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Autore Discussione: Giuseppe DE RITA  (Letto 19580 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 11, 2012, 10:15:26 am »

LE PREOCCUPAZIONI DEI TERRITORI

L'altro fronte dell'economia

Se si rilegge con calma il puntuto contrasto tra il presidente del Consiglio e quello di Confindustria, con i relativi immediati commenti (in particolare quello di Dario Di Vico sul Corriere di ieri) si capisce che siamo in presenza di un ritorno sulla ribalta di un nostro antico e irrisolto problema: la contrapposizione fra dimensione verticale e dimensione orizzontale della dinamica economica e sociopolitica.

Monti è oggi l'interprete più accreditato della spinta verticale, forte del suo rapporto di vertice con i vertici della finanza internazionale e delle istituzioni europee; è propenso in Italia a concentrare il potere in poche sedi a forte tecnicalità (Banca d'Italia, Consip, Cassa depositi e prestiti, Inps). Resta fuori dalla sua sensibilità la dimensione orizzontale del nostro sviluppo garantita dalla molteplicità dei soggetti operanti sul territorio (Comuni, Province, Comunità montane, aziende sanitarie nell'immenso campo della piccola e piccolissima impresa e del lavoro autonomo). Avrà le sue buone ragioni dovendo trattare con strutture che aspettano rigore e ancora rigore, e che pensano che i piccoli soggetti vivano di ingovernabile vizioso corporativismo; è altrettanto ragionevole rendersi conto che la verticalizzazione decisionale rende desertico il panorama della nostra attuale società destinata ad avere sul territorio sempre meno Comuni, meno Province, meno uffici postali, meno stazioni dei carabinieri, forse meno imprese. E il deserto, come si sa, tende sempre a crescere se non ci sono adeguati presidi di vita.

Di questo pericolo non sembrano consapevoli le forze politiche, tutte prese dalla dinamica del potere centrale e sempre più incapaci anche loro di rappresentare la dimensione orizzontale diffusa degli interessi dei territori delle imprese. Mentre invece ne sono ben consapevoli varie strutture di rappresentanza, dai sindacati e organizzazioni delle autonomie locali ai difensori delle piccole imprese riunite in Rete Imprese Italia. Se la stessa Confindustria, la struttura più decisa a far presenza politica di vertice, ha lanciato l'allarme significa che il pericolo della desertificazione orizzontale del sistema esiste ed è grave.

Sarebbe stato bene, invece di drammatizzare sulla «macelleria sociale», sottolineare tale pericolo con più prudenza e misura, come hanno fatto altri (Rete Imprese Italia e Anci) più radicati sul territorio e sulla dinamica reale dei tanti soggetti orizzontali che non possono peraltro essere accusati di essere portatori di potere forti, ma solo portatori di uno sviluppo che è stato sempre di quantitativa ricchezza di soggetti e di qualitativa ricchezza di vitalità soggettiva. Dimenticare tale evidenza per ascendere ad uno sviluppo di pochi gestito da pochissimi significherebbe lasciare scoperto un fronte interno che sarà pure secondario rispetto ai «pericoli dello spread», ma che a lungo andare diventa decisivo per la nostra buona reputazione internazionale. Questa certo è fatta dal rigore su cui il governo si sta muovendo. Tuttavia, è fatta anche dal dimostrare al mondo che il sistema non è un deserto che cresce, con dentro qualche ritrovato monumento tecnocratico, ma è un mondo originariamente vitale anche senza verticalizzate liberalizzazioni o semplificazioni.

Dobbiamo solo imparare a governarla, l'antica vitale orizzontalità italiana, il nostro grande fronte interno, il governo dei tecnici potrebbe fare qualche utile passo in avanti anche se resta tutto l'onore da concedere a chi combatte sul fronte esterno.

Giuseppe De Rita

10 luglio 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_10/altro-fronte-economia-derita_e39b8d30-ca4c-11e1-bea1-faca1801aa9d.shtml
« Ultima modifica: Agosto 20, 2012, 09:47:31 am da Admin » Registrato
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« Risposta #16 inserito:: Luglio 27, 2012, 04:37:24 pm »

UNA NAZIONE E LA CRISI: NON SOLO DIFETTI

Un po’ di flemma, siamo italiani


La finanza internazionale ci opprime, con lo spettro dello spread. L’Unione Europea ci impoverisce, con lo spettro di un teutonico rigore.
E ce lo mandano regolarmente a dire, per il tramite dei nostri governanti di turno, nei cui messaggi ritroviamo le ormai classiche frasi «ce lo chiedono i mercati» e «ce l’impone l’Europa».

E come reagiscono gli italiani, oppressi da tali scoraggianti attenzioni? Certo si avvertono sintomi di insicurezza e al limite di paura in quel tam-tam orale che è dominante nella nostra comunicazione collettiva. Ma nel fondo non si sfugge all’impressione che gli italiani, come sempre di fronte ad un dramma annunciato, stiano reagendo con un atteggiamento che è un mix di flemma ben visibile e d’orgoglio ben nascosto.

La flemma ci viene da antiche propensioni: alla sdrammatizzazione dei toni; all’adattamento come scelta strategica; alla permanenza di uno scheletro contadino che sa come vivere le avversità; ed anche al fatalistico «non fasciarsi la testa prima di cadere ». Ma è anche una flemma che riposa sul fatto che dal ’45 in poi questo sistema ha superato prove di enorme gravità; ha sempre mostrato una eccezionale tenuta sia alle crisi interne sia a quelle esterne; ha coltivato il primato dell’economia reale nei comportamenti dei suoi tanti soggetti di sviluppo; ha potuto contare per decenni su una grande coesione (nella dinamica fra gruppi e classi sociali, nei territori, nel micro delle relazioni umane).
E si capisce allora come la relativa sdrammatizzazione dell’attuale crisi non sia un eterno ritorno della rimozione da scetticismo, ma sia piuttosto un silenzioso orgoglio di non esser poi così male in arnese come altri amano descriverci.

Ma sta proprio qui il pericolo: cioè che agli altri europei la nostra flemmatica solidità non piaccia. I mercati e chi li manovra preferiscono l’immagine di noi italiani fatta da fannulloni, evasori fiscali, scialacquatori del pubblico denaro; immagine che piace tanto alla comunicazione di massa (anche nostra) ed alle cancellerie europee (anche alla nostra, qualche volta). Ed è forse per questo (è ipotesi avventata ma non inverosimile) che essi preferiscono il dramma alla continuità, il default all’adattamento continuato, il «sangue subito» alla tenuta nel tempo lungo.

Condizionati da tali preferenze ci auto-imponiamo costrizioni sempre più urgenti ma non sempre lucidamente motivate, non ultima quella che circola in questi giorni sull’anticipo delle elezioni al fine di «stabilizzare il quadro politico ». Così rischiamo di diventare sempre meno sovrani nella dinamica politica ma anche nella gestione della nostra immagine collettiva. Forse è allora tempo di contrattaccare sulle tre citate contrapposizioni di opinione: sarebbe cioè giusto sostenere la superiorità della tenuta di lungo periodo sul «sangue subito »; della capacità di adattamento continuato sull’angoscia da default; della continuità e coesione negli impegni collettivi sulla continua drammatizzazione delle cose. Avanzando l’ipotesi che è su queste implicite scelte di vita che vorremmo essere giudicati, senza paura di qualche sorrisetto beffardo dei fautori del «sangue subito».

L’autore compie oggi 80 anni: auguri.

Giuseppe De Rita

27 luglio 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_27/un-po-di-flemma-siamo-italiani-giuseppe-de-rita_9f4d787e-d7ac-11e1-8002-9a53ae83214f.shtml
« Ultima modifica: Agosto 20, 2012, 09:44:26 am da Admin » Registrato
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« Risposta #17 inserito:: Agosto 20, 2012, 09:45:02 am »

I TERRITORI SENZA RAPPRESENTANZA

Il deserto dei leader

Forse per un indelebile riflesso di memoria il ruolo attivo di Mario Monti negli ultimi vertici europei mi ha fatto tornare in mente la strategia usata negli anni 50 e 60 dai nostri migliori politici meridionali: la strategia di «espatriare per contare», darsi cioè da fare sul potere romano per orientarne le decisioni di intervento, in modo da crescere di prestigio nella propria realtà locale.

Era gente che capiva che il potere (specialmente finanziario) stava a livello centrale; che lo si poteva influenzare acquisendo relazioni (e relativi linguaggi) con le poche decine di persone che lo gestivano; e che ottenendone i benefici si poteva tornare nella propria realtà locale e «contare», in immagine e voti. I grandi politici meridionali hanno fatto così, per tutta la Prima Repubblica e non gli è andata male, anche per i loro territori.

Con tutte le differenze del caso, specialmente di cultura e di stile, il nostro premier ha adottato la stessa strategia. È andato a collocarsi dove si prendevano le decisioni; ha saputo utilizzare i contatti, le relazioni, i linguaggi dei relativi circuiti di potere; ha lavorato apparentemente fuori casa ma nei fatti nell'ambiente con cui aveva più dimestichezza; ha ottenuto buoni risultati. Ed è tornato senza esibizionismi da vincitore ma con l'aura della indispensabilità; perché è chiaro a tutti che «solo lui sa come muoversi a livello internazionale». Certo non c'è italiano che non voglia tenersi stretto un così alto presidio nel circuito dei poteri internazionali.

Ma l'esperienza decennale del Mezzogiorno ci deve far riflettere sul pericolo che si possa alla fine arrivare a un impoverimento locale della cultura collettiva, della dialettica politica, della classe dirigente. I grandi della mediazione con Roma non ci sono più e al loro posto c'è il deserto della politica: nessun confronto, nessuna proposta, nessun programma; solo lotte di potere, quasi sempre rozzamente personalizzate. Nessuno conta più, in loco; e nessuno ha più la statura culturale e politica per espatriare.

C'è da temere che anche in Italia nell'auspicabilmente lontano «dopo-Monti», possa crescere un analogo deserto. Le forze politiche non ci pensano proprio a ristabilire un confronto politico e programmatico di medio periodo, sembrano sterilizzate e labili come le realtà locali del Sud. E anche le parti sociali soffrono di questa assenza della politica, oscillando fra un realistico accomodamento e una rabbiosa denuncia della mancanza di decisioni.

Si prospetta allora per i prossimi anni un periodo difficile, perché di fatto ambivalente: presidiare il fronte esterno potrebbe non bastare. Occorre «armare» (anche in termini di emozioni collettive) il fronte interno, mettendo in campo nuova vitalità di idee e di classe dirigente, nel mondo sia socioeconomico che politico. È l'unica possibilità, forse necessità, se vogliamo sfuggire a un destino di eterodirezione, sia pure abilmente contrattato.

Giuseppe De Rita

19 agosto 2012 | 16:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_19/de-rita-deserto-leader_e88d64d0-e9c3-11e1-aca7-3ef3e0bba9b5.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 25, 2013, 07:19:46 pm »

Il presidente del Censis: il disagio non È solo nel grillismo

«Precari, aziende chiuse, economia Ecco i problemi, il resto è tattica»

De Rita: «Il mio nome per il Colle? Questione politica, io non c'entro. Ho incontrato Bersani: mi auguro che ce la faccia»


ROMA - Ore 12.30 di ieri, Montecitorio. Bersani riceve (consulta) Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis, uno dei più autorevoli sociologi italiani.

Cosa ha detto al premier incaricato, presidente De Rita?
«Discorsi generali. Bersani è un amico, da vent'anni».

Avete parlato del «doppio binario»? La possibilità di fare un governo con una maggioranza e una Bicamerale per le riforme con una maggioranza più larga?
«Questa sarebbe un'operazione politica, non è il mio terreno...».

Come ha trovato il suo amico Bersani?
«Non faccio lo psicoterapeuta. Ho trovato Bersani com'è lui, momenti di durezza e momenti di allegria».

Presidente De Rita, perché siamo finiti in questa situazione complicata, confusa?
«La società italiana è cresciuta per cinquant'anni, grazie alla voglia d'impresa, al desiderio di libertà. C'è stata una corsa individuale di 50 milioni di persone. Incapaci però di ragionare tutti assieme».

Ognuno per proprio conto.
«Esatto, noi lo chiamammo ciclo molecolare, società mucillagine».

Poi cosa è successo?
«Da dieci anni questa spinta ha perso vigore. Ricchezza troppo facile, stanchezza. La molecolarità ha esaurito i suoi aspetti positivi. Frammentazione e disunione sono sfociate nel populismo».

Che dovremmo fare?
«Grillo parla un linguaggio per tutti, pieno di parolacce. Si muove nell'orizzontalità, nella Rete in cui tutti sono uguali. Ma questo funziona solo se stai all'opposizione. L'Italia oggi avrebbe bisogno, invece, di verticalità».

Verticalità?
«Per esempio, si chiede un ritorno dello Stato. Uno Stato che operi interventi economici e politici, anche nei confronti dei "pericoli" che vengono da Bruxelles. E c'è bisogno di un ritorno dei padri, come ha scritto Eugenio Scalfari. Lo dimostra la passione per il nuovo Papa. O il rispetto per Napolitano».

Qualcuno che parli dall'alto di un prestigio.
«Proprio così. Grillo non è un padre, al massimo un capopopolo. E poca paternalità hanno dimostrato Prodi, Berlusconi, Monti».
Grillo e il suo Movimento entreranno nel sistema politico ?
«Un giorno, se dovessero arrivare al 60 per cento, un discorso verticale dovranno pur farlo, affrontando questioni come gli accordi, la linea politica, l'Europa. Ma governare è difficile».

Avrebbe senso un «governo di scopo» per cancellare il bicameralismo perfetto, ridurre i parlamentari, fare la riforma elettorale?
«Ma questi sono solo argomenti-tampone! Da due anni si fanno campagne elettorali sull'immagine delle istituzioni, il malaffare, la trasparenza, la pulizia. Ma il disagio del Paese non è rappresentato soltanto dal grillismo».

Qual è il problema di fondo?
«Il lavoro precario, le imprese che chiudono, questioni socio-economiche».

Come si inserisce la successione al Quirinale nelle trattative per il nuovo governo?
«La carica di presidente della Repubblica è ambita, perseguita. La tentazione di eleggere un uomo della propria parte, se si hanno i voti sufficienti, è forte e anche legittima, all'interno dei calcoli del potere. È la tentazione di avere per sette anni qualcuno che copra le spalle alla tua parte politica».

Berlusconi ha inserito il Quirinale nella partita per il governo.
«Fa il suo mestiere. Come farebbe il suo mestiere Bersani se dicesse: ho i voti per eleggere il successore di Napolitano, lo faccio».

Hanno inserito anche lei fra i candidati al Colle.
«Mi dà molto fastidio quando vedo la mia foto fra quelle dei "papabili". Quel posto è una questione di potere, non c'entro».

E Monti? È ancora in gioco?
«Non lo so. So che avevo detto al ministro Riccardi: saltate un giro, preparate le elezioni fra cinque anni. Credo nella discesa in campo politico dei cattolici, ma non si poteva fare tutto e bene in venti giorni...».

Per il Pd sarebbe andata meglio con Matteo Renzi?
«Dico soltanto che le primarie sono un'illusione. Renzi partecipando ha accresciuto la sua influenza. Ma le primarie le vincono sempre gli apparati».

Si augura che Bersani formi il suo governo?
«Da amico, me lo auguro».

Andrea Garibaldi

25 marzo 2013 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/economia/13_marzo_25/garibaldi-precari-aziende-chiuse-economia_4b1f9842-9514-11e2-84c1-f94cc40dd56b.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Maggio 23, 2013, 05:18:21 pm »

UNA POLITICA PIATTA E VUOTA

Basso merito zero ambizioni


C'è stato un tempo felice in cui tutto il corpo sociale viveva di impulsi politici. Dalla fine della guerra fino al crollo della Prima Repubblica la vita di tutti era segnata dal primato della politica: dal primato delle grandi ideologie dell'epoca (comunismo, liberismo, corporativismo, dottrina cattolica); dal primato della dialettica fra i sistemi geopolitici (mondo occidentale, mondo arretrato, Paesi cosiddetti non allineati); dal primato anche quotidiano di scontri sociali e mobilitazioni di classe. Tutto era politica.
Ma, al di là della forte ruvidezza conflittuale di quegli anni, la politica non ci dispiaceva, perché ci trasmetteva un messaggio comune: crescete, andate avanti, salite la scala sociale, diventate altro da quello che siete. Ci spingevano a tale dinamica coloro che esaltavano le lotte operaie come coloro che coltivavano l'ampliamento del ceto medio; coloro che speravano nella potenza politica dei braccianti come coloro che trasformavano i braccianti in coltivatori diretti, cioè in piccoli imprenditori; coloro che spingevano per dare spazio a più ampie generazioni studentesche come coloro che coltivavano le alte professionalità industriali; coloro che predicavano il politeismo dei consumi come coloro che richiamavano alla sobrietà dei comportamenti. Gli obiettivi e i conflitti della politica erano tanti, ma l'anima era unica: «Crescete e salite i gradini della scala sociale». Ed era verosimilmente per questo incitamento alla mobilità che la politica piaceva.
Oggi è quasi disprezzata. I giornali sono pieni di possibili spiegazioni: la politica è estranea ai bisogni della gente; i politici fanno casta e se ne approfittano; sotto i partiti ci sono interessi inconfessabili; non c'è più una dinamica di rappresentanza democratica. Spiegazioni plausibili, ma è possibile che la cattiva fama della politica derivi dal fatto che essa non spinge più a crescere e salire, ma a far restare tutti ai gradini bassi in una filosofia di eguaglianza che si collega all'idea di una comune cittadinanza che rischia di diventare populismo, obbedendo alla logica di «invidia e livellamento» di cui lo stesso Marx aveva timore.
Guai a diventare «qualcuno», per la politica attuale. Dobbiamo restare cittadini a pari e basso merito, collocazione corroborata da giudizi morali tanto gridati quanto semplicistici. Non sorprende che i due terzi dei nostri giovani parlamentari siano «programmaticamente» cittadini a basso merito che si proclamano eticamente superiori. E se c'è «qualcuno» che vuole o tenta di essere protagonista, è rapidamente cecchinato. Il messaggio profondo della politica oggi sta proprio nel diffondere, anzi imporre, l'appiattimento al basso della cultura collettiva, della dinamica sociale. Ed è colpa ben più grave dei vizi di casta, perché inquina la chimica intima della società, ne riduce le dinamiche in avanti e le speranze.
Per questo bisognerà cominciare a difendersi dalla politica; diffidando di come oggi il suo primato sia diventato regressivo e non propulsivo. Forse il meglio è altrove, nella dinamica sociale, dove ancora vive un po' della voglia di crescere e salire che ci avevano dato i politici di prima, che tutto erano meno che dei semplici cittadini a basso merito.

Giuseppe De Rita

21 maggio 2013 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_21/politica-merito-ambizioni_cfd0cf56-c1cf-11e2-a4cd-35489c3421dc.shtml
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« Risposta #20 inserito:: Giugno 16, 2013, 09:02:33 am »

SEPARARE SOCIETÀ CIVILE E POLITICA

Un divorzio consensuale

Nel momento in cui la politica, puntellata da qualche comitato di saggi, cerca di risistemare i suoi assetti interni (di governo e di funzionamento istituzionale) sembra giunta anche l'ora di ripensare il rapporto fra politica e società civile, un rapporto sempre più stanco e inerte.
Non ho mai molto amato l'enfasi accumulata sul termine «società civile», anche se sono stato fra i primi ad apprezzare la propensione dei partiti ad immettere nelle proprie linee esponenti di rilievo dell'economia e della società. La cosa iniziò con gli «esterni» nella Dc demitiana e gli «indipendenti di sinistra» nel Partito comunista. Erano personaggi davvero notevoli (solo che si pensi ad Andreatta, Lipari, Scoppola, Ruffilli, Ossicini, Napoleoni, ecc.). Ed in brevissimo tempo la loro carica elitaria stabilì una implicita superiorità della società rispetto ad una politica tutto sommato banale, fatta da tanto mestiere e da tanta frequentazione del consenso popolare.
Quella «aura» di superiorità è rimasta impressa per decenni in un'opinione pubblica convinta che nella società civile ci fosse il meglio e nella politica ci fosse il peggio; e i partiti furono quindi spinti ad attrarre e cooptare quanta più società civile possibile, confrontandosi in permanenza con i suoi giudizi e i suoi orientamenti. Oggi le cose sono profondamente mutate: personaggi del livello citato non ce ne sono più; i cooptati dalla politica (anche quando vengono da mondi associativi con alta professionalità e forte senso politico) rischiano di non avere spazi di leadership, nell'immagine come nella funzione; il confronto culturale fra i due mondi è spesso ridotto a ibridi compromessi. Ed avviene, come sta avvenendo, che la politica tenda a prescindere dalla dinamica della società e dei suoi concreti protagonisti; preferisce i «saggi», più professorali e più freddamente funzionali alle proprie strategie.
La trentennale stagione della società civile «inverata» nella politica sembra giunta al termine. E non a caso in essa si affermano tendenze non alla collaborazione, ma alla contestazione della politica, quasi confinanti con l'antipolitica. In nome di una ormai esausta superiorità essa pretende nuovi programmi e nuovi soggetti politici, la cui bassa qualità rischia di assorbire le pulsioni populiste espresse dai vari ceti sociali.
Società civile e politica sono quindi destinati a una decadenza progressiva del loro rapporto, e ad un distacco dei loro rispettivi destini. La politica proceda allora nei suoi faticosi processi di ristrutturazione interna e di sperimentazione di nuove leadership; mentre la società civile faccia lo stesso percorso, in una crescente e necessaria autonomia dalla politica. Il meticciamento fra i due mondi non ha avuto successo, ognuno di essi torni quindi a riprendere la propria orgogliosa via di sviluppo. Sarà più facile per la politica che ha le sue sedi di condensazione del cambiamento; più difficile sarà per i tanti soggetti socioeconomici trovare processi, strade e sedi nuove per esplicitare pubblicamente la loro autonoma crescita. Il cammino sarà necessariamente faticoso, ma vale almeno la pena di avviarlo, fuori della inerte zona d'ombra in cui vivacchia oggi il rapporto fra politica e società civile.

Giuseppe De Rita

13 giugno 2013 | 8:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_13/un-divorzio-consensuale-de-rita_2a61fac2-d3ea-11e2-9edc-429eec6f64c6.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 22, 2013, 08:32:29 am »

CINQUE CONDIZIONI DA SODDISFARE

Salvate i partiti anche da se stessi

Giuseppe De Rita

È ormai evidente come l'attuale sforzo di ristrutturazione della politica si orienti più ai suoi assetti istituzionali che all'evoluzione della sua dimensione partitica. Siamo un po' tutti speranzosi che i comitati di saggi portino frutti sostanziali sulla configurazione futura dei pubblici poteri; che il metter mano ad alcune crisi gravi (nel federalismo incompiuto come nella incerta revisione delle Province) porti a una precisa ridefinizione del rapporto fra poteri centrali e poteri periferici; che la fatica quotidiana delle larghe intese di governo possa ridare funzionalità fisiologica alla dialettica delle parti in campo; che gli stessi impegni europei ci aiutino a fare ordine nelle decisioni a forte carica istituzionale, dal controllo della spesa al fiscal compact.
La politica sembra quindi volersi rinnovare lavorando su percorsi istituzionali, mettendo in secondo piano la revisione delle sue forme interne, cioè della sua dimensione partitica e delle componenti a essa complementari, dall'associazionismo al movimentismo, alle campagne d'opinione. Su questi aspetti c'è oggi il deserto, basta guardarsi intorno e fare quattro semplici constatazioni: il movimentismo grillino non riesce a tramutarsi in partito e rischia la disarticolazione; l'onda d'opinione per Scelta civica non si consolida in partito e rischia la frammentazione; il berlusconismo resta avventura personale e non si può prevedere se mai finirà per essere partito; e il Pd è attraversato da diverse ambizioni, posizioni e lotte. Le quattro componenti della attuale dialettica politica, in sintesi, non sembrano in grado di ripensare il loro destino partitico; e non ricevono alcun aiuto dalle sedi (le élite come i movimenti di base) tradizionalmente deputate ad alimentare un'avventura partitica.
Fare partito per farne strumento della politica sembra oggi dannatamente difficile perché impone cinque scelte decisive. Anzitutto impone qualche aggettivo che dia un senso di condivisione e appartenenza. Non bastano i richiami botanici o stellari o civici, bisogna esprimere quel che si vuole: in fondo nei grandi partiti del passato erano gli aggettivi (comunista o democristiano) a dare l'indispensabile messaggio. In secondo luogo c'è bisogno di individuare il blocco sociale di riferimento: non basta una condivisione d'opinione, necessariamente volatile, bisogna capire di quali componenti sociali si vuole fare interpretazione politica e rappresentanza istituzionale. In terzo luogo serve almeno un'idea di «forma partito» (assembleare, federale, burocratico che si voglia) per sfuggire alle scorciatoie recentemente percorse (l'enfasi sulle primarie, rivelatesi poi prigioniere degli apparati). E da tale necessità ne discende un'altra, quella di definire regole certe e costanti nel tempo; perché senza di esse si naviga a vista e con spinte e controspinte di ogni tipo. E infine, quinta esigenza, c'è bisogno di un programma, magari non di un lungo elenco delle cose da fare, ma di interpretazione e orientamento dei fenomeni e dei processi che attraversano la società italiana in questo momento di intensa e contraddittoria globalizzazione.
Nessuna delle forze politiche oggi in campo si è seriamente esercitata su queste cinque esigenze, e le conseguenze si vedono, così come si vedono le paure di potenziale caos disgregativo. Forse uno sforzo di ripensamento va fatto, magari in parallelo alle revisioni istituzionali oggi di maggior moda.

20 luglio 2013 | 8:32
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da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:42:58 pm »

L'EDITORIALE

Un autunno da decifrare

Scenari e decisioni che ancora mancano



Nei primi giorni di settembre, al rientro dalle vacanze, fui molto tentato di scrivere qualcosa sull'estate 2013 vista come «la migliore estate degli ultimi anni», tante erano le sensazioni positive che con colleghi e amici avevamo raccolto in vari angoli del Paese. Rimossi prudentemente quella tentazione: per il timore di apparire provocatorio rispetto al catastrofismo imperante negli ultimi mesi e anni; ma anche per il timore che quel tono leggero («la migliore estate...») avrebbe potuto cozzare con il dramma di lavoratori che, rientrando dalle ferie, magari non avrebbero più trovato la propria azienda. Restai allora in appartato silenzio, sperando che il tempo chiarisse almeno la direzione, in meglio o in peggio, delle nostre travagliate vicende.

Comincio a rimpiangere quel silenzio, perché una pur imperfetta provocazione sarebbe stata utile per innescare da un lato una seria discussione di scenario e dall'altro un serio confronto con i potenziali soggetti della dinamica socioeconomica prossima ventura. Mi colpisce anzitutto che per la prima volta da anni l'autunno non abbia prodotto scenari di medio periodo, volti a capire e far capire dove siamo e dove andiamo. Dai resoconti dei tanti convegni, seminari e workshop (e dall'opinionismo a essi correlato) non si trova infatti molto di utile, in termini sia di valutazione congiunturale sia di previsione a medio termine. Tutti abbiamo letto quel che si è detto a Cernobbio; tutti abbiamo letto il programmatico comunicato congiunto di Confindustria e sindacati confederali; tutti abbiamo letto le dichiarazioni «veleggianti» del presidente Squinzi e del ministro Saccomanni; tutti abbiamo letto grandi e medi commentatori e opinionisti; ma l'incertezza sul futuro resta quella di prima, con l'effetto di una politica del navigare a vista molto problematica e zavorrata dal pessimismo indotto da mesi di tragici bollettini di crisi (meno reddito, meno occupazione, meno consumi, meno imprese, eccetera).

Fare ripresa e sviluppo senza uno scenario di riferimento diventa allora un compito difficile, anche perché non c'è stata in questo ultimo mese una chiamata in causa, un confronto, un coinvolgimento dei potenziali soggetti della attesa ripresa e dell'auspicato sviluppo. La navigazione a vista non prevede un ruolo delle grandi rappresentanze di interesse e dei rapporti relazionali su cui si basa il sistema, cosicché il massimo di coinvolgimento finisce per ridursi alla solitaria diramazione di comunicati su singoli temi, certo importanti (dall'aumento dell'Iva al taglio delle risorse ai Comuni) ma difficili da inserire in un discorso più vasto. Senza uno scenario di riferimento e senza un ampio coinvolgimento soggettuale l'autunno che comincia è destinato fatalmente all'incertezza, segnati come siamo da un lato dal permanere di una estiva soddisfazione di cose andate meglio del previsto; e dall'altro dalla impotenza di costruire un disegno, un processo, un programma minimamente partecipati.

Occorre far ripartire un dibattito approfondito, volto a capire e gestire i processi e i soggetti vitali che ci sono nel Paese (fra i giovani, le donne, i lavoratori stranieri, eccetera) e che per ora nessuno vede. Il settembre 2013 sarebbe stato al riguardo un'occasione buona ma non l'abbiamo colta; altrettanto buona, e da cogliere, potrebbe essere l'autunno che si apre nelle prossime settimane, fra grandi decisioni nazionali e grandi responsabilità di gestione del semestre Ue. Vale la pena tentare se vogliamo evitare che alla «migliore estate» succeda il peggiore autunno degli ultimi anni.

25 settembre 2013 | 10:18
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Giuseppe De Rita

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_25/un-autunno-da-decifrare-giuseppe-de-rita_7c328664-25a2-11e3-baac-128ffcce9856.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:55:09 am »

Riforme, illusioni, processi reali
Non si cresce di soli slanci

Di GIUSEPPE DE RITA

Per uscire dal suo più grave lutto personale Benedetto Croce scrisse, con chiara semplicità, che «solo la vita cura la vita». Ed è una frase su cui può lavorare utilmente chi deve affrontare il luttuoso sperdimento che contraddistingue da qualche tempo la società italiana.

Anche a prescindere dalla umiliante retrocessione dell’Italia calcistica nei recenti campionati mondiali, la nostra reputazione complessiva tende pericolosamente al basso, spinta dalle valutazioni critiche delle agenzie di rating ; dalle tante classifiche e comparazioni internazionali in cui occupiamo gli ultimi posti; dalla oggettiva distanza rispetto ai parametri di rigore dei più virtuosi partner europei; dalla calante attrattività per investitori e imprese internazionali; dall’affanno verso i giudizi negativi (ironici o crudeli, poco importa) che circolano su di noi nell’opinione pubblica europea e mondiale; e dai ricorrenti catastrofici annunci di regressione (di redditi, imprese, consumi, ecc.) da parte dei diversi centri di statistica e ricerca economica. Dovunque giriamo lo sguardo, il lutto si impone, di pari passo con un pericoloso deficit reputazionale.

Di fronte a ciò cosa può significare l’indicazione crociana che «la vita cura la vita»? L’emozione collettiva degli ultimi mesi ha visto contrapporsi al lutto una «botta di vita»: un vitalismo giovane, una volontà profonda di cambiare le cose, una determinazione a fare riforme profonde e strutturali. Ed ha alla fine premiato chi sul vitalismo aveva «messo la faccia». Ma contemporaneamente si sta sviluppando un’altra convinzione collettiva, attenta al fatto che accanto al vitalismo c’è una vita fatta di fenomeni e processi, quotidiani ed ordinari, e che «curarla» significa rendere funzionali tanti e diversi impegni ordinari (nei mercati finanziari, nella dinamica del lavoro, nell’evoluzione dei consumi, ecc.) non sempre coincidenti con l’ambizione volontaristica delle classi dirigenti. Si arriva così silenziosamente a una contrapposizione fra la gestione dei processi che si svolgono nella quotidianità e una stagione di riforme a forte annuncio di radicalità; una contrapposizione che riecheggia il contrasto dei primi Anni 80 fra chi (Berlinguer) sosteneva le riforme come strumento per avviare il cambiamento e chi (Craxi) sosteneva che bisognava solo governare i diversi processi di un cambiamento già in atto.

In tale contrapposizione il ruolo mediaticamente più impressionante è oggi quello del governo, con le sue tante proposte di riforma. È un ruolo forte, profetico e per ora di successo; ma può anche essere un ruolo fragile, se le tante riforme non hanno diretta coerenza con le transizioni quotidianamente in corso: siamo ad esempio proprio sicuri che le riforme istituzionali, che vogliono rivoluzionare il potere domestico, abbiano relazione con le sfide tutte ordinarie imposte dagli organi comunitari? Siamo proprio sicuri che le annunciate riforme di settore (nel mondo del lavoro, della amministrazione pubblica, nell’assetto dei poteri territoriali) siano capaci di creare una minimale, ordinaria, «tedesca» efficienza di sistema?
Forse è sulla base di questi dubbi che il nostro premier ha cominciato a distinguere fra annunci riformisti (come strategia da 100 giorni) e scommessa sui tempi lunghi della ordinarietà (come strategia dei 1.000 giorni). Se l’ipotesi è esatta, vedremo nel prossimo futuro più una faticosa gestione di interventi sulle decisive transizioni (sugli equilibri di bilancio, sul sostegno alle imprese, sullo sviluppo dell’occupazione, ecc.) che generosi interventi a breve (riforme veloci e ambiziosi decreti legge) destinati poi a languire negli ingorghi parlamentari o nell’inerzia di strutture amministrative sempre più demotivate, forse delegittimate.

24 luglio 2014 | 08:55
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_24/non-si-cresce-soli-slanci-236269a2-12ee-11e4-a7ff-409dc1c2ba25.shtml
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 02, 2014, 10:35:10 am »

L’apatia di fronte all’emergenza
Non farsene una ragione

Di Giuseppe De Rita

Tempo fa per andare oltre chi dissentiva o si allontanava da lui, Matteo Renzi usò un orgoglioso e definitivo «ce ne faremo una ragione». Sapeva che avrebbe ripetuto altre volte quella frase, ma certo non si aspettava che essa sarebbe diventata una ricorrente litania nazionale.

Se la ripresa, l’occupazione e i consumi non tornano a crescere, ce ne faremo una ragione; se crescono il «nero», l’economia sommersa e l’evasione fiscale, ce ne faremo una ragione; se non riusciremo a comprimere il nostro debito pubblico, ce ne faremo una ragione ; se la tecnoburocrazia europea ci prospetterà una qualche forma di rigoroso commissariamento, ce ne faremo una ragione; se dovremo accettare l’influenza di poteri forti e trasversali (europei e globalizzati, cinesi e tedeschi, bancari e telematici, ecc.), ce ne faremo una ragione; se la classe dirigente risulterà sempre più inadeguata, ce ne faremo una ragione; se per effetto di alcune riforme non avremo più Camere di commercio, Province, Comunità montane, Prefetture, ce ne faremo una ragione; se vinceranno le riforme di verticalizzazione del potere, ce ne faremo una ragione; se la questione meridionale uscirà dall’agenda del Paese, ce ne faremo una ragione; se qualche nostra impresa storica prescinde dall’Italia, ce ne faremo una ragione; se aumenta l’entità delle immigrazioni (un lago ormai, non un flusso) ce ne faremo una ragione; se il nostro sistema continua a occupare gli ultimi posti nelle graduatorie internazionali di modernità ed efficienza, ce ne faremo una ragione.

Chiunque frequenti giornali e televisione potrebbe aggiungere altre situazioni esemplari, magari con qualche nobile negazione o correzione; ma nel complesso resta l’impressione di una società ironicamente apatica, quasi che le cose che ci capitano siano più grandi di noi, non contrastabili dalla nostra cultura, per cui rifuggiamo da un atteggiamento proattivo ed esprimiamo un realistico adattamento.

Si può quindi arrivare alla ipotesi che la frase di Renzi citata all’inizio non sia l’avvio di un’onda di moda, ma piuttosto la messa in circuito di un diffuso impotente disincanto. Forse il declino della lunga cavalcata del «fai da te» (che ha per decenni fatto da base allo sviluppo italiano) ha lasciato il campo a una forma sbiadita ed estenuata di soggettività individuale, che diventa un rinserramento in se stessi e un’apatica indifferenza, molto lontana da quell’orgoglio di essere artefici del proprio destino che ci ha supportato nel recente passato.

C’è spazio per invertire questa tendenza e riproporre quell’orgogliosa catena di impegni che ci ha fatto grandi nella seconda metà del secolo scorso? Non c’è dubbio che la giovinezza orgogliosa di un premier e la sua voglia di essere artefice solitario dei comuni destini sono un input giusto per far capire cosa si voglia anche dal sentire della gente. Ma di solito la gente non vede come proprio obbligato paradigma l’impeto di chi comanda, preferisce delegare, stare a guardare, aspettare, sommergersi in una moltitudine adattativa e deresponsabilizzata. È una prospettiva forse più grave degli avvisi di calamità che si rincorrono in queste settimane. E sarà anche più difficile farsene una ragione.

1 agosto 2014 | 07:54
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_01/non-farsene-ragione-a22501ec-193c-11e4-91b2-1fd8845305fa.shtml
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« Risposta #25 inserito:: Febbraio 06, 2015, 10:52:09 am »

L’avversario come nemico
L’inutile corsa a delegittimare
Da sempre la nostra gente ha avuto il gusto di lanciare invettive verso la classe dirigente, ma nella recente gara per il Quirinale anche sui social network si è andati oltre senza una ragione

Di Giuseppe De Rita

Chi ha partecipato o assistito in tv al giuramento ed all’insediamento di Sergio Mattarella ha certo constatato la soddisfazione evidente e diffusa non solo per la figura del nuovo presidente, ma anche per la prova di intelligenza offerta nell’ultima settimana dalla nostra classe politica: i ripetuti applausi a Montecitorio e l’aria festosa e distesa al Quirinale stanno a dimostrare che il recinto di coloro che vivono di politica si dichiara più che soddisfatto. Anche delle parole del presidente, lucidamente tese a recepire le preoccupazioni collettive sulla mafia, sulla corruzione, sul terrorismo, i tre fronti più pericolosi per la convivenza collettiva e per la reputazione del Paese.

Tutto bene allora, e possiamo passare all’ordine del giorno delle cose ancora da fare? Scendendo martedì lo scalone del Quirinale, mi sono posto la domanda e mi sono dato una risposta positiva. Ma mi sono anche detto che non si può dare per superato un problema molto delicato per la nostra civile convivenza e per la nostra collettiva reputazione, provocato dal fatto che in questi ultimi mesi è entrato in circuito un pericoloso virus culturale: la crescita di una sottile «ferocia» di delegittimazione dei leader, veri o potenziali che siano.

Ai protagonisti della tenzone quirinalizia non è stato infatti risparmiato alcun «avviso di sputtanamento», con grande dovizia di messaggi volti a rinfacciare antichi peccati di schieramento; recenti peccati di tradimento; vicende di soggezione ai potenti di turno; piccole furbizie casalinghe; incaute alterigie provinciali; ricordi di nomine clientelari; sospetti di conflitti d’interesse; privilegi retributivi e pensionistici; varie connessioni con parenti e collaterali nonni, padri, fratelli, figli e nipoti. Con dettagli spesso così pretestuosi da far pensare a un accanimento volutamente distruttivo, a una ferocia quasi personalizzata.

Nessuno può chiedere a chi si occupa di lotta politica di dar spazio alle anime belle, per natura inadatte al mestiere; così come nessuno può chiedere al «mondo di sotto» dei social network di astenersi dal fare il tifo nelle gare di sputtanamento. Ma preoccupa che da questi due circuiti possa tracimare nella cultura collettiva un messaggio di ferocia sottile, pur se talvolta condito con nobile indignazione.

Certo da sempre la nostra gente ha avuto il gusto di delegittimare la classe dirigente, con ironie o invettive di tono qualunquistico; ma in questa occasione si è andati più in là, senza una vera ragione politica e senza voler mettere in moto alcun tipo di ragionamento politico. Giova allora avanzare un incitamento sottovoce: se vogliamo coltivare la fiducia necessaria per crescere insieme, cerchiamo di evitare tutti insieme la viperina tentazione alla ferocia verso gli avversari. Potremo vivere meglio.

5 febbraio 2015 | 09:42
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_05/inutile-corsa-delegittimare-a7139f32-ad0d-11e4-8190-e92306347b1b.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:07:41 pm »

La palude del localismo politico
Di Giuseppe De Rita

Più di venticinque anni fa Umberto Bossi, allora unico parlamentare della Lega, mi provocò dicendo che insieme (lui scopritore del localismo politico, ed io cultore del localismo economico) avremmo insieme potuto fare grandi cose. Non se ne fece nulla, considerati anche i troppi diversi nostri circuiti mentali; ma quella provocazione era intelligente, partiva dalla previsione che senza una loro intensa integrazione i due localismi sarebbero andati ognuno per proprio conto, perdendo ogni ambizione e disegno di sistema; e che a pagarne il prezzo sarebbe stato il localismo politico, progressivamente prigioniero delle sue dinamiche di ripiegamento territoriale e di egoismo localistico.

Non c’è dubbio infatti che il localismo economico, quello esploso negli anni Settanta e Ottanta nelle nostre tante vitali periferie (Prato, Valenza Po, Biella, Sassuolo, Montebelluna, Carpi, Fermo, ecc.) ha saputo lucidamente evolversi strutturandosi via via in distretti, in patti e contratti di filiera, in strategie complessive di «area vasta»; superando con tenacia qualche difficoltà, e qualche ubriacatura di successo, e tenendo sempre il rapporto fra lavoro e rischio imprenditoriale a funzionare da sistema nervoso di tutti i soggetti e comportamenti collettivi.

La stessa cosa non è avvenuta nel localismo politico, che sapeva di partire da microlocalità ma che pensava al federalismo come istituzionale condensazione dei frammentatissimi interessi locali. Finito il sogno del federalismo i territori sono stati lasciati alla loro singola dinamica, senza neppure più i vincoli di appartenenza politica, partitica, ideologica che nei decenni precedenti li avevano tenuti collegati alla dimensione nazionale. Il localismo politico è diventato ed è oggi la palude di tutti i problemi e di tutte le pulsioni squisitamente territoriali e localistiche, espresse peraltro in termini dialettali e vernacolari, spesso beceri. Nascono i «cacicchi»; si formano cordate di gestione puramente clientelare; si governa per pacchetti di voti; si decidono flussi di risorse (dai fondi europei al finanziamento di un welfare sempre più comunitario) calibrati sul potere delle clientele locali; la stessa spesa istituzionale (per il funzionamento degli organi statutari) viene asservita a mediocri giuochi di localismo associato. Non c’è nessuna tensione di responsabilità verso i problemi esterni agli intrecci di potere localistico; ed alla fine non è esagerato dire che il localismo politico sta uccidendo la politica: sia quella operante localmente, sia quella nazionale se è vero che oggi in tante regioni del Paese i partiti non esistono più, si appiattiscono alle regole affaristiche (e/o elettorali) dei potenti circuiti locali.

Occorre quindi non lasciare il localismo politico a macerarsi in dinamiche tutte regressive, e a far marcire la vita politica nel suo complesso. Ed è la politica nazionale che deve darsi carico del problema, perché è proprio lei che rischia di essere la grande vittima del trionfo di un localismo politico sapiente e furbo, sfrontatamente sicuro che la politica nazionale non può in questo caso usare l’arma «assoluta» della verticalizzazione delle decisioni e dei poteri (riusciva a Giolitti ed ai suoi prefetti ma non sembra un esempio da seguire). Bisogna allora avere l’umiltà di ripartire dai «fondamentali» della politica, in particolare dal rilancio dei meccanismi e dei soggetti di rappresentanza degli interessi e delle identità collettive. Non è richiamo alla moda, di questi tempi, ma sempre meglio che restare prigionieri degli scandali sui cacicchi e delle lotte al calor bianco sulla destinazione dei migranti.

11 giugno 2015 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_giugno_11/palude-localismo-politico-ff60bcca-0ff9-11e5-9af2-c0e873d99e21.shtml
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