitaria. Ma il modo come la proposta, firmata dal senatore democratico Chris Dodd, è passata in commissione è indicativo dell’umore con cui è stata accolta: le 1300 pagine di testo sono state votate in 21 minuti perché i repubblicani hanno deciso di non presentare nessuno dei 200 emendamenti che pure avevano preparato. Tanto per mettere bene in chiaro il loro assoluto rifiuto anche solo a discuterne. Del resto la leadership repubblicana si è già dichiarata per bocca del loro leader alla Camera, John Boehner, che, parlando all’American Bankers Association, ha promesso ai banchieri una netta opposizione alla legge sulle regole.

Si profila dunque per Obama uno scontro epocale con Wall Street? Sì e no. La risposta non è del tutto chiara. Visto l’umore che c’è in America e che abbiamo tentato di descrivere, è possibile che una forte presa di posizione da parte dello Stato contro la speculazione finanziaria e i grandi interessi economici non trasparenti abbia un ampio riscontro anche fra i repubblicani. Non è un caso che un idolo di questo tipo di opposizione, Glenn Beck, il Santoro americano, si sia sempre dichiarato nemico proprio di Wall Street.

da lastampa.it
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« Risposta #118 inserito:: Aprile 10, 2010, 09:07:13 am »

10/4/2010

Usa-Israele, il bivio nucleare

LUCIA ANNUNZIATA

Fossi Benjamin Netanyahu preparerei la valigia: per andare a Washington all'ultimo minuto, dopo aver preso atto di aver fatto una sciocchezza; o per andare a casa dopo aver perso l'incarico di primo ministro; in alternativa, per andare a meditare sulla tomba del suo maestro e predecessore Yitzhak Shamir, l'ultimo leader israelano in ordine di tempo che - benché più prestigioso e abile di Netanyahu - fu defenestrato da un presidente americano (Bush padre) per essersi messo di traverso ai progetti in Medioriente della Casa Bianca. La ragione per cui siamo preoccupati per il Premier Israeliano Bejamin Netanyahu è che ha preso ieri una decisione molto azzardata, per sé e per il suo Paese. Ha cancellato la propria partecipazione al vertice di 47 Paesi sulla sicurezza nucleare promosso dal presidente Usa per il 12 e 13 aprile a Washington, sostenendo che i delegati musulmani avrebbero chiesto ad Israele di rinunciare al suo presunto arsenale atomico.

Con il rifiuto Bibi ha lanciato una sfida al Presidente Obama sul cui eventuale e finale risultato non credo ci siano dubbi. Tre giorni fa il Presidente americano ha firmato con il Presidente Russo Dmitry Medvedev un patto di disarmo degli arsenali nucleari, un passaggio definito con buone ragioni «storico» perché dà l'avvio a una nuova strategia globale di limitazione dell'uso delle armi atomiche. La partnership de-nucleare dei due ex nemici nucleari, firmata con tutto il possibile impatto mediatico nella città di Praga simbolo della Guerra Fredda, è valso, per le due nazioni, Usa e Russia, come riscrittura di una virtuosa nuova bipartnership globale. Dall'inchiostro delle penne di Obama e Medvedev è fluito infatti anche un indiretto patto di collaborazione nel controllo di tutti gli attuali e futuri pericoli di riarmo: con un indiretto ammonimento alla Cina, un diretto monito ad Al Qaeda, alla Corea del Nord, e una minaccia netta e pubblica all'Iran.

Nel corso della stessa conferenza stampa in cui si presentava la riduzione degli arsenali, Obama, spalleggiato dal partner russo, ha rilanciato sanzioni contro l'Iran, ammonendo: «Non tollereremo nessuno strappo al trattato di non proliferazione». La dichiarazione ha tanto innervosito la guida temporale dell'Iran da provocargli una reazione fra le più scomposte. Reazione servita in qualche modo a rendere ancora più preciso il profilo dell’operazione Obama. Il patto di Praga si presenta infatti come una strategia realistica, proprio perché è accompagnata da misure «punitive». Il Presidente americano, come si vede ormai ogni giorno più chiaramente, sta perseguendo una politica unificata non dal segno «ideologico» (liberal o conservatore) quanto dalla identificazione dell'interesse nazionale del Paese. Interesse nazionale che ha fornito continuità a operazioni apparentemente diverse, come la riforma sanitaria, l’autorizzazione alle estrazioni petrolifere in patria - e ora il disarmo.

Per Obama, la riduzione delle armi nucleari è parte del suo modo di vedere la nuova leadership Usa: spostandone il peso dalla forza alla risoluzione dei conflitti, multilaterale piuttosto che monocratica. Ma non irrealisticamente pacifista. Quest'ultimo è l'aspetto della strategia americana che Ahmadinejad non sembra aver capito. Purtroppo non sembra averlo capito neanche il primo ministro israeliano. Nella conferenza di Washington sul disarmo la questione della denuclearizzazione di Israele sarà probabilmente sollevata: il governo di Gerusalemme infatti non ha mai firmato il «Trattato di non proliferazione», del 1970; non si è dunque mai impegnato a non realizzare armi nucleari né ad aprire agli ispettori internazionali le porte del suo reattore di Dimona, che per gli esperti ha prodotto plutonio capace di armare dalle 80 alle 200 testate nucleari. In passato dunque altri leaders israeliani hanno evitato forum sul disarmo.

Con la differenza che oggi una riunione come questa è diventata centrale nella agenda americana. Questo è intanto l'effetto immediato del rifiuto di Netanyahu: sottolineare che gli interessi di Israele e Usa non sono più perfettamente coincidenti. Non è un mistero che questa distanza da Washington crea da mesi un grande malessere a Gerusalemme. Con le buone e le cattive, con i ragionamenti, gli editoriali, la discussione e anche le ripicche i leader israeliani si stanno prodigando per richiamare Washington alla vecchia intesa. La più recente di queste ripicche l'hanno inflitta al vicepresidente Usa, due settimane fa, annunciando la costruzione di altre centinaia di case negli insediamenti proprio mentre Biden arrivava a Gerusalemme. Ora è arrivato il rifiuto ad Obama. Come Biden allora, anche Obama oggi sceglie di minimizzare - inviando a Israele il peggiore dei messaggi: che le sue azioni non smuovono gli americani.

Washington intende dunque procedere sulla propria strada. Per un disarmo duraturo, per un patto contro il terrorismo che sia efficace, gli Stati Uniti hanno bisogno di un accordo di pace fra Israele e Palestinesi. Ed hanno bisogno, anche per combattere Teheran, di ottenere un Medioriente senza nucleare - cioè Israele senza atomica. Se Bibi vuole sapere chi prevarrà fra il governo di Gerusalemme e quello degli Stati Uniti non ci sono dubbi, dunque, fin da ora. Anche perché, come si ricordava, un uomo ben più forte e significativo di lui è già caduto sotto le ire di Washington. Nel 1992, dopo la guerra del Golfo, George Bush padre si trovò di fronte alla necessità di consolidare il dopo guerra contro Saddam Hussein firmando un accordo di pace fra israeliani e palestinesi. Il premier di allora, Yitzhak Shamir leggendario e carismatico leader, fondatore dello Stato di Israele, si mise contro questo accordo. Finì che il 23 giugno del 1992 Shamir perse le elezioni a favore del partito laburista, e l'accordo di Oslo si celebrò in pompa magna. Nessuno meglio degli israeliani, dopo tutto, dovrebbe saper riconoscere nel sottofondo dei discorsi della Casa Bianca l'eco del cesariano «para bellum».

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« Risposta #119 inserito:: Aprile 15, 2010, 09:44:27 am »

15/4/2010

Piroetta diplomatica

LUCIA ANNUNZIATA

Complice il viaggio a Washington, dove sono probabilmente passate notizie di prima mano, il governo italiano ha cambiato toni e misure nei confronti del presidente afghano e dei tre uomini di Emergency. Silvio Berlusconi in persona ha scritto ieri a Karzai una ferma lettera in difesa dei diritti degli italiani arrestati nel suo Paese, compiendo una perfetta piroetta diplomatica rispetto ai primi giorni di questo complicato affair internazionale durante i quali il governo aveva fatto trapelare più dubbi sulla credibilità degli italiani arrestati che su quella delle autorità di Kabul.

Il drastico aggiustamento di linea, tuttavia, non va visto come l’apertura di una crepa da parte dell’Italia dentro la coalizione che sostiene (con notevole prezzo di sangue e di denaro) Hamid Karzai. In realtà è quella di oggi, non la precedente posizione, ad allineare correttamente il governo di Berlusconi agli Usa: in questo momento il presidente afghano non è un interlocutore affidabilissimo degli Occidentali.

Karzai non è saldamente in sella, e, per dirla tutta, gli americani se potessero ne farebbero volentieri a meno. Forse il viaggio a Washington ha chiarito (ma queste sono solo supposizioni) l’esatta misura delle relazioni fra gli Stati Uniti e il governo afghano. O forse l’aggiustamento è derivato solo da una pausa di riflessione: ieri il «Foglio», quotidiano sempre molto influente nel nostro governo, ha raccontato con la consueta autorevolezza la recente odissea di irritazioni e tensioni fra Obama e Karzai, definito per altro recentemente da Peter Galbraith, ex inviato Onu in Afghanistan, senza tanti giri di parole «sotto influenza di sostanze narcotiche». Il dubbio che erode i rapporti fra Washington e Kabul da mesi è molto chiaro: si può vincere la guerra al terrorismo con un alleato del genere?

Fra i due protagonisti di questa storia, nell’ultimo anno si è sviluppato infatti un rapporto di forza inversamente proporzionale - l’Afghanistan è diventato il fronte di guerra più importante per Obama proprio mentre il presidente Karzai diventava sempre più incontrollabile e inaffidabile. Che fra le due traiettorie ci sia un intreccio, appare del tutto ovvio.

Come ben si sa, Obama ha ereditato la guerra contro i talebani e non ha potuto chiuderla come ha fatto in Iraq. Sottrarvisi - secondo tutti i suoi esperti - avrebbe comportato il rischio di impantanarsi in un conflitto di lungo periodo, o in una perdita secca di quel poco di controllo che gli Usa sono riusciti a stabilire nell’area. Una ritirata tanto più impossibile mentre il confronto con l’Iran si fa sempre più duro e la minaccia di Al Qaeda non recede. Obama, presentatosi come uomo della pace, in Afghanistan ha impegnato così migliaia di nuove truppe nonché la sua faccia. Possiamo solo immaginare quel che significhi per lui ritrovarsi come alleato Karzai, che dovrebbe rappresentare agli occhi del suo Paese la democrazia e il futuro, e che invece affonda nella corruzione.

Alle radici delle tensioni ci sono le fraudolente elezioni che hanno portato lo scorso anno alla riconferma del presidente afghano. Avrebbero forse potuto e dovuto essere annullate, ma nelle condizioni di guerra in corso una decisione del genere avrebbe fatto precipitare ogni strategia americana nel caos.

Da allora le relazioni non sono mai più state le stesse. Karzai è accusato ogni giorno da media ed esperti di «comportamenti incomprensibili e bizzarri». Si diceva di Peter Galbraith, che a Karzai ha dato del drogato in maniera semiufficiale, solo tre settimane fa. Ma va ricordata anche l’inchiesta pubblicata di recente dal «New York Times» in cui si rivela che il fratello del presidente Karzai, Ahmed Wali, è pagato dalla Cia ed è un barone del narcotraffico.

Il presidente afghano risponde da tempo a queste pressioni colpo su colpo. Dal giurare che «se le pressioni continueranno mi schiererò con i taleban», fino all’invito rivolto al presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad a visitare l’Afghanistan. La versione degli uomini del governo afghano è molto semplice: gli Usa accusano perché preparano in anticipo la giustificazione alla loro sconfitta militare, e al ritiro già annunciato del 2011.

Tuttavia, con un’offensiva in corso, quella di Kandahar, Washington non può e non vuole andare più in là. La Casa Bianca ha infatti già annunciato una visita di Karzai in Usa il prossimo mese, a maggio, in segno di distensione. Ma la freddezza è destinata a durare. E non si dovrebbe escludere che anche il caso italiano sia parte di questo sviluppo negativo dei rapporti fra missione occidentale e afghani. Certo è che la lettera di ieri del premier Berlusconi sembra non solo riscrivere il contesto in cui è stato deciso l’arresto degli uomini di Emergency, ma delineare una presa di distanza oggettiva anche del nostro Paese dal governo afghano.

Se, come e quando si potrà avvertire questo cambio, dipenderà molto proprio da come si svilupperà la vicenda dei prigionieri italiani.

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