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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 132149 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:41:19 pm »

Matteo Renzi, l'evasivo
Pubblicato: 04/08/2014 13:55 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Volete davvero avere un Premier che considera un'accusa essere "troppo condiscendete con le richieste delle opposizioni"? Esiste, evidentemente, nella mente dell'attuale inquilino di Palazzo Chigi l'idea che fare l'opposizione non è un diritto, casomai una concessione di chi governa. Qualcuno potrebbe ricordargli che il diritto pieno di fare opposizione, incluso l'ostruzionismo duro e puro, è stato in epoche buie la rispettosissima garanzia di vita di un Partito Comunista e di tanti altri partiti, dalla cui area politica per altro lui stesso proviene. Ma si sa, il Premier è troppo giovane per ricordare.

Torna in campo, con una magnifica intervista al quotidiano La Repubblica, Matteo Renzi. Mi sbilancio sul "magnifica", scontando di apparire "fan" del gruppo in cui lavoro, perché davvero il colloquio con Tito ci riporta a casa il vero Primo Ministro, l'uomo che alle grandi risposte sulle grandi questioni - per esempio sullo stato economico del paese, o sugli accordi extraparlamentari fatti con Silvio Berlusconi - preferisce sempre uscirsene assestando una bella mazzata ai nemici, perché tanto la colpa è sempre loro.

Lasciamo perdere la bruttissima pagina dell'attacco diretto al Presidente del Senato, quello stesso che è stato insultato in aula dalle opposizioni per aver regalato a Renzi il decisivo voto segreto per far passare il secondo emendamento, la pietra angolare della (da Renzi) tanto agognata riforma del Senato. Non è bastato. Il povero Grasso si ritrova, ora, accusato di essere, appunto, "troppo accondiscendente con le richieste delle opposizioni". Lasciamo perdere anche la solita tiritera contro "professori, opinionisti ed editorialisti" che "non possono ritenersi senza responsabilità". Vero hanno (abbiamo) tutti responsabilità nello stato del Paese, ma, caro Premier, ci abbiamo messo tutti la faccia, ben prima di Lei, scrivendo appunto con nome e cognome. Sopporteremo le conseguenze stoicamente di quel che abbiamo detto, e diremo.

In questa girandola di distribuzione di responsabilità quel che manca sono quelle che il Premier si assume. Il verbale scoppiettio del discorso renziano diventa infatti un distaccato discorso da statista quando si va ai nodi centrali del governo, quello istituzionale e quello economico.

Sull'orizzonte istituzionale inutile sperare in chiarimenti: vuole davvero andare a votare Renzi? C'è davvero di mezzo un accordo sul Quirinale con il leader di Forza Italia? Alla vigilia del secondo incontro con Silvio Berlusconi, il Nazareno due, le domande sul contenuto del patto scritto del Nazareno uno sono derubricate a "cultura del sospetto". Ci assicura, il Premier, mai più una legge ad personam per Berlusconi", ma è difficile immaginare una legge più ad personam dell'aver reso il Cavaliere un padre rifondatore della patria, mentre le opposizioni vengono additate al pubblico ludibrio.

Sull'economia siamo alla vera e propria evasività. Alla domanda di Tito: "Dopo le riforme i 1000 giorni ma non vi toccherà affrontare un autunno caldo?", il premier sbadiglia: "Sono convinto di no. Questa è una retorica che fa sbadigliare. È trita e ritrita".
A fine del discorsetto concede "So bene che la ripresa è fragile. Che l'Eurozona cresce meno degli altri. L'Italia non ha invertito la marcia e non la invertirà con la bacchetta magica. Ma la narrazione degli autunni caldi è un noioso dejà vu". Il giusto Tito insiste: "Ma dovrete trovare 20 miliardi oppure no?". Il cauto statista lo riprende: " Definire le cifre del 2015 è prematuro". Sugli ottanta euro: "A chi dice che non hanno rilanciato i consumi dico di aspettare".

Nello stile dismissive, contemptuous, disdainful, scornful (glielo diciamo in inglese così forse gli piace di più) il Premier lascia a noi dunque trattare con i soliti dettagli. L'Italia è il paese che cresce meno di tutta l'Eurozona, ma lo stesso Renzi che aveva promesso un + 0,8% così vede il quasi default: "La crescita è negativa da tempo. Avviandosi verso lo zero darebbe segnali di miglioramento". L'Italia è il paese in cui, in questo inizio di settimana, si imballa sulle coperture il decreto Madia sulla Pubblica Amministrazione, dando ragione al tanto offeso Cottarelli, cacciato con infamia come tutti i non amici di Renzi. L'Italia è il paese che in questo momento è alla guida del semestre europeo e nessuno se ne è accorto. Ma noi ci siamo in compenso accorti che il maldestro primo passaggio sulla scena europea del nostro leader con l'inutile braccio di ferro su Mogherini ci ha solo fatto sprecare tempo: le nomine saranno trattate a fine agosto e se ci va bene dunque il meraviglioso semestre di ridurrà a un paio di mesetti - da settembre agli inizi di dicembre: altro che svolta decisiva impressa dall'Italia alle politiche europee.

Del resto, al di là della retorica della velocità, la perdita di tempo pare essere la essenza di questo primo squarcio di governo Renzi. Eventi alla mano, le uniche priorità di Renzi riguardano tutti gli impegni che hanno a che fare con la definizione del potere istituzionale, il suo e quello che circola nei palazzi romani. Non sono iscritta al partito di chi crede che Renzi farà Cesare o Napoleone - per essere l'uno o l'altro ci vuole un po' più di visione di quel che finora ci ha mostrato. Ma di nomine, sostituzioni di persone, battaglie per il controllo dei ministeri, alleanze e disalleanze politiche: di questo il giovane premier si è rivelato espertissimo. Riducendo di fatti il suo promesso nuovo inizio a un soffocante neo parlamentarismo, riportando in primissimo piano la politica politicista. Da cui il paese reale, a parte le sue visite a favore di telecamere, è stato di nuovo totalmente escluso.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/matteo-renzi-blog-annunziata_b_5647029.html?ref=HRER1-1
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« Risposta #226 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:36:15 pm »

Ma Renzi è adatto a governare?

Pubblicato: 01/09/2014 08:56 CEST Aggiornato: 01/09/2014 12:44 CEST

È adatto Matteo Renzi al compito che si è preso? "Is he fit to govern?". Mi sembra che si stia avvicinando il tempo di farsi anche su di lui la domanda che ha dannato tanti altri premier italiani, e non solo, in questa crisi che dura da ormai sei anni.

Diamo per scontato la risposta da parte delle artiglierie dei Renzi-fan, diventati oggi così radicali e insultanti da far sembrare i grillini dei perfetti gentiluomini. Intorno all'inquilino di Palazzo Chigi si è formato infatti un dogma di "infallibilità", una narrativa che passa da trionfo a trionfo , una vulgata del genere "durerà venti anni", il mantra "a lui non c'è alternativa" ripetuto da amici e ancor più da nemici. In una sorta di sindrome di Fukuyama, autore de "la fine della storia", presto smentito dalla storia stessa.

Un leader tuttavia dura tanto quanto è efficace la sua azione di governo. E al momento Matteo Renzi , a dispetto dei molti fuochi d'artificio che circondano la sua persona, è in un punto molto critico della sua forza politica.

Non è questione né di immagine né di buone maniere, di cui non ci interessa assolutamente nulla. Si tratta di risultati - materia che rimane molto ostica per il giovane presidente.

Il più atteso dei suoi provvedimenti, lo Sblocca Italia, è intanto stato giudicato quasi unanimemente inferiore alle esigenze della drammatica situazione del paese. E se una parte di inadeguatezza era da mettere in conto, visto che Renzi è in sella da soli sei mesi, e non ha la colpa di una difficile situazione che dura da anni, non è invece giustificabile la inadeguatezza del metodo con cui il premier si sta confrontando con le reali condizioni del paese.

Fa testo di questa inadeguatezza il percorso di preparazione e le conclusioni del primo Cdm d'autunno - insieme sono purtroppo la fotografia di un governo segnato dalla approssimazione amministrativa. Abbiamo assistito a vicende incredibili, che per qualunque altro esecutivo avremmo stroncato sul nascere.

Surreale il percorso della riforma della scuola. Non c'è nulla di meno serio di un premier che su un argomento così delicato per le famiglie e le decine di migliaia di lavoratori del settore, non lavori insieme al suo ministro; un premier che pochi giorni prima di proporre questa riforma scenda in campo con pirotecniche affermazioni tipo "vi stupirò", salvo poi ritirare l'intero progetto evidentemente non pronto, con la flebile scusa dell'ingorgo.

Surreale anche il percorso della riforma del lavoro, che ha subito lo stesso travaglio di quella della scuola, con un ministro, Poletti, che un giorno annuncia, un giorno nega quel che ha detto. E il riemergere di un tema, l'abolizione o meno dell'articolo 18, che ha a lungo diviso il paese, e che certo meritava di essere trattato , non fosse altro per capire cosa ne pensa il governo, e che è stato però seppellito sotto un aggettivo, in questo caso "superato".

Ma se la voce lavoro è dispersa, la voce giustizia, la più delicata da vent'anni a questa parte, è finita dritta dritta di nuovo nelle secche dello scambio politico, irretita nelle fibrillazioni della maggioranza e delle preoccupazioni di Silvio Berlusconi. Stesso destino per le risorse fresche, i milioni promessi per il rilancio dell'economia, passati da 43 miliardi, oppure 30, altre cifre vaganti, a infine solo a 3,8.

Nel complesso, persino le azioni giuste, che riguardano soprattutto la semplificazione normativa, sbiadiscono in rapporto a tutta la retorica dei mesi passati - Renzi, ricordate, è lo stesso leader che solo sei mesi fa accusò il suo predecessore Enrico Letta di usare "il cacciavite" laddove, disse, per cambiare l'Italia ci voleva "una rivoluzione". Altro che cacciavite - al suo primo incontro con il mondo reale della vita dei cittadini Renzi ha fatto soprattutto manutenzione.

La nomina della Mogherini a Lady Pesc sembra segnare invece l'azione internazionale del premier di ben altra caratura di quella mediocre nazionale. Quella nomina, va detto con chiarezza, è un indubbio successo, e la Mogherini non è né giovane - solo in Italia si è giovani a 40 anni - né inesperta. A lei vanno i nostri auguri perché dal suo lavoro dipendono oggi molte vicende, prima di tutte la potenziale guerra in Europa, ad alto impatto anche nazionale.

Ma, parlando appunto di guerra, come in Italia, così a Bruxelles non abbiamo sentito nessun discorso di contenuti accompagnare la nomina. Non sappiamo oggi più di ieri perché abbiamo chiesto il posto di Lady Pesc. Perché vogliamo creare un nuovo detente contro la Russia, perché temiamo una seconda guerra fredda, perché pensiamo che solo noi Italiani possiamo essere un ponte fra russi e Occidente, perché pensiamo che i russi possano aiutarci in Medioriente - o forse sono essenziali solo a noi italiani perché così abbiamo una leva in più in Occidente? Di quale di queste opzioni si tratta? Esattamente per cosa ci batteremo sul cosiddetto scacchiere mondiale? Siamo con Kissinger che chiede di ridefinire tutti gli strumenti di intervento, siamo per definire una nuova frontiera occidentale, siamo per un ribaltamento di alleanze in Medioriente, o per nuovi fronti militari? Siamo per i diritti umani o per la realpolitik? Siamo per bombardare Isis con Assad, e l'Iran, e vogliamo pagare per gli ostaggi, o liberarli impiegando le forze speciali? Insomma cosa pensa Renzi, premier del nuovo mondo? Per ora abbiamo soltanto sentito ripetere la frase "mediazione" a ogni angolo. Speriamo che basti.

Ma se non ha parlato di politica estera, Renzi ha però fatto un commento per festeggiare la nomina di Mogherini: "questa nomina indica che c'e' una nuova generazione al potere". E questa frase è in fondo il vero cuore della sua identità politica- il raggiungimento del potere. Un potere formale, materiale, riconoscibile in una serie di posizioni per sé e per tutti i suoi associati.

Non c'é nessun disprezzo in quel che dico. Il potere è l'anima della competizione pubblica da sempre. Non per tutti, non sempre, ma afferrarlo e esercitarlo è la ragione per cui si scende - o non si scende - in politica. O, almeno, in un certo tipo di politica .

E nella piattaforma renziana, fin dall'inizio, il potere ha un ruolo centrale, sotto forma di rottamazione, annuncio di un ricambio generazionale fatto con maniere decise. Obiettivo del tutto legittimo, parte della dinamica dell'evoluzione, e base molto forte della popolarità che ancora gonfia la bandiera renziana.

Su questa piattaforma Renzi si è rivelato geniale, e degno erede di quella grande scuola della Dc che ha visto in Andreotti il suo maggior e più pragmatico rappresentante, quello del potere che logora solo chi non ce l'ha. Come un treno, ha saputo cogliere le debolezze del suo partito, del sistema burocratico romano, delle classi dirigenti italiane prima e quelle europee dopo. È riuscito a intimidire con insulti alcuni di loro, altri li ha invece piegati con la seduzione della sua energia, altri ancora facendo leva sull'opportunismo di chi ama i vincenti.

La sua è stata una visione del potere senza gabbie etiche, solo e puramente funzionale. Non ha mai avuto dubbi infatti sulla natura tattica delle alleanze, e così come non ha esitato a far fuori Enrico Letta, così ha risdoganato e rimesso al centro senza nessuna spiegazione l'arcinemico del suo stesso partito, Silvio Berlusconi; o ha distrutto e rivivificato carriere a seconda dei voti che aveva necessità di raccogliere su questo o quel provvedimento. Che la priorità assoluta dei primi sei mesi della sua attività di governo sia stata la riforma del Senato ha senso solo in questo percorso.

Non è in sé sbagliato. Come si diceva è una idea che viene da una onorata e molto lunga tradizione - il potere si giustifica col potere perché solo il potere autorizza il cambiamento. Renzi in questo sfoggio di forza ha infatti affascinato e addomesticato quasi il 50 per cento del paese.

C'è un solo problema in questo schema, e che ora si presenta alla sua porta. Dopo la conquista, il potere occorre riempirlo di fatti, di idee, di proposte. E su questo Renzi arriva tardi e male. E non solo perché non ha i soldi. Anzi.

Arriva tardi e male perché in questi mesi non ha saputo o voluto raccordarsi davvero con il paese, e la sua crisi. Il suo orizzonte è stato il più politicista di tutti i leader più recenti. Proprio perché concentrato sulla presa dei centri di potere. Ma non ha saputo mai spiegare a tutti noi perché si sta sempre peggio, cos'è che non funziona nelle nostre città e come mai l'Italia ha continuato a scivolare verso dati economici negativi. Non lo abbiamo visto parlare con nessun poveraccio, salvo i suoi giri veloci e le sue pacche sulle spalle. Ha visitato a mala pena qualche fabbrica, della lunga vicenda della Alcoa non ha preso mai nota, ha fatto i suoi gesti di potere disprezzando Squinzi e i sindacati, ma ha visto Landini che è 'nuovo' e cool ma non sembra avergli parlato a sufficienza da capire che lui e Landini vivono in luoghi diversi. Parla tanto di quote rose, ma non parla mai di aborto, di diritti, di bambini uccisi da madri a da padri in depressione. Non ha mai fatto una filippica sull'onestà collettiva, sulla evasione fiscale, in compenso abbiamo tante filippiche su gufi e invidiosi e specie altre. Non ha mai detto una parola sul disagio dei giovani, sul degrado che alcol droga e bassi affitti hanno scatenato questa estate sul nostro territorio nazionale, in compenso fa docce gelate, e prepara una mossa smart via l'altra, un permanente girotondo di discorsi, conferenze stampa, convegni - oggi sappiamo già della conferenza stampa di mercoledì e poi del convegno europeo di venerdì e poi della la visita all'Onu prima anticipata da quella - e dove altro? - alla Sylicon Valley.

Ma soprattutto sembra non aver mai albergato nella sua testa l'idea che un paese in gravissima crisi c'è bisogno di un qualche misura speciale. Forse di una idea di unità nazionale che non sia solo il suo patto con Berlusconi e Ncd a fini di raccattare i voti che gli servono.

Roosvelt fece i lavori pubblici, Marshall finanziò la ripresa europea, Mussolini risanò le paludi. E lui ha qualche compito cui tutti noi possiamo concorrere, ha in mente una chiamata alla responsabilità di lavoratori e imprenditori, come in Germania ad esempio, o la ripresa viene automaticamente fuori dal suo inarrestabile presenzialismo? Si è mai chiesto Renzi perché i suoi 80 euro non hanno funzionato? Dove li ha messi la gente che li ha ricevuti? Sotto il materasso? Ha saldato i debiti pregressi? Nemmeno con quei dieci milioni di Italiani che ha concretamente e generosamente aiutato lo abbiamo mai visto parlare.

Il premier si fa sempre un punto di far sapere di fregarsene delle opinioni dei suoi critici. Ma le cambiali arrivano anche per lui. E nel caso di questi ultimi giorni la conseguenze del suo stile di lavoro si sono viste.
Alla fine di questa girandola di gestione di potere, arrivato al dunque delle misure da decidere per il paese, i tanti suoi progetti sono poi stati filtrati, messi in ordine e limitati da uomini più saggi e più vecchi di lui. Le sue ambizioni meravigliose si sono scontrate con la fermezza del ministro del Tesoro nel tenere i piedi per terra nei conti, nella fermezza di Napolitano di non prestarsi a giochi di illusionismo politico, e con la figura imponente di Mario Draghi diventato ormai il real player politico anche per l'Italia, oltre che per l'Eurozona.

Alla fine, spenti i fuochi artificiali, il Renzi che esce da Palazzo Chigi e naviga nel mondo reale è nei fatti un premier tenuto continuamente a balia da altri. Un premier decisamente messo al suo posto di ragazzino. E non solo dalla copertina dell'Economist.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/ma-renzi-e-adatto-a-governare_b_5746122.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREA-1
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« Risposta #227 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:04:23 pm »

Cambio di pagina: ora Renzi non ha più né gufi né alibi

Pubblicato: 09/10/2014 12:44 CEST Aggiornato: 4 ore fa

L'Italia da ieri ha cambiato pagina. Attraverso i modi e i contenuti del voto sull'articolo 18, Matteo Renzi ha virato il governo italiano verso un neo-centrismo fondato su un rapporto più forte fra leadership personale e paese, e un rammodernamento del sistema, inteso soprattutto come eliminazione del 'conservatorismo' della sinistra. Una stra-vittoria sui suoi oppositori, non solo numerica, che costituisce un profondo chiarimento politico. Il Premier ha ora infatti quello che ha sempre voluto: governare alle condizioni che desiderava, sul progetto che voleva. Ma non ha più nessun gufo da abbattere, nessun alibi insomma in cui rifugiarsi in futuro.

La stra-vittoria non arriva come una sorpresa. La cronaca delle ultime settimane ci aveva già raccontato il serrar di ranghi e consensi del mondo degli affari e della imprenditoria intorno a Matteo. Nella Silicon Valley ha collezionato l'entusiasmo della parte "nuova e migliore" del nostro Paese, e a Detroit ha avuto l'abbraccio di Marchionne. Nel viaggio a Londra è stato omaggiato dall'amico di sempre Serra, ma anche dal brillantissimo Colao, mentre in Italia nelle stesse ore si affiancavano alle lodi il grande vecchio Bazoli e Patuano di Telecom. Sempre restando alla cronaca, grandi consensi di manager e business si potevano leggere, come è stato scritto da molti, nella lista degli invitati al matrimonio di Marco Carrai: Tronchetti Provera e Palenzona, Bernabè e Testa. È un mondo dentro cui per un bel po' Renzi ha sostenuto di essere un estraneo, dentro cui si è mosso spesso in maniera sospettosa. È solo dell'altro ieri lo sgarbo a Confindustria, la polemica contro i poteri forti.

Ma la sensibilità del governo proprio a temi come quello sul mercato del lavoro, e lo scontro con il sindacato hanno certo cambiato molti umori. Proprio sull'accesa fase di discussione prima del voto sull'articolo 18 Renzi raccoglie il primo frutto di nuove alleanze. Squinzi che rappresenta la Confindustria, uomo timido ma che con uno dei suoi ruggiti ha fatto cadere il Governo Letta, definisce Renzi un grande politico. Opinione condivisa da due dei tre sindacati, che lasciano sola la Cgil sulle sponde anti-Renzi.

A guardarsi indietro, potremmo forse dire oggi che che a quel punto la partita aveva già trovato il suo 'verso'. In realtà, infatti, al di là della drammatizzazione degli eventi per opera degli stessi protagonisti, antirenziani e renziani, la partita anti-articolo 18 dentro il Pd non ha mai davvero avuto una possibilità. La parte del Pd che si oppone a Renzi non ha mai avuto la forza numerica per vincere; come si è visto alle primarie e come si è visto nella composizione della direzione. Ma soprattutto non ha la forza di convinzione per far saltare il partito o farsi saltare per fare una 'bella morte'. Come poi si è visto al Senato, il senso di rispetto del Partito, sia pur lacerato e lacerante, ha avuto il sopravvento.

Forse la parte più interessante della storia dentro il Pd è in effetti stata proprio la scoperta del nuovo profilo della minoranza. I giovani Pd non renziani da tempo sono diventati renziani-in-modo-diverso, ed è comprensibile che lo siano: nel condividere l'età del Segretario ne condividono anche problematiche e futuro. Questo dissenso tenderà dunque a sfumarsi ancora più nel tempo, e ad amalgamarsi nel percorso di cambiamento del Pd tutto.

Il dissenso di quella che viene chiamata "vecchia guardia" di Bersani e D'Alema, ha incluso in questo caso un'area più vasta e più variegata dei vecchi. Cuperlo e Civati, ma anche Camusso e Landini, per la prima volta collocati sulla stessa sponda. Non è poco. Il comun denominatore fra loro è costituto da alcuni valori che identificano la sinistra: una certa idea del mondo si direbbe, ma ancor più una certa idea di cosa significa battersi a sinistra. In questa difesa della identità fin qui conosciuta c'è però anche la debolezza di questa area: nessuno di loro potrà mai rompere con un Partito che difendono fino in fondo, e con cui hanno vissuto in maniera simbiotica. Senza Pd sono senza un posto nel mondo. E non è un male: speriamo per la sanità delle istituzioni che a nessuno venga in mente di fare altri assemblaggi politici.

Il partito che esce da questa prova di forza non è in buona salute. Al proprio interno cova il malessere delle guerre oscure: quelle degli incarichi, delle nomine, delle alleanze di pura opportunità; la vicenda delle primarie e del contenzioso intorno alle tessere, il calo degli iscritti, provano la profondità di questo malessere, che è avvertito anche da renziani di primo conio, oggi scontenti del fatto che la rivoluzione, proprio del partito, si è appannata. Ma anche se tutte queste tensioni dovessero esplodere di nuovo, alla fine del giorno il Pd non sarà comunque un problema per Renzi. Semplicemente perché Renzi questo partito lo ha già archiviato: non gli interessa più. La sua idea di un nuovo paese, di un nuovo mercato del lavoro, passa anche per una totalmente diversa esperienza di aggregazione politica, che è già di fatto nelle sue mani.

Quello che ho appena scritto non è una opinione, ma la descrizione del nuovo consenso creatosi intorno a Renzi fornitaci dal Sole 24 ore di lunedì 7 ottobre. Secondo un'analisi del prestigioso Itanes (Italian National Election Studies) che mette a confronto il voto 2014 con quello del 2013, nel famoso 40 per cento europeo, comparato al 25 per cento bersaniano, si rileva "L'avvicinamento di una fascia - artigiani, commercianti, imprenditori, professionisti - che prima si teneva molto lontana, dai recinti del centro sinistra". Secondo Maraffiti di Itanes, "C'è un più 50 per cento di voti tra artigiani e commercianti, un 20 per cento in più di imprenditori e liberi professionisti - e questo è il salto in avanti più forte e più nuovo... e il consenso dei disoccupati passa dal 15 al 40 per cento". Come si vede, un partito "pigliatutto" (definizione Itanes) in cui la tradizionale identità di sinistra ('novecentesca') viene tendenzialmente sostituita da quello sfondamento al Centro da anni sognato da molti leader politici prima di lui, di destra e di sinistra, e in maniera diversa, hanno provato a esplorare, dal D'Alema della Terza Via, al Veltroni del Lingotto, al Berlusconi stampo Thatcher. Renzi ci è riuscito perché dagli 80 euro al Jobs Act, dalle riforme istituzionali, alla alleanza con Berlusconi, ha rotto con sistematicità la gabbia sociologica ed intellettuale delle definizioni destra/sinistra. Lo scalpo dell'articolo 18 ottenuto nelle aule parlamentari rafforza e definisce questo percorso.

Come dicevamo, dunque, oggi il Premier riallinea il nostro paese su un nuovo asse: quello con l'Europa che dal 2011, con una lettera della Bce voleva la riforma del mercato del lavoro, e la Merkel non gli ha risparmiato il suo riconoscimento; quello con il capitalismo italiano che da tempo voleva più mani libere; quello di una semplificazione delle istituzioni politiche che, a detta di tutti gli analisti e economisti, appesantite dalla vecchia gabbia di destra e sinistra, da tempo frenavano il sistema. È una ricetta molto lontana dalla sinistra tradizional.

E un nuovo progetto, neocentrista, ed ha vinto. Sbaragliati i nemici, e consolidati molti consensi, Matteo Renzi ha così oggi, come si diceva, l'occasione che voleva: può lasciarsi alle spalle il lungo periodo di pre-governo, la battaglia contro chi frena, e governare finalmente nelle condizioni che desiderava. Niente, nessuno, dunque nessun alibi, si frappone fra lui e la sua efficacia.

Provi ora a imbracciare con serenità questa vittoria, e a dimostrarci che le soluzioni che ha sostenuto con tale vigorosa convinzione, e con tali dolorosa conseguenze per molti, sono quelle giuste. Provi che non porteranno - come hanno sostenuto molti "gufi" - a gravi nuove ingiustizie sociali; che ci porteranno anzi fuori dal fanalino di coda dell'area europea. Nessuno in Italia, nemmeno i vecchi, nemmeno chi ancora crede che esiste differenza fra destra e sinistra, e che questi valori non sono fungibili, sarà scontento di vedere la disoccupazione scendere e la produzione salire. Magari con velocità proporzionale alla guerra politica vinta intorno al Jobs Act.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/cambio-pagina-renzi-gufi-alibi_b_5957228.html?1412851522=&utm_hp_ref=italy&ref=HRER1-1
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« Risposta #228 inserito:: Ottobre 13, 2014, 02:56:15 pm »

Genova, per noi...
Pubblicato: 12/10/2014 19:44

CEST Aggiornato: 12/10/2014 19:45 CEST

Tre borghesi, o, meglio, usando le sottigliezze delle classi sociali di una volta, tre grandi borghesi. Luigi De Magistris, magistrato figlio di una illustre famiglia di magistrati da generazioni. Marco Doria aristocratico di nome e di modi, figlio a sua volta di un famoso comunista, chiamato per via dei titoli, "marchese rosso". Giuliano Pisapia, avvocato, figlio di Gian Domenico Pisapia, uno dei più celebri avvocati penalisti italiani, autore del nuovo codice di procedura penale italiano in vigore dal 1989. Essere grandi borghesi non è certo un'accusa.

Quando nel 2011 questi tre uomini si presentarono per la elezione da sindaco nelle rispettive città - Napoli, Genova e Milano - questa loro estrazione sociale fu certo un elemento, una forte suggestione, che giocò una parte nella loro elezione. Elemento immateriale, ma non per questo irrazionale. Le loro biografie erano perfetta rappresentazione di quelle élite della società civile, che in una Italia sempre esposta al vento delle cose, ha nel tempo finito con il rappresentare tutte le virtù private di vite non esposte ai maneggi del momento.

In questo senso - ora che si comincia a parlare del loro fallimento - non è irrilevante ricordare le ragioni del loro primo (e straordinario) successo. La rivoluzione arancione vista oggi, soli pochi anni dopo ma a una distanza politica planetaria, fu la prima crepa nella calcificazione del potere istituzionale. Il primo segno che la struttura della politica era avvertita come rigida, estranea e fallimentare alla maggior parte dei cittadini, specie quelli della più vibratile sinistra. I tre più importanti nuovi sindaci arancioni costituirono appunto con la loro virtù fuori dalla casamatta del potere di allora il primo tentativo di modificarlo.

Il loro arrivo in questa casamatta fu chiamato non a caso rivoluzione. Ma nei fatti, rivoluzione non c'è stata.

La disgregazione della politica italiana subito dopo quella elezione del 2011 ha continuato ad accelerare. Non ci fu virtù della società civile che chiudesse quella prima crepa. La sfiducia nelle istituzioni si è poi allargata dando vita a un successo ancora più vasto e radicale , quello dei grillini, fenomeno che nel 2013 conquista un quarto del Parlamento con maggiore sorpresa di quella suscitata dal successo dei Sindaci Arancioni. E subito dopo è Matteo Renzi ad afferrare per le corna quella sfiducia nella politica facendone la base di una ulteriore modifica del corso del paese - in mano a Matteo Renzi la "rottamazione" (parola che più rivoluzionaria non c'è) diviene lo slogan di una decostruzione e ricostruzione dell'intero arco di partiti precedenti. Il potere renziano oggi gioca sul filo sottile di una doppia difficile partita, tra distruzione del vecchio ordine (sindacati, partiti, Confindustria, Parlamento) e ri-costruzione di un ordine nuovo.

La rivoluzione arancione, che pure aveva aperto la fase di cambiamento, non è riuscita ad agganciarsi a nessuno dei nuovi sviluppi. Non è diventata grillina, non è diventata renziana, non si è nemmeno assestata sulla sua prima promessa di dare corpo a una solida e lungimirante efficacia borghese.


Significativamente ognuno di loro è inciampato proprio sul terreno dove era più forte: De Magistris nel suo rapporto con la Magistratura, Doria sulla stessa alluvione che tre lo aveva fatto eleggere, e in prospettiva pare minaccioso l'esito dell'Expo (che pure non ha mai voluto) per Pisapia.

Il fallimento non è arrivato inatteso. Alcuni ricordano che già Micromega, la rivista che aveva appoggiato questi uomini nel 2011, ha pubblicato, nel 2013, una lunga inchiesta in cui si narrava l'esaurirsi della spinta al cambiamento dei sindaci arancioni.

A giustificare quello che è successo a Genova in queste ore sono chiamati in causa passività burocratiche, opacità conservatrici e corporativismi di sinistra, catene legali, assurdità legislative e vincoli europei, impotenza del locale e rigidità delle decisioni nazionali. Al di là dei motivi, i sindaci arancioni dovrebbero riconoscere queste difficoltà e se necessario farsi da parte.

Questa onestà è parte delle ragioni per cui hanno vinto nella prima ora. Non credo vogliano negarla ora nelle ore più difficili. La Napoli rovinata e la Genova allagata non sono materia di dibattito, ma una assoluta verità di fallimento. Vorrei aggiungere qui di mio anche il livello drammatico raggiunto dalla città di Roma anche se guidata non da un "arancione".

E tuttavia, l'esaurirsi così veloce di una esperienza così positiva ci dice molto di più. Ci dice di quanto la crisi sia ben più rapida dei tentativi di governarla. E di quanto, di conseguenza, sia sempre più breve o più fragile il ciclo di rigenerazione politica del sistema. Le città che soffrono sono i piedi di argilla di un paese in grave affanno.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/genova-per-noi_b_5973294.html?utm_hp_ref=italy&ref=HRER3-1
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« Risposta #229 inserito:: Novembre 25, 2014, 04:39:33 pm »

Non è tutta colpa di Renzi, ma dovrà farsene carico
Pubblicato: 24/11/2014 09:45 CET Aggiornato: 33 minuti fa

Lucia ANNUNZIATA

Credo proprio che Renzi abbia questa volta ragione nel dire che l'astensione elettorale riguarda tutti. Ridurre il risultato emiliano solo a un voto contro o pro Renzi significa non afferrare pienamente la dimensione di quel che è successo.

La tesi degli avversari del premier, dentro e fuori il partito, è che l'assenteismo lo abbia punito per il suo attacco all'identità vera del Pd; che la Rossa Emilia, cassaforte della ortodossia, abbia espresso con questo distacco dalle urne la sua "offesa" per il suo stile di governo autocratico, per una finanziaria virata sugli imprenditori, per le scelte antisindacali, per il linguaggio di umiliazione portato dentro il partito, per il patto del Nazareno. Sicuramente c'è parte di questo malumore in giro nella roccaforte rossa. Ma l'astensione è troppo grande per avere come spiegazione solo la "rottura" della tradizione; i numeri sono troppo grandi per essere solo frutto di uno shock identitario.

Circola in Emilia Romagna, questo sì, il senso che alla regione, nota per essere una delle locomotive della partecipazione civica, sia toccato stavolta il ruolo di suonare il campanello d'allarme: ma contro cosa?

Il voto in effetti si capisce bene se lo si valuta con uno sguardo elettorale ampio, cioè proprio portandolo fuori dall'ambito della sinistra. I due risultati più significativi per capirlo sono infatti la comparazione con il voto in Calabria, e il successo della Lega.

Le urne calabre ci hanno consegnato una stabilità mirabolante - gli equilibri di sempre, un po' scossi dalle vicende della passata giunta, sono stati subito ricomposti in una ordinata continuità: ha vinto un candidato di sempre, e un voto che rispecchia le alchimie nazionali.

L'Emilia non fatto invece "ricomposizioni" della crisi della sua giunta. Con la forza tipica di una cittadinanza ben informata, gli emiliani non hanno permesso alla giunta di sinistra nessun make up del recente passato. Sulla logica della parrocchia (votiamo il partitone) è prevalsa la richiesta di "pulizia", di cambiamento vero della classe dirigente. Questa mi pare la prima lezione del voto emiliano.

In merito, se una responsabilità va accollata a Renzi, è che come segretario di partito ha semmai sottovalutato questa domanda, alzando le mani e lasciando prevalere gli equilibri locali. In vista delle primarie per le prossime regionali (competizione segnata al momento da nomi non credibili e da solite faide locali) è un pensiero su cui il premier dovrebbe forse ritornare.

Il successo della Lega è l'altro indicatore. La Lega ha vinto nella sua veste attuale - molto nazionale, e poco isolazionista/scissionista: nella versione orgoglio italiano contro le scelte del governo di oggi, ma anche di ieri e l'altro ieri; insomma la Lega come forza di contestazione alle istituzioni, canale della esasperazione che erompe continuamente nel paese davanti allo sgretolarsi delle condizioni di vita quotidiane.

Il voto leghista in Emilia ha raccolto probabilmente molti consensi operai, che, come sappiamo, spesso non si sono sottratti a votare Lega quando pensavano fosse il caso, anche se iscritti alla Cgil. Comunque, questo voto ha delle manifestazioni operaie di questi mesi la stessa forza di malessere, se non di programma. È credibile ipotizzare, e lo vedremo dalle analisi dei prossimi giorni, che la muta rivolta dell'astensionismo condivida parte delle motivazioni che hanno mosso al voto alla Lega.

Insieme, astensione e salvinismo sono l'indicazione di malessere ad ampiezza trasversale; sommati costituiscono il formarsi di un nuovo, diversificato ma impressionante, potenziale di pressione sugli attuali equilibri del paese. Persino maggiore di quello espresso solo due anni fa dal voto grillino che era ugualmente di contestazione del sistema, ma programmaticamente fuori (come si è visto) dalle sue fila.

Questa è una evoluzione del panorama politico che riguarda tutti, come dicevamo. Certamente non è solo preoccupazione o responsabilità del governo.

Sulle spalle del governo ricade però il fallimento di non aver saputo né voluto riconoscere, ancor meno trattare, l'esistenza di questo profondo scontento nel paese. Ricade la responsabilità di fare un paio di riflessioni su una leadership che per quanto carismatica non è bastata a tenere in moto il motore della fiducia. Ricade soprattutto l'obbligo di adeguare la sua azione alle nuove condizioni.

Renzi non è stato sconfitto, ma ha di fronte un vero passaggio.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/non-e-tutta-colpa-di-renzi_b_6209868.html?1416818728&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #230 inserito:: Gennaio 10, 2015, 10:02:06 am »

Quirinale: Matteo Renzi al bivio sul Presidente: un avatar o un suo pari?
Pubblicato: 01/01/2015 11:58 CET Aggiornato: 2 ore fa

All'inizio c'era qualcosa che potremmo chiamare il "lodo Putin": eleggere Presidente della Repubblica un Medvedev qualunque, che permetta al Premier di controllare anche il Colle, oltre che Palazzo Chigi. E poi chissà, magari scambiare posto a tempo dovuto?

Ammetto, l'espressione "lodo Putin" non ha mai attraversato le labbra del Primo Ministro. Ma nei fatti è la migliore definizione di quello che è stato, fin dal primo momento, il rapporto con il potere dell'attuale Premier.

Significativo che l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica coincida con il primo anniversario del governo. A febbraio di un anno fa Matteo Renzi sfondava le porte delle stanze romane con una manovra che lasciava senza fiato.

I suoi avversari ma anche molti dei suoi seguaci: appena nominato segretario del partito, con una valanga di consensi, otteneva da Giorgio Napolitano la poltrona di Palazzo Chigi, tradendo le rassicurazioni date ad Enrico Letta, e quelle date ai suoi elettori delle primarie, cui aveva promesso la fine di manovre di potere, la trasparenza nei rapporti fra cittadini e potere, nonché la fine di governi senza legittimazione popolare, cioè non eletti. Per quel che vale, tra i supporter che Renzi ha perso quel giorno ci sono anche io.

Fu quello un momento molto opaco della nostra storia pubblica, una occasione persa per rimettere sul binario un treno istituzionale che da parecchio aveva perso la sua rotta e continuava a macinare eccezioni alla regola, accrocchi, soluzioni trovate caso per caso - la fine extraparlamentare del berlusconismo, il governo tecnico Monti promosso e subito abbandonato, il pubblico abbattimento ( "come un cavallo azzoppato" ha ricordato l'interessato recentemente ) del leader Pd Bersani che aveva comunque vinto le elezioni, sostituito con il suo vice Letta, a sua volta presto abbandonato, fino alla vergognosa eliminazione su pubblica piazza, ma per mano nascosta, di ogni candidato alla presidenza della Repubblica e la nuova emergenza di un secondo mandato per Napolitano.

Dobbiamo proprio ricominciare da lì, direte? Certo. Perché di quel periodo, a dispetto di tante dichiarazioni, rimangono oscuri passaggi e motivazioni (come poi rimproverare ai cittadini la sfiducia nelle istituzioni? ). E perché è in quel momento che, invece di sanarsi, si è creata una nuova anomalia italiana; invece di interrompere la deriva eccezionalista di quel percorso, si è creato in quella occasione un leader che dell'eccezionalismo fa oggi la sua cifra.

Un anno dopo possiamo azzardare qualche risposta sulle ragioni che spinsero Matteo Renzi a fare la sua accelerazione su Palazzo Chigi.

Oggi abbiamo di lui una conoscenza migliore, e sappiamo che questo fenomenale leader non è un uomo che crede nella paziente costruzione di filiere, di luoghi di aggregazione sociale, di egemonie culturali. Niente Gramsci da quelle parti.

L'ex sindaco di Firenze è un uomo di gestione, di amministrazione nel senso più alto, un uomo del fare della cosa pubblica, la cui maggiore efficacia si espleta proprio nel massimo controllo delle leve di questa cosa pubblica.

In altre parole, Matteo Renzi è davvero il primo Sindaco d'Italia - pensa che il potere forte, individuale e decisionista sia lo strumento più importante per governare. Pensa a una equazione perfetta tra massimo potere del leader e massima efficacia.

In questo senso, si capisce ora bene perché un anno fa sbarcò a Palazzo Chigi senza attendere: era ed è sua profonda convinzione che solo operando da una posizione di potere avrebbe potuto "agire", cambiare l'Italia come voleva. E se questo implicava un compromesso iniziale per fare il Premier, una messa con cui conquistare Parigi, Matteo Renzi scelse allora di considerare che valesse la pena.

Nulla di male in questo approccio. La politica è in generale sinonimo di potere. Nella nostra storia recente da Craxi a D'Alema a Berlusconi, sono più i leader tentati da questo schema, di quelli che hanno provato a percorrere il sentiero della condivisione.

Nel caso di Renzi, l'inclinazione "decisionista" ha acquisito forza grazie anche a una richiesta popolare di azione e cambiamento - e infatti di tutti I leader nominati è quello che finora ha segnato più successi nell'accumulo di potere: con in corso una riforma in senso monocamerale del Parlamento, una riforma elettorale , e la trasformazione di fatto di Palazzo Chigi in un premierato forte ,somma delle cariche di segretario del partito di Maggioranza, e di titolare di un Governo in cui i Ministri sono poco più di suoi avatar.

Insomma, di messe per Parigi Renzi ne ha trovato più di una in questo anno e direi che continua a trovarne.

Tutto bene, dunque? E perché scriverne oggi, all'inizio della elezione del nuovo Presidente della Repubblica? Semplice: perché il progetto di ridefinizione dei poteri che Renzi ha avviato un anno fa, si conclude solo con la elezione del nuovo Presidente. Non a caso c'e stata da parte sua fin dall'inizio una lunga preparazione al "lodo Putin" - con tutte le sbandierate intenzioni su una donna al Quirinale, o un grande direttore di orchestra, o un grande architetto. Solo la esistenza di un Presidente che non gli faccia ombra, potrebbe infatti oggi lasciare al Premier l'agibilità di potere totale che sta inseguendo.

I modi del voto, e la personalità che verrà scelta per il Colle, saranno dunque dirimenti. Porteranno il progetto renziano da una parte o dall'altra. Ne accentueranno il controllo sulle istituzioni o ne costituiranno il bilanciamento, ne ricostituiranno una dialettica interna.

Fin qui la posta in gioco. Il terreno di questo gioco tuttavia ha già cominciato a definirsi.

Nelle ultime settimane si sono accumulati I messaggi al Premier. E non solo da parte dei grandi elettori in Parlamento. Da destra e da sinistra, dalle zone più scontente della politica a quelle più autorevoli, incluso una buona parte del mondo imprenditoriale favorevole a Renzi, si sente chiedere una personalità in grado di guidare il paese con "autorevolezza" ed "autonomia" in questo difficile momento.

Vale per tutti il discorso di dimissioni di Napolitano: la sostenuta sottolineatura della crisi economica, della necessita' di tenere insieme il paese e' stata in controluce l'enfatizzazione anche di forti istituzioni nel paese. Ed e' stato ancora Napolitano a tracciare non pochi giorni fa la strada da seguire per la scelta del suo successore, invitando ad evitare sia una scelta " di pancia" sia una scelta "estetica", cioè di pura immagine - di fatto così eliminando sia le tentazioni dell'antipolitica alla M5s, sia quella delle belle ma deboli figure proposte da Renzi. Persino una figura "tecnica" e' stata considerate dal Colle troppo debole per un ruolo estremamente politico quale quello del Colle.

L'invito che arriva a Renzi è dunque molto chiaro: gli si chiede da molte parti un Presidente che non sia semplicemente una sua proiezione, ma un suo pari.

Accoglierà queste voci, il Premier? O le considererà un'ennesima trappola che gli prepara il caro vecchio establishment del paese? Un ennesimo ostacolo dei gufi che non vogliono cambiare?

A questo incrocio suonerà fra pochi giorni la campanella d'inizio della elezione. Vedremo cosa Renzi sceglierà - perché ne ha tutta la forza politica di numeri e di manovra- , e la sua scelta varrà per tutti noi.

Dove vada la mia preferenza, è chiaro da come ho cercato di raccontare in questa testata (che rimane uno spazio aperto a tutte le idee e voci) il primo anno dell'era renziana. Renzi e' un politico di razza, arrivato sulla scena del nostro paese con una causa buonissima - rinnovare tutto. Ma la sua visione del potere e' tale da essere un rischio per tutti, a cominciare da lui.

Nelle difficili circostanze raccontate così bene da Napolitano una guida solitaria, per quanto carismatica e potente sia, non basta. L'efficacia di governo non nasce solo dalla capacità di un leader di prendere decisioni, ma da fatto che queste decisioni siano giuste.

E la forza delle decisioni non viene dai decreti, ma da quel sistema di equilibrio e controlli fra vari poteri istituzionali e sociali, la comparazione fra punti di vista, valori, e interessi, che ha sempre garantito che si arrivi a decisioni informate, anche quando non condivise.

La ragione per cui la democrazia occidentale è stata forte, anche dentro questa sua crisi strutturale, e' esattamente la sua articolazione interna. In questo senso, rimane la migliore salvaguardia per tutti. Incluso di chi è nel punto più alto del potere.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/quirinale-matteo-renzi-giorgio-napolitano_b_6403184.html?1420109926&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #231 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:11:08 pm »

Prendere atto della Terza Guerra Mondiale

Pubblicato: 09/01/2015 21:25 CET Aggiornato: 09/01/2015 22:06 CET

Quando nel 2001 ci fu l'attacco alle Torri Gemelle, qualcuno avvertì che si trattava dell'inizio della Terza Guerra Mondiale. Un coro di critici seppellì questa previsione come esagerata e catastrofista: ma quello che in questi anni si è svolto sotto i nostri occhi ha semmai peggiorato le previsioni di allora in termini di velocità di sviluppo delle operazioni. Papa Bergoglio anche su questo tema sembra aver anticipato tutte le élite intellettuali evocando un paio di mesi fa "una terza guerra mondiale che si svolge in capitoli".

Le colpe, responsabilità di persone e idee, sono tutte dibattibili, e non manca una ampia letteratura in merito.
Ma nel frattempo c'è una questione molto più urgente che l'attacco a Parigi ci ha presentato - mentre continuiamo a discutere sulla natura del conflitto in corso, il conflitto stesso ci ha raggiunti. E ci ha trovato impreparati.

Le immagini che ci arrivano dalla Francia, da ore e ore, grondano di questo incredibile, surreale, ultraterreno senso di stupore. La perfetta bellezza delle strade della capitale, l'augusta serenità dei campi infiniti della Francia del Nord, il panorama denso dei vignoble dello champagne, in cui uomini armati, elicotteri, e spari sono irreali come un film di fantascienza sulla invasione degli alieni.

Non che la impressione sia sbagliata - il terrorismo è un sbarco alieno, è esattamente quello che pensavamo fosse di là e altrove, l'inimmaginabile, che si è materializzato. Questa è la natura degli eventi francesi - l'impossibile è diventato reale. E il modo come si sta svolgendo inizia anche a farci capire cosa abbiamo di fronte.

Vanno fatte alcune precisazioni: non è un nuovo 11 settembre 2001. Ce n'è uno solo, e quello fu la dichiarazione di guerra. A Parigi assistiamo invece a un capitolo avanzato del conflitto iniziato allora. Va anche precisato che l'attacco non è terrorismo, ma un atto di una guerra che usa il terrorismo come strumento. Una distinzione che pare secondaria, ma che invece fa tutta la differenza. Il termine terrorismo come viene usato in genere copre infatti eventi considerati per loro natura occasionali, anche se numerosi e devastanti. Una guerra è invece innanzitutto un atto politico: richiede una piattaforma ideologica che aggrega i suoi soldati, un obiettivo che li motivi, e una pianificazione di forze, strumenti, armi, e progetto. Questo sforzo bellico conta oggi assi orizzontali e verticali di collaborazione nel mondo tra le organizzazioni - unisce Isis e al Qaeda, va dal cuore dell'Africa all'Europa, al Medioriente, può spingersi a mobilitare risorse in tutti i paesi, dai più avanzati ai più lontani dell'estremo oriente. E l'Europa che ne è solo il nemico, ne è anche pieno titolo una delle madri - senza la ricchezza, la scienza, la libertà dell'Europa questa guerra avrebbe avuto un corso completamente diverso.

Ecco il punto dove siamo: l'esercito che iniziò a formarsi nel 2001 è cresciuto, si è ramificato, ha formato una sua piattaforma, ha addestrato le sue truppe - e ora queste truppe sono qui fra noi. Questo succede oggi a Parigi, questo succederà in tutti i nostri paesi. Prendere atto di questa realtà, dirci che la guerra ci ha raggiunti, di nuovo, dopo settanta anni, non è per nulla semplice. La storia del continente europeo è tale che oggi la opinione pubblica rifugge da ogni discorso di tensione. Spesso la semplice apertura di una discussione sul che fare ti fa apparire come un guerrafondaio.

Eppure, negare di essere parte di un conflitto è una ipocrisia bella e buona - dal 2001 siamo in guerra permanente. Abbiamo, come Europa, combattuto in Afganistan, e in Iraq, in Siria, in Libano e in Africa. In questo momento l’Italia porta sulle spalle l'intervento in Libia, altra nazione che ha avuto grande parte in almeno un capitolo della Terza Guerra Mondiale, e quello in Siria. Che questi interventi militari siano stati sempre limitati o seminascosti dalla nostra classe politica non ne ha certo cambiato natura.

Diciamolo dunque. Ammettiamolo. E cominciamo a pensare a nuove politiche, ad interventi di difesa seri. Chiediamo alla politica di fornirci un piano di preparazione militare, un progetto di messa in sicurezza chiaro, una idea di investimenti in questa stessa sicurezza. Del resto, non affrontare queste questioni in questi ultimi anni ci ha portato solo ad esserne risucchiati, ha portato la nostre società ad essere sempre più dominate dal timore, e attratte da politiche emotive e razziste.

Non ci illudiamo più: gli attacchi di Parigi hanno chiuso un'epoca per l’Europa, quella della politica degli struzzi, come dimostra la manifestazione di Parigi di domenica. Non si tornerà indietro.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/siamo-ancora-in-guerra-parigi-e-un-capitolo-dell11-settembre_b_6444624.html?1420835153=&ref=HRER1-1
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« Risposta #232 inserito:: Gennaio 30, 2015, 04:32:40 pm »

Cinismo e coraggio, così Renzi cerca di uscire dal Vietnam

Pubblicato: 29/01/2015 22:07 CET Aggiornato: 53 minuti fa

È presto per fare una valutazione finale, ma la prima giornata della maratona presidenziale sembra indicare che Matteo Renzi ha forse trovato una strada fuori dal potenziale Vietnam elettorale.

Come ci stia lavorando è parte del manuale del perfetto renzismo. Lo schema di gioco che ha applicato è quello ormai collaudato dalle prime ore del suo premierato: per sottrarsi ai condizionamenti del suo partito e della sinistra ha ancora una volta usato il maglio del Nazareno; poi, una volta fatto sbandare sotto il colpo dell'alleanza con Berlusconi l'esercito di critici e oppositori, dimostrando loro di fregarsene dei loro condizionamenti, è tornato nei ranghi del Pd, con un discorso, quello della corona, ai grandi elettori, in cui li ha ascoltati, lusingati, per poi rimetterli al centro dell'azione. Nel frattempo è toccato a Silvio Berlusconi essere tradito a sua volta, sentire sulla propria pelle l'effetto che fa: Matteo fa patti solo per un tempo un luogo e uno scopo, ma nessun patto per lui va oltre le ragioni della sua immediata utilità.

Arrogante nei confronti dei critici, menefreghista nei confronti dei patti stabiliti, ma anche capace di valutare le debolezze altrui, e soprattutto di assumersi i rischi di una forzatura: renzismo puro, perfetta combinazione dei suoi peggiori difetti e dei suoi migliori attributi - un capolavoro di pragmatismo politico. Così è nata la prima giornata di relativa serenità dentro la sinistra da molte settimane.

Non è pacificazione solo formale: in Parlamento la sinistra si è rimescolata in queste ore in maniere improvvisate e sorprendenti - a un certo punto in un capannello sorridevano Zoggia, Fassina e Maria Elena Boschi. Dal Pd e da Sel, dai dem critici e dai più d'ordinanza la rottura del patto del Nazareno per sostenere Mattarella era valutata una vittoria. Vittoria vera o falsa, di lungo o di corto respiro al momento non conta. Perché certo conta l'unità ritrovata, e quel respiro di sollievo che si e' avvertito quando Matteo ai suoi grandi elettori si è presentato di nuovo come l'uomo della sfida a Berlusconi. Pagherà Renzi in altri modi questa sfida? O la ripagheranno di nuovo i dem in una futura nuova capriola? È da vedere. Ma se le evoluzioni della politica sono molte, il Presidente durerà sette anni, e dunque quel che si fa ora, costruisce comunque un punto metapolitico. Questo è quel che conta. Un pezzo di storia (in minuscola, certo) sta girando, a sinistra.

E gira anche - è proprio il caso - non certo solo per tattica politica, per quanto brillante o brutale essa sia. Gira perché una suggestione nasce intorno a un nome.

Sergio Mattarella lo avevamo lasciato come terzo mai tirato in ballo della sfortunata terna bersaniana che comprendeva anche Prodi e Marini. C'è dunque un filo logico da cui si riparte, ma nel frattempo quel filo si è rotto - questi anni sono stati così duri e diversi, hanno fatto
passare tanta acqua sotto i ponti che più che del 2012 Mattarella pare un'eco di un passato molto più lontano. C'è una forza in questa distanza.

Mattarella oggi è un uomo fuori, fuorissimo, dai giochi del catino d'acqua romano. Il suo silenzio è del tutto inusuale nell'intasato ecosistema, i suoi saperi sono completamente l'opposto della veloce modernità globalista dentro cui siamo immersi. Persino il suo profilo politico è difficile da collocare nella frastagliata evoluzione dell'attuale logos politico.

La sua è figura insieme sentimentalmente vicina alla storia della sinistra, ma lontana a sufficienza dalle fiamme che hanno consumato soprattutto negli ultimi tre anni le contorsioni politiche italiane; vicina a sufficienza da aver fatto pezzi di strada insieme a tutti, ma priva di quella caratura intergenerazionale, di quel fazionismo che potrebbe far avvertire la sua affermazione come fatta a spese di altri.

Non ultimo, la sua scelta non è riportabile direttamente nemmeno al Premier. Mattarella è molto lontano dalla idea originaria di Renzi di voler un Presidente sua diretta emanazione, un avatar come si diceva per gioco. Il premier sceglie in lui un uomo con cui non ha dimestichezza e che certo non può immaginare di aggregare automaticamente al suo gioco.

I due hanno specificità e quotidianità di cultura e di abitudini molto diverse. Tutta questa diversità di cui abbiamo fin qui parlato è probabilmente la migliore soluzione per tutti.

Se un Presidente avatar umilierebbe la dinamica politica e parlamentare, un presidente troppo forte potrebbe, viceversa, innescare tensioni. E l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una ulteriore linea di frattura politica - fra le molte che già ci sono - fra il Colle e Palazzo Chigi.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/cinismo-e-coraggio_b_6574126.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #233 inserito:: Febbraio 06, 2015, 05:57:16 pm »

Ragazzi del Parlamento, la ricreazione è finita

Pubblicato: 03/02/2015 13:37 CET Aggiornato: 2 ore fa

Prendiamo in prestito un commento fatto a caldo da Pierluigi Castagnetti : "La più alta autorità dello Stato ha reso omaggio alla più alta autorità della sofferenza".

Un aggettivo per questa volta si può sprecare: il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella può essere definito bellissimo. Soprattutto per quella semplice rivoluzione copernicana del suo impianto - l'aver strappato il velo del politicismo, rotto la tela di parole alate che sono spesso solo una corazza intorno alla indifferenza delle élite, per riportare la politica dentro la vita umana. Dentro la ragione per cui essa esiste: sostenere nel loro percorso di vita uomini e donne, di qualunque colore, fede, e condizione.

E nessun cittadino italiano, infatti, per un breve periodo di mezz'ora, il tempo di quel discorso, ha potuto negare di essere protagonista, di essersi sentito personalmente portato e omaggiato dentro quell'aula, in una inversione di ruoli - anche questa una rottura - fra la vita reale e Stato.

Nessuno è stato dimenticato. Il dolore soprattutto non è stato dimenticato: quello delle famiglie in questi anni di crisi che ha aumentato le differenze sociali, quello dei vecchi lasciati soli, quello dei giovani disoccupati, quello delle donne che subiscono violenze, ma anche quello di chi soffre oggi prigioniero all'estero, o dei civili che lavorano in zone di guerra. Nessun martire è stato dimenticato, il bimbo ebreo, le vittime dentro le forze di sicurezza, e le vittime di mafia; ma nemmeno nessun diritto è stato dimenticato, quelli delle comunità straniere in Italia, quelli delle scelte private dei cittadini, e perfino, a sorpresa, il diritto della indipendenza della informazione (da quanto tempo non se ne sentiva parlare: grazie Presidente).

A leggerlo così non è un elenco diverso da quello che spesso si fanno. La diversità in questo caso è però, come dicevamo, segnato dal contesto di rottura del politicismo. La supremazia di questi diritti, di questi protagonismi e di questi dolori è raccontata come principio e fine della politica stessa e della Costituzione. Mentre alla politica che ha riempito in questi ultimi anni la contesa permanente fra uomini e partiti, sono stati dedicati passaggi rilevanti ma brevissimi: tre righe alla necessità delle riforme istituzionali; la scomparsa dell'allarme per l'antipolitica è stato sostituito dalla piena dignità di ogni istanza - a cominciare dalla indignazione dei 5 Stelle, mentre la annosa questione dei ruoli istituzionali è stata dipanata con poche parole: "il Presidente deve essere e sarà un arbitro".

Persino il ruolo stesso dei protagonisti della cosa pubblica ne esce ridimensionato: i politici, e lo stesso Presidente visti come comprimari della Costituzione e non continui interpreti, o peggio, della stessa.

Nel complesso, una operazione di risistemazione delle priorità, conclusasi, non a caso, con il ritorno in aula, chiaro e forte, dell'impegno etico. Nulla c'è di più banale, ma anche di meno scontato oggi, del rimettere al centro dell'azione dello Stato la lotta alla corruzione, al degrado economico e sociale che essa porta nella vita di tutti, e, rilevantissimo nelle attuali circostanze politiche, la definizione come pratica corruttiva della evasione fiscale.

Quello che rimane è il senso di una specie di nuovo inizio, una sorta di reset della confusione politica che ha spezzato la storia del paese dal 2011 - dalla brusca e ancora oggi in parte inspiegata conclusione extraparlamentare del governo di Silvio Berlusconi - fino ad oggi.

Un reset di doveri, priorità ma anche di clima. La brevità e la semplicità delle parole, la forza di un mite, sembrano aver ripreso posizione centrale nella scena spingendo ai margini i singulti, le frenesie, il bullismo e le astrattezze in cui viviamo da fin troppo tempo.

Ragazzi del Parlamento, la ricreazione è finita.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/ragazzi-del-parlamento-la-ricreazione-e-finita_b_6602682.html?1422967077&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #234 inserito:: Aprile 12, 2015, 06:12:01 pm »

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Il "New Normal" tra Matteo Renzi e Barack Obama. Primo viaggio del premier a Washington
Pubblicato: 11/04/2015 17:04 CEST Aggiornato: 11/04/2015 17:07 CEST

Nell'inner circle la si definisce già' "the new normal". E in questo caso l'uso dell'Inglese non è un vezzo: la prima visita di Matteo Renzi alla Casa Bianca dovrebbe avvenire infatti nel segno non dell'evento eccezionale, ma del proseguimento e approfondimento - dice questo inner circle - di una relazione stabilita da tempo.

Interessante che Palazzo Chigi scelga una sorta di modestia, la normalità appunto, per raccontare una visita che nella politica italiana viene di solito considerata l'apice del trionfo diplomatico di ogni nostro leader. Se pensiamo agli ultimi due premier, Monti si recò quasi subito in Usa scegliendo Wall Street per presentare il suo profilo riformatore (riforma del mercato del lavoro in particolare), e Enrico Letta anche andò a Washington molto presto. Renzi vi arriva dopo più di un anno. Eppure in tanta "modestia" dell’attuale Premier si cela anche non tanto una scelta quanto una inevitabile lettura dei nuovi modi e pesi nelle relazioni fra Stati Uniti e Europa.

Di modesto intanto ci sarà formalmente ben poco nel viaggio transatlantico di Renzi. Tappa breve certo - dal 16 al 18 di questa settimana - ma ospitalità di rango alto: il leader italiano dormirà nella Blair House, la foresteria della Casa Bianca dedicata agli ospiti di Stato (a molti tocca qualche lussuoso hotel della sedicesima), pranzo con Obama sempre in Casa Bianca dopo l'incontro di lavoro, e conferenza stampa nel Rose Garden, la più ambita esposizione alle camere della storia recente - sperando che non piova ovviamente.

Nessun think thank invece per il premier italiano, che sembra aver preferito due istituzioni della capitale: farà infatti un discorso agli studenti della Georgetown University, celeberrimo centro di pensiero dei Gesuiti, e incontrerà il board editoriale del Washington Post.

Niente di modesto si diceva. La normalità che sfoggia Palazzo Chigi è dunque piuttosto una sorta di sottolineatura del fatto che fra Renzi e Obama i rapporti sono ormai consolidati, che i due si sono visti molte volte, a cominciare dalla visita Italiana del presidente americano avvenuta a poche settimana dall'arrivo a Palazzo Chigi dell'attuale inquilino. Obama è stato del resto molto attivo su suolo europeo in questo ultimo anno, presente a molti vertici fra cui quello di Galles.

La stessa agenda dell'incontro è di conseguenza molto inchiavardata nelle storie lunghe che già si sono sviluppate in questo anno passato. Ucraina, Russia, Iran (che sono nel cuore degli Usa) , la Libia, la crisi mediterranea, il terrorismo, la Grecia e la spinta all'uscita dall'Unione Europea (molto nella mente degli italiani).

Quello che c'è di interessante in questa visita è il riflesso che vi si può leggere della relazione fra i due paesi nei tempi attuali.

La Roma che arriva questa volta a Washington non veste più solo gli abiti del sicuro alleato americano. Le turbolenze internazionali che nell'ultimo anno hanno sconvolto il territorio europeo e mediterraneo dell'Occidente hanno conferito all'Europa un nuovo status da protagonista. L'Italia si è trovata come mai in primissima fila di alcune delle peggiori crisi del ventennio. Pensiamo al rapporto con la Russia e, soprattutto, all'impegno sul fronte del terrorismo, in Iraq e in Libia. Saranno questi i due principali fronti di discussione, sicuramente i più sensibili. Ma non dobbiamo aspettarci questa volta nessuna decisione importante, nessun mandato particolare.

I tempi e i luoghi delle relazioni internazionali sono, come si diceva, cambiati. Washington non è più la guida assoluta che è stata per decenni, per sue indecisioni, e per la svalutazione oggettiva del suo peso globale. L'Europa a sua volta ha cambiato peso, rilevanza e responsabilità in questo stesso assetto globale.

Renzi da europeo si presenta a Obama nel momento in cui più si avverte questo aggiustamento sismico fra i due lati dell'Oceano, fra alleati con stesso percorso ma diverse priorità. In questo senso Washington non ha più da offrire ruoli da principe: questo onore oggi i leader europei debbono conquistarselo piuttosto nel loro continente e nei vicini teatri di guerra.

Se non bastassero questi cambiamenti, va ricordato che ce n'è un altro in corso, ben più definito ma altrettanto importante. Renzi arriva proprio mentre la discesa in campo di Hillary Clinton rende più visibile l'avviarsi alla conclusione della Presidenza Obama. Anche questo passaggio di testimone rende più esile ogni rapporto con Obama.

Ma su questo state tranquilli. Il nostro abile Renzi ha ogni contatto necessario per seguire bene questo passaggio di testimone: la sera del 16 a Villa Firenze, al ricevimento dato dall'ambasciatore Italiano saranno presenti anche gli uomini e le donne che lavorano al fianco di Hillary, tra cui John Podesta, Alec Ross, Susan Rice e Victoria Nuland.

Di tutto questo è fatto il "new normal".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/04/11/renzi-obama-new-normal_n_7046168.html?1428764724&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #235 inserito:: Aprile 16, 2015, 04:23:27 pm »

La solitudine di Francesco, il silenzio della sinistra sui cristiani
Pubblicato: 06/04/2015 21:35 CEST Aggiornato: 06/04/2015 21:51 CEST

Sinistra dove sei? No, non intendo parlare delle polemiche sull'Italicum, non faccio riferimento a nessuna minoranza, e non sto chiedendo conto delle varie denominazioni pro e contro Renzi.

Mi chiedo dove sia la Sinistra, con la S maiuscola, quell'ampio schieramento sociale che è tale perché ha una storia e dei principi, perché è fuori dalle gabbie e dalle beghe delle quotidianità, che ama se stesso perché ama il suo senso della giustizia. Dov'è in questo momento di fronte al più terribile dei crimini perpetrati oggi contro i deboli?

Parlo, si, delle stragi di cristiani che bagnano di sangue tante terre del mondo. Perché non ricevo appelli da firmare (eppure me ne inviano di ogni tipo)? Perché nessuno promuove non dico una manifestazione ma un sit-in, o una qualunque riunione? Non all'auditorium, non all'Ambra Jovinelli, ma nemmeno in un padiglione qualunque di periferia, o in una piazza storica occupata dalla Cgil o dalla Fiom. Nulla. Non sento slogan, non arrivano documenti, né appelli, né proposte di sottoscrizione.

Non se ne parla nei talk show, non parliamo dei talent o di Amici. La Tv è altrove, lo sappiamo, soprattutto noi che ci lavoriamo. Ma nemmeno c'è la fila, qui, dentro questo ufficio dell’HuffPost, di giovani e ambiziosi giornalisti che vogliono " dare voce", come si ama dire, a questi nuovi deboli e indifesi.

Se guardo alla cronaca di questi ultimi mesi la Sinistra si è accollata una quantità enorme di cause - quelle delle donne, del femminicidio, degli operai, della disoccupazione giovanile, dei matrimoni fra cittadini dello stesso sesso, di tagli agli sprechi della politica, di riforme delle istituzioni, di cambio della forma partito, della libertà su internet o delle tasse a Google, della privacy, della innovazione , di rottamazione, di povertà' e austerità , ma anche di chilometro zero, di talento e di diete giuste, di arte e corpo, di corpo e tatuaggi, di Isis e Guerra, di Europa e Guerra, di Putin, di Obama e di Charlie Hebdo e del Museo del Bardo.

Ma, eccezion fatta per pochi, mai una volta, in tutte queste passioni si sono inseriti la pena o l'orrore per la morte di uomini e donne a causa della loro fede. La morte cioè come violazione finale del diritto più importante della libertà personale. Fede che, per altro, è quella della maggioranza del nostro paese, ed è anche la base della definizione (volerlo o meno) della storia e della cultura del continente in cui viviamo.

No, non sono cattolica, e nemmeno una neoconvertita. Sono atea e intendo rimanere tale. E no, non ho scritto una sola riga sull'attuale Papa, non sono andata a Messa dalle nuove gerarchie religiose e ancor meno mi sono spinta a dire che questo Papa sta facendo una rivoluzione ed è il vero leader della sinistra.

Sono però una giornalista e credo di riuscire ancora a capire cosa è una notizia. E la notizia di questi giorni è la solitudine in cui è stato lasciato proprio questo popolarissimo Papa, da mesi voce unica nel denunciare le stragi dei fedeli e oggi unico capo di stato a puntare il dito contro l'immobilismo delle Nazioni Occidentali su questi eccidi. L'esatto contrario di Charlie Hebdo, insomma.

Le ragioni di tanto silenzio e imbarazzo degli Stati Occidentali si conoscono molto bene. Le si può leggere in filigrana nelle stesse spiegazioni che il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, ha fornito all'intervento di Papa Francesco. "L'appello del Papa non incita allo 'scontro di civiltà' " si è sentito in obbligo di spiegare Galantino. E ha persino chiarito l'ovvio, cioè che Francesco non intende incitare alla "guerra santa".

Questo è il punto su cui si paralizza tutto: la paura che la difesa dei cristiani significhi accendere altre mine nel già duro scontro, significhi dare via libera a una controreazione, significhi infine legittimare tutta quella destra che già ora in Occidente per propri interessi politici soffia sul fuoco del razzismo e dello scontro di civiltà.

Ma se ben sappiamo che il rispetto dei diritti umani è in genere la prima vittima sacrificale delle ragioni di Stato, possiamo anche noi cittadini, noi opinione pubblica, accodarci a questi timori e a questi opportunismi?

Torno così a parlare di sinistra. Sinistra perché è questa parte politica che ha sempre rivendicato di avere la forza e la convinzione per affrontare I temi della difesa dei deboli. E perché la sinistra in questo momento ha molto peso in grandi stati dell'Occidente. Non ultimo in Italia.

C'è molto da fare subito. Per prima cosa, i governi possono e debbono varare un piano per mettere in sicurezza intanto le migliaia di profughi - attraverso non solo l'assistenza strutturale (medicina, scuola, abitazioni) ma anche offrendo cittadinanza su vasta scala nei nostri paesi a tutte le famiglie che intendono lasciare le proprie nazioni.

Con una attenzione particolare a tutti i giovani che vogliano venire da noi a studiare o a lavorare. È un po' quello che fecero i paesi occidentali prima della seconda Guerra mondiale per migliaia e migliaia di ebrei e vittime a vario titolo del nascente nazismo. Non è tanto, ma è un inizio ed è anche un efficace messaggio di forza morale e solidarietà da opporre alle violenze dell'Isis.

La sinistra non può stare zitta, ripeto. Al contrario, il suo silenzio, le sue paure di varcare confini, di accettare il rischio di commistioni, di andare a scontri scomodi è , nelle condizioni date, anche la strada migliore per dichiarare la propria dissoluzione morale.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/papa-francesco-cristiani_b_7012484.html?1428348953&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #236 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:53:24 am »

Tra l'iperuranio di Renzi e la polvere di Salvini

Pubblicato: 16/05/2015 20:34 CEST Aggiornato: 1 minuto fa

Lucia Annunziata

A Massa. Ma anche a Perugia. Ora forse presto a Pisa. Ma ancora prima a Roma. In verità è la intera cartina d'Italia ad essere coperta di virtuali bandierine, di non virtuali contestazioni. Il leader della Lega è ormai un bersaglio mobile di una spericolata campagna elettorale. Piazza dopo piazza, senza mai tirare il fiato, e senza mai perdere una battuta, è diventato il motore di una invenzione politica che mancava al nostro pur vario scenario: la battuta di caccia come campagna elettorale. Una battuta di caccia in cui, beninteso i ruoli della preda e del cacciatore continuamente si alternano, con lo stesso Salvini che è oggetto della caccia altrui, ma è anche il cacciatore che stana di proposito I suoi cacciatori per infilzarli a sua volta.

Ora, si potrà ricondurre tutto questo all'invettiva contro l'indubbia natura fascistoide del discorso pubblico del leader leghista; si può riportare il tutto a una questione di ordine pubblico, giustamente scandalizzandosi del numero di poliziotti (più di 8.000) che servono a proteggere il politico.

Ma c'è anche qualcosa d'altro che non ci deve sfuggire nel micidiale meccanismo messo in moto da Matteo Salvini: la sua campagna elettorale sta polarizzando il paese, e sta mettendo in mostra una passione, una rabbia divisive che cova neanche tanto dentro la pancia dell'opinione pubblica. Di fatto costruendo l'unico polo efficace di comunicazione politica alternativa all'altra, unica dominante che c'è in campo - quella del Premier.

Prendere o lasciare è così. Inutile fare gli struzzi. E se anche volessimo farlo, la realtà se ne frega degli struzzi, e infatti ha già regalato a Matteo Salvini la prepotente conquista di quel che rimane del Centro destra.

Quello che si sta perdendo, dunque, forse, del fenomeno della mobilitazione pro e contro Salvini è proprio la mobilitazione stessa. Queste piazze, contro o pro Salvini sono diventate il collettore di rabbia e irritazione, ma anche di passione e sfida sui valori. Piazze che in ogni caso, anche senza Salvini, tornano oggi a riempirsi a ogni inciampo politico, magari solo per poco, ma con ritmo certo e intermittente - di fatti, queste piazze sono l'unico vero termometro che abbiamo in questo momento della tensione e inquietudine che il paese sente sui temi più importanti della vita comune.

L'unico termometro, scrivo, perché quella di Salvini è in effetti anche l'unica campagna elettorale in corso. Fenomeno ormai smarrito, l'appuntamento politico nel resto del paese è diventato iperprotetto: una classe politica incerta sul suo futuro, persino sulle sue stesse appartenenze elettorale, è diventata oggi anche spaventata di ogni incontro vero con i cittadini. Viaggia così circondata da stuoli di aiutanti, viaggia da appuntamenti ad appuntamenti attentamente organizzati. Evitando con cura il rapporto con i propri sfidanti, i propri nemici, e, alla fine, anche con i propri elettori. Penso alla miriade di politici locali chiusi in cinema e in microconvegni, ma ancor di più penso alle telefonate di Berlusconi, alle sedie vuote che punteggiano le sue attente uscite. E penso a Grillo che aveva fatto delle piazze la sua forza e che oggi dice che non funzionano più.

Tutti avvolti nella illusione modernizzante che dopotutto a che serve sporcarsi le scarpe nell'epoca delle comunicazione totale? Sfortunatamente per loro, il mondo della comunicazione totale è molto difficile da popolare, ed è per ora saldamente occupato da un altro Matteo, il Premier - che domina dall'alto la catena alimentare comunicativa.

Tuttavia, tra cielo e terra c'è sempre posto per tante cose. E tra l'iperuranio di Matteo Renzi e la polvere delle sfide di Matteo Salvini si stanno infilando un sacco di cose reali che faremmo bene a prendere in considerazione.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/tra-liperuranio-di-renzi-polvere-salvini_b_7298032.html?1431801351&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #237 inserito:: Maggio 19, 2015, 10:01:46 am »

Leonardo Recchia

L'episodio di Massa mi fa venire in mente la morte dell'anarchico Franco Serantini avvenuta a Pisa nel maggio 1972 a seguito di cariche della polizia. La retorica di sinistra ha fatto credere per anni che la colpa fosse della polizia, mentre io posso affermare, perché c'ero, che la colpa era di Lotta Continua che voleva a tutti i costi impedire di parlare all'avv. Niccolai candidato del MSI alle elezioni politiche di quell'anno. Lotta Continua aveva tappezzato Pisa di manifesti che proclamavano "Cascasse il mondo su un fico, Niccolai non parlerà" ed aveva indetto numerose riunioni tra i vari gruppi extraparlamentari per organizzare le truppe che avrebbero impedito il comizio. Noi del gruppo del Manifesto ci opponemmo strenuamente all'idea dello scontro con la polizia e per questo venimmo sbeffeggiati ed accusati di viltà e codardia. All'ora del comizio Lotta Continua, armata di sassi, molotov, bastoni, caschi, passamontagna (visti con i miei occhi), si schierò sul Ponte di Mezzo, di fronte alla polizia che difendeva la piazza del comizio. Partì la prima molotov; si scatenò l'inferno. In quell'inferno Franco Serantini venne colpito a morte e divenne l'eroe dell'antifascismo pisano di quegli anni. Ma il giovane Serantini venne sì colpito dalla Polizia ma venne in effetti "ammazzato" dalla stupidità politica di Lotta Continua.
Cosa facciamo, ripetiamo la scena con Salvini?

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/tra-liperuranio-di-renzi-polvere-salvini_b_7298032.html?1431801351&utm_hp_ref=italy
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« Risposta #238 inserito:: Giugno 05, 2015, 11:03:56 pm »

Rallenta il treno di Matteo
Pubblicato: 01/06/2015 08:20 CEST Aggiornato: 01/06/2015 08:21 CEST

Il treno del Pd, e di Matteo Renzi, rallenta. Non è solo una questione di velocità, quale pure è - il Pd perde voti rispetto alle europee. E non è nemmeno solo questione di rinnovamento, quale pure è. È che il voto delle regionali disegna una realtà italiana molto diversa da quella che la "narrativa" di questi ultimi mesi ci aveva consegnato. Il Partito della Nazione, la nuova pelle che nell'immaginario della sinistra al governo avrebbe dovuto essere la forza trainante di una rinascita nazionale post-ideologica, nei fatti non esiste.

Il Pd a guida Renziana non sfonda a destra, anzi la destra se unita si difende bene; e non riesce a sottrarsi ai condizionamenti della sinistra. Rimane il primo partito ma mostra segni interni di grande fragilità. Al contrario, le forze che la narrativa ufficiale chiama "antisistema" non arretrano, anzi si rafforzano. La prima di queste forze potremo chiamarla "astenemos", cioè tutto quello che possono dare i cittadini italiani al posto del "podemos" spagnolo - alle urne è andato solo il 53 per cento dei votanti, dando all’astensionismo la incredibile forza elettorale di un cittadino su due.

La seconda forza " antisistema" (uso questo termine molto discutibile fra virgolette per indicare che questa è la valutazione della narrativa ufficiale) è il movimento 5 stelle, che è il primo partito in 3 regioni, e si assesta in generale intorno al 22 per cento - una percentuale di poco sotto quella raggiunta nelle politiche del 2013, con la leggera perdita compensata da una autonomizzazione dei nuovi protagonisti dai vecchi vertici, che ha portato l'ex movimento all'abilità e all'organizzazione con cui ha combattuto regione per regione. In due anni il M5S ha acquisito un peso politico che promette una interessante nuova dialettica in Parlamento.

Terza forza, anche questa descritta come " antisistema", è la Lega, che ha fatto ottime performance in tutte le regioni del Nord - e di cui il secondo posto in Toscana è forse la più notevole - superando quasi dappertutto Forza Italia.

La curiosa proiezione di tutto questo è che se queste elezioni fossero state politiche, il risultato che avremmo oggi sul tavolo non sarebbe molto lontano dall'impasse che nel 2013 portò Napolitano a decidere di non dare a Bersani l'incarico per affidarlo a Letta. Non è proprio così, perché l'attuale Pd rimane più forte di quello di Bersani e rimane nelle mani di un leader che ha molto più progetto e determinazione dei suoi predecessori. Ma la comparazione con il 2013 racconta bene come la strada che Renzi ha finora avuto l'impressione di fare non è stata tanta quanto credeva: l'Italia su cui il Premier governa non è così incardinata intorno alla sua figura o così unificata dalla forza del nuovo Pd da lui rifondato. Al contrario, il Pd che esce da questo voto mostra molte fragilità.

Intanto è oggi un partito a trazione meridionale. La vittoria di De Luca porta al Pd la Campania, dopo tanti anni di centrodestra. La vittoria di Emiliano in Puglia conferma la regione alla sinistra. Entrambe chiudono il cerchio di un Sud che a questo punto (con Sicilia, Calabria, Abruzzo, Basilicata e Sardegna) è tutto del Pd, come da anni non succedeva.

Tuttavia, la compattezza di questo quadro è inficiata dalla forza dei politici che hanno la guida di queste regioni, ognuno dei quali ha tale controllo del consenso locale da avere il destino del Pd nelle proprie mani e non viceversa. Il rapporto con questi signori del consenso, necessariamente molto autonomi, con il Premier non è stato e non sarà facile. Come si è visto anche nella campagna elettorale Renzi non li domina, e non ne è necessariamente rappresentato.

Succede così che il progetto renziano, che nasce al nord e si nutre di una serie di valori di modernità che hanno casa al Nord, oggi vive in buona parte del Sud. Condizione nuova e interessante. A fronte, soprattutto, del fatto che il Partito democratico si rivela molto fragile invece proprio nelle sue sedi storiche: le famose regioni rosse.

La Toscana, dove pure il governatore Rossi ha vinto molto bene, è stata scavata dall'astensionismo - solo il 48 per cento è andato a votare. La storica Umbria è stata molto combattuta. Perdita clamorosa quella della Liguria, dove la sconfitta è certo da attribuire alla competizione del secondo candidato di sinistra. La sconfitta lascia uno strascico di rancori interni, ma al contempo è un forte avvertimento per Palazzo Chigi a non sottovalutare l'importanza della sinistra italiana e dello stesso Pd. Se si aggiunge a questo voto il forte astensionismo delle elezioni in Emilia Romagna pochi mesi fa, il quadro dell'indebolimento delle sedi storiche del Pd è completo.

Il Nord, infine, torna invece a trazione di destra. Soprattutto della destra leghista. La vittoria di Forza Italia in Liguria ferma il declino del partito di Silvio Berlusconi, e cancella del tutto (o almeno dovrebbe) ogni tentazione di rinnovo del Patto del Nazareno. FI vince dove si oppone a Renzi e dove, come in Liguria, si ricompatta con Ncd. Soffre invece ogni divisione, come si è visto con il buon risultato di Fitto in Puglia. Nessuno di questi risultati ferma tuttavia la Lega che a livello nazionale supera Forza Italia.

È una nuova geografia, come si vede, che innesca nuovi meccanismi. A destra ne esce scosso l'assetto fin qui sperimentato. L'M5s trova in queste regionali la piattaforma per un nuovo rilancio nazionale. Ma sarà soprattutto Matteo Renzi a dover molto riflettere sul corso dei futuri eventi. Anche se questo non è stato un voto sul governo, è certo una severa valutazione dello stato di salute della "rivoluzione" renziana.

DA - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/rallenta-il-treno-di-matteo_b_7481876.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #239 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:04:16 pm »

Renzi non è in declino, ma deve governare
Pubblicato: 15/06/2015 20:52 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Volano sicuramente stormi di uccelli intorno a Matteo Renzi. Ma stavolta si tratta di avvoltoi. Nei commenti postelettorali già si avverte nelle corde delle élite del Paese una sorta di ridimensionamento del potere del "giovane premier". L'Italia è così - eccessiva nelle lodi e precipitosa negli abbandoni.

Ma la verità è un'altra: Matteo Renzi non era così forte quando un coro gli ripeteva che sarebbe durato vent'anni, e oggi non è così debole come lo vogliono i critici e molti ex ammiratori. Gli ultimi appuntamenti elettorali sono stati un voto di midterm, una verifica dell'azione del leader: e la realtà ha fatto prepotente irruzione nel mondo di Palazzo Chigi. Per Renzi è arrivato il momento di dimostrare di che pasta è fatto.

*****

Vediamo intanto con precisione di cosa parliamo. Dalle urne esce un altro ridimensionamento del Pd, parte però di un vero e proprio trend: tra astensione, spaccature interne e sconfitte vere e proprie, dal voto in Emilia Romagna in poi nelle urne si sono fatte visibili l'ampiezza e l'irreversibilità della crisi del Pd.

Che il partito non funzionasse d'altra parte si sapeva: se non fosse stato così, Matteo Renzi non lo avrebbe scalato con la facilità e lo slancio con cui ha vinto. Ma ora si può aggiungere che nemmeno l'arrivo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi è bastato a tamponare questa crisi.

Di chi è la colpa? La reazione in queste prime ore è purtroppo ancora una volta la stessa: renziani che accusano la sinistra dem (in questo caso a Venezia) e antirenziani che puntano il dito sui candidati del premier (ad Arezzo). Ma lo scaricabarile è un modo classico per non capire nulla, e non cambiare nulla. Da queste elezioni non esce nessun vincitore, dentro il Pd. È il partito tutto, nella versione governativa o di sinistra, che perde colpi. Ed è il partito tutto che condivide la responsabilità di non aver preso davvero atto della sua crisi.

Un po' di mesi fa ho scritto di una falla nel governo di Renzi, della sua mancata "connessione sentimentale" con il Paese: fu in occasione dell'alluvione di Genova, dove il premier, sempre così presente in tanti eventi, non andò. Palazzo Chigi rispose che il presidente del Consiglio sarebbe andato solo per "portare soluzioni". Genova non ha evidentemente atteso. È un esempio tra molti: il rapporto di distanza con l'Italia non ha mai davvero fatto progressi nel cuore del nuovo Pd. Questo non è mai stato un governo che mostrasse "pietas" - ha messo avanti la polemica riformista con i sindacati al gesto di schierarsi con i disoccupati, ha preferito fare rischiosi giochi di equilibrio giuridico-verbali invece di affrontare di petto la disgregazione dei governi e delle varie classi dirigenti locali. Né è stato aiutato Renzi dalla sua stessa minoranza, che a sua volta ne ha condiviso il difetto: tanto ferma sulle questioni interne del partito, tanto assente nel rapporto con la realtà. Ricordate voi una parola della minoranza sui migranti, sulle giunte in difficoltà, sull'Europa stessa?

E se il premier ha pensato di risolvere il suo rapporto con il Paese con un rito di seduzione continua e subliminale - la dannatissima, ridicola, cosiddetta "narrativa" costruita come un videogame, in senso letterale - i dissidenti dem hanno finito con il difendere del Pd solo un passato sui cui era evidente che fossero già' caduti.

Difficile oggi non vedere (e lo si è anche scritto) che il Pd tutto si è rinchiuso nel quadrilatero del potere romano. La politica si è sussunta nell'estenuante gioco di maggioranze che cambiavano in aula, battaglie feroci su emendamenti, condotte a botte di trucchi parlamentari e personali. Mai governo è stato più' politicista del primo governo Renzi.

Fino a che la realtà espulsa si è presentata insalutata ospite alla porta del meraviglioso futuro che si aspettava. Si è presentata sotto forma di crisi dei profughi. Sotto forma di egoismo dell'Europa. Sotto forma di inchieste giudiziarie. Sotto forma di crisi delle gestioni delle città e del territorio. Ma ancora non è stata vista. Con il risultato di aver lasciato spazio a una nuova destra, e aver provocato altra disaffezione tra gli iscritti del Pd che, evidentemente, non sono più sicuri che il partito stia dando loro una guida, e ancor meno soluzioni.

Ieri una giovane donna, Cecilia Strada, figlia di Gino Strada, fortemente impegnata nel sociale, ha raccolto questo spirito dei tempi, con una lucidità che lascia senza replica. Nel suo blog ha scritto:

    "Risposta collettiva per tutti quelli che "perché non ospiti i profughi a casa tua, eh?": e perché dovrei? Vivo in una società e pago le tasse. Pago le tasse così non devo allestire una sala operatoria in cucina quando mia madre sta male. Pago le tasse e non devo costruire una scuola in ripostiglio per dare un'istruzione ai miei figli. Pago le tasse e non mi compro un'autobotte per spegnere gli incendi. E pago le tasse per aiutare chi ha bisogno. Ospitare un profugo in casa è gentilezza, carità. Creare - con le mie tasse - un sistema di accoglienza dignitoso è giustizia. Mi piace la gentilezza, ma preferisco la giustizia".

Vogliono in fondo poche cose i cittadini d'Italia: vorrebbero città senza spazzatura e senza pericoli, vorrebbero scuole di qualità, una idea chiara di cosa ci succede nella vasta crisi che ci sta cambiando tutti, una qualche verità sulla nostra economia, la certezza di essere trattati tutti allo stesso modo, senza favoritismi. E la sicurezza infine che il proprio denaro conferito al pubblico non sia il bancomat di squadre di imprenditori e politici che si sentono autorizzati a usarlo proprio in quanto pubblico.

Non c'è questione morale in tutto questo. C'è questione di regole, che è molto di più. Le regole sono il fluido che muove il mondo concreto in cui viviamo. Stabilire queste regole e farle rispettare significa governare. Purtroppo alla fine non si può' che concludere che il decisionista Renzi oggi è in difficoltà per troppo poco governo delle cose.

*****

Ma è questo l'inizio del suo declino? Ovviamente no. E non perché è giovane ed energico come si ama dire - queste virtù si usano per I cavalli.

Renzi non ha concluso perché suo è il tema dell'Italia di oggi: il cambiamento. L'ha imposto lui, ed è ancora nelle sue mani, perché la destra non ha cambiamento da proporre ma i soliti vecchi schemi di nazionalismo e localismo. La destra è malata di nostalgia, e Renzi ancora no.

Questo è il suo vantaggio strategico.

Ma ora è il momento per lui di capire come interpretarlo. Se nel modo verticista e politicista quale è stato finora, o affondando le mani nei problemi.

Non è un caso che solo il Jobs act per quanto discussa da molti, abbia avuto risultati, perché azione concretissima. Altre cose si possono fare, e subito.

Sugli immigranti - che definiranno il nostro futuro - è ora di decidere come affrontare questa crisi. Se questo ci costerà uno scontro con l'Europa, un'azione di rottura, va bene. Non si può obbedire all'egoismo politico di questa istituzione comunitaria.

C'è poi il nodo del governo dei territori. Che faranno i nuovi governatori eletti con questo voti dimezzati? Che progetti hanno? Renzi dovrebbe ottenere da loro una sorta di carta programmatica che ne unifichi l'azione invece di lasciarli alle loro sparse autonomie - a partire dallo scioglimento del nodo De Luca.

Infine le città. Prima fra tutte Roma. A mio modesto parere questa melina di parole che avvolge il futuro del Comune, queste inchieste sul ricambio del Pd, appaiono solo un fumogeno agli occhi dell'elettore. La verità su Roma è che la Capitale non funziona non tanto perché c'è Mafia Capitale, ma perché è piena di spazzatura e violenza. Marino si dovrebbe dimettere per le condizioni in cui si presenta al mondo la Città Eterna, per lo stato dei suoi parchi, delle sue stazioni e dei suoi mezzi pubblici. Buzzi lo lascerei ai magistrati. Uguale la storia di Milano, o Napoli. Tutte città in uno stato di crisi non dichiarata. Napoli muore da tempo, a volte senza benzina per gli autobus, a volte per un traghetto che si incendia, spesso per chiusura di negozi o per disoccupazione crescente. Altro che Gomorra. E a Milano un sindaco gentile che non vuole cavalcare il suo disagio sta andando via e solo i gonzi credono che lo faccia perché è stanco.

È tempo insomma che Renzi cominci a governare.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/renzi-non-e-in-declino-ma-deve-governare_b_7587834.html?1434394406&utm_hp_ref=italy
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