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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 145590 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Giugno 15, 2009, 06:35:51 pm »

«D'alema ha riassunto un pensiero diffuso nel centrosinistra»

Annunziata: «Sospetto una crisi ampia Forse con un altro scandalo»

«La sensazione è che il premier stia entrando in un grave momento di debolezza. Temo storie torbide»


ROMA - Lucia Annunziata, senti: quando Massimo D’Alema ti ha detto che c’è da aspettarsi una maggioranza attra­versata da «scosse», tu a che genere di scosse hai pensato?
«Non ci ho pensato. Ho, anzi, reagito d’istinto. Nella frazione di un secondo. Co­me ti sarai accorto, l’ho infatti subito incal­zato, chiedendogli: 'D’Alema, il termine scossa sta per...?'».
(Lucia Annunziata, giornalista al mani­festo, a Repubblica, al Corriere, dall’agosto del 1996 al giugno del 1998 alla guida del Tg3, poi presidente della Rai, attualmente editorialista de La Stampa, ieri ha intervi­stato su Raitre, nel suo programma di in­formazione 'In Mezz’Ora', il suo vecchio amico Massimo D’Alema: un’amicizia ve­ra, che i giornali tendono sempre a rappre­sentare con una foto d’epoca, datata 1976, in cui lei, Walter Veltroni — 'ancora senza certe profonde stempiature' — Fabio Mus­si e, appunto, D’Alema — 'capelli folti tipo afro' — sono all’università di Roma La Sa­pienza in attesa di un intervento di Giorgio Amendola).

D’Alema ti ha risposto, un po’ vago, che per «scosse» si intendono «momenti di conflitto, di difficoltà, anche impreve­dibili, che richiedono, come dire? un’op­posizione in grado di assumersi le pro­prie responsabilità»...».
«Senti, io con D’Alema non ho parlato né prima, né dopo la trasmissione...».

Dai, direttore...
«Giuro. Né prima, né dopo. Non è mia abitudine farlo con gli ospiti, e certo non ho fatto eccezione con Massimo, che pure conosco da una vita. Detto questo...».

Ecco, detto questo?
«Provo a intuire, a dedurre».

Dai, prova.
«Io penso che Massimo, in fondo, abbia riassunto un pensiero abbastanza diffuso all’interno del centrosinistra».

Sarebbe?
«La sensazione che la stagione di Berlu­sconi stia entrando in un grave momento di debolezza... da cui potrebbe scaturire, o deflagrare, fai tu, una crisi più ampia».

Genere di crisi?
«Istituzionale».

Spiegati. Cosa potrebbe innescare que­sto genere di crisi?
«Non lo so. E suppongo non lo sappia, di preciso, neppure Massimo. Io sospetto l’ar­rivo di altri scandali, di altre foto spiacevo­li... temo storie torbide... credo che l’imma­gine internazionale di Berlusconi, già com­plicata nei rapporti con l’amministrazione Obama, nel volgere di un tempo non lun­ghissimo, possa risultare ulteriormente danneggiata».

Berlusconi parla di «piano eversivo».
«D’Alema non crede all’ipotesi del com­plotto. Con me, in trasmissione, è stato piuttosto chiaro. D’Alema, se posso aggiun­gere, è anzi più sottile: e dice che quando il Cavaliere parla di complotto, parla ai suoi. Gli spiega la scena dell’accerchiamento».

Per questo poi...
«Arrivano in difesa Calderoli e Cicchitto, certo. Annusano, anche loro, il pericolo».

Francesco Cossiga, sul Giornale, insi­nua che sia già pronta la successione al Cavaliere...
«Il governatore della Banca d’Italia, Ma­rio Draghi? Se è per questo, girano anche altri nomi... No, io dico che la situazione è molto in evoluzione».

Direttore, sembri molto informata.
«Ragiono, leggo, parlo, faccio questo me­stiere da una vita. Ma puoi escludere che D’Alema m’abbia detto qualcosa».

Anche in privato? Senti: cosa ti ha det­to sul congresso del Pd?
«Ne ha parlato in trasmissione. Ha ribadi­to di tenere per Bersani. Poi, se vuoi la mia idea...».

Certo. Qual è?
«Si profilasse davvero una crisi grave, strategica, istituzionale per il Paese... beh, io penso che D’Alema non esiterebbe a tor­nare in campo. Ma oltre il Pd».

Oltre, scusa, in che senso?
«Sarebbe pronto a rimettersi in gioco da statista tra gli statisti...».


Fabrizio Roncone
15 giugno 2009

 da corriere.it
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« Risposta #76 inserito:: Giugno 19, 2009, 06:07:04 pm »

19/6/2009
 
Troppo freddi con l'Iran
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Non erano molti, due giorni fa, a Roma in piazza Farnese, a solidarizzare con la rivolta iraniana. Né ci arrivano notizie di grandi (e, se è per questo, neanche di piccoli) raduni al fianco degli iraniani dalle capitali europee.

Siamo così al solito interrogativo che da un po’ di tempo ci si ripresenta, davanti ai regolari flop di attivismo solidale. Forse la sensibilità internazionale europea - a destra comea sinistra - si è affievolita? Una risposta scientifica non può esserci. Ma, ragionando sugli avvenimenti di questi ultimi anni, è possibile dire ex post che questa sensibilità europea esiste, ma sembra essere rimasta ferma lì dove si è formata: al dopoguerra e alla guerra fredda. Cioè allo scontro fra Est e Ovest, fra Nord e Sud, in chiave destra/ sinistra, comunismo/anticomunismo. Anche in questi ultimi anni infatti, quando si presenta l’ombra dell’imperialismo americano i democratici europei sanno subito scattare, così come quando appare il segno della dittatura comunista in forme varie i conservatori capiscono subito di che si tratta. Ripercorrendo così le passioni internazionali di questi ultimi anni, si disegna unamappa del mondo completamente deformata rispetto a quella reale.

Le ultime reali mobilitazioni si sono viste durante la guerra dei Balcani, e dopo l’11 Settembre fino alla guerra in Iraq.

Entrambi casi riconducibili ai conflitti del ’900. Nei Balcani si è giocata forse l’ultima resa dei conti fra Washington e Mosca nei vecchi confini europei del dopoguerra; intorno, per altro, a un residuo delle soluzioni razziali del ’900, la pulizia etnica. Il conflitto in Iraq è stato a sua volta semplicissimo da comprendere in queste logiche. Ha diviso il campo fra Stati Uniti e mondo arabo: tema che ha riacceso la tradizionale passione che brucia dal dopoguerra in Europa, la divisione fra Arabi e Israele.

Tutto il resto, tutti i numerosi, e per certi versi non meno gravi, conflitti di questo stesso periodo non hanno mai attirato grande attenzione. La Cina del dopo Tienanmen, con la continuazione delle sue politiche di controllo sociale, e del Tibet; le guerre e i massacri in Somalia, o in Darfur; i conflitti dentro e fra le repubbliche ex sovietiche, e dentro la stessa Russia, come ben sanno i giornalisti uccisi in questi anni. Né sembra sollevare attenzione il pericolo terrorista o nucleare, intorno a cui dopo tutto si combatte in Iran e in Afghanistan. Se questa è la mappa partecipazione/ indifferenza, è evidente che è guidata dal sopravvivere di una sensibilità totalmente novecentesca. I conflitti che con il mondo del dopoguerra c’entrano poco o nulla se non per filiazione molto lontana risultano troppo incomprensibili, intricati, spesso persino a una classe dirigente colta.

Un tipico esempio del cambiamento dei significati degli avvenimenti globali ci viene offerto, proprio in questi giorni, dalla costernazione che suscita l’atteggiamento del Presidente degli Stati Uniti in merito all’Iran. Obama guarda a questa vicenda con distacco e con una certa freddezza. Indignando (forse per la prima volta dalla sua elezione) il popolo delle solidarietà - interventisti conservatori, militanti di diritti umani, pro israeliani che vedono nell’Iran il pericolo supremo per Israele, democratici che vorrebbero che si aiutasse chi vuole democrazia e donne che solidarizzano con le altre donne in piazza.

In realtà si può guardare differentemente a questo distacco. Obama è anche lui un presidente nato fuori dagli schemi del ’900, e sa molto bene una cosa che il ’900 ancora non sapeva: la difesa della democrazia non si fa con interventi e invasioni degli imperi. Se questo giudizio è vero (cautela necessaria) il Presidente americano potrebbe star aspettando gli eventi, consapevole che una sua mossa peggiorerebbe la situazione dell’opposizione, già accusata di filoamericanismo. Ma sa anche - perché la storia di questi ultimi anni ci ha insegnato pure questo - che la storia di un paese è alla fine nelle mani solo di chi in quel paese vive. La più bella storia di resurrezione nazionale degli ultimi vent’anni, quella del Sud Africa, è stata costruita con sacrifici dagli stessi sudafricani. Certo non grazie alle manifestazioni dell’Europa, o alle timide sanzioni inglesi di anni fa, né grazie ai media che se ne sono occupati in maniera alterna. Qualunque siano le ragioni delle distanze prese da Obama, certo questa sua apparente freddezza è comunque un altro elemento di disorientamento dell’opinione pubblica.

Fin qui le osservazioni possibili. Ma se invece stessimo sbagliando tutto? Se l’indifferenza europea avesse invece a che fare con la percezione che l’Europa ha di sé stessa oggi? In altre parole: c’è una relazione fra la bassa affluenza al voto per il Parlamento europeo e l’indifferenza alle vicende internazionali? Crisi economica, difficoltà a vedere il futuro costituiscono oggi le ragioni di un ritorno del razzismo e della paura in Europa. Non è difficile attribuire agli stessi elementi un profondo ripiegamento anche rispetto alle vicende del mondo.

da lastampa.it
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« Risposta #77 inserito:: Giugno 23, 2009, 09:48:25 am »

22/6/2009
 
Neda la prima martire
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Cade con un solo colpo al cuore, il sangue che sgorga prima dalla bocca poi dalle orecchie e dal naso, gli occhi rovesciati verso il cielo. Le è scivolato il velo dalla testa, le si è aperto l’abito nero che la ricopriva, rivelando blue jeans e scarpe da ginnastica. Il video dell’agonia di questa ragazza di Teheran, vittima dei soldati dell’esercito iraniano, sta facendo il giro del mondo su YouTube.

Ma prima di entrare nel significato di questa morte, vorrei condividere tutto quello che ho trovato sulla ragazza. Per darle intanto un nome, e per capire in che circostanza è morta. In assenza di giornalisti, persino queste semplici informazioni potrebbero andar perse. Potenti messaggi quelli che ci arrivano dai blog in Iran: «Sì, questa è la ragazza persiana colpita a morte da uno sparo, il suo nome è Neda e stava partecipando alla protesta contro Ahmadinejad e l’intero governo che pretende di essere musulmano mentre non ha alcun rispetto di cosa significhi lavorare per Dio, è davvero il più tirannico dei governi».

Questa è la disperata testimonianza del medico che ha assistito la ragazza nei suoi ultimi momenti; testimonianza subito cancellata, ma ritrovabile come il link sul blog cui è stata inviata: «I “Basij” hanno sparato e ucciso una giovane donna in Teheran, il 20 giugno mentre protestava. Alle ore 19:05. Posto: Carekar Ave., all’angolo con la strada Khosravi e la strada Salelhi. La giovane donna era accanto al padre ed è stata sparata da un Basij che si nascondeva sul tetto di una casa civile. Ha avuto una vista perfetta della ragazza, e dunque non avrebbe potuto mancarla. Ha sparato diritto al cuore. Sono un dottore e mi sono precipitato immediatamente a cercare di salvarla. Ma l’impatto del proiettile è stato così forte che è esploso nel suo petto e la vittima è morta in meno di due minuti. Il video è stato girato da un amico che mi stava accanto. Per favore, fatelo sapere al mondo».

Sì, qui siamo infatti, il mondo che guarda questa rivolta iraniana, per molti versi come tutte le altre rivolte, e per certi versi assolutamente unica. Un tiratore scelto prende la mira su una ragazza accanto al padre e con freddezza le spappola il cuore. E’ qui tutta la storia della rivolta iraniana in corso. Il regime di Teheran spara a freddo a una donna, alle donne. Confessando tutta la sua debolezza ma anche la natura della paura che corre nelle vene dell’establishment religioso iraniano.

La novità che ci svela è questa. Ahmadinejad ha lanciato un attacco alle donne. Ieri è stata arrestata Faezeh Rafsanjani, la figlia dell’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani. Faezeh, ex deputata, attivista, editore della rivista «Donna», fosse la più famosa delle tante donne che animano l’attuale rivolta popolare. Ma una seconda umiliazione è nascosta in questo attacco a lei: arrestare una figlia vuol dire in Iran portare vergogna sull’intera famiglia. Il messaggio va dunque a tutti i padri della nazione: se non tenete a posto le vostre donne, non ci fermeremo davanti a nessuno. E qui parliamo di ben altro che un signor nessuno.

Rafsanjani, infatti, oltre a essere uno dei principali sostenitori di Hossein Mousavi, è anche uno degli uomini più ricchi dell’Iran. Forbes lo ha incluso nella lista degli uomini più ricchi del mondo, è dunque forse il più ricco del suo Paese, grazie alla sua partecipazione in molte imprese, incluse quelle petrolifere. Una potenza che gli ha guadagnato il nomignolo di Akbar Shah. La famiglia Rafsanjani possiede inoltre interessi nel commercio con l’estero, ampi possedimenti di terra, e la più vasta rete di università private, conosciuta come Islamic Azad University, 300 campus in tutto il Paese e circa 3 milioni di iscritti. Attaccare un uomo così potente, che da solo gioca un ruolo decisivo, arrestandone la figlia è un’intimidazione ridicola. Ma rivelatrice del timore che anima il governo di Ahmadinejad.

Questa provocazione è infatti direttamente proporzionale al peso acquisito da mogli e figlie di politici nella campagna elettorale prima e negli avvenimenti della rivolta oggi. La moglie di Mousavi, Zahra, è scesa in campo a fianco del marito, per la parità fra uomini e donne, sfoggiando colorati veli al posto di quello nero. Va ricordato anche un episodio di aggressione, forse meno noto ma non meno significativo, nei confronti della vedova di Mohammed Ali Rajai, il primo ministro assassinato nei primi anni della rivoluzione Khomeinista. La vedova si è recata a Qom, la città Santa, per sollecitare l’appoggio dei Mullah al movimento riformatore, e in risposta è stata arrestata.

E torniamo così alla uccisione della ragazza, l’assassinio da parte di un occupato della Santa Rivoluzione di una donna è il segno di tutto quello che è cambiato in Iran. Con quell’uccisione viene dissacrata una donna per tutte. La donna. L’oggetto (è il caso di dirlo) sacro dell’Islam, il luogo della custodia, il simbolo e il metro della purezza degli umani. Inattaccabile. Almeno finora. Ma che una rivolta animata dal senso di libertà e dei diritti, democratici e individuali abbia fra i suoi martiri una giovane in jeans senza velo è la perfetta metafora di quel che sta succedendo in Iran.

 
da lastampa.it
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« Risposta #78 inserito:: Luglio 01, 2009, 11:25:03 am »

30/6/2009
 
Una banana republic per Barack
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Il golpe appare, soprattutto, ridicolo. Un golpe dei soliti soldati con le facce di contadini sudamericani, in Honduras, 112.088 km quadrati e 6 milioni di abitanti, in corso mentre si sviluppa la crisi politica dell’Iran. Ma per un potere globale come gli Stati Uniti non c’è disturbo ormai troppo piccolo da poter essere ignorato. Ed ecco il presidente Obama tirato per la giacca da un piccolo Paese e messo di fronte a una scelta imbarazzante: essere il solito presidente Usa che appoggia dei militari golpisti, o il primo che appoggia uno dei tanti leader di sinistra che spuntano come funghi nella parte Sud del suo stesso continente. Per l’amministrazione di Washington, che, giustamente, non ha messo l’America Latina fra i primi posti del suo impegno, il golpe in Honduras è in effetti un richiamo alla realtà del proprio rapporto con il suo miglior partner.

Il Sud delle Americhe è il più grande fornitore di petrolio, il più forte co-investitore nella ricerca di energie alternative, il maggiore produttore di droga, e anche la più ampia fonte di immigranti, legali e illegali, degli Usa. Negli ultimi anni questo partner è apparso ampiamente pacificato, e, in certi casi, protagonista di grandi successi economici. Ma interessi petroliferi, radicalismo politico, e persino islamismo, hanno nel frattempo proliferato, portando il continente su rotte che lo allontanano dagli Usa e lo spingono a incrociare altre potenze del globo. Il caso Honduras fa capire bene questo percorso. La nazione, classica «banana republic», è stata base del maggior conflitto Usa degli Anni 80 in America Centrale, contro i sandinisti, sotto la guida di John Negroponte, poi divenuto ambasciatore nell’Iraq occupato e capo della task force antiterrorismo globale nell’amministrazione Bush. Questo Paese, totalmente «americanizzato», che nel 2004 ha firmato il Cafta (Central American Free Trade Agreement), ed è il principale partner commerciale degli Usa, è stato governato da un presidente, Manuel Zelaya (ora fatto cadere dai militari) che si è staccato progressivamente da Washington per avvicinarsi a Hugo Chávez, abbracciandone lo stile di governo (da cui il tentativo di modificare la Costituzione per essere rieletto), ed entrando nel Petrocaribe.

La ragione da lui data per questo «voltafaccia» è che gli Usa non hanno mantenuto le loro promesse di benessere economico. Il cambiamento di opinione dell’ex presidente honduregno riflette bene un nuovo umore delle terre di tutto il Sud America che guardano ora a governi come quelli di Lula (Brasile), Morales (Bolivia), oltre che a quello venezuelano, come a storie di indipendenza e di relazione con interlocutori che non siano più gli Usa. Un rapporto del Council on Foreign Relations, presentato pochi mesi fa, comincia proprio così: «L’era della dominante influenza degli Usa in America Latina è finita. I Paesi di questa regione non solo sono molto più forti, ma hanno esteso le loro relazioni con altre potenze, incluse la Cina e l’India. Mentre gli Usa si concentravano su altre sfide, in particolare in Medioriente, l’America Latina ha fatto progressi sostanziali. La democrazia si è rafforzata, le economie si sono aperte, e le popolazioni sono diventate molto più mobili, nonostante molti Paesi stiano ancora combattendo contro povertà e disuguaglianze».

Il petrolio venezuelano e il boom economico brasiliano sono un magnete in effetti non solo per un senso di rinascita regionale, ma anche per appetiti politici internazionali. Alla Cina e all’India bisogna aggiungere l'iniziativa dei russi (da cui il Venezuela ha comprato miliardi di dollari di armi) e dell’Iran. Voci si rincorrono anche su forti iniziative d’intelligence di questi Paesi. La parola più ufficiale che abbiamo in merito è quella del segretario alla Difesa, Robert Gates: «Sono preoccupato dal livello di attività sovversive che gli iraniani stanno portando avanti in numerose nazioni in America Latina. Stanno aprendo molti uffici e attività di copertura dietro le quali interferiscono in molti Paesi». Si ricorderà, infine, che nel 2004 si parlò molto anche di un’infiltrazione di Al Qaeda in Usa via America Latina. Gli opinionisti sia conservatori che liberal in America, hanno da tempo focalizzato la loro attenzione su queste evoluzioni.

La Fox denuncia che in Bolivia sta crescendo la popolazione musulmana, e viceversa Noam Chomsky scrive: «Per la prima volta in metà millennio, il Sud America inizia a riprendersi il proprio destino, è ora la più eccitante regione del mondo». L’amministrazione Obama almeno finora non ha messo l’America Latina nelle sue priorità. Ma sembra difficile che vi sfugga. Il perché lo spiega bene il già citato rapporto del Council on Foreign Relations: Obama «è di fronte a un ambiente diplomatico e politico drasticamente differente da quello dei suoi predecessori. Comprensibilmente, ripropone la propria posizione di rafforzare la partnership, recuperare il terreno perso negli ultimi anni, e lavorare insieme per un destino comune di prosperità, inclusione sociale e sicurezza. Ma con una crisi economica globale, per non parlare di un’agenda internazionale di altre priorità, gli Usa hanno oggettivamente forti limiti in quello che possono fare e ottenere. Tuttavia, l’interdipendenza fra le Americhe rimane necessaria, e richiede una strategia che difenda gli interessi Usa in queste nuove condizioni: mentre i Paesi latinoamericani divengono via via più indipendenti, gli Usa avranno difficoltà sempre maggiori a far funzionare la vecchia relazione. Obama deve dunque prendere atto dei nuovi «fatti della vita» dell’emisfero Sud. Soprattutto, la nuova amministrazione deve lavorare a non interpretare più la propria azione attraverso stanchi luoghi comuni come quello dei «miglioramici», dei desideri impossibili, o delle demonizzazioni». E se tutte le ragioni fin qui elencate non fossero sufficienti, vorremmo aggiungere che la politica Usa in Sud America rimane importante per il più semplice ed efficace dei motivi. Quello che, in una relazione del 1971, il National Security Council dell’amministrazione Nixon definì così: «Se gli Usa non possono controllare l’America Latina, come potranno mai pretendere di tenere in riga il resto del mondo?».

da lastampa.it
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« Risposta #79 inserito:: Luglio 15, 2009, 10:17:49 am »

15/7/2009
 
La svolta di Obama
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Washington in Afghanistan continua ad accelerare. A febbraio Richard Holbrooke, inviato speciale dell’Amministrazione Usa in quel Paese, ha creato una task force, un «Support group» all’azione delle organizzazioni internazionali in Afghanistan. Il gruppo ha il ruolo di prendere decisioni, collegando i governi direttamente alle attività in corso. E’ composto da 27 membri di altrettante nazioni: incluse Cina e Egitto, ma non la Russia. Anche l’Italia ha il suo delegato indicato dalla Farnesina.

Il lavoro della task force è frenetico, gli incontri avvengono ogni settimana, ogni volta in una capitale diversa. Scopo di questo nuovo super-organismo è tagliare i tempi della burocrazia, saltare i cerimoniali intermedi, velocizzare le decisioni e rendere così più efficace l’operazione Afghanistan. Per ora, dicono, pare stia funzionando benissimo. Di sicuro ci dà il senso di quanto siano cambiati lo scopo e gli obiettivi di Washington, pur in mano a un democratico come Obama, in quella parte di mondo.

E’ qui, in questa evoluzione, che ha trascinato anche noi italiani, che va guardata la morte del caporal maggiore Alessandro Di Lisio. L’Afghanistan è un formicaio dentro cui abbiamo infilato una mano». «In Afghanistan siamo in guerra: inutile nascondercelo». Scegliete voi. I commenti nel mondo dei diplomatici e delle forze armate che seguono da vicino la nostra impresa in Afghanistan sono, in privato, molto più realistiche e amare di quelle che provengono dal mondo ufficiale della politica. Perché, alla fine, con il sangue di Di Lisio è stato scritto ieri l’ennesimo avvertimento ai naviganti italiani che non vogliono prendere atto di molte verità. La principale è che la missione italiana è da tempo mutata, sia negli scopi che nel profilo regionale. La seconda è che questo mutamento avvenuto negli anni scorsi in maniera lenta e invisibile si è accelerato proprio da quando l’amministrazione Obama ha elevato l’Afghanistan a suo principale conflitto.

«Questa ultima casualità ha un significato maggiore di tutte le precedenti», dice un alto grado militare, «soprattutto perché viene alla fine di una serie di attacchi alle nostre forze condotti con tattica diretta, cioè con assalti da vicino, che fanno pensare all’inizio di una forma di guerriglia organizzata». I numeri parlano chiaro: gli attacchi nei confronti degli italiani si sono intensificati negli ultimi mesi. La morte di ieri, insomma, da tempo stringeva il suo cerchio intorno agli italiani. Che cosa ha attirato sulle nostre truppe l’attenzione dei talebani?

La risposta si trova proprio nella evoluzione della nostra missione. Quanti uomini abbiamo in Afghanistan? Il numero fluttua, ma possiamo parlare di 2.700 stabili, cui vanno aggiunti 400 o 500 nuovi invii per le elezioni del 20 agosto, che poi si prolungheranno nel ballottaggio il 1° di ottobre, dopo il Ramadan. A quel punto queste 500 nuove entità torneranno davvero a casa? «Dipende dagli eventi» dicono gli ambienti militari, il che vuol dire che la nostra presenza avrà raggiunto la considerevole quota di 3.200. Molto lontana da quei 500 alpini che si unirono a Operation Enduring Freedom nata subito dopo l’11 settembre 2001, e dai circa 2000 uomini che l’Italia inviò l’anno dopo, quando la Nato rispose al mandato dell’Onu per una forza di ricostruzione e peacekeeping creando l’Isaf.

Abbiamo scritto peacekeeping e ricostruzione. Parole che ancora oggi identificano l’intera operazione occidentale ma che sono ormai termini svuotati. Per spiegare anche questo mutamento basta guardare la trasformazione geografica della presenza italiana. Nei primi anni, i nostri soldati (come tutte le forze Isaf) erano concentrati prevalentemente a Kabul. Poi è iniziata l’era della divisione in 4 settori, di cui l’Ovest è stato assegnato agli Italiani, un territorio grande quanto tutta l’Italia del Nord fino a Firenze. Zona all’inizio non conflittuale, ma lentamente entrata nel fronte di guerra con il movimento delle nostre truppe verso il Sud, nella più pericolosa cittadina di Farah, dove oggi ci sono circa 400 unità. Da Farah le nostre truppe hanno stabilito base anche a Bala Bakun; mentre nel Nord alto abbiamo stabilito una base a Bala Mugab, con 200 uomini. Quasi tutti gli attacchi recenti sono avvenuti intorno a queste nuove posizioni: «Aree in cui si arriva per stabilire un controllo, e in cui questo controllo alla fine sollecita una reazione», commenta un generale. «La reazione locale è diventata più attiva perché più attiva è oggi la nostra iniziativa», concorda un diplomatico.

Questa maggiore iniziativa ha come data, appunto, l’elezione di Barack Obama. Il Presidente che ha portato via i soldati Usa dall’Iraq, l’uomo che ha riaperto il dialogo con ogni possibile nemico, è invece convinto che l’Afghanistan è il Paese in cui si vincerà o si perderà la sicurezza americana. Opinione maturata ben prima che arrivasse alla Casa Bianca. Richard Holbrooke, nominato suo inviato il 29 gennaio del 2009, già nel numero di settembre-ottobre 2008 di Foreign Affairs definiva la politica americana in quel Paese «un fallimento», avvertendo il rischio di un nuovo Vietnam. «Il Vietnam del terrorismo è quello che teme il presidente Obama, convinto che almeno su questo punto, quello della sicurezza nazionale, non può permettersi di essere sconfitto», parole di diplomatico.

Fin dai primi giorni della sua amministrazione, il Presidente ha così chiesto a tutti i suoi alleati internazionali un rinnovato impegno nella regione. Ne ha riparlato anche in questo G8 italiano. L’Italia ha risposto con quel che poteva: a maggio Frattini ha annunciato che toglievamo alcuni caveat all’ingaggio di fuoco, e alcuni limiti geografici, dando insomma il via a un maggiore impegno di combattimento delle nostre forze. Poi sono arrivate le truppe per le elezioni. Ma un militare precisa: «In realtà anche durante il governo Prodi le nostre unità speciali collaboravano con gli americani, anche se si negava».

Questo è il bilancio dei primi otto anni dell’Occidente in Afghanistan. E il percorso, in questo tragico anno, sembra persino essersi allungato.
 
da lastampa.it
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« Risposta #80 inserito:: Luglio 20, 2009, 10:18:43 am »

20/7/2009
 
La guerra assedia i soldati italiani
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Leggerei questo episodio nella chiave delle vicende interne al Libano: che Hezbollah stia lavorando da vari mesi a un sistematico riarmo, mi sembra nello stato delle cose».

Così si valuta, nelle alte sfere delle Forze Armate Italiane, lo scontro - il primo in tre anni - che qualche giorno fa ha opposto i Caschi Blu in Libano alla popolazione civile. Fra i militari non sembra ci sia spazio per versioni di comodo: dire infatti che Hezbollah è in riarmo, vuole semplicemente dire che la nostra missione in Libano è entrata in una fase di difficoltà seria.

Forse è il caso di cominciare a richiedersi cosa succede alle nostre missioni. Dall’Afghanistan al Libano. Sono tanti i segnali che gli Italiani corrono il rischio di essere presi in mezzo da guerre mai dichiarate.

La presenza italiana in Libano è forse la più rilevante per il nostro Paese. L’Unifil, con oltre 12 mila uomini, di cui 2100 italiani, è sotto il comando del generale italiano Claudio Graziano, uomo unanimemente stimato. La missione Onu (Unifil) riorganizzata nel 2006, alla fine della guerra fra Hezbollah e Israele, per garantire la smilitarizzazione della fascia fra Libano e Israele, al Nord e al Sud del fiume Litani, ha come compito essenziale il disarmo della zona, dunque delle milizie di Hezbollah.

In questo senso, l’incidente più recente è significativo. Il 14 luglio è esploso accidentalmente un deposito di armi e munizioni proprio di Hezbollah, ospitato in un edificio abbandonato a pochi chilometri dal quartier generale degli italiani. E’ stata aperta una inchiesta su queste armi «irregolari», ma una volta arrivate sul posto le forze Unifil sono state accolte da qualche centinaio di civili, che le ha bloccate a colpi di pietre. Un muro umano che ha circondato i mezzi militari, isolandone uno che per ripiegare ha dovuto persino sparare colpi in aria. Immagine vecchia come lo stesso Medioriente, civili, donne, bambini, armati solo di pietre, contro dei soldati. Una situazione non pericolosa, obiettivamente «umiliante».

Eppure non isolata. Come in Afghanistan, anche in Libano le acque si stanno intorbidendo. Negli ultimi sei mesi ci sono stati diversi momenti di tensione tra i caschi blu e i miliziani sciiti, di cui l’ultimo il mese scorso, quando gli Hezbollah hanno fatto ripiegare una pattuglia dell’Unifil che aveva appena scoperto un camion carico di armi e munizioni. Le tensioni preoccupano Gerusalemme, che, secondo il quotidiano liberal Haaretz, teme che il generale Graziano e l’Onu nascondano deliberatamente informazioni sul rafforzamento militare della milizia sciita, per timore delle reazioni proprio di Israele. A difesa della missione, in verità, c’è proprio la cautela con cui il Graziano si muove. Ma, come sostiene l’ufficiale prima citato, sono le condizioni libanesi ad essere cambiate. C’è di nuovo una crisi proprio degli sciiti. La sconfitta inattesa della coalizione guidata da Hezbollah alle elezioni del 2007 ha infatti mostrato i limiti della supposta popolarità dell’organizzzazione. Da allora la coalizione si è spaccata. Le altre componenti, gli sciiti di Amal, e i cristiani del generale Aoun cercano ora di rientrare nel gioco politico nazionale. Hezbollah ha risposto alla crisi impegnandosi a ricostruire la propria forza e la propria identità. La tattica è quella di nuovi villaggi dentro cui crescono basi armate - come quello che gli italiani sono andati a controllare - e lo sviluppo di traffico di armi. I luoghi sono proprio il Sud del Litani, il settore più vicino al confine con Israele, e il Nord del Litani, dove passa la strada per la valle del Bekaa, quartier generale storico di Hezbollah.

E’ proprio l’area in cui vive e vigila l’Unifil, e i caschi blu Italiani. Che la missione Onu rischi di essere presa dentro la crisi dei giochi libanesi e dentro una crisi di Hezbollah, è un rischio vero. Tanto più in un momento in cui l’esplosione sociale del grande alleato Iran, espone le milizie a una grande incertezza. Dal Libano all’Afghanistan, dunque, anche contro la volontà degli stati maggiori, le nostre missioni stanno cambiando, perché a cambiare sono le condizioni in cui si svolgono.
 
da lastampa.it
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« Risposta #81 inserito:: Luglio 28, 2009, 06:35:46 pm »

28/7/2009
 
Il problema di Bossi è l'America
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Uno dei suoi più famosi manifesti recita: «Sì alla polenta, no al cous cous». Naturalmente il messaggio, come tutti i messaggi politici, è terribilmente semplificato, ma rende molto bene su quale base si fonda la politica estera della Lega Nord: quella di una forza legata al territorio, in un mondo che tende a omogeneizzarsi nella globalizzazione. Per una organizzazione sostanzialmente nazionale, anzi, semiregionale, questa idea è finora più che bastata. Ora che la Lega ha ruolo nazionale, basterà questa base a elaborare una politica estera di governo?

Un quesito interessante, con cui il partito di Bossi sembra in questi giorni determinato a misurarsi, proponendo una sorta di riapertura della discussione sulle missioni italiane all’estero. Ma può davvero la Lega permettersi di intraprendere questa strada, o rischia una cantonata clamorosa? Guardando alla storia di questo partito, è molto alta la possibilità che proprio la politica estera si riveli il suo primo, vero, tallone di Achille.

Anno 1989, elezioni europee (due leghisti eletti), la Lega si ritrova campione degli euroscettici e autonomisti di tutta Europa. Nei suoi primi anni, infatti, incrocia molto bene il pullulare di organizzazioni e di spinte localiste, molte di orientamento «democratico», che si battono contro i primi effetti della globalizzazione. È l’epoca dei no global, della difesa dei formaggi francesi, delle prime spinte protezioniste dentro i sindacati americani. L’autonomismo, come quello basco di Pujol, è una bandiera più di identità che di separazione: e alla Lega guardano autonomisti fiamminghi (VolksUnie), Eusko Alkartasuna (indipendentisti pacifici baschi), Sud Tirolesi,Psd’Az, Sardinia Natzione, Catalani.

Ma lo schema di alleanze cambia con il tempo, e con le stesse evoluzioni della Lega. Spuntano altre seduzioni internazionali. Iniziano nel 1996 i primi contatti con il reazionario russo Zirinovksy. Una delegazione della Lega guidata da Maroni incontra Haider a Bolzano tramite i Freiheitlichen del Sud Tirolo. E una delegazione del partito di Haider è presente al Congresso leghista del febbraio 1997. Questi contatti con la destra estrema creano tensioni politiche dentro e fuori l’organizzazione, specie in Europa. Il cambiamento, tuttavia, non è un vero voltafaccia: piuttosto è un segno dei tempi, come si diceva. Dentro la questione globalizzazione cresce quella dell’immigrazione e l’identità nazionale diventa la difesa della propria cultura dalle invasioni. Certi feeling sono dunque quasi naturali. Altri si traducono in posizioni quasi bizzarre.

Come quella che la Lega assume nella guerra del Kosovo, del 1999, che è anche il suo punto di maggiore esposizione sulla politica estera. Bossi si schiera con Milosevic e contro gli «immigrati» e «straccioni» kosovari. Sulla Padania si inneggia al «valoroso popolo serbo». Persino la pulizia etnica viene negata (26 marzo, La Padania). Bossi si reca anche a Belgrado, incontra Milosevic e raccoglie i consensi più vari, inclusi quelli di Rifondazione e dei Comunisti italiani. Surreale, come si diceva, ma la Lega fa il suo gioco di sempre: si smarca su una guerra, combattuta dal governo D’Alema e sostenuta anche dal centrodestra.

Da allora molto tempo è trascorso. Dal 2001 la Lega sceglie con convinzione un ruolo progressivamente più istituzionale e più agganciato a quello di Silvio Berlusconi. La politica estera leghista va sotto traccia, e su molte questioni sceglie di tacere (ad esempio la guerra contro Saddam Hussein non li trova esattamente felici) o, se parla, come nel caso della maglietta di Calderoli, viene bastonata. Insomma, più forte diventa il ruolo istituzionale della Lega e meno paga il suo metodo «pirata». Perché allora riaprire una discussione così corposa come quella sulle missioni estere che sono uno dei pochi punti di accordo fra tutti i governi degli ultimi quindici anni? Perché questa Lega, oggi così forte e così pesante istituzionalmente, rimane tuttavia a disagio con alcuni fili della storia di questo Paese. Gli Stati Uniti sono uno di questi.

Gli Usa sono, nell’universo leghista, il motore della globalizzazione - una forza guardata dunque non esattamente come un modello. La crisi economica, il ruolo che vi hanno avuto le grandi banche americane, risvegliano echi negativi nei cuori leghisti. E che dire poi di Obama? Non è questione di razzismo, ma Obama è pur sempre l’uomo che nella crisi riprende in mano l’egemonia Usa, cerca il contatto con il Medio Oriente, riporta in primo piano l’Africa, e dà un rilievo enorme alla Turchia. Sull’altro grande fronte del mondo, la Cina, la Lega coltiva da anni perplessità forti. La Cina è infatti nel suo linguaggio il simbolo di ogni rischio vero della globalizzazione.

Il disagio affiora così su un terreno più vicino, quello delle missioni estere, su cui c’è un evidente stato di paura nel Paese. E che può servire a sostenere l’idea che nella crisi non si possa spendere per aiutare «stranieri» e «musulmani». Del resto, credere che uno Stato abbia un suo interesse nazionale non è molto facile per una forza politica che non è nemmeno del tutto convinta che questo Stato debba esistere nella forma attuale.

La coalizione di Palazzo Chigi, a cominciare dal Premier, ha però solide radici atlantiste. E dopo l’accelerazione della crisi ha bisogno più che mai del rapporto con gli Usa, e di un (riscoperto) rapporto con l’Europa; per non parlare della Cina e dell’Est, guardate come occasioni di investimento e sviluppo. Posizioni che costituiscono per altro alcuni dei pochi punti davvero condivisi con l’opposizione. Tentiamo dunque ad azzardare: se la Lega si fa davvero tentare dal porre pressioni al governo sulle missioni, è probabile che la politica estera diventi la sua prima occasione di ridimensionamento.

 
da lastampa.it
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« Risposta #82 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:30:08 pm »

4/8/2009
 
Obama le zucchine e le tasse
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
A Michelle le zucchine, a Barack le tasse. La realtà ha modi grandi e piccoli per imporre la sua forza.

A marzo Michelle aveva piantato il primo orto della Casa Bianca dai tempi di Eleanor Roosevelt. Il New York Times scrisse allora: «L’orto ha assunto un profondo significato politico, dopo che Obama è stato per mesi sotto pressione di numerosi gruppi ambientalisti che credono che produrre più cibo locale e organico possa portare a una dieta più salutare per tutti, e a ridurre di conseguenza la domanda per le grandi coltivazioni industriali e il loro uso di petrolio per i trasporti, e di sostanze chimiche per fertilizzare». Non solamente un gesto, dunque, non solo un hobby: come tutto quello che riguarda gli Obama, anche l’orto entrava a marzo nell’unica grande tela del cambiamento. Quella teoria un po’ volontarista, un po’ elitaria, su cui si fonda l’operare del Presidente Usa. L’orto come nuova idea della salute, filo che si dipana, dal dettaglio alla legislazione - quella poi annunciata della riforma dell’assistenza medica - in un unico percorso per la trasformazione stessa dell’Homo Americanus.

La fine dell’orto l’abbiamo vista in questi giorni: la Casa Bianca è inquinata, non ha un terreno adatto alla crescita di prodotti organici. Come finirà invece la proposta dell’assistenza medica universale è ancora da vedere. Ma dal dettaglio delle zucchine alla grande rivoluzione medica, si avverte la stessa tensione - il materializzarsi di un progressivo impatto della realtà sulle idee, del realismo sui sogni nel percorso della Presidenza americana. Potenti forze al lavoro, che si sono già misurate intorno alla chiusura di Guantanamo, alla trasparenza sulla sicurezza all’epoca di Bush. Fino alla grande dose di realismo che oggi Obama sembra pronto a ingerire sul più pericoloso dei terreni per ogni politico: le tasse. Il Segretario del Tesoro Tim Geithner e il presidente del Consiglio Economico Nazionale Larry Summers hanno dichiarato, domenica, che la riforma sanitaria e il prolungamento del sostegno ai disoccupati rende quasi inevitabili nuove tasse. Il Presidente ha immediatamente fatto sapere che non ci saranno, comunque, aumenti per la classe media, cioè per coloro che guadagnano meno di 250 mila dollari. Ma, insomma, ci siamo. La promessa ripetuta durante la campagna elettorale, «non vedrete nessuna delle vostre tasse crescere nemmeno di dieci centesimi», è nei fatti rotta.

Qual è la sorpresa? Le tasse sono il diavolo in corpo della politica, la loro diminuzione è l’inevitabile promessa elettorale e la inevitabile smentita post elettorale per tutti i politici in tutte le democrazie del mondo. Sorpresa è che tocchi anche a Obama, colui che finora è sembrato saper bilanciare tutto e il suo contrario. Ma la forza dei fatti continua a scavare.

In questo caso, i fatti sono i numeri. Mentre l’amministrazione pensa a come finanziare il più ambizioso programma sociale mai avviato, la crisi ha svuotato le casse dello Stato. Un’analisi dei dati economici ufficiali, curata dalla Associated Press, forniva ieri dati preoccupanti: il ritorno delle tasse quest’anno sarà del 18 per cento in meno, mentre il deficit federale raggiungerà il valore record di 1,8 trilioni di dollari. Secondo questa analisi, la crisi ha tirato giù le entrate delle tasse individuali del 22 per cento e quelle aziendali del 57 per cento. L’ultima volta che il ritorno per il governo è stato così basso era il 1932, nel mezzo della Grande Depressione. L’impatto di questa diminuzione di entrate si avverte già su molti dei programmi sociali esistenti, come la Social Security. In sofferenza anche alcuni investimenti nelle infrastrutture vitali per gli Usa, quali le autostrade e gli aeroporti. La minore attività produttiva ha ridotto i fondi che alimentavano questi progetti. Il Congresso ha dovuto già intervenire, approvando una nuova tranche di finanziamento (8 miliardi di dollari) oltre ai 7 miliardi approvati all’inizio dell’anno e già finiti in agosto.

Da dove verranno tutti questi soldi? A dispetto dei segni positivi, il recupero economico dovrebbe essere molto veloce e di grandi proporzioni per evitare il ricorso a nuove tasse. Quali tasse, poi? Per ora si parla di varie ipotesi, dalle tasse sui soft drinks, alle tasse sui ricchi o sulle società, fino alla cancellazione delle esenzioni per i super-ricchi introdotte da Bush. Prospettive che non vengono guardate con alcuna simpatia, specie nella comunità degli affari. Secondo Business Week «azioni di questo tipo incoraggerebbero molte società a registrarsi altrove, spostando le loro sedi e le loro operazioni all’estero». Che resta a un Presidente se non prendere atto? O trovare altre vie che nessuno ha finora immaginato.
 
da lastampa.it
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« Risposta #83 inserito:: Agosto 14, 2009, 11:40:27 am »

14/8/2009
 
L'Iraq "liberato" uccide i gay
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Pare che le milizie sciite e l’esercito regolare abbiano trovato a Baghdad un terreno di salda collaborazione: la voglia di ripulire l’Iraq dalla piaga dei tanta, gli omosessuali. Secondo il più recente rapporto di Human Right Watch in arrivo dall’Iraq, questa è la più recente evoluzione della guerra sociale che continua a travagliare il Paese.

Le 67 pagine di «”They Want Us Exterminated”: Murder, Torture, Sexual Orientation and Gender in Iraq» documentano la campagna di rapimenti, torture ed esecuzioni contro i gay iniziata con il 2009 e con centinaia di vittime già all’attivo. Le torture includono stupri di gruppo e ferite permanenti inflitte ai presunti gay. Ecco il racconto, raccolto in aprile, di uno dei sopravvissuti: «Confessare cosa? chiesi. “Il lavoro che fai, l’organizzazione di cui fai parte, e che sei un tanta”. Per giorni sono stato picchiato e umiliato... e poi mi hanno violentato. Per tre giorni». Nel rapporto alcuni medici testimoniano di aver visto cadaveri o ricevuto in cura uomini con ferite grottesche.

I dettagli, violentissimi, li lasciamo a chi consulterà il rapporto, che dovrebbe essere reso pubblico il 17 di agosto, ma di cui già circolano alcune anticipazioni. Secondo l’organizzazione per i Diritti Umani, l’azione è iniziata nella zona sciita della capitale, Sadr City, quartiere famoso nella storia di Baghdad per la sua strenua resistenza al regime di Saddam. Oggi è il quartier generale del gruppo politico e militare della milizia di Moqtada al-Sadr. Da quell’area, la campagna di persecuzioni si è estesa a altre città grazie alla segreta collaborazione con le milizie sciite di membri dell’esercito regolare composto in maggioranza da Sunniti.

La paura del «terzo sesso» e della «femminilizzazione» dell’Iraq è divenuta negli ultimi mesi un tema propagandistico delle milizie sciite; in realtà le campagne antigay sono ricorrenti in molti Paesi musulmani. Se l’Iran è diventato famoso per le impiccagioni, altrettanto famose sono le persecuzioni dei gay in Egitto. Nel caso dell’Iraq c’è tuttavia una notevole differenza: il ruolo che ancora oggi vi hanno gli Stati Uniti. Dopo la decisione Usa di non occuparsi più direttamente della sicurezza nel Paese (le truppe americane sono raccolte in alcune guarnigioni cittadine) il compito è passato all’esercito regolare iracheno. Ma può Washington ignorare violazioni di tali portata?

da lastampa.it
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« Risposta #84 inserito:: Agosto 19, 2009, 12:15:17 pm »

19/8/2009
 
Escalation dentro l'urna
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

In questa vigilia elettorale, si contano in Afghanistan 63.000 soldati Usa e 40.500 Nato. Il numero più alto dall’inizio delle operazioni contro i talebani, nel 2001.

Cosa dovremmo scrivere, oggi, se dovessimo valutare solo queste cifre, le dichiarazioni politiche, e i bollettini militari provenienti da Washington? La risposta è molto semplice. Se il Presidente degli Stati Uniti non si chiamasse Barack Obama, e se su di lui non fossero appuntate speranze di rigenerazione politica di tutto il mondo, la mobilitazione di uomini e di armi con cui gli Usa arrivano a questo decisivo appuntamento nel paese dei talebani si definirebbe con il più tradizionale dei termini: una marcata escalation militare.

Da febbraio, in effetti, Washing-ton ha irrobustito il ruolo delle sue forze in Afghanistan. Due decisioni in particolare sono state rilevanti: l’aumento delle truppe, 17 mila uomini più 4000 addestratori delle forze locali, annunciato personalmente dal Presidente; e il cambio ai vertici delle operazioni Usa nel Paese dei talebani. Di entrambe queste mosse misuriamo in questi giorni gli effetti.

L’invio di altre truppe ha inserito un importante nuovo elemento dentro le relazioni fra Usa e Nato: come si è visto anche nei rapporto con gli italiani, Obama ha tradotto l’impegno statunitense in un metro di misura valido anche per le alleanze europee.

L’avvicendamento nella conduzione della guerra ha nel frattempo mutato il profilo del conflitto. Il generale David McKiernan, veterano dell’invasione dell’Iraq, cambiato solo dopo 11 mesi di incarico, è stato sostituito a maggio dal generale McChrystal, un berretto verde che ha passato la maggior parte della carriera nelle forze speciali e nel cui medagliere c’è l’uccisione del braccio destro di Osama Bin Laden, Abu Musab al-Zarqawi. La scelta di quest’uomo, segno di un ripensamento della strategia americana secondo le parole dello stesso Segretario alla Difesa Gates, è stata fatta per eliminare gli indiscriminati bombardamenti dei civili e indirizzare il conflitto verso azioni più mirate, nelle mani di militari più addestrati (fino all’arrivo di McChrystal non c’era nemmeno uno specifico addestramento per l’Afganistan). Il risultato di questo migliore approccio è stato - almeno per il momento - un allargamento e approfondimento del fronte di guerra. Lo hanno constatato anche le truppe italiane negli ultimi mesi.

La storia della guerra in Afghanistan tuttavia non si ferma qui. Le elezioni non sono viste come risolutrici da Washington. Tant’è che è già pronta una nuova piattaforma di richieste per Obama. Il mese scorso, il 21 luglio, sul tavolo del Presidente è arrivata una lettera delle due più influenti commissioni del Congresso firmata da due nomi eccellenti. Il senatore Joseph Lieberman, presidente della commissione Sicurezza interna, e Carl Levin, presidente della commissione Forze Armate, hanno chiesto a Obama di raddoppiare il numero delle truppe afghane, portandole dal livello attuale di 175 mila a 400 mila. Si sa che il generale McChrystal e Gates sono d’accordo con questa opzione. Che è poi la stessa avanzata in una lettera del 19 maggio a Obama da 17 democratici e repubblicani, fra cui Lieberman e McCain. Il costo di tale operazione sarebbe enorme, soprattutto nell’attuale contingenza economica. E richiederebbe un’ulteriore crescita di personale militare. Ma, dicono i senatori, un approccio «massiccio» oggi è l’unico modo per rimettere al più presto l’Afghanistan sui propri piedi. L’alternativa è la strategia del «passo dopo passo» che porterebbe al rischio di rimanere invischiati in un conflitto sempre più difficile e lungo.

A queste nuove richieste Obama non ha dato risposte. Aspetta anche le elezioni, ovviamente. Ma già il fatto che questi scenari vengano avanzati è un elemento interessante in sé per capire le dinamiche in corso a Washington. Si riconosce infatti in molte di queste tesi l’eco nemmeno così distante di altre discussioni fatte intorno alla guerra in casa democratica: la paura delle sabbie mobili di un approccio troppo timido (Vietnam), l’uso massiccio di addestratori (Centro America), diritti umani (Jugoslavia).

I democratici, insomma, insieme al messaggio diplomatico di apertura e di dialogo hanno ripreso a lavorare alacremente anche a una revisione e a un rafforzamento dell’uso della forza nei rapporti internazionali. Questo lavoro è un obbligo, una forma di saggezza per una classe dirigente che deve misurarsi con l’intero mondo (in questa discussione, ad esempio, il caso Iran lampeggia in fondo al tunnel come un avvertimento). I democratici americani infatti non si sono mai tirati indietro rispetto alla guerra.

Ma questa regola vale anche ora, dopo l’elezione di Obama? Per una di quelle rare, ma non uniche, interconnessioni tipiche della realtà, i seggi di uno dei più deboli Paesi della Terra, l’Afghanistan, ci forniranno indirettamente una risposta anche sulla natura del potere mondiale. Nei prossimi mesi sapremo se Obama diverrà l’ennesimo «riluttante guerriero» della storia moderna americana. O se a un certo punto farà un nuovo strappo, per affermare la sua diversità.

da lastampa.it
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« Risposta #85 inserito:: Agosto 24, 2009, 05:47:18 pm »

24/8/2009
 
Quei baffetti di Hitler anti Barack
 

LUCIA ANNUNZIATA
 

Il manifesto tarocco di Barack Obama con i baffetti di Hitler è apparso già da alcuni mesi. Condannato, irriso, denunciato.

Eppure, il fantasma del Grande Dittatore non accenna ad andar via da questa vera e propria campagna elettorale innescatasi intorno alla riforma dell’assistenza sanitaria proposta dal Presidente americano.

In stile esercito della salvezza, il manipolo di seguaci dell’ottantaseienne e semidemente Lyndon LaRouche espone Obama-Hitler ogni giorno agli angoli delle strade.

Nelle ormai famose assemblee cittadine il grido di Obama-Hitler è inevitabile. La reintroduzione dell’eutanasia nazista contro i vecchi e i disabili nella riforma di Obama (i «Comitati della morte») è denunciata da eminenti repubblicani, come il senatore Chuck Grassley, che pure è parte della squadra bipartisan al lavoro sul testo della riforma, e la ex governatrice Sarah Palin. Di politiche di eutanasia nazional-autoritarie (ma senza nominare i Nazi) parlano tuttavia anche il democratico ex sindaco di New York Ed Koch e Camille Paglia, la saggista liberal-radical. L’ombra del Grande Dittatore, uscita dalla scatola della storia, semplicemente sembra rifiutare di ritornarvi.

Il fenomeno può essere preso molto o poco sul serio. Vi si può costruire sopra una teoria della cospirazione anti-Obama. O lo si può declassare al livello del solito folklore americano. Entrambe le tentazioni sono presenti nelle parole dei protagonisti della scena di Washington. Ma se si va al di là della cronaca, il richiamo al nazismo nella polemica americana è importante per una diversa ragione: l’evocazione di Hitler in questo Paese non è affatto una novità, è anzi una presenza costante del panorama emotivo-politico.

Non bisogna andare molto indietro nel tempo per ritrovare l’ombra del Führer. Negli anni di Bush il fotomontaggio del presidente in camicia con svastica è stata un’icona della protesta dei democratici e del mondo pacifista. L’ironia dell’odierna inversione di ruoli intorno a Hitler non può sfuggire. D’altra parte, fu proprio Bush a invocare Hitler per spiegare la natura di Saddam Hussein e la necessità della guerra in Iraq. Il capo del Terzo Reich è anche l’ispiratore di uno dei gruppi terroristi americani di maggiore pericolosità e continuità - i White Supremacist, alla cui influenza è stato attribuito il maggior attentato terroristico sul suolo americano prima dell’11 settembre, la bomba di Oklahoma City del 1995, in cui morirono 168 persone. Ancora più indietro: la simpatia del patriarca Kennedy per il fondatore della nuova Germania venne spesso usata per attaccare il presidente Kennedy.

Insomma, c’è un Hitler quasi per ogni stagione Usa. E proprio questa ubiquità del nazismo è un elemento rivelatore della formazione politica americana e della sua memoria. Perché questa permanenza? Perché proprio Hitler, e non - in un Paese così anticomunista - Stalin, i cui baffi, dopotutto, avrebbero forse fatto su Obama, accusato di essere un criptosocialista, miglior figura?

La prima risposta a questi interrogativi è molto facile: la lotta al nazismo è stato l’avvenimento definitorio del «Secolo americano». Un paese nato contro ogni intervento e interventismo europeo, in nome della fine di qualunque ingerenza imperialistica nei confronti della libertà dei popoli, trovò nell’opposizione al nazismo la forza e la ragione per intervenire in un conflitto mondiale e, alla fine, per reinventarsi come superpotenza. Includendo, in questo processo, la grande influenza intellettuale ebraica nella formazione dell’arena pubblica Usa.

Il nazismo come Male supremo è l’epitome della politica nella coscienza comune americana. Il brillante lavoro di Charlie Chaplin sul Grande Dittatore è forse il miglior testimonial di questo tipo di sensibilità. Tuttavia, questa onnipresente figura di Hitler non è sempre la stessa. In varie epoche e nelle varie polemiche il Male simbolizzato dal nazismo si presenta in forme diverse. Seguirne le diverse versioni diventa così un’utile mappa per capire cosa cova sotto le ceneri dei malumori di ieri e di oggi.

L’esempio da cui partire è proprio quello di cui abbiamo già parlato, cioè l’uso fattone, in questi ultimi anni, alternativamente, da democratici e repubblicani, contro Bush e contro Obama. Stesso Hitler, significati diversi.

Prendiamo un documento circolato molto nel 2004 , stilato dal professor Edward Jayne, ex attivista degli Anni Sessanta, in cui si elencavano ben 31 somiglianze fra Bush e Hitler. Il cuore del parallelismo era la guerra. «Come Hitler, Bush ha usato un pubblico disastro per tagliare le libertà civili: nel caso di Hitler fu l’incendio del Reichstag, nel caso di Bush l’11 settembre»; «Come Hitler, Bush è ossessionato dalla visione di un conflitto fra il Bene (il patriottismo Usa) e il Male (l’antiamericanismo)»; e, come Hitler, Bush «ha usato il meccanismo delle guerre “preventive”». Il razzismo si rivela alla fine la vera base di queste identiche concezioni: la distorsione del darwinismo, «nel caso di Hitler trattando la razza ariana come superiore su base evoluzionista, nel caso di Bush rifiutandone la scienza a favore di un creazionismo fondamentalista».

Per un Hitler perfetto da usare contro Bush, abbiamo oggi un altro Hitler la cui evocazione ci spiega i sentimenti profondi che albergano contro Obama in una parte della popolazione americana. L’equivalente del manifesto citato è un sito collettivo, «America vs Obama», e si intitola «Obama the black Hitler». L’Hitler che si evoca per il presidente attuale è quello che arriva al potere tramite la manipolazione delle emozioni, della verità e dei media. Queste alcune delle citazioni del Reich valide per Obama: «Solo colui che conquista i giovani ha in mano il futuro», «Io uso le emozioni per le masse e riservo la ragione per pochi», «Di’ una bugia, una bugia grande, continua a ripeterla, e alla fine ti crederanno».

Obama e Hitler, in questa interpretazione, condividono una visione dello Stato collettivista e autoritaria: «La salvezza individuale dipende dalla salvezza collettiva». Condividono dettagli della loro vita: «Hitler era vegetariano, pro aborto, un promotore dell’assistenza medica universale». Condividono la frode sulle loro origini miste: «Hitler aveva sangue ebreo, e Obama sangue arabo».

Ma alla fine, anche questa volta, è il razzismo che cementa le somiglianze: in questo caso, il comune odio contro gli ebrei. A Obama viene attribuito «l’arrivo di un secondo Olocausto», quello dell’Iran contro Israele, e una politica di «eliminazione degli indesiderabili». Dall’autoritarismo al dominio dello Stato, fino alla riforma medica, tutto alla fine si tiene. Con l’evocazione dell’eutanasia come sigillo finale di un percorso solo apparentemente irrazionale. Rivisitando l’ombra di Hitler, si capisce bene di quali sentimenti si nutra l’attuale tensione di base, dei vari movimenti e delle assemblee cittadine, nei confronti di Obama. E su cui molti rappresentanti repubblicani lavorano.

La prossima domanda è: questa tensione, così radicale nelle sue evocazioni, può anche diventare pericolosa? La traduzione in altre parole di questo interrogativo è se Obama rischia o no la vita - ma nessuno lo dice così direttamente. Questo è lo spettro vero che circola, ma tutti hanno il pudore di non dargli forma. Si evoca dunque Hitler. Metafora che, ogniqualvolta appare sulla scena americana, come abbiamo cercato di dimostrare, è comunque il segno che il termometro della discussione pubblica si alza.

1. Continua

 
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« Risposta #86 inserito:: Agosto 27, 2009, 04:12:13 pm »

27/8/2009 - ADDIO A TED. LA MORTE DEL PATRIARCA

Kennedy, una famiglia un simbolo
   
I Kennedy entrarono in politica dando un grande ballo. Le élite di Boston li criticarono, l'America se ne innamorò

LUCIA ANNUNZIATA


Dopo tanti anni, e dopo tanti libri, alla morte di Ted, l’ultimo di loro si può finalmente scrivere che i Kennedy erano dei «burini»? Che burini erano proprio la loro bellezza, le loro foto, la loro estetica, cioè tutto ciò che è stato a lungo chiamato il glamour dei Kennedy? Accettare di sminuire questa famiglia non sarebbe una cattiveria - ma solo, e finalmente, una molto necessaria opera di revisione critica di una rilevante parte della cultura del dopoguerra americano ed europeo. È molto difficile, oggi, giorno delle commemorazioni, scrivere seriamente della famiglia Kennedy. Si può prendere la strada della gloria - e troveremo un percorso lastricato di vittorie, dagli eroismi durante la seconda guerra mondiale, alla lotta contro la discriminazione razziale. Oppure si può percorrere la strada degli errori - e cosa è mancato al lato oscuro dei Kennedy, dalla simpatia del patriarca per Hitler, al fallimento della Baia dei Porci e alla stupidità del coinvolgimento in Vietnam? Si può prendere infine la molto battuta strada della «famiglia reale» americana. Camelot, Jackie, le vacanze e la bellezza. E andrebbe bene ugualmente.

Ma quale sia la verità terrena, inalterabile di questa famiglia, rimane sfuggente, se per verità intendiamo ciò che riguarda le persone separate dal loro mito. Il Mito è infatti il vero problema con i Kennedy. Una famiglia che è ormai una produzione della nostra mente più che della loro vita. Noi occidentali, che li abbiamo usati per rappresentare quello che volevamo essere alla fine della devastante seconda guerra mondiale: una nouvelle vague della politica, degli stili di vita, e dei valori democratici. È così interessante riportare i Kennedy alle loro origini, valutarli attraverso gli occhi di chi li vide muovere i primi passi sulla scena politica del paese. E li valutò come dei semplici «nuovi ricchi», e «cattolici», in aggiunta. Quello sguardo, non molto ricordato nelle agiografie, è stato ben re-illuminato da un articolo del 12 agosto del Washington Post, dunque prima della morte di Ted, in cui il quotidiano ricorda come i Kennedy fecero irruzione nella vita pubblica americana, nel segno di una certa volgarità di modi e di intenti. «Tre giorni prima che John F. Kennedy vincesse la sua prima campagna politica, le primarie democratiche per l’ottavo distretto di Boston, la famiglia Kennedy convocò una grandissima festa all’Hotel Commodore di Cambridge. Inviti su carta pesante, affitto del salone da ballo, abito da sera obbligatorio.

L’idea della grande festa venne subito irrisa dai vecchi politici e le vecchie famiglie di Boston, ma anche da molti consiglieri dello stesso John che pensavano che questo pretenzioso ballo esponesse al ridicolo l’intera famiglia». La cronaca successiva ci racconta che il ballo invece fu un successo, che almeno 1500 signore in abito lungo «anche se affittato» si presentarono e che altre centinaia rimasero fuori sul marciapiedi tanto per farsi vedere. Il ballo, spiega l’autore dell’articolo, segna il momento in cui si rese chiaro che i Kennedy «non solo offrivano alla politica un candidato, ma una sorta di aristocrazia alla cultura pop, di cui anche il cittadino medio poteva sentirsi parte. In una sola serata di glamour la famiglia aveva raccolto intorno a sé le aspirazioni e la immaginazione di una città di immigranti».

Quello che oggi a noi appare come una nouvelle vague della politica e dell’estetica, ha le sue radici in una mimetica riproposizione, una elaborata riappropriazione, in questo senso un po’ volgare, dei riti e valori delle vecchie élite. Questa élite bianca, protestante, richiusa nei propri riti bancari e commerciali cui i Kennedy apparivano straordinariamente esibizionisti e straordinariamente arrampicatori - intenti a sfoggiare una ricchezza di nuovo conio - ma anche straordinariamente sovversivi nella loro vita e idee comunitarie e liberali, ispirate dalle esperienze della recente immigrazione e dai valori cattolici.

I Kennedy, dunque, come classe media che ha avuto successo? Ben lontano dall’essere una diminuizione, una tale definizione ci offre una spiegazione molto più seria di altre della loro ininterrotta popolarità. La loro affermazione è infatti l’affermazione della nuova società contro la vecchia aristocrazia dei Bramini di Boston, il club del Mayflower, il peso dei grandi proprietari terrieri quali i Roosvelt. Una funzione di legittimazione che è stata, questa si, storica. E che ha guadagnato ai Kennedy l’unico vero privilegio che ancora detengono: quello di esser l’unica dinastia politica cui tutto viene perdonato. In questo senso, il miglior complimento che il senatore Ted merita, oggi che muore, è quello di aver meglio rappresentato nel molto bene e nei molti errori fatti, la essenza pura, la più eccellente, la più volgare e la più tragica, della sua famiglia.

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« Risposta #87 inserito:: Settembre 04, 2009, 07:48:20 pm »

4/9/2009
Usa, il lavoro salva le donne
   
LUCIA ANNUNZIATA


Soglia storica, in Usa: le donne hanno quasi superato il numero degli uomini, nel mondo del lavoro. Ma è una maggioranza amara, che segna più il crollo del mercato del lavoro maschile che una vittoria dell’uguaglianza.

E’ un evento, tuttavia, che, pur nel suo chiaroscuro, annuncia un ulteriore cambiamento dei profili personali e legali di un’intera società.

Secondo i dati del Bureau of Labor Statistics relativi al mese di giugno, le donne americane occupano il 49,83 per cento dei 132 milioni dei lavori censiti; la soglia del 50 per cento dovrebbe essere superata a ottobre o novembre, perché alle donne sta andando anche la maggioranza dei nuovi posti creatisi dentro la mini-ripresa in corso. Anche in questo settore dunque il «secolo americano» arriva alla sua piena conclusione; il sorpasso conclude infatti un trend di crescita che dura da circa cento anni ed ha segnato alcuni picchi storici durante la Depressione e poi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il taglio del traguardo ha avuto una sorta di sua celebrazione, del tutto involontaria, in verità, ma ugualmente molto simbolica, proprio in uno dei settori in cui il volto delle donne ha costituito in questo secolo l’elemento trainante, la televisione. Diane Sawyer, una delle prime anchor in Usa, ha raggiunto due giorni fa la agognata direzione/conduzione delle news della prima serata della Abc, portando anche qui a un piccolo sorpasso. Con l’arrivo di Sawyer, dopo Katie Kouric, due delle tre conduzioni rilevanti della rete passano al femminile.

Al di là delle storie di donne celebri, tuttavia, la raggiunta maggioranza nel mondo del lavoro non racconta una storia di vittorie per le donne. La crescita della presenza femminile è figlia di una trasformazione abbastanza radicale del profilo stesso del lavoro dentro la crisi in corso. Le donne sono diventate di più semplicemente perché gli uomini, nell’ultimo anno, hanno subito una vera e propria decimazione. Dal dicembre del 2007 ad oggi in Usa sono stati persi 6,4 milioni di lavori, il 74 per cento dei quali maschili. Inoltre, questi lavori cancellati sono in maggioranza nei settori più produttivi, e sono lavori delle fasce alte. Le donne, che comunque guadagnano il 77 per cento di quello che guadagnano gli uomini e hanno più funzioni part time, sono state tenute perché più «leggere» per il mercato. La natura del lavoro femminile è anche la ragione per cui i nuovi lavori creati nel corso della crisi vanno in maggioranza alle donne. Sono impieghi che nascono dai vari «stimoli» statali, e dunque ruotano più o meno dentro l’area del sistema pubblico, in cui è più funzionale la «flessibilità» (in termini di ore e retribuzione) femminile. In compenso, i lavori di alto profilo con alti salari, parliamo qui di manager, rimangono fermamente a maggioranza maschile.

Comunque sia e qualunque sia la ragione, la soglia attraversata consegna alle donne la staffetta del capofamiglia. Una condizione che inevitabilmente porterà a ridefinire i tempi delle coppie, gli equilibri personali, il concetto di lavoro e famiglia, ma anche il territorio legale. Reversibilità pensionistica, allargamento dell’assistenza sociale, educazione. Sono tutti i campi in cui se ne sentirà l’impatto.

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« Risposta #88 inserito:: Settembre 07, 2009, 10:45:37 am »

7/9/2009

E l'America scopre gli studenti senza casa
   
LUCIA ANNUNZIATA


Una odiosa, ennesima polemica contro Obama segna l’inizio dell’anno scolastico americano. Odiosa per toni ed espressioni. Ma rilevante. Perché svela il nervosismo con cui le famiglie, gli educatori e i legislatori prendono atto che la scuola Usa, uno dei bastioni della forza del paese, riapre i cancelli contando le profonde ferite inferte dalla crisi. Alle radici della polemica, la decisione del Presidente di celebrare l’inizio dell’anno scolastico, data sacra dei rituali familiari, con un discorso agli studenti.

L’intervento di Obama avrà luogo domani, 8 settembre, in Virginia, uno degli Stati di più nobili tradizioni in Usa, sede, assieme al New England, delle più antiche scuole americane, nonché Stato del Sud, fatto la cui rilevanza è ovvia.

Apriti cielo, la destra si è sollevata. Come si permette il Presidente di fare questo intervento? Di che cosa si tratta se non di indottrinamento, o di una ennesima prova che Obama è un cripto-socialista, un dittatore con un profondo culto della personalità come Saddam o come Kim Jong-il? Per quanto esagerate, queste opinioni - lanciate da voci della destra radicale, come Michael Leahy, portavoce della Tea Party Coalition - sono state fatte proprie anche dal quotidiano Washington Times e da esponenti repubblicani importanti, come Jim Greer, presidente del Partito repubblicano in Florida, e Gary Bauer, leader di American Values ed ex sottosegretario all’Educazione con Reagan.

Nelle mire di queste critiche è soprattutto il manuale inviato ai vari istituti per preparare l’intervento di Obama, in cui si chiede a tutti gli studenti di scrivere un tema su «come aiutare il Presidente». Mai, si sottolinea, negli ultimi 19 anni la Casa Bianca aveva preso una simile iniziativa. Quest’ultima è un’osservazione debole, dal momento che l’ultimo Presidente a fare un appello agli studenti 19 anni fa è stato proprio George Bush padre. I discorsi hanno comunque galvanizzato una parte delle scuole: alcune hanno cancellato l’ascolto del discorso, in altri casi gruppi di genitori hanno annunciato che non porteranno in aula i propri figli.

Nell’agitato clima attuale, segnato dalle proteste contro la riforma medica e quelle sull’energia, la tensione intorno alla scuola è in verità apparsa fin qui minore. Fino a ieri. Quando la Casa Bianca ha dato chiare indicazioni della sua preoccupazione per la polemica. Proprio ieri, infatti, il segretario all’Educazione Arne Duncan è andato in tv per rassicurare i genitori: «Il Presidente vuole solo parlare di responsabilità personale e stimolare gli studenti a prendere i loro studi molto seriamente». A calmare ulteriormente gli animi è arrivata l’offerta del Presidente di rendere noto oggi, lunedì, il testo del discorso che pronuncerà domani.

Insomma, una chiara ricerca di distensione da parte dell’Amministrazione. Ma proprio questa prudenza è rivelatrice. Il discorso agli studenti è evidentemente dettato non tanto da una scelta di bandiera, quanto dalla consapevolezza che inizia un anno in cui la scuola americana avvertirà pesantemente le conseguenze della crisi e dovrà affrontare problemi impensabili solo un anno fa. Nei due opposti punti dell’arco scolastico che va dalle maggiori scuole private alle più povere scuole pubbliche, i segni del cambiamento di clima economico sono fin da ora ben visibili. Molte famiglie di classe medio-alta, che tradizionalmente investono sull’educazione dei figli, pur non rinunciando all’investimento oggi cominciano a fare scelte diverse, a mettere in discussione curriculum finora considerati prestigiosi e un livello di debito al di sopra delle proprie capacità, che sarà poi trasferito in futuro ai loro stessi figli.

Esempio di questo nuovo stato d’animo è un interrogativo che è molto circolato sui media: «Val la pena di investire 50 mila dollari l’anno per imparare filosofia e letteratura?». L’impatto di questo dubbio è evidente, se si considera che a fronte dei 50 mila dollari, che sono il costo annuale delle scuole private, l’educazione classica è stata finora considerata il «premium» della distinzione di queste stesse scuole. All’altro capo dello spettro scolastico, la crisi economica che si scarica sulla scuola è quella delle nuove povertà. Non a caso l’edizione di ieri del New York Times è aperta da un articolo dedicato alle migliaia di bambini provenienti da famiglie di nuovi poveri che iniziano l’anno accademico. Secondo Barbara Duffield, direttore delle politiche della National Association for the Education of Homeless Children and Youth, nel 2007 sono stati contati in Usa 679 mila studenti di famiglie senza casa. La scorsa primavera la cifra ha superato il milione.

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« Risposta #89 inserito:: Settembre 18, 2009, 11:54:25 am »

18/9/2009

I dubbiosi non sperino in Barack
   
LUCIA ANNUNZIATA


Detto in maniera franca, come è necessario nelle circostanze difficili: se la classe dirigente italiana (tutta, di ogni colore) sull’onda del lutto intende aprire un balletto di dubbi sul come, sul quanto e sul perché della nostra permanenza militare in Afghanistan, sappia che troverà nel presidente Obama un uomo molto meno paziente, molto meno accomodante, insomma un osso molto più duro, di quanto sia stato George W. Bush.

Questo avvertimento è reso necessario dalla consapevolezza di come vanno le cose nel nostro Paese. La presenza militare italiana all’estero è da anni sottoposta al solito andazzo. Quando tutto va bene, ognuno (destra e sinistra) si fregia della «ritrovata capacità di avere un ruolo internazionale». Quando il prezzo di sangue dell’impegno ci viene presentato, tutti cercano invece di sfuggire dalle responsabilità. Iraq, Libano, Afghanistan: in questo rosario di Paesi siamo presenti ormai da tanti anni da poter equamente parlare delle responsabilità di centrodestra e centrosinistra.

Le ragioni di questa oscillazione non sono difficili da riconoscere. Mentre sul piano internazionale è sempre stato chiaro a tutti che non possiamo se non essere parte attiva di una alleanza militare, all’interno del Paese la guerra non è mai stata popolare. Prodi ha dovuto far fronte al pacifismo dentro la sua coalizione, ma anche il centrodestra sa di avere una base elettorale per cui tasse e economia valgono più dell’impegno militare. Siamo dunque abituati, dopo ogni incidente mortale, al «dibattito sulla guerra». Un dibattito francamente stucchevole, proprio perché si è sempre saputo che serviva solo a incanalare le emozioni del momento.

Nella situazione presente, tuttavia, con Obama presidente, l’Italia dovrà stare molto più attenta. Per un’unica ragione. George Bush era il Presidente della guerra - americana, identitaria, necessaria, preventiva. Il conflitto, dopo l’11 settembre, è diventato parte integrante della teoria politica dei repubblicani: Bush l’avrebbe fatta - ed è successo - comunque, su larga scala, e anche senza alleati. Obama è invece un Presidente le cui radici intellettuali sono quelle del rifiuto del conflitto e della fine della guerra come strumento di dominio Usa. Ma in concreto è l’uomo che per la sicurezza ha dovuto impegnarsi in una guerra, per altro molto tesa e incerta come quella in Afghanistan, dai contorni meno definiti e meno rassicuranti di quanto sia stata quella in Iraq. L’impegno di questo Presidente democratico costituisce dunque in sé una potente contraddizione, la differenza fra realtà e promesse della sua politica: l’Afghanistan è per Obama un vero e proprio tallone di Achille. Questo punto debole per ora non duole (o almeno ancora non tanto) in Usa perché ci sono cose che fanno ancora più male dentro il Paese. Ma la contraddizione è lì, e Obama non può permettersi di farla scoppiare. Tanto meno da parte degli alleati.

Per cui: se l’Italia avanza, oggi o domani, anche solo un sospiro di dubbio su come e quanto stare in Afghanistan, può aspettarsi che l’Amministrazione americana respinga bruscamente tutti questi dubbi. Come mai è successo prima. Magari mettendo sul tavolo anche una serie di altre differenze esistenti fra gli Stati Uniti e l’alleato di Roma.

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