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Autore Discussione: Giuseppe DE RITA  (Letto 19568 volte)
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« inserito:: Ottobre 23, 2007, 05:00:53 pm »

Primarie: un pieno di votanti solo al Sud

Il Pd e il gelo del Nord

di Giuseppe De Rita


Cosa fatta per il Partito democratico, si può andare a capo. Occorre quindi guardare al futuro, ai problemi su cui il nuovo partito dovrà misurarsi e su cui sarà via via valutato; in particolare occorre guardare a due sfide delicate e complesse: quella del mondo giovanile e quella sul Nord Italia. Chi era andato ai seggi elettorali per un controllo visivo, aveva avuto la sensazione che in fila ci fosse in maggioranza gente matura d'anni. Nei giorni successivi ce ne hanno dato conferma dati più precisi: pur se di sondaggio solo il 19% dei votanti è sotto i 34 anni, mentre la metà di essi va oltre i 54 anni. È troppo presto per sollevare il dubbio che il Pd sia un partito di anziani, che vi si riconoscono in quanto forza di riformismo serio e pacato, lontano da tentazioni estremistiche. Ma non è troppo presto per riflettere sul pericolo di precoce senilità di un partito appena nato.

Si tratta di una riflessione urgente, perché il mondo giovanile rappresenta un oscuro contenitore: può essere un invaso di tensioni anche gravi e dure, per le venature di violenza che animano spesso il suo disagio; può essere un invaso di inerte poltiglia adolescenziale, dove ci si esalta solo su saltuarie tentazioni esperienziali. Quel che è certo è che i giovani sono oggi una realtà antropologicamente ambigua e sfuggente. Non sappiamo come essa si manifesterà in pubblico, se in disimpegno ludico di massa; o in violenza erratica variamente calibrata; o in esiti di esternalizzazione in piazza; o in una faticosa maturazione nel volontariato sociale o politico.

Qualcuno deve però proporre loro un'offerta sociopolitica, ma non ci sono oggi, nella cultura politica, molte idee e molti messaggi capaci di mobilitazione, solo che si pensi al Pd, dove le offerte erano certamente tante e differenziate (dalla tradizione cattolica al kennedismo) ma il fatto che solo un elettore su cinque sia stato giovane la dice lunga sulla scarsa propensione a recepirle. Lo stesso tipo di riflessione va tentato sulla seconda sfida che aspetta il Pd, quella del Nord. I dati sono sconcertanti: il nuovo partito risulta fortissimo nell'attirare gli elettori del Sud, con punte forse inaspettate per quel che riguarda la Campania (438 mila votanti), la Puglia (247 mila), la Calabria (208 mila) e la Sicilia (183 mila); risulta forte nelle regioni ad antico modello comunista (Toscana, Emilia, Umbria); e risulta invece molto flebile nelle regioni del Nord: dal Piemonte (dove ha votato praticamente un terzo dei votanti campani); al Veneto (dove hanno votato due terzi delle persone che hanno votato in Puglia); alla Liguria (dove gli elettori sono stati un terzo di quelli calabresi); e alla stessa Lombardia dove hanno votato 100 mila elettori in meno che in Campania.

Queste constatazioni non bastano per affermare che al Nord il Pd rischia la poca consistenza. Ma bastano per segnalare che al Pd serve una strategia, perché l'ormai annosa «questione settentrionale» non diventi un problema per un partito che, nascendo adesso, ha bisogno di sfondare nelle realtà locali a più forte vitalità economica. Si potrà dire che, contrariamente a quanto avviene nel mondo giovanile, la questione settentrionale ha già superato la fase delle ambigue dinamiche antropologiche, di disagio non ancora focalizzato in esplicite opinioni politiche. Ma proprio questa focalizzazione rende l'elettorato del Nord meno permeabile a messaggi di nuova politica: non è forse un caso che i votanti settentrionali alle primarie siano stati solo il 24% del totale; ed ancor più che quel 24% scenda al 22% nel voto a Veltroni, candidato-messaggio per eccellenza. Ci sarà molto da fare in Padania. Forse il Pd è cosa fatta ma imperfetta o almeno incompiuta.

23 ottobre 2007

da corriere.it
« Ultima modifica: Novembre 24, 2008, 05:36:16 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 07, 2007, 11:09:48 pm »

ECONOMIA

Nel presentare il 41° Rapporto il presidente del Censis denuncia "il processo di desublimazione" che sta disgregando l'Italia

De Rita: "Una società mucillagine al posto dello sviluppo di popolo"

La speranza è che invece "le minoranze vitali" si allarghino e si moltiplichino riportando il Paese alla coesione del boom economico degli anni '50 o della lotta al terrorismo

di ROSARIA AMATO
 

ROMA - Una "poltiglia", una "società mucillagine" composta da tanti coriandoli che stanno l'uno accanto all'altro, ma non stanno insieme. Sembra durissimo, accorato il giudizio che il presidente del Censis Giuseppe De Rita dà dell'Italia nel 41° Rapporto sulla situazione sociale del Paese. Eppure, la premessa è che "questo non è un Paese in declino". E infatti il problema non è il declino economico, scongiurato da tante minoranze operose e un discreto numero di big player che permettono all'Italia di non arretrare nelle retroguardie dei Paesi occidentali. E' piuttosto che lo sviluppo promosso dalle minoranze attive "non riesce a percolare". "Non abbiamo più fiducia nello sviluppo di popolo - dice De Rita - che ha dato vita al boom economico degli anni '50, all'industrializzazione di massa degli anni '70, alla lotta al terrorismo".

Forse perché il popolo, così come la cultura, la scuola, le istituzioni, osserva il presidente del Censis, sono ormai parole svuotate, che non significano più nulla. E quindi anche i tentativi di "partiti del Popolo", come il Partito Democratico o quello proposto da Berlusconi sembrano proposte prive di senso, nel momento in cui nessuno crede più a "uno sviluppo collettivo in cui ci stiamo tutti". Anche perché il Pd "si raggrinza su se stesso" mentre "il Pdl è un'operazione di marketing".

"Abbiamo piuttosto il sistema assicurativo, bancario, industriale - spiega De Rita - ma è roba di Profumo o di Passera, non è una questione che riguarda la collettività. Minoranze vitali che non riescono a trainare una società che non funziona". E che ormai è pronta al peggio, denuncia De Rita: "Il vaffanculo scritto dappertutto, la violenza, la volgarità, lo sballo, questa dimensione sempre più disadorna della cultura collettiva, la scuola dileggiata dai ragazzi che filmano gli insegnanti con il cellulare o provocano incendi".

Una società che ha perso le passioni, e che ha solo impulsi: "Abbiamo solo gente che aspira alla presenza, al suo momento di piece, come l'impulso ad esistere fosse l'unico rimasto dentro di noi. Una società mucillagine dove tutte le componenti stanno insieme perché accostate, non perché siano integrate". De Rita parla di "processo di desublimazione": "La libertà diventa disponibilità di se stesso, l'etica un elenco di 128 indicatori, la scuola un parcheggio: stiamo subendo un processo di desublimazione, per cui noi al popolo, e allo sviluppo di popolo, non possiamo più credere".

Nessuno vuole più responsabilità: è da qui, per il Censis, che bisogna ripartire se si vuole invece ritornare allo sviluppo collettivo, allo sviluppo di popolo: "La prima speranza è che la minoranza vitale si allarghi. L'anno scorso, quando parlavamo di una minoranza silenziosa, non ce l'ha fatta. Ma dobbiamo invece sperare in un allargamento della base vitale del sistema. La seconda è la moltiplicazione delle minoranze".

Speranze accompagnate da quella del ritorno della "coscienza stretta": citando Leopardi, De Rita afferma che gli italiani hanno una "coscienza larga". E citando il presidente del Consiglio, ricorda: "Prodi una volta in un momento di rabbia ha detto che questa società non è meglio della politica". E allora deve migliorare la società, si deve tornare a una coscienza stretta: persino una minoranza faziosa, ma forte dei propri valori, afferma De Rita, è meglio della "mucillagine".

(7 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 07, 2007, 11:12:49 pm »

L’Italia? Ha dichiarato guerra ai giovani

Tobia Zevi


Inquinamento acustico. È questa la sensazione che proviamo quando si sente ragionare di «giovani». Tutti ne descrivono la condizione in termini più o meno pessimistici, propongono paragoni con altre generazioni e mostrano di cercare soluzioni che li possano favorire. Soprattutto tutti ne parlano. Il merito principale di Contro i giovani (Mondadori, pp. 158, euro 15) è quello di scegliere termini chiari, preferendo la descrizione al giudizio, e di elencare una serie ragionevole di misure da prendere. Gli autori, Tito Boeri e Vincenzo Galasso, sono professori alla Bocconi (il primo è indicato tra i consiglieri più vicini a Veltroni), e si collocano con forza nel recente dibattito sul riformismo. L’assunto di partenza è sferzante: «I genitori italiani sono molto generosi con i figli propri e molto egoisti con i figli degli altri». Ed ecco spiegato, in parte, perché i ragazzi di oggi non protestano col vigore che ci si aspetterebbe: considerano molto generosa la propria famiglia d’origine, che li accudisce a lungo, che acquista loro la casa con la liquidazione paterna, che concede confort senza pretendere il rispetto di tante regole.

Il libro prende spunto dalle storie di cinque italiani della classe media prese a caso negli ultimi 50 anni. Si passa dalla Ricostruzione ai giorni nostri, evidenziando le relazioni tra scelte professionali, sentimentali e familiari fino a quelle politiche. E si delineano alcuni sviluppi. Maria, nata nel 1938, racconta il sogno del «posto fisso»: con il suo primo stipendio da insegnante, 120 mila lire, in cinque mesi si comprò una 500, godendo di grande prestigio sociale per il suo impiego nella scuola. Gina, classe 1949, racconta l’inarrestabile ascesa del debito pubblico italiano dal 40% della sua infanzia al 124% del 1994, attraverso la vicenda di un caro amico che diventa progressivamente più povero. Fino a Carlo, 25 anni, dj in una radio locale, che terrorizza sua madre con la prospettiva di un Dico.

Perché le aspettative della «classe media» sono assai meno rosee di ieri? La nostra economia è molto esposta alla concorrenza globale: fonda la sua ricchezza su settori non high-tech, produce meno delle altre nazioni industrializzate ed è imperniata su imprese più piccole, meno portate ad investire su ricerca e formazione. Boeri e Galasso spiegano che, per mettersi al passo, occorre che lavorino tutti e meglio. Ma la forza-lavoro italiana è assai impoverita dall’età pensionabile bassa, dall’alta disoccupazione giovanile e dallo scarso impiego di donne nelle aziende. E bisogna intervenire anche sulla qualità: in particolare su scuola e università

La scuola non è basata sul merito, né per i docenti né per gli studenti. Significativamente, rilevano i due autori, i genitori sono più interessati alla promozione del figlio che alla sua formazione. Si incrina così l’asse scuola-famiglia sul quale si snoda il percorso didattico. Nel VI Rapporto giovani dell’Istituto Iard a cura di Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Antonio de Lillo (Il Mulino, pp. 400, euro 29), un’indagine molto ricca sulla condizione giovanile italiana, si registra la percezione della scuola nelle nuove generazioni: i docenti rimangono un punto di riferimento, ma ad esserne meno convinti sono le fasce estreme di studenti, quella dei più bravi e quella dei più carenti. La scuola non è dunque democratica, e utile per il Paese, proprio perché non gratifica i più preparati ma chi trae già gli strumenti in famiglia.

Ma se Sparta piange, Atene non ride… A parte la cronica carenza di fondi, anche il funzionamento degli atenei non consente di promuovere gli istituti e i docenti che si segnalano per ricerca, pubblicazioni e brevetti. Vige una logica di anzianità, che finisce, di nuovo, per penalizzare quei ragazzi che non possono permettersi soggiorni all’estero, corsi di specializzazione ed Erasmus. Un dibattito su questo tema si è acceso recentemente anche in Francia, dove le proteste studentesche prendono di mira le riforme di Sarkozy. Ma i laureati italiani vedono anche poco remunerato il loro «pezzo di carta». Secondo i dati dell’istituto Iard, i giovani non considerano il titolo utile nella ricerca dell’impiego, benché funzionale nello svolgimento del lavoro. E anche la tanto evocata «fuga dei cervelli», rilevano Boeri e Galasso, si riassume con un dato: la media di laureati tra quanti partono è doppia rispetto al resto della popolazione italiana.

Tutti questi nodi vengono al pettine al momento del primo impiego. Nel Dopoguerra il salario di ingresso era più alto di quello medio, mentre oggi i nuovi assunti guadagnano in media il 35% in meno dei lavoratori più anziani. La famosa flessibilità ha portato ad una precarietà generalizzata sia dei lavoratori, che faticano ad arrivare a fine mese, a pagarsi i contributi previdenziali e a formare una famiglia, sia delle imprese, che non ottengono garanzie per investire nella formazione degli impiegati più «giovani». La colpa è anche di alcuni ritardi culturali: dall’istituzione della legge, solo otto padri su cento (8!) usufruiscono del congedo di paternità, preferendo il lavoro ai pannolini e restando insensibili al fulgido esempio del Ministro inglese David Miliband, in famiglia per addirittura quindici giorni. Allo stesso modo, non si impenna la domanda di asili-nido a causa della sanzione sociale, ancora molto forte, nei confronti delle mamme che non si occupano personalmente del figlio; in Italia sono le donne a lavorare maggiormente (in media un’ora in più al giorno) ma ad essere pagate di meno.

I due economisti propongono una serie di soluzioni a queste problematiche: adozione di un contratto unico a tempo indeterminato con tre diversi scatti a tutela crescente (prova, inserimento e stabilità), simile per certi versi ad un’altra idea del presidente francese; istituzione di un reddito minimo garantito (solo a chi ne ha davvero bisogno), per ridurre la povertà tra chi non lavora; misure per favorire il reinserimento delle giovani mamme, prevedendo anche un congedo di paternità interamente retribuito; liberalizzazione delle professioni con pubblicità comparativa, preventivi con tariffe a forfait e nessun numero chiuso fissato per legge (con conseguente abolizione degli ordini); completamento della riforma delle pensioni con il definitivo passaggio al sistema contributivo, abolendo le pensioni di reversibilità per i nuovi lavoratori (che sarebbero comunque coperti dal salario minimo garantito). Sono, queste, strade percorribili: hanno il pregio di affrontare problemi endemici in maniera radicale e scevra da pregiudizi, dopo un’ analisi della società italiana, condotta per tutto il volume, a tratti impietosa ma certamente assai lucida.

Ma la vera sfida per tutti, forse, è abbandonare due vizi nazionali molto comuni nell’affrontare questo tema: disfattismo e paternalismo. Contro i giovani evita di indugiare sulle pecche evidenti della nostra classe politica («sport nazionale») preferendo piuttosto leggere le storture della società nel suo complesso. Allo stesso modo il Rapporto giovani fornisce un quadro privo di banalizzazioni e con qualche sorpresa: emerge che i giovani sono al 90% felici della loro vita, che sono disposti alla flessibilità all’inizio della propria carriera (come sostiene anche il Ministro Melandri nella sua prefazione) purché non diventi cronica, che puntano soprattutto ad un lavoro autonomo e che sono sempre più simili ai loro genitori. Per questa ragione aspirano meno alla propria autonomia, seppure il fenomeno della permanenza prolungata nella famiglia d’origine mostra i primi segni di regressione. Mostrano una maggiore tolleranza nei confronti dei fenomeni di devianza sessuale ed economica, si riavvicinano ai valori religiosi e recuperano forme di impegno sociale e, più raramente, politico. Forse incapaci di grandi entusiasmi, ma neanche generazione-Garlasco, i ragazzi non corrispondono all’immagine che gli adulti hanno di loro, in cui «prevalgono sicuramente i tratti negativi sui tratti positivi».

Pubblicato il: 07.12.07
Modificato il: 07.12.07 alle ore 9.11   
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 19, 2008, 12:22:19 am »

VERSO IL VOTO

Niente programmi

di Giuseppe De Rita


C'è un pericolo grave nell'attuale dibattito politico: che resti di moda la redazione di «documenti programmatici», visti da un lato come strumenti per dare identità a chi intende «correre da solo»; e dall'altro come contenitori per raccogliere più frazionate convergenze. Così tutti aspettano di vedere, giudicare, condividere, contrattare e magari sottoscrivere un programma. E qualcuno ha già cominciato anche a scriverne.

Esercizio prevedibilmente inutile, perché rischia di sfociare in un lungo elenco di cose da fare che non potrebbe mai entrare nella testa della gente; tanto più che tutti sappiamo che «non si vota per adesione programmatica ». Ma esercizio anche molto pericoloso, perché le elaborazioni programmatiche finiscono per mettere insieme cose sapute e risapute, cui è difficile far appassionare il cittadino medio italiano, stremato da decenni di mirabolanti annunci e intenzioni di aperture al mercato, di liberalizzazioni a vari livelli, di investimenti in educazione e ricerca, di nuova regolazione del lavoro, di monitoraggio dei conti pubblici, di rilancio del Mezzogiorno e altro ancora. Intenzioni consumate da anni di chiacchiere inconcludenti, e in più «figlie» di tempi e di processi socioeconomici ormai non più propulsivi.

Sbaglierebbe in altre parole chi volesse governare il futuro proponendo scelte calibrate sui tre grandi processi del passato. Anzitutto la crescita dell'individualismo, con conseguenti scelte di promozione e sostegno dell'imprenditorialità diffusa, del capitalismo personale, della mobilità del lavoro, della stessa relativistica libertà comportamentale; in secondo luogo la crescita dell'arcipelago periferico, con conseguenti scelte di localismo, sviluppo distrettuale, decentramento istituzionale, federalismo, eccetera; e in terzo luogo il frastagliarsi esausto dello scontro di classe, con conseguenti rifugi nella drammatizzazione dei problemi salariali, nella difesa del lavoro dipendente, nella battaglia sull'identità operaia, nello stesso più limitato impegno sulla sicurezza del lavoro.

Meglio sarebbe sforzarsi di capire quali processi di lungo periodo siano oggi in corso ed esercitare all'interno di essi specifiche scelte programmatiche. Io ne vedo due, entrambi figli della collettiva volontà, ancorché sommersa, di dare maturità di sistema alla vitalità disordinata degli ultimi decenni: sia attraverso una moderna piattaforma logistica nazionale; sia attraverso una regolazione comunitaria della vita collettiva. Una nazione ad alta internazionalizzazione come l'Italia ha bisogno di avere una ricca piattaforma logistica, materiale o immateriale: abbiamo bisogno di un sistema articolato di scali aeroportuali, porti, interporti, assi di comunicazione, centri finanziari, infrastrutture di rete lunga, che siano al servizio delle imprese, della finanza, del turismo italiani. E le scelte relative vanno fatte a ragion veduta, in coerenza con la nostra posizione sul mercato mondiale (scegliendo cioè fra una piattaforma orientata verso l'Europa continentale o quella sudorientale, verso il Mediterraneo o verso l'Estremo Oriente o altro ancora), visto che non possiamo gingillarci ancora fra Ponte di Messina e pavimentazioni comunali.

E accanto a ciò dobbiamo sostenere un secondo processo di sviluppo sistemico del Paese, cioè la regolazione comunitaria della vita collettiva, attivando più nette responsabilità nel governare i rifiuti, il territorio e le sue risorse, l'integrazione sociale degli stranieri, la qualità della vita vissuta insieme, la razionalizzazione dei poteri e delle rappresentanze locali. Piattaforma logistica per competere nel mondo e governo comunitario per vivere bene nelle realtà locali sono le vere sfide del futuro e solo su di esse si può pensare a comprensibili programmi e impegni politici, che non siano elenchi più o meno griffati ma di gramo destino.

18 febbraio 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Gennaio 24, 2011, 03:15:47 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 05, 2008, 10:31:34 am »

ELEZIONI E APPARTENENZE

La vittoria dei contenitori

di Giuseppe De Rita


In una campagna elettorale per il momento deludente c'è un aspetto che non è stato adeguatamente messo a fuoco: nelle nostre vicende sociopolitiche il fattore appartenenza sta irrevocabilmente vincendo sul fattore identità.

Molte formazioni a lungo identitarie tendono infatti a intrupparsi in appartenenze di più tenue caratterizzazione. L'identità radicale, forse per anni la più marcata, si stempera in una potente lista elettorale sposandone le proposte più lontane dalla propria storia; l'identità post-fascista, che pure ha attraversato l'Italia degli ultimi sessanta anni, si scioglie in un grande raggruppamento di destra, fatalmente populista e un po' generico; l'identità socialista, storicamente ancora più pesante, rischia di scomparire dalla scena se non entra nel Partito democratico. E mette conto di ricordare che in quest'ultimo sono confluite, alla faticosa ricerca di una più ampia appartenenza, i resti delle due grandi identità politiche (comunista e democristiana) che hanno fatto la storia collettiva del Paese.

Tutti nei grandi contenitori, l'identità resta un residuo del passato: non più brand competitivo ma brandello d'immagine. Quando non degrada ad arma contrattuale: si rivendica spesso un'identità per rivendicare un peso (anche di candidati) ma l'appartenenza è fuori discussione. Perché è l'appartenenza, e solo lei, il fattore che tiene insieme i pezzi.

Il crescente primato dell'appartenenza sull'identità è molto più serio di una strategia elettorale, ha anche valenza politica e riscontro sociale. Se si pensa alla valenza politica è quasi banale dire che la condensazione cui stiamo assistendo (pochi partiti e, se possibile, grandi) rispecchia da un lato la stanchezza di tutti, anche dei protagonisti, verso la frammentazione partitica generata da sempre più residuali identità collettive; ma ancor più rispecchia l'obbligata onnicomprensività (l'et et) cui deve obbedire ogni grande contenitore che voglia corrispondere alle domande (o ai disagi) degli elettori. Ma anche nella realtà sociale dobbiamo constatare il primato dell'appartenenza sull'identità. Si pensi ai due estremi delle strutture di rappresentanza: da una parte i grandi sindacati sviluppano strategie e connotazioni di grande appartenenza (la cosa è visibilissima nelle realtà locali e specialmente nella Cisl); dall'altra, le grandi centrali datoriali o si condensano in più ampie appartenenze (la concentrazione delle rappresentanze assicurative e finanziarie) oppure, come nella rappresentanza industriale, valgono più i circuiti di appartenenza confederale che gli interessi e i comportamenti che fanno l'identità industriale, individuale o collettiva che sia.

Dobbiamo tutti renderci conto che nella nostra società dominano le appartenenze: quelle elettorali, quelle politiche, quelle sociali, e anche quelle di quotidiana vita collettiva, (di cui la faccia buona è il volontariato, quella cattiva sono le bande urbane senza nessuna aspirazione identitaria, neppure di tifo calcistico o di razzismo celtico). Se non ce ne renderemo conto, dovremo aspettare che cresca una nuova classe dirigente temprata dalla prassi dell'appartenenza; se invece qualcuno capirà prima è possibile che le prossime elezioni possano essere vinte da chi si proporrà, con più forza di convincimento, come «grande appartenenza ».


05 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 21, 2008, 07:40:37 pm »

CAMPAGNA ELETTORALE

Il narcisismo dei leader

di Giuseppe De Rita


Non c’è da scandalizzarsi se in campagna elettorale la personalizzazione della politica tende a tracimare nel narcisismo dei suoi protagonisti. La loro avventura si fa ogni giorno più solitaria, ed è naturale che essi tendano a caricare la ricerca di consenso sulla propria immagine e sul proprio carisma, compito per il quale una dose di autostima è indispensabile e un po’ di narcisismo giova.

Non si sfugge però all' impressione che si stia un po' esagerando e che anche presso un popolo di narcisi, quali noi italiani siamo, si possa rischiare qualche contraccolpo negativo.

È esagerato infatti che l’autocentratura dei candidati premier si realizzi in un’esasperata coltivazione di se stessi. Certo si deve piacere alla gente, ma attenzione: la cura per il proprio personaggio, l’aspetto esteriore, il modo di vestire, la personale arte retorica, le battute a effetto, il gesto volutamente impressivo, la garanzia personale sulle promesse programmatiche, la propensione a inventarsi ogni giorno qualcosa di valenza mediatica, sono tutte cose importanti, ma portano a una pericolosa collimazione fra autocentratura e pulsioni narcisiste. E la circostanza che i protagonisti siano tutti piacenti appiattisce il panorama complessivo: non si forma cioè una selezione o un’asimmetria competitiva, e resta solo la dubbiosa domanda di cosa ci sia sotto le trionfanti apparenze.

Altrettanto esagerato è il fatto che i candidati premier chiedano la scena solo per loro, quasi che i loro partiti o schieramenti non abbiano altri livelli di responsabilità, altri protagonisti, altri talenti da valorizzare, non abbiano cioè una classe dirigente. Votare i leader è cosa obbligata, nell’attuale legge elettorale; ma da sempre le elezioni si fanno per giudicare la qualità delle classi dirigenti. E invece (tranne tre o quattro eccezioni) queste sembrano elezioni di «assenti», di politici che ben che vada sono in attesa di fare i ministri, male che finisca sono in attesa di dissolvimento esistenziale.

E sorge allora la domanda se il narcisismo autocentrato non nasconda un deficit di rappresentanza, in quanto non si capisce a quali interessi, bisogni, categorie, gruppi sociali facciano riferimento i nostri protagonisti solitari. Negli annunci programmatici essi cercano di captare grandi tematiche fatalmente generiche (donne, giovani, precari, pensionati, ecc.) mentre per la composizione delle liste essi spigolano qua e là, dall'imprenditore al precario, dall'operaio al generale, tutti comunque scelti per la facciata, e certo inadatti per stabilire una significativa relazione con i mondi di provenienza. E se cade la spinta a fare rappresentanza sociale e politica non deve poi sorprendere che nelle liste abbiano trovato posto segretarie, assistenti e pretoriani, persone cioè vicine e fedeli e adoranti nei confronti del leader autocentrato.

Il narcisismo finisce così per essere l'estremo effetto estraniante della personalizzazione della politica sulle esigenze e sui processi della rappresentanza collettiva. E non molti sembrano rendersi conto di quale contributo esso dia alla pericolosa corrosione di quelle che amiamo chiamare «le istituzioni della democrazia rappresentativa».

21 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 24, 2008, 10:17:09 am »

IL TEMPO DELLE «EMOZIONI BLANDE»

Il declino del conflitto


di Giuseppe De Rita


In un cupo soliloquio della Tosca, Scarpia esprime con volgare voluttà il concetto che «ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso».

È un concetto che gli amanti dell'opera lirica recitano spesso, anche se sempre più raramente lo mettono in opera. Ma è un concetto però cui restano affezionati i teorici e i militanti del conflitto sociale e politico, sempre convinti che la storia e il potere si conquistano facendo rivoluzioni o almeno esercitando la forza. E anche quando, com'è attualmente, la forza e le rivoluzioni sono solo mediatiche e virtuali, l'ispirazione resta la stessa: il conflitto innanzitutto.

Chi osservi invece le cose italiane di questi ultimi tempi scopre che di conflitto ce n'è poco: non ce n'è in fabbrica e nei campi come retoricamente si è spesso declamato; non ce n'è negli uffici pubblici, visto che neppure l'aggressività brunettiana è riuscita a far scattare rivolte anche minimali; non ce n'è in tutto il vasto settore dei servizi alle imprese e alle persone, ormai segnato da professioni (dal pubblicitario alla badante) che sono strutturalmente negate alla mobilitazione collettiva, figurarsi al conflitto. Può spiacere a qualcuno, ma l’attuale composizione sociale non presenta grandi componenti conflittuali.

Si potrà dire che l'affermazione è contraddetta dalle recenti agitazioni di piazza degli studenti e dai recenti scioperi del trasporto aereo; ma credo che un po' tutti abbiano avvertito la loro carica altamente corporativa e la loro incapacità di creare valenza generale e mobilitazione politica. Come potenziali minacce conflittuali sono stati «lasciati cadere»; e non solo dalle sedi del relativo potere decisionale, ma anche dalle sedi tradizionalmente di lotta e potenzialmente di alleanza (il sindacato, ad esempio). Tutto quindi è tornato nell'ordine.

Nell'ordine. Che significa oggi questo termine? In superficie sta a significare che abbiamo più voglia di istituzioni funzionanti che voglia di trasformarle, riformarle, rivoluzionarle. Vince il pragmatismo del quotidiano, non un’idea di futuro migliore; può esser triste ammetterlo, ma tutto ciò porta a una bassa popolarità anche del riformismo, del resto da sempre visto solo come alternativa pacata al conflitto, non come ideologia autonoma e autopropellente.

Resta allora il «mellifluo consenso». È probabile che alla parte più combattiva della nostra classe dirigente venga un attacco di bile di fronte a tale locuzione, magari nel sospetto che essa riveli una più o meno cosciente berlusconiana strategia di dittatura morbida. Ma nei fatti dobbiamo verificare che oggi il consenso si conquista facendo ricorso a emozioni blande e non violente; e anche quando si scende in piazza, le emozioni devono restare blande, come sono quelle dei megaraduni, dei tour elettorali, dei girotondi, delle false primarie, dove tutto è mellifluo, anche se a lungo andare falso, non affidabile.

Perché, come ha acutamente notato Natalino Irti, viviamo un tempo in cui non c'è più rappresentanza (di interessi, di bisogni, di opzioni collettive) ma «rappresentatività esistenziale», di messa in comune di emozioni e sentimenti individuali coltivati nella dimensione dell'esistenza, senza passioni e spessori di essenza. Non a caso, limitando la riflessione al puro campo politico, hanno oggi più successo le formazioni che si rifanno al disagio esistenziale (il leghismo, il dipietrismo) che quelle che devono (per necessitata ampia consistenza) far riferimento alla rappresentanza di interessi, bisogni e opzioni di carattere collettivo, più che ai turbamenti o ai rinserramenti esistenziali.

Non c'è allora da far conto sull'illusione che torni il conflitto, grande oggetto del desiderio. Più utile sarebbe un impegno a ricostruire contenuti e strumenti della rappresentanza. E bisogna farlo sia nelle strutture del sociale come in quelle della politica, rompendo quell’autoconservazione corporativa che purtroppo le sta distruggendo, nel piccolo dell'associazionismo non profit come nel grande della dinamica partitica.

24 novembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 06, 2008, 10:03:12 am »

De Rita: Italia verso «società oligarchica»
 
 
ROMA ( 5 dicembre) - All'orizzonte si profila una «società oligarchica».

Ne è convinto il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, che, durante la presentazione del Rapporto sulla situazione sociale del Paese, ha invocato l'intervento di un «soggetto sistemico»: dalla Tav agli sbarchi clandestini passando per Alitalia, il Paese ha bisogno di «soggetti che sappiano agire volta a volta sull'argomento». Di fronte a una società «sempre più complessa», infatti, il rischio è «la perdita di potere dello Stato sovrano e del mercato».

Secondo il presidente del Censis «la massima espressione dello Stato italiano in questo momento è Gianni Letta» perché «sa stare nella storia e fare sistema».

da ilmessaggero
 
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 07, 2008, 12:35:11 am »

IL CENSIS E LA CRISI

La storia non finisce


di Dario Di Vico


La Storia non è arrivata al capolinea. Per quanto la crisi si stia rivelando inattesa e grave, e per quanto drammatici si preannuncino i primi mesi del 2009 con il loro calvario di licenziamenti e depressione, la storia non sembra incamminata verso i suoi ultimi giorni. E' facile pensare che con essa non si esauriranno né il capitalismo, né il mercato e non resteranno mute nemmeno le bistrattatissime culture liberali. Il moderno continuerà la sua corsa, riprenderà a produrre le sue contraddizioni e i suoi squilibri, libererà energie e ne comprimerà altre, ma non c'è all'orizzonte un «altro mondo » e neppure si è delineata finora un'offerta culturale alternativa capace di rileggere in toto il «nostro mondo».

E' questa la riflessione che si offre alla lettura dell'annuale Rapporto del Censis, lo strumento forse più incisivo di cui dispongano le élite per cercare di capire le Main Street italiane. La crisi è descritta nei suoi contorni reali e angoscianti, si evoca addirittura la parola «panico», e l'invito ai politici e all'opinione pubblica è a non rimuoverla nemmeno cercando conforto nella vivacità dei nostri distretti o nella tradizionale forza del familismo italiano. Sono immagini che abbiamo scattato per primi noi, sottolinea maliziosamente Giuseppe De Rita, e credeteci se vi diciamo che non sono sufficienti. Serve qualcosa di più, un cambiamento profondo. Il rapporto la chiama «seconda metamorfosi» (la prima è quella degli anni tra il '45 e il '75) e si spinge a sostenere che è già silenziosamente in marcia. Insomma stiamo già reagendo anche se non ne siamo ancora consapevoli.

Si può ovviamente discutere se davvero i caratteri e i soggetti della metamorfosi saranno quelli che De Rita indica nel Rapporto, ovvero le minoranze vitali, la presenza degli immigrati, il protagonismo delle donne, nuovi stili di vita e di consumo. Se così fosse sarebbe da gioirne perché l'uscita dal tunnel farebbe il paio, questa volta, con il delinearsi di una società più matura e insieme più mobile e aperta, mentre oggi la crisi con le sue urgenze, con il suo impellente «qui ed ora», privilegia l'agenda degli insider, la forza dei gruppi organizzati a scapito dei precari e delle nuove generazioni. Ma la scommessa deritiana sulla metamorfosi è comunque un richiamo all'establishment italiano a non rinchiudersi nella fortezza assediata, a rispondere ai colpi della crisi aprendo le finestre e non accentuando il carattere oligarchico della nostra società.

A suo modo il Rapporto è un investimento sul proseguimento della storia ed è significativo che lo abbia prodotto «un uomo di economia mista, un figlio di Pasquale Saraceno» — come ama definirsi lui stesso —, un intellettuale cattolico che non è stato mai apologeta del mercato. Ed è ancora più interessante notare come riflessioni non molto distanti dalle sue le abbia espresse domenica scorsa, in un'intervista al Corriere, Mario Monti. A sua volta un uomo radicato nella cultura del mercato e dell'Europa, un figlio di Luigi Einaudi. Se De Rita e Monti guardano dalla stessa parte, se si pongono domande analoghe ed entrambi — ciascuno con il proprio lessico — sentono l'esigenza di riprendere il cammino della ricostruzione italiana, vorrà pur dir qualcosa: la modernità non è un mostro.


06 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 03, 2009, 10:19:36 am »

CONTRO LE AMBIZIONI CENTRALISTE

Il localismo che fa bene


di Giuseppe De Rita


Mesi fa, dopo lo sconquasso provocato dalle elezioni politiche, andò di moda, specialmente a sinistra, la esigenza di tornare al territorio e di rifare osmosi con le diverse realtà locali. Poi tutto è rifluito nel centralismo democratico, magari attraversato da qualche ventata polemica con i cacicchi di periferia.

Viene da domandarsi oggi quale ruolo giuochino o possano giocare le diverse realtà locali, e le loro assunzioni di responsabilità, nello sconquasso provocato dalla grande onda di crisi finanziaria e poi trasposto in una sottile ma endemica difficoltà dell'economia reale. Come sempre nelle crisi violente ed inattese, la reazione istintiva si orienta alla verticalizzazione decisionale, anche perché le drammatizzazioni mediatiche spingono verso l'alto la domanda e la ricerca di adeguati interventi. Siamo quindi tutti in attesa di quel che farà il governo (magari d'intesa con altri governi e con le autorità sopranazionali); di quel che faranno le grandi centrali finanziarie e bancarie; di come potranno essere risolti i problemi delle grandi imprese in difficoltà. Alla periferia, se dobbiamo dar retta alle intenzioni, si guarda prevalentemente per deputare le amministrazioni regionali all'articolazione e all'applicazione operativa degli ammortizzatori sociali.

È probabile però che sia un errore non far riferimento al modo in cui la realtà locale vive la crisi, in una articolazione di atteggiamenti e comportamenti che è più chiaroscurata delle fosche tinte usate a livello centrale. Ci sono sindaci e presidenti provinciali che stanno valutando e programmando interventi anticiclici, facendo leva sulla riorganizzazione localistica del welfare e più ancora su incentivi alla manutenzione (di abitazioni, di boschi, di edifici scolastici, ecc.) che potrebbero coinvolgere molecolari interventi finanziari delle famiglie magari incrociati con segmenti di fondi europei.

Ci sono aziende di servizio pubblico locale che si dichiarano pronte a fare significativi investimenti in cambio di sostenibili aumenti tariffari. Ci sono banche a forte caratterizzazione locale che già ridanno fiato al mondo delle imprese (le banche di credito cooperativo hanno decisamente aumentato gli impieghi, contro la rigidità un po' egoista delle grandi banche nazionali). Ci sono fondazioni bancarie che giustamente il ministro Tremonti ha sollecitato a esser soggetti di capitale sociale orientato allo sviluppo locale. Ci sono distretti che stanno dimostrando di essere più che vigili sull'evoluzione delle loro filiere settoriali e di poter quindi presidiare il potenziale rilancio dell'export. Ci sono innumerevoli piccole e medie imprese che usano la crisi (e la cassa integrazione) per ristrutturarsi, mantenendosi rigorosamente liquide e guardandosi intorno «per comprare», ove se ne configurino oggetti e tempi opportuni.
Come sempre nelle difficoltà, la voglia di sopravvivere e rilanciare si afferma come una nostra costante silenziosa scelta.

Nessuno può pensare, anche fra i più accesi localisti, che tutto ciò possa bastare per superare la grande turbolenza che stiamo attraversando. Ma sapienza italiana vorrebbe che in questo anno difficilissimo mettessimo tutto a contributo: non abbiamo da anni uno sviluppo e un sistema di vertice, ma uno sviluppo molecolare, a tanti soggetti, e siamo, quindi, un sistema articolato e diffuso.

Cedere alla paura di vertice sarebbe un errore, fare sistema e politica solo al vertice sarebbe non solo uno sbaglio ma una autocastrazione controproducente; non sarebbe male, allora, tentare una politica di promozione e sostegno delle spinte localistiche che, come visto, sono già in essere.
Non ripetiamo quindi in economia quelle ambizioni centralistiche che nel recente passato politico hanno prodotto cattivo frutto.


03 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 13, 2009, 11:24:53 pm »

Il vicolo cieco dell'antagonismo


Avendo da sempre a cuore una cultura di terzietà, da sempre ho rischiato di essere marginalizza­to e svillaneggiato da chi con ar­dore esercita la prassi dell’antagonismo.
«Tu non c’entri, lascia che ci regoliamo i conti fra noi», questa frase richiama ricor­di adolescenziali e giovanili, di quando l’intenzione di fare il pacie­re finiva male, talvolta an­che con qualche escoriazio­ne; ma continuo a ritenere l’antagonismo non solo emotivamente spiacevole, ma anche infecondo e inu­tile.

Gli antagonisti sono una forza della natura: sono pervicacemente convinti di avere ragione, esprimono un’intenzionalità fuori mi­sura, chiamano allo schie­ramento senza se e senza ma, coltivano il gusto del­l’inimicizia, qualche volta aspirano alla distruzione dell’odiato nemico. Si mon­tano psicologicamente e producono spettacolo per tutti, e sottilmente diventa­no anche gli spettatori di se stessi. E avviene che spesso la lotta all’alter ego produca il decli­no non solo dell’alter ma anche dell’ego.

E’ difficile comunque resistere alla ten­tazione antagonista, anche quando si ri­schia di scivolare nel fondamentalismo del primato religioso o nel feticismo del primato della scienza; figurarsi se si tratta della lotta politica, terreno altamente favo­revole allo scontro, anche dopo la morte dichiarata delle contrapposizioni ideologi­che del Novecento; e terreno in cui l'anta­gonismo ha portato frutti perfidi e regres­sivi.

Non basta però di fronte al calor bianco di queste settimane, con tutti contro tutti, nella contrapposizione di due eserciti, uno contro e l’altro a favo­re di Berlusconi, fare richia­mi morali al dialogo, al ri­spetto dell’avversario; l’aria che tira è tale che, se ci fos­se un arbitro a decretare un break , i duellanti ne ap­profitterebbero per piazza­re un colpo sotto la cintu­ra. Il problema va posto più utilmente nei suoi ter­mini culturali, nell’incapa­cità dell’antagonismo a «scavare al di sotto dell’an­titesi », che è l’unico modo per rispettare la dinamica del reale. Le cose hanno sempre un andamento (una verità, si potrebbe di­re) «trasversale» e non van­no quindi viste e trattate in una logica di causalità lon­gitudinale, dove sarebbero condannate a cozzare l’una con l’altra.

La vita è correlazione, è «chiasma», co­me dicono i fenomenologi per segnalare che fra gli opposti (il bene e il male, lo spi­rito e il corpo, lo sviluppo e la crisi, ecc.) c’è reciprocità e non vittoria assoluta di uno di essi. La vittoria assoluta di una sola componente della vita (è ciò che i militanti dell’antagonismo ardentemente desiderano) oscurerebbe l’orizzonte, solo un pluralismo dei punti di vista permette di crescere collettivamente e di far maturare un’articolata appartenenza al medesimo mondo.

Certo è difficile, nell’attuale contrapporsi di accesi antagonisti, richiamare questa culturale esigenza di capire le correlazioni fra gli opposti e lavorarci in termini trasversali, di interpretazione, di connessione, di mediazione (sottraiamo questa parola alla damnatio memoriae di pavida furbizia democristiana). Fare oggi politica utile a tutti è mestiere da tessitore, di chi lavora sul rovescio della stoffa, tirandone via via i fili e capendone via via il senso. Ed è un mestiere di silenzi, non di proclami guerreschi. Non è quindi bene perdersi in richiami morali, basta un più sommesso richiamo a pensare; e a pensare in modo corretto, questa è la vera tregua.

Capire cioè quale sia la trama di lungo periodo della nostra evoluzione sociopolitica e quanto tempo e silenzio siano necessari, senza troppi alterchi di scena.

Giuseppe De Rita

13 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 22, 2011, 05:46:19 pm »

LE COLPE CHE I VECCHI NON HANNO

Un malinteso giovanilismo


Nelle ultime settimane si è accentuata la già alta e preoccupata attenzione sul futuro dei nostri giovani, anche con un inizio di istruttoria di colpevolezza. Così sono stati additati via via come colpevoli i vecchi che non lasciano il campo; i quaranta-cinquantenni che non hanno saputo gestire lo sviluppo attuale e futuro; le famiglie che, fra calore materno ed ausilio nonnesco, non rendono autonomi i loro figli e nipoti; la sovrastante offerta di beni e servizi che rende i giovani incapaci di desiderare alcunché; la stessa società, che non riesce a dar senso collettivo alle vite individuali; ed anche gli stessi giovani, poco propensi a rischiare avventure e responsabilità personalizzate.

Tanti colpevoli, nessun vero colpevole, verrebbe da dire. È utile invece un esame di coscienza che eviti il rimpallo circolare delle responsabilità e dei vittimismi e metta a fuoco quali meccanismi e processi culturali e sociali ognuna delle categorie citate mette in campo.

Cominciamo dai vecchi, la categoria che ha trascorso tutta la vita in questa società e che quindi più profondamente la conosce e ne interpreta i movimenti. Le accuse sono note: diffondono un’immagine quasi visiva dell’invecchiamento; esprimono con evidenza la rinuncia a progettare il futuro; espandono crescenti macchie di egoismo individuale e di gruppo; instillano germi di scetticismo e di cinismo; si rintanano in finora inusuali modi del vivere quotidiano (la residenza in piccoli borghi tranquilli o la breve passeggiatina con la badante). Vecchi e produttori del vecchio? In verità, se penso ai tanti amici coetanei che ancora lavorano oltre i 70 anni avverto in essi la determinazione a far sì che il loro vissuto possa avere un senso nel futuro di altri. C’è il vecchio monaco che continua a piantare filari di tigli perché chi seguirà possa goderne l’ombra e l’odore (metafora di più profondi filari di fede e di speranza); c’è il vecchio direttore di giornale che continua a credere in un messaggio patriottico anche rudimentale; c’è il vecchio presidente di grande banca che continua a riproporre il nesso fra etica, responsabilità, efficienza aziendale; ci sono la vecchia attrice e il vecchio attore (in questo periodo a Roma) che continuano a proporre una ironia ed una comicità lontane dalla guazza parolacciara oggi di moda; c’è il vecchio dirigente Rai che continua a trasmettere cultura contadina; c’è il vecchio giornalista televisivo che scrive un libro su Casanova (e ne discute con un vecchio regista) per dimostrare che il libertinismo è cosa più seria di quanto voglia far oggi credere uno scadente giornalismo gossip; c’è il vecchio ricercatore sociale che continua a proporre alla nostra società momenti ed occasioni di autocoscienza collettiva; c’è anche il presidente della Repubblica che continua a delineare e proporre gli assi di giusta progressione del sistema.

In tante decisive componenti della nostra vita associata, i vecchi allora funzionano. E non in termini di puro potere mandarino. Chi abbia infatti decifrato i personaggi sopra anonimamente citati avrà colto che in essi ci sono alcune componenti comuni, di profondo significato per i giovani che «si affacciano alla vita»: una componente di vocazione (hanno emotivamente scelto il proprio campo di impegno); una componente di fedeltà all’oggetto (hanno fatto solo un lavoro, senza troppo saltabeccare); una componente di tenacia, quasi di testardaggine nell’andare sempre nella stessa direzione; una componente di serena continuità («continuano » è il termine volutamente sopra ripetuto).

Si ricordino i giovani che senza queste quattro componenti non si fanno passi in avanti: nella classe dirigente, nel lavoro manuale, nella stessa uscita dal precariato e dall’incertezza. Ma i vecchi non hanno avuto solo virtù, ma anche fortuna, multipla e sfacciata; visto che sono riusciti a scampare a tutta la retorica del nuovo e della discontinuità che ha imperato per anni in Italia; non hanno dovuto partecipare a competizioni elettorali e meno ancora alle cosiddette primarie; non hanno perso tempo nei meccanismi di rilevazione e valutazione «del merito» scolastico e universitario (anche nelle lotterie dei concorsi); non sono stati parte (attiva o passiva) del demenziale spoil-system che ha distrutto ogni processo di continuativa evoluzione della macchina pubblica; non hanno ceduto alla tentazione di farsi rottamatori; non hanno per affermarsi dovuto o voluto partecipare a qualsivoglia talk show televisivo. Hanno respirato libertà rispetto alla cultura regnante del periodo. In conclusione la categoria non sembra aver colpe gravi verso le giovani generazioni; ma avendo nel tempo constatato quanto male abbiano fatto le malintese e «moderne» opzioni di nuovismo, discontinuità e giovanilismo, ai vecchi va il rimprovero e forse la condanna di non averle contrastate.

Giuseppe De Rita

22 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_22/de-rita-malinteso-giovanilismo-editoriale_c7fc9948-25ed-11e0-8bad-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Novembre 22, 2011, 12:39:40 pm »

BILANCI
 
La borghesia è arrivata al capolinea
 
Occupazione del potere, evasione fiscale, egoismi: così abbiamo perso il senso dello Stato
 
Giuseppe De Rita e Antonio Galdo


L’ECLISSI DELLA BORGHESIA

Quando si è spenta la luce? In quale momento l'Italia «ha perso la bussola» e si è ritrovata senza guida, sprofondata in una crisi che è economica, politica e morale nello stesso tempo? È un lungo processo in cui si mescolano la grande storia e la piccola cronaca, le figure migliori del passato e gli avventurieri, i rubagalline del presente. Ma è una vicenda che si può sintetizzare con un titolo, L'eclissi della borghesia, e raccontare in un pamphlet di 90 pagine (oggi in libreria da Laterza). Il sociologo Giuseppe De Rita, presidente del Censis, e il giornalista Antonio Galdo ripartono dall'«anomalia italiana» messa a fuoco nell'Intervista sulla borghesia in Italia (Laterza, 1996). Vale a dire: «l'esplosione del ceto medio e il vuoto della borghesia».

Come da tradizione Censis, De Rita (e Galdo) prendono le mosse da un glossario che di per sé è già un ragionamento. La «borghesia» qui non ha più niente a che vedere con la definizione marxiana. Non stiamo parlando dei «padroni dei mezzi di produzione», e il «conflitto di classe» con il proletariato (o chi per esso) vive solo «nella percezione di un terzo degli italiani». «Borghesia», invece, è sinonimo di «classe dirigente», di élite intellettuale, illuminata e, soprattutto, illuminante. Su un altro piano si colloca il concetto di «ceto medio», inteso come massa anonima e indifferenziata, animata solo da «pulsioni individuali», istinti legittimi di miglioramento del proprio conto economico che possono però degenerare nella corsa sregolata al guadagno e all'arricchimento rapace. Borghesia e ceto medio non sono però figure sociali in conflitto. Anzi non sono neanche concorrenti. Semplicemente, e crucialmente, rappresentano due modi di essere, due destini contrapposti. La minoranza borghese, per definizione storica questa volta, emerge fin dal Risorgimento come la guida politica del Paese. Uomini (notabili di varia estrazione) che, per dirla con il filosofo John Rawls, prendevano decisioni semplicemente ignari dei propri interessi particolari, avendo in mente solo quelli generali. In questo caso, quelli della Patria, della Nazione.
  
L'egemonia borghese perde peso, ma non viene azzerata nell'epoca del fascismo. Casomai si rifugia nei pochi spazi lasciati liberi dalla pervasività del regime. Nell'Iri guidato da Alberto Beneduce, per esempio. E anche nel dopoguerra una squadra di «gran borghesi» (il soprannome di Bruno Visentini) è al lavoro per reinventare un Paese scassato e con un reddito pro capite su standard africani: Raffaele Mattioli, Pasquale Saraceno, Adolfo Tino, Ezio Vanoni e, in politica, Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti. Ecco, l'album di famiglia della «borghesia», nell'accezione di De Rita e Galdo, finisce praticamente qui, alle soglie del miracolo economico degli anni Sessanta. Perché da quel momento in poi, dagli atri muscosi e dai fori cadenti, l'eterno «volgo disperso» manzoniano, rintronato dal fascismo e dalla guerra, si rianima, ma questa volta per tuffarsi nella tumultuosa esplosione dei consumi, sospinto dal Nord industriale, accudito dalla generosità dello Stato sociale, protetto e rappresentato dai due grandi partiti di massa, la Dc e il Pci.
 
Il ceto medio diventa l'ipertrofico centro della società e della politica italiana. Un riferimento storico su cui ci si potrebbe certo fermare a discutere, ma che invece vale la pena di prendere per buono perché spiega il passaggio all'iperbole «dell'io» con Silvio Berlusconi e «il berlusconismo». Le qualità borghesi della «mitezza» (nel significato politicamente virtuoso spiegato da Norberto Bobbio), della visione corale, del pensiero costantemente rivolto al futuro sono spazzate via, o meglio, per l'appunto, «eclissate» dall'arroganza amorale, dall'egoismo, dal «presentismo». Segue un profluvio di dati e statistiche affilate. C'è «l'amoralità quotidiana» dell'evasione fiscale che riguarda «il
 
38% delle imposte» al netto delle fonti di gettito non aggirabili (lavoro dipendente, pensioni eccetera). C'è il «presentismo» della politica, che non significa solo governare pensando a se stessi (le leggi ad personam di Berlusconi), ma anche perpetuare l'occupazione dello sgabello più periferico o laterale: «su 8 mila sindaci sono solo 70 quelli con meno di 30 anni e 500 quelli con meno di 35». Ora «il mondo è dei furbi». «Sfumano il senso del peccato e del reato: l'85% degli italiani, con un picco fino al 91% nelle grandi città, ritiene che la coscienza debba essere l'unico arbitro dei propri comportamenti e che (67,6%) le regole non debbano soffocare la realtà personale».

Messa così è difficile immaginare la fine «dell'eclissi». Senonché anche «il lungo ciclo della soggettività, del quale Berlusconi e il berlusconismo sono stati i più abili rappresentanti sul piano politico», sembra ormai esaurirsi.

La storia offre un'occasione di rientro alla borghesia. Un ritorno alla leadership, per sostituire nel discorso pubblico « l'io con il noi ». E allora, per capire se ciò è possibile e praticabile, occorre scrutare i segnali sia «in basso» che «in alto», auscultare gli organi vitali della società. De Rita e Galdo citano il volontariato, come «la risorsa forse più significativa per dare slancio e vitalità a una classe dirigente di respiro nazionale». E richiamano il modello della «Big Society» teorizzato dal premier conservatore del Regno Unito, David Cameron: una struttura piramidale che lascia spazio alle iniziative di welfare e di manutenzione organizzate dalle comunità dei cittadini, assegnando allo Stato e alla mano pubblica il compito di intervenire su scala più ampia. In fondo, si può osservare, è una variante del concetto di «sussidiarietà» da anni al centro del dibattito politico europeo, incorporato nel Trattato di Lisbona (la nuova Costituzione europea del 2007).

A 15 anni da «Intervista sulla borghesia in Italia» (a destra), Giuseppe De Rita e Antonio Galdo firmano il saggio «L’eclissi della borghesia» (Laterza), da oggi in libreria
 
La borghesia, forse, può ripartire da qui. Magari con reti più ampie rispetto al passato, coinvolgendo e convertendo in moneta politica l'impegno spontaneo (e disinteressato) di fasce sempre più larghe di cittadini. Da questo punto di vista De Rita e Galdo avrebbero anche potuto analizzare «il laboratorio Milano», visto all'opera con la campagna elettorale di Giuliano Pisapia. Al di là delle posizioni politiche è indubbio che nella città che è stata prima la casa della «borghesia» economica e poi della «soggettività amorale», sia tornato un po' di quell'«ardore» raccontato da Roberto Calasso, con riferimento alla civiltà vedica e di cui, scrivono De Rita e Galdo, «avremmo bisogno per uscire dalla palude e dall'immobilismo».
 
Giuseppe Sarcina

20 ottobre 2011 15:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cultura/libri/11_ottobre_20/de-rita-galdo-eclissi-borghesia_93e6573a-fb1b-11e0-b6b2-0c72eeeb0c77.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 03, 2011, 05:44:48 pm »

RAPPORTO CENSIS

De Rita: "La finanza non basta all'Italia serve crescita e politica"

Ognuno per sé e Francoforte per tutti non funziona, osserva il sociologo.

L'Italia deve riprendere le redini dell'economia, far emergere le istanze sociali e dar loro una risposta, pensare in un'ottica di medio-lungo periodo, superando la logica delle manovre d'emergenza.

Stoccata a Berlusconi: abbiamo archiviato il nostro piccolo Peron

di ROSARIA AMATO

ROMA - Tornare al nostro scheletro contadino è un'indicazione che può apparire in controtendenza nell'epoca degli spread che salgono, o del credit crunch che soffoca le famiglie e l'economia. Ma è l'indicazione che emerge dal 45° Rapporto Censis 1, e il presidente Giuseppe De Rita la difende a spada tratta, perché "siamo ancora una realtà in cui vige il primato dell'economia reale, nonostante l'attuale trionfo dell'economia finanziaria".

FOCUS Per immigrati Italia è ancora il Belpaese 2

"La salvezza di questa nazione - afferma De Rita - sta nel tenere dritta la barra, nel capire cosa siamo e come possiamo andare avanti. Ognuno per sé e Francoforte per tutti non funziona". Il rischio è infatti di lasciare "la realtà sociale", gli italiani, con i loro disagi, i loro problemi, abbandonati a se stessi, con una enorme e giustificata paura della macelleria sociale.

IL RAPPORTO I GIOVANI E INTERNET 3 (su http://www.repubblica.it/economia/2011/12/02/news/de_rita-25952274/?ref=HRER2-1)

Se questo disagio non viene governato, se la politica non torna alla sua funzione di rappresentanza delle esigenze della società, dei cittadini, il conflitto potrebbe esplodere. E a dirimerlo non ci saranno le istituzioni europee, o quelle finanziarie: "Non esiste un programma europeo di sviluppo e di crescita dell'Italia. Dobbiamo occuparcene noi".

Le istituzioni europee, e le istituzioni finanziarie, infatti, è il mantra di questo Rapporto del Censis, non hanno gli strumenti per risolvere i nostri problemi, né intendono farsene carico: "Francoforte per tutti non funziona, anche perché significa la finanza sopra tutto, ed è immorale dire che con la finanza si fa sviluppo, o si fa innovazione".

Adesso che abbiamo archiviato il "nostro peroncino", si lascia sfuggire De Rita, l'Italia deve pensare a un serio programma di sviluppo, che prescinde dal fatto che si rimanga o si esca fuori dall'euro. E questo sviluppo deve essere imperniato su cinque punti fondamentali: valorizzazione dell'economia reale, programmi di media-lunga durata che ci facciano uscire dalla logica perenne dell'emergenza, scandita da "manovre" sempre più ravvicinate, la gestione dei conflitti, il primato della rappresentanza, recupero della nostra dimensione sociale.


Economia reale.
"Sono anni che questo Paese non ragiona sull'economia reale - tuona De Rita - non conosciamo la filiera organizzativa del turismo, le opportunità d'investimento in agricoltura. Non si conosce la struttura interna del sistema. Eppure siamo un Paese con un'economia reale tutto sommato altamente dignitosa (per esempio ieri i giornali parlavano di un incremento delle vendite del 20% nel lusso), ma non ne sappiamo ancora nulla".

La lunga durata.
"Ci siamo resi ridicoli di fronte al mondo a fare tre manovre nel giro di pochi mesi. Manovre spesso bacate, di rinvio, di furbizia suprema. Il tempo si è accorciato sul mese, tutti a dire che bisogna approvare in fratta, anche i presidenti delle camere e della Repubblica, e poi? Questa specie di rapidizzazione degli eventi pubblici in materia di economia non ha senso", rileva De Rita. Occorre invece "una visione di medio-lungo periodo, altrimenti noi viviamo galleggiando sul nulla".

Conflitto potenziale.
In Italia ci sono molti conflitti, abbandonati però a se stessi. "Sembra coglierli, in maniera rozza, solo la Lega. Oppure i precari indignati". Eppure i conflitti, ricorda De Rita, sono vitali: "Senza conflitto questa è una società cetomedista che si siede su se stessa. Dobbiamo capire la dimensione conflittuale di questo Paese, e farla venire fuori, e non ce la caviamo con un ministro della Coesione Sociale".

Ridare valore alla rappresentanza.
E' fondamentale ridare valore alla rappresentanza: "Il vero problema italiano - dice De Rita - è che è morta la rappresentanza, non tanto sociale, ma politica. E' morto il Parlamento, è morto il partito, il consiglio regionale: è morto il modo in cui le istanze dei cittadini arrivavano alla dimensione politica. Se muore questo, muore la politica, e non può essere sostituita dal popolo arancione o dal popolo viola in piazza". Senza una politica di rappresentanza, conclude amaramente De Rita, rimane solo "l'ansia dei nostri governanti perché tra qualche giorno c'è l'esamino a Bruxelles".


(02 dicembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/12/02/news/de_rita-25952274/?ref=HRER2-1
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 23, 2012, 09:18:44 am »

MUTAMENTI SOTTO TRACCIA

Politica spenta e terza élite

Fra aggiustamenti di convenienza e borbottii malmostosi, le prime settimane di lavoro del «governo dei tecnici» non hanno visto emergere una pacata riflessione sulle ragioni e sugli esiti dell'affidamento a una stretta cerchia elitaria del fronteggiamento della grave crisi che stiamo attraversando.

Forse non è inutile, avviando tale riflessione, rammentare che questa è la terza volta che nella storia repubblicana la dimensione tecnica assume potere e primato sociopolitico. La prima volta fu nell'immediato dopoguerra quando alcuni «tecnici» cresciuti all'ombra di Beneduce (i Menichella, i Saraceno, i Mattioli, i Cuccia) disegnarono sotto traccia significativi programmi di rilancio dell'industria, di liberalizzazione degli scambi internazionali, di sviluppo del Mezzogiorno. Non governarono direttamente perché la politica era allora ben forte e radicata; e perché furono così intelligenti da non sovrapporre la loro cultura e il loro potere ai partiti, che si sentirono così protagonisti della ricostruzione prima e del boom economico poi.

La seconda apparizione della dimensione tecnica nel governo del Paese avvenne nella tanto ricordata crisi del '92-95 sotto la guida di protagonisti decisamente elitari (Amato e Ciampi, e poi Dini) che riuscirono a mettere al governo personaggi altrettanto elitari, da Savona a Maccanico a Guarino a Baratta, solo per fare gli esempi che tornano più facilmente alla memoria. Erano diversi dai «beneduciani» del dopoguerra, ma furono altrettanto decisi nell'affrontare le enormi difficoltà di quel periodo; ed altrettanto discreti (con la raffinatezza un po' occulta dei normalisti pisani) rispetto alla dialettica politica. Ma specialmente essi si qualificarono giuocando la loro forza e il loro prestigio nel perseguire un disegno di futuro: far crescere il processo di unificazione europea (parametri di Maastricht e moneta unica compresi). Nessuno di loro però si rese conto che quel processo andava gestito sia nel governo dell'Europa, per ovviare al vuoto spinto degli organismi comunitari, sia nella gestione delle cose italiane per contrastare il vuoto altrettanto spinto della cosiddetta Seconda Repubblica e del berlusconismo.

È dal contemporaneo non-governo delle vicende europee e delle vicende italiane che nasce la crisi che attraversiamo da qualche mese, crisi che è insieme europea e italiana, quale che siano le reciproche attribuzioni di colpa. L'Europa è fragilissima e l'Italia è sempre più eterodiretta; ed allora ritorna alla ribalta la dimensione tecnica, con una terza stagione elitaria. La compagine è più eterogenea delle due precedenti (l'aggettivazione «bocconiana» le sta stretta visto il peso di alcuni leader cattolici e di alcuni alti burocrati); ma il mandato è praticamente lo stesso: fronteggiare un potenziale disastro («salva Italia») e impostare un possibile futuro («cresci Italia»).

Tale coincidenza, però, non permette di fare previsioni sul destino dell'attuale «terza élite». È possibile pensare che i suoi protagonisti, come fecero i «beneduciani», possano tornare nei riservati luoghi di potere da cui erano usciti; oppure che essi, come i protagonisti della seconda élite, vadano a presidiare luoghi di istituzionale prestigio; oppure che si trapiantino in qualcuna delle forze politiche e parlamentari oggi in via di ridisegno; o che diventino essi stessi, in forme oggi non prevedibili, una componente politica autonoma e competitiva.

Ognuna di queste ipotesi è verosimile, ma la loro attualizzazione dipende da due condizioni fondamentali: la consistenza dello spazio che i protagonisti politici concederanno alla terza élite; e la capacità di essa di restare una entità unitaria. Per la prima condizione, se da un lato si può constatare una dinamica delle forze partitiche molto più povera che sessanta o venti anni fa e quindi la possibilità che si possa creare uno spazio vuoto invitante e tentatore per chi nella terza élite voglia far politica; dall'altro lato è certo che un giorno o l'altro si ritroveranno in campo l'istinto e la voglia di sopravvivenza di una classe politica che può accettare una supplenza temporanea ma non una sostituzione di lungo periodo.

I prossimi mesi ci daranno qualche risposta, anche per la seconda condizione, quella relativa alle strategie della attuale compagine di governo, che è forte nella sua immagine di vertice (in termini di serietà, competenza, ironia, determinazione) ma potrebbe esprimere due debolezze sostanziali: la prima, e più profonda, sta nel fatto che essa non ha per ora espresso un traguardo futuro preciso nei contenuti e coinvolgente per l'emozione collettiva («cresci Italia» è più labile del mito dello sviluppo degli anni 50 e della utopia europea degli anni 90); e l'altra debolezza sta nel carattere composito dell'élite attuale, nella quale a medio termine ci saranno ambizioni diversificate (fare un partito, magari cattolico; sviluppare grande leadership europea; consolidare un ruolo politico nazionale; restare come mitici salvatori della patria; ed altro ancora) e quindi diversificate strategie individuali o di piccolo gruppo. Anche per la terza élite come per tutti noi, il futuro non presenta scelte e vie facili, ma essa non ha la possibilità di sottrarsi ad esse; ne va la sua stessa legittimazione di élite.

Giuseppe De Rita

23 gennaio 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

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