Mito e fascino di Ali l'uomo che sulle spalle portava l'altra AmericaDi GIANNI MINÀ
15 dicembre 2014
Scostante, svogliato, spaccone. Così Muhammad Ali si presentò all'intervista con un giornalista italiano, siamo a fine anni '60, nello studio dell'avvocato Eskridge. Scoprì che non era "uno dei soliti giornalisti del nord del mondo" venuto a giudicarlo. Nacque un rapporto speciale che ora Gianni Minà cuce in questo "Il mio Ali" con una raccolta di 72 suoi vecchi articoli e alcune fotografie private. È il diario di una parabola totale (il campione, l'icona, l'uomo) raccontata da un testimone ravvicinato, partecipe e coinvolto. Con alcune pagine sorprendenti: un'intervista a Burt Lancaster che nel 1971 fu telecronista del match contro Frazier; un articolo di Giovanni Arpino del 1979 su una visita in Italia e il singolare prologo firmato (con un gioco di cognomi) da Mina. Che di Ali scrive: "Continua a essere bellissimo, anche col suo tremare che commuove e che lo incastona nell'immortalità. Il gioiello di un'era". (an. ca.)
Perché Muhammad Ali-Cassius Clay, a trentacinque anni, pieno di gloria, di ricchezza e di successo, non abbandona ancora la boxe, pur essendo probabilmente stanco e sazio di dar pugni? Le ragioni sono molteplici e affondano nelle radici della società americana.
Da quando, nell'autunno del '70, ha avuto la licenza per ritornare sul ring, Muhammad Ali ha guadagnato più di 50 milioni di dollari, quasi 45 miliardi di lire. Un record assoluto e forse insuperabile per un atleta professionista anche in epoca di sport-spettacolo e anche sapendo che le tasse avranno inciso per il quaranta per cento su quelle mastodontiche borse.
I nordamericani che misurano tutto sul metro del dollaro, avevano calcolato che il coraggioso rifiuto di Ali al servizio militare in Vietnam gli fosse costato, dal '67 al '70, quasi 10 milioni di dollari (cioè quasi 7 miliardi, visto che allora il dollaro godeva di un altro cambio). Ali, dunque, si è rifatto ampiamente nella seconda parte della carriera, malgrado sia stato costretto a perdere le stagioni più belle della vita di pugile, quelle fra i venticinque e i ventotto anni. (...)
La risposta a questo interrogativo sta nel ruolo che il grande pugile ha scelto o ha dovuto accettare nella vita, nella comunità nera d'America e più precisamente nel gruppo politico religioso dei Musulmani Neri. Ali ha scoperto Maometto, rivisitato dal nero americano Alijah Muhammad tredici anni fa, affascinato ancor prima che dalle parole del fondatore della sua chiesa, dalla filosofia politica di Malcolm X che, prima di essere ammazzato negli inquieti anni '60, aveva comunque lasciato i Black Muslims.
Adesso il campione, che dopo la morte di Eliijah Muhammad è entrato nel governo del gruppo come responsabile delle finanze, serve proprio come procacciatore di fondi, veicolo di propaganda, interlocutore più attendibile per certi settori dell'economia e della politica americana. I Musulmani Neri, in questi ultimi dodici anni, anche per merito del fascino e del proselitismo di Cassius Clay, sono decuplicati. Erano trecentomila nel 1964, ora sono oltre tre milioni e mezzo. Due anni fa, la loro convention al Madison Square Garden fu spettacolare. Venticinquemila delegati. E un giornale, Muhammad Speaks (Parla Maometto), catene di negozi, ristoranti riservati e un ospedale a Chicago che proprio Ali sta costruendo con parte delle sue pingui borse pugilistiche. Wallace Muhammad, succeduto al padre Elijah alla guida del gruppo, ha perfino cambiato strategia. Lo slogan "I bianchi sono diavoli" non è più di moda. Anzi, meno timoroso dell'ambiguo padre nel rendere pubblici i bilanci del gruppo, Wallace ha chiesto al governo che quella dei Black Muslims sia riconosciuta come religione di culto nazionale.
Così, Ali, oltre che addetto alle finanze, è diventato anche una specie di ministro viaggiante nella vita pubblica del Paese, una specie di immagine-garanzia del gruppo. E il campione va a parlare nelle High School, nelle università del Sud, nei ghetti delle grandi città, ma anche nei luoghi dove pulsa la vita di relazione della società americana che conta. Si dice perfino che alcuni Paesi arabi abbiano chiesto, come garante di alcuni affari, proprio Cassius Clay-Muhammad Ali. Ecco perché, pur non avendo più voglia da tempo, continua a salire sul ring. Il suo canto del cigno l'ha fatto a Manila nell'inverno del '75 contro Joe Frazier, una prova memorabile. (...)
The Greatest, dunque, combatte soltanto perché per un match facile gli offrono 3 milioni di dollari e per uno difficile 10-12 milioni. Come si può, in una simile situazione, dire di no? Poi, ultimamente, Ali ha divorziato dalla seconda moglie Belinda (madre di quattro dei suoi figli) e questa decisione gli è costata un miliardo di lire e una villa da mezzo miliardo. Questa casa, assieme a una Rolls Royce, era l'unico segno distintivo del suo successo in una società che dà molta importanza all'esteriorità. Così Ali ora deve combattere anche per se stesso. Gli hanno proposto Shavers, per il 29 settembre. Ha accettato, anche se sa perfettamente che questo fratello nero non ha arte pugilistica, ma una terrificante potenza. E per uno come lui, che non s'allena praticamente più, non è un rischio da poco. Ma che cosa poteva fare? Se vincerà ancora, gli hanno proposto, come ultimo match della carriera, 12 milioni di dollari per rivedersela ancora con Mandingo Norton. Sarebbe un ospedale in più per la sua gente e un gruppo di scuole, o di servizi sociali. È costretto a non rinunciare. Intanto saranno passati altri sei mesi o un anno. La boxe avrà trovato i suoi nuovi divi nei ragazzi rivelatisi alle Olimpiadi di Montreal e finalmente non avrà più bisogno di lui e delle sue invenzioni che, per dieci anni, spesso hanno fatto dimenticare la crisi. Anche di questa esigenza del mondo della boxe bisogna tener conto per capire perché Ali ancora non si è ritirato.
(Uscito su La Repubblica il 7 agosto 1977)
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http://www.repubblica.it/sport/vari/2014/12/15/news/mito_e_fascino_di_ali_l_uomo_che_sulle_spalle_portava_l_altra_america-102911341/?ref=HRER3-1