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Autore Discussione: Sabino CASSESE  (Letto 24482 volte)
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« inserito:: Dicembre 09, 2014, 03:16:40 pm »

Il lato debole dei partiti liquidi e le nuove classi dirigenti
Le minacce di scissione sono solo fasi passeggere o sono indicatori di nuova forma politica?

Di Sabino Cassese

Le tensioni interne ai partiti (minacce di scissioni, richiami alla disciplina interna, invocazione della libertà di coscienza, richieste di maggiore democrazia) sono solo fatti passeggeri o sono, invece, indicatori di una fase nuova della storia della «forma partito»? E quali effetti producono i cambiamenti in corso sull’assetto dei poteri pubblici?

I nomi dei partiti erano prima scelti per caratterizzarsi e dividere (comunisti, socialisti, democristiani), ora sono sempre meno identificativi (chi si dichiara contrario alla democrazia e alla libertà?). I partiti stanno perdendo la loro base: gli iscritti si sono dimezzati in mezzo secolo, e continuano a diminuire, mentre la popolazione è aumentata; si allarga, quindi, la forbice tra iscritti e votanti. Anche questi ultimi diminuiscono: segno sia di sfiducia nei partiti, sia del fatto che il sistema politico italiano si è allineato alle altre democrazie mature. La capillare distribuzione dei partiti sul territorio non c’è più e l’organizzazione diviene fluida. La militanza volontaria scompare. Diventa determinante il ruolo del «leader». Il finanziamento mediante il tesseramento viene sostituito dal finanziamento con cene a pagamento e il microfinanziamento dal basso (crowdfunding). I partiti che ricorrono a primarie aperte a non iscritti abbattono le mura che dividono iscritti e simpatizzanti.

La «liquefazione» dei partiti li trasforma in aggregazioni elettorali, attive al momento del voto. Lo stesso séguito elettorale si organizza volta per volta, con travasi di voti da un partito all’altro. Questo trasforma la lotta elettorale da guerra di posizione in guerra di movimento, aumenta l’importanza del «mercato politico», consente ai partiti di uscire dai loro fortini e di andare oltre il proprio elettorato tradizionale, ma correndo maggiori rischi. I partiti sono meno rigidi, meno chiusi. Minacciano meno la democrazia a causa del loro carattere autocratico ed oligarchico, come temeva Maurice Duverger nel 1951. Corrispondono sempre meno al modello costituzionale di una piramide che cresce dal basso (i cittadini si associano in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, secondo l’articolo 49 della Costituzione).

Antonio Gramsci ha scritto, riferendosi a Machiavelli, che i partiti sono il «moderno Principe», in quanto organismi che guidano i processi politici e in cui si concreta una volontà collettiva. Il «moderno Principe» ha due funzioni, quella di formazione politica della società e quella di scelta della rappresentanza parlamentare. La destrutturazione in corso dei partiti politici li fa divenire più leggeri, più capaci di conquistare maggiore seguito elettorale, ma ne indebolisce l’azione educativa e la forza selettiva. Dove potrebbe svolgersi la prima, se non esiste più la «scuola» dei partiti, quella distribuita sul territorio, nelle sezioni e nei circoli, nei quali ferveva la vita collettiva del partito - organizzazione? Come possono essere selezionati gli eletti nel Parlamento e nei consigli regionali e comunali, se manca la macchina del reclutamento e della valutazione e si procede per nomina dall’alto?

Questo indebolimento dei partiti come cinghia di trasmissione della domanda politica si riflette sullo Stato e sui poteri locali, dove le esigenze collettive arrivano sfocate e il personale elettivo è impreparato.
Dunque, l’indebolimento della macchina del partito - organizzazione è forse un passo avanti per la democrazia, consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad esso e di allargare la base elettorale, avviando la formazione di corpi politici a vocazione maggioritaria, che non debbono far ricorso a coalizioni. Ma produce anche un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente, al quale bisogna porre rimedio.

8 dicembre 2014 | 10:14
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_dicembre_08/lato-debole-partiti-liquidi-nuove-classi-dirigenti-ea68f8c2-7eb9-11e4-bf8b-faa9d359f85b.shtml
« Ultima modifica: Gennaio 03, 2015, 04:08:28 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:31:31 pm »

Lo scandalo romano
Punire i corrotti (ma più prevenzione)
Ottime le misure annunciate dal premier.
Tuttavia la repressione non basta se non si semplificano le norme e non si interviene sul rapporto patologico tra politica e amministrazione pubblica

Di Sabino Cassese

Eccellenti le quattro misure annunciate dal presidente del Consiglio dei ministri (inasprimento delle pene, confisca dei beni, restituzione del maltolto, allungamento della prescrizione). Servono a sanzionare più duramente i colpevoli e a dissuadere futuri corruttori. Il presidente Renzi è, però, consapevole che vanno anche accompagnate da misure per prevenire la corruzione, per creare le condizioni istituzionali che la impediscano. Ha, infatti, detto che vuol «fare di tutto» per combattere il malaffare amministrativo, anche con altre norme e con l’educazione, senza fare sconti.

E allora, in attesa del processo (che sia sollecito) e considerando l’accusa, val la pena di riflettere sulle condizioni istituzionali che hanno consentito la corruzione romana: che cosa non funziona nelle amministrazioni e ha reso possibile un così esteso e multipartitico sistema corruttivo, che ha coinvolto la gestione dei campi profughi, l’assistenza agli immigrati, l’agenzia per le case popolari, la manutenzione delle piste ciclabili, la manutenzione delle aree verdi, i servizi di igiene urbana, la raccolta differenziata, gli interventi per il maltempo, la gestione delle gare, molti uffici amministrativi? Guardando al di là della cronaca, quali lezioni possono trarsi dalle accuse, che servano a prevenire ulteriori fenomeni di cattiva amministrazione e di criminalità?

Il decentramento porta con sé maggiore corruzione: questo risulta da tutti gli studi compiuti nel mondo sulla corruzione. In Italia abbiamo una eccessiva ramificazione, le frange periferiche di un sistema di poteri pubblici troppo estesi. Perché — ad esempio — la gestione dell’immigrazione, che è problema nazionale (anzi, europeo), è affidata ad enti locali? Poi, si è fatto troppo ricorso a privati, cooperative e società per azioni. Le amministrazioni locali non fanno, fanno fare ad altri. In queste periferie del potere, dotate di cospicue risorse, senza adeguati controlli, si annidano sprechi e corruzione. Sappiamo che le amministrazioni locali italiane si avvalgono di circa 8 mila società per azioni. Non sappiamo quante siano le cooperative su cui gli enti locali fanno affidamento.

Il terzo fattore è quello dei sistemi derogatori, con cui si aggirano le regole sugli appalti. In particolare, a Roma, specialmente dal 2008, con la solita motivazione che le procedure sono arcaiche e farraginose («da sbloccare», nel linguaggio di uno degli indagati), si sono creati percorsi paralleli, meno garantiti e meno controllati.

A questi si aggiunge un ulteriore incentivo alla corruzione: troppi posti amministrativi sono coperti da persone scelte senza concorso, non per il loro merito, ma per «meriti politici». Costoro non si sono guadagnati il posto con le loro forze, ma l’hanno avuto grazie ad appoggi di partito o di fazione. Quando chiamati, debbono «contraccambiare» il favore reso loro da quel sottobosco di vassalli che si nasconde sotto il manto della buona politica. C’è, infine, un legame perverso partiti-amministrazione, come si legge nelle parole di un altro indagato («la cooperativa campa di politica»). Organi rappresentativi, come il consiglio comunale, che dovrebbero essere di indirizzo e di controllo, invece fanno gestione.

Abbiamo bisogno di istituzioni perché gli uomini non sono angeli, diceva uno dei «padri fondatori» americani. Nel mondo molle dell’amministrazione romana, con tanti corpi ibridi, né pubblici, né privati, ma che operano con risorse pubbliche, non vi sono regole, ma deroghe; non procedure, ma scorciatoie; non veri funzionari pubblici, ma uomini assoldati dalle fazioni. I diavoli, quindi, hanno avuto la meglio.

10 dicembre 2014 | 10:01
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_10/punire-corrotti-ma-piu-prevenzione-9c9e4450-8042-11e4-bf7c-95a1b87351f5.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 24, 2014, 11:45:10 am »

Compiti del presidente
Quirinale, analisi di un ruolo

Di Sabino Cassese

Il presidente del Consiglio dei ministri si è chiesto, qualche giorno fa, «cosa servirà all’Italia nei prossimi sette anni». Mi pare la domanda giusta. Non «chi» andrà al Quirinale, ma «che cosa» ci aspettiamo dal prossimo presidente.

Per rispondere a questa domanda, proviamo a fare un bilancio dell’ultimo ventennio. In 22 anni, abbiamo avuto 3 presidenti della Repubblica, 15 governi, 7 elezioni politiche. Durante la presidenza Napolitano si sono succeduti 5 governi e 2 elezioni politiche. L’instabilità della politica (un governo nuovo ogni anno e mezzo, in media) ha richiesto ai presidenti dell’ultimo ventennio un impegno straordinario.

Essi sono i gestori delle crisi, e il frequente succedersi di crisi ha accentuato il ruolo dei presidenti come perno intorno al quale gira l’intera politica italiana. La modificazione della formula elettorale in senso maggioritario avrebbe dovuto rendere meno rilevante la scelta presidenziale del capo del governo e, quindi, la gestione delle crisi. Si osservò, a suo tempo, che persino le consultazioni che precedono l’incarico di formare un governo sono un rituale inutile, se il popolo stesso ha scelto la maggioranza parlamentare e il suo «leader».

Come è potuto accadere, dunque, che i presidenti della Repubblica degli ultimi vent’anni abbiano svolto un ruolo tanto importante nell’imprimere un indirizzo alla politica, siano divenuti - come osservato da uno dei nostri maggiori costituzionalisti - i titolari dell’indirizzo politico-costituzionale? La spiegazione di questo paradosso sta probabilmente nell’estinzione della Democrazia cristiana, il partito cardine, intorno al quale ruotava la vita politica italiana, che ne controllava gli sviluppi e condizionava la scelta dei governi. Finito il partito di maggioranza relativa, una parte di questa funzione si è scaricata sulle spalle dei presidenti. Questi dovevano veder diminuire il loro ruolo, col sistema maggioritario. Invece, se lo sono visto accresciuto. Potrebbero maturare, ora, tre condizioni in grado di modificare questo equilibrio. La formula elettorale maggioritaria, dopo gli scossoni dell’ultimo ventennio, si avvia a diventare - come quelle degli altri Paesi a democrazia matura - una scelta condivisa e longeva, destinata a durare.

I governi potrebbero nascere e morire con i relativi Parlamenti, durando anch’essi 5 anni, come accade quasi sempre altrove, richiedendo a ogni presidente di gestire al massimo due volte le crisi. Nei partiti, le minoranze sembrano rendersi conto che il loro futuro non sta nelle scissioni, ma nel cercare di diventare maggioranze, accettando anche all’interno delle formazioni politiche la democrazia dell’alternanza. Se queste condizioni si realizzeranno, la figura presidenziale, appena abbozzata dalla Costituzione, è destinata a trasformarsi nuovamente. Al presidente della Repubblica sarà richiesto soltanto di giocare il ruolo di equilibratore e regolatore dei tre poteri dello Stato e si ritornerà al modello presidenziale einaudiano.

22 dicembre 2014 | 06:51
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_22/quirinale-analisi-un-ruolo-15bb5922-899e-11e4-a99b-e824d44ec40b.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 03, 2015, 04:08:12 pm »

La bussola del Colle
La fiducia ragionevole di un Paese

di Sabino Cassese

Sono tre le «chiavi di lettura» del discorso di fine d’anno del presidente della Repubblica, nascoste in tre parole più volte ripetute, che sono sia declinate in termini soggettivi, sia rivolte agli italiani: «unità», «fiducia», «doveri».

L’unità nazionale ricorre tre volte, una per ricordare di averla rappresentata e di aver contribuito a rafforzarla; due volte per ricordarne alla nazione il «valore» e l’«imperativo». Napolitano ha anche aggiunto un ultimo richiamo all’unità, questa volta riferita ai popoli europei.

Il richiamo alla fiducia ricorre quattro volte, due riferita a quella espressa dal popolo nei suoi confronti, due alla «ragionata fiducia in noi stessi», condizione per vincere la sfiducia nella politica e per la rinascita, nonostante le difficoltà economiche, la corruzione e gli «italiani indegni».

La parola «dovere» ricorre tre volte, due riferite a se stesso (il dovere di non sottovalutare i segni della vecchiaia e i «nuovi doveri» del suo prossimo ruolo di senatore), una alla nazione, alla quale richiede «senso del dovere», accanto a senso di responsabilità, della legge, della Costituzione.

Queste tre parole sono tra quelle di uso più frequente anche nella Costituzione, che adopera «unità» tre volte, in particolare per attribuire al presidente di rappresentarla. Adopera «fiducia» due volte, per richiedere che gli organi esecutivi la ottengano da quelli rappresentativi. Adopera la parola «doveri» otto volte, e in particolare in coppia con il suo opposto diritti. Anzi, all’articolo 2, dispone che la Repubblica richiede ai cittadini «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

Un presidente della Repubblica, quindi, fedele alla Costituzione, ma che guarda anche al di là, alla piena conclusione del processo di riforma costituzionale, nonché all’Unione europea, e all’unità dei suoi popoli.

Due lezioni si traggono da questo discorso di fine anno. La prima è quella di non seguire gli apocalittici, senza speranze, o gli utopisti, che coltivano smisurate speranze, ma di avere «ragionata fiducia» in «ragionevoli speranze». La seconda è quella di non accomodarsi nella sfiducia nella politica o nella inoperosità politica. Ne è un bell’esempio Napolitano stesso, che, a quasi novant’anni, guarda avanti ai «nuovi doveri» che l’attendono. Di quale gioventù non risultò migliore questa vecchiaia?

2 gennaio 2015 | 07:29
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_02/fiducia-ragionevole-un-paese-c54392a0-9246-11e4-aaf8-f7f9176948ef.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 19, 2015, 07:03:25 am »

La scelta e la storia
Il profilo del nuovo presidente

Di Sabino Cassese
A chi è interessato alla scelta del prossimo capo dello Stato, consiglio, invece di partecipare alla lotteria dei nomi, di guardarsi indietro e vedere come sono stati scelti i presidenti italiani. Forse la storia può insegnare qualcosa.

Se si esclude De Nicola, che è stato capo provvisorio dello Stato e solo in quella veste ha acquisito e conservato per qualche mese il titolo e le attribuzioni di presidente, e non si conta Einaudi, il primo vero presidente, eletto poco dopo l’entrata in vigore della Costituzione, nel 1948, gli altri nove presidenti sono stati scelti tra persone che o avevano guidato una assemblea parlamentare o avevano presieduto il governo. Per l’esattezza, cinque dei nove erano stati presidenti della Camera dei deputati (Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro e Napolitano), uno dell’Assemblea costituente (Saragat), uno del Senato (Cossiga), due del Consiglio dei ministri (Segni e Ciampi).

Perché il Parlamento ha compiuto queste scelte, omogenee quanto ai criteri, pur nella grandissima diversità degli uomini (basti pensare alle differenti provenienze di presidenti come Pertini e Ciampi)? Non ritengo che esse siano state fatte per rispettare una sorta di cursus honorum, che abbia portato su un gradino superiore chi era stato su quello inferiore. E questo perché solo in tre casi (Gronchi, Cossiga e Scalfaro) i presidenti sono passati direttamente dalla carica «inferiore» a quella «superiore». N egli altri casi, sono state elette persone che avevano occupato il precedente ruolo in anni anche lontani (da due a diciassette). Dunque, la scelta ha premiato una esperienza e ha confermato il rapporto Parlamento-presidente-governo. Infatti, i presidenti di assemblea sono eletti dall’assemblea stessa tra i suoi componenti e il presidente del consiglio dei ministri - e con lui il governo - deve avere la fiducia del Parlamento. Dunque, l’elezione presidenziale ha sottolineato costantemente lo stretto rapporto che la Costituzione ha disegnato, al vertice, tra Parlamento, governo e presidente, dando la precedenza alla Camera più numerosa, quella dei deputati, tra i cui presidenti sono stati scelti ben cinque capi dello Stato.

Insomma, nel passato, la scelta è caduta su chi era già stato messo alla prova nel circuito costituzionale di vertice nel quale è inserito il presidente della Repubblica. Quest’ultimo è «figlio» del Parlamento (l’articolo 83 della Costituzione dispone che egli «è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri», con la partecipazione dei delegati regionali) e «padre» del governo (l’articolo 92 della Costituzione dispone che «il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri»).

Si ripeterà la storia? Potrebbe ripetersi in forme diverse, ma ispirate agli stessi principi? O si sceglierà una strada diversa? Basta attendere pochi giorni per avere una risposta a queste domande.

Avverto, però, che l’attenzione dell’opinione pubblica dovrebbe essere rivolta non tanto a chi salirà al Quirinale, quanto alle modifiche costituzionali e alla legge elettorale, perché le istituzioni contano più degli uomini. Sono esse che conformano e condizionano la condotta delle forze politiche e delle persone, correggendone anche le inclinazioni negative. E quindi a ragione è stata data la priorità alle due scelte di valore costituzionale che ho indicato. Questo vuol dire avere quel «senso dello Stato» sul quale il presidente Napolitano ha dato, nei giorni scorsi, un’altra bella lezione. Rispettando la Costituzione, per la quale le dimissioni sono una decisione «solitaria», presa sotto la sola responsabilità del presidente. Ma preparando il passaggio, in modo che il Parlamento non fosse preso alla sprovvista. E conducendo la cerimonia degli addii con quel garbo e quell’eleganza che hanno contraddistinto tutta la sua vita politica.

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18 gennaio 2015 | 09:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_18/profilo-nuovo-presidente-634ebca8-9ee1-11e4-9ffe-303918e77b90.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 18, 2015, 07:51:59 am »

Governo e poteri
Il timore (inesistente) del tiranno
Non credo che la democrazia sia in pericolo perché il presidente del Consiglio in carica non è parlamentare e perché il Parlamento è stato eletto con una legge successivamente dichiarata (parzialmente) illegittima costituzionalmente

Di Sabino Cassese

Esiste - come è stato dichiarato nei giorni scorsi - una deriva autoritaria in Italia? Non credo che la democrazia sia in pericolo perché il presidente del Consiglio in carica non è parlamentare e perché il Parlamento è stato eletto con una legge successivamente dichiarata (parzialmente) illegittima costituzionalmente. Infatti, la Costituzione non richiede che i ministri e il loro presidente siano parlamentari e Renzi non è il primo presidente che non sia stato eletto nelle file dei deputati o dei senatori. Poi, la Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità di alcune norme della legge Calderoli, ha precisato che la sentenza «non tocca in alcun modo il Parlamento in carica», perché non ha «nessuna incidenza» su di esso.

Se non è questo che può preoccupare, c’è qualcosa di più profondo che possa far temere una svolta autoritaria ed evocare il «timore del tiranno» che percorre tutta la storia dell’Italia repubblicana? Per rispondere a questa domanda, bisogna valutare almeno tre elementi: c’è qualcuno che insidia la democrazia, prepara, politicamente e culturalmente, un governo autoritario? C’è, al contrario, un diffuso patriottismo costituzionale, una dichiarata e ampia lealtà alla Costituzione? Infine, ci sono i contropoteri, gli anticorpi, che potrebbero far fronte a tentazioni autoritarie?

Nei Paesi moderni come l’Italia non si può conquistare il potere con la Carboneria o con altri mezzi nascosti: occorre che qualcuno formuli un disegno politico, trovi un ideologo, faccia propaganda, cerchi di conquistare consensi intorno a un obiettivo che conduca a un potere autoritario. Tutto questo non si vede. Non vi sono centrali, azioni, cospirazioni, che segnalino la presenza di questo pericolo.

Vedo, al contrario, anche presso quelli che ritengono modificabile la Costituzione, una fedeltà ai principi supremi costituzionali, una lealtà alle istituzioni e alle procedure da essa create, un desiderio di non mutare le linee portanti delle scelte del secondo dopoguerra, che fanno ben sperare nella lunga vita della parte essenziale della Costituzione. Certo, nel nostro Paese, fin dall’unificazione, vi sono state sacche di ribellismo. Come notava Piero Gobetti nel 1922, c’è «l’esplodere delle passioni, non l’organizzarsi delle iniziative». Prevale la «disgregazione operosa». Riusciamo a fare il patto del Nazareno (non scritto e appena rotto, dopo solo un anno), non «contratti di coalizione», di cui l’ultimo è lungo 185 pagine e scaricabile dal web, come quelli firmati dai cristianosociali e dai socialdemocratici che reggono il governo tedesco da dieci anni.

Veniamo agli anticorpi. Anche questi non mancano. Il potere è ampiamente distribuito, all’interno dello Stato, sul territorio. Vi sono poteri indipendenti, spesso tanto autonomi da voler dettare l’agenda politica (come la magistratura), talora in ritirata, perché soggetti a erosione di funzioni da parte della politica (come le autorità indipendenti). Le polizie sono ben cinque. C’è l’Unione Europea, che - a dispetto di quelli che piangono per le cessioni di sovranità - ci garantisce con il «vincolo esterno» voluto da Alcide De Gasperi e da Guido Carli.

Concludo: l’Italia è forse un Paese che vuole non farsi governare, diviso in fazioni, incapace di associarsi, coalizzarsi, trovare una armonia. Un Paese che ha avuto 63 governi dall’inizio della Repubblica, con 27 presidenti del Consiglio, contro i 23 governi e gli 8 cancellieri tedeschi. Ma la sua democrazia non corre pericoli.

12 febbraio 2015 | 09:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_12/timore-inesistente-tiranno-6d5bbf02-b282-11e4-9344-3454b8ac44ea.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 20, 2015, 04:36:11 pm »

Conflitti moderni, regole inadeguate Le armi spuntate dei vecchi Stati
Agli antichi conflitti si aggiungono nuovi conflitti, che cambiano il paradigma tradizionale, quello di una nazione armata in guerra contro un’altra nazione armata

di Sabino Cassese

Venti di guerra alle frontiere e nel cuore dell’Europa. Conflitti che oppongono Stati, al Nord; conflitti che nascono dall’assenza o dalla fragilità di Stati, al Sud. Soluzioni che mostrano l’incompletezza della cooperazione europea, da un lato; conflitti ai quali si cerca una soluzione nell’ambito di una cooperazione ancora più ampia, internazionale, dall’altro. Guerre guerreggiate da una parte; attacchi terroristici dall’altra.

Agli antichi conflitti si aggiungono nuovi conflitti, che cambiano il paradigma tradizionale, quello di una nazione armata in guerra contro un’altra nazione armata (o di coalizioni di nazioni da una parte e dall’altra). Cambiano le scene dei conflitti, i protagonisti, i metodi e la natura stessa dei conflitti.

La scena, in Libia e nei territori iracheni e siriani occupati dall’Isis, è quella di Stati falliti o fragili, dove si affrontano gruppi non statali, o per la conquista di un territorio, o per attaccare in altri territori.

I protagonisti non sono più solo gli Stati. Entrano in ballo le Nazioni Unite, già impegnate in Africa e nel Medio Oriente in 16 operazioni di mantenimento della pace, con quasi 130 mila persone e un costo di circa 8 miliardi di dollari per anno; l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, già impegnata in molti Paesi dell’Europa centrale con quasi 3 mila persone e un costo di quasi 150 milioni di euro per anno; l’Unione Europea, protagonista debole, perché con poche competenze in campo militare; infine lo «Stato islamico», che è in realtà una forma non statale di potere pubblico, sviluppatosi nel territorio di altri Stati (Siria e Iraq), ma con una proiezione internazionale.

Infine, cambia la natura del conflitto e diventa difficile distinguere tra insorti e nemici e tra operazioni belliche e operazioni di polizia, come ben sanno gli americani fin dal momento in cui il presidente Bush lanciò la war on terror, definita guerra, ma non rivolta ad uno Stato-nazione nemico, bensì ad una organizzazione di natura terroristica con legami globali.

Se in molti casi queste non sono guerre come quelle di una volta, è naturale che le nazioni siano incerte nell’affrontarle e che si rivelino tutte le debolezze di uno spazio che è divenuto globale, senza che vi sia un ordine globale.

Innanzitutto, nei territori non governati, deve essere sempre chiamato l’Onu a ricostituire unità statali stabili ed è accettabile questa forma di nation building dall’alto? I n secondo luogo, fino a quando è possibile che un gigante economico e politico come l’Ue continui ad essere un nano dal punto di vista militare, sotto il peso del lontano fallimento della Comunità europea di difesa (1950-1954), per cui, quando c’è rumore di armi, come nei giorni scorsi a Minsk, la parola passa agli Stati? In terzo luogo, come si coniuga il ripudio costituzionale della guerra (ricordo che l’art. 11 della Costituzione italiana dispone che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali») con la necessità di compiere operazioni belliche a tutela della sicurezza, dove il confine tra polizia e guerra e tra controversia internazionale e conflitto interno è molto incerto?

Infine, come contrastare operazioni terroristiche o belliche compiute a mezzo di organizzazioni di dimensioni globali, quando gli Stati sono ancora prevalentemente ordinati su base nazionale?

La risposta a queste domande è andata maturando, negli ultimi anni, nella comunità internazionale. O l’Onu, o sistemi di alleanze regionali (come da ultimo proposto da Henry Kissinger nel suo libro World Order) dovrebbero essere i garanti supremi delle formazioni statali deboli, controllandole e appoggiandole, in modo che le loro forze interne non deflagrino, portando disordine e terrore in altri territori. È tempo che l’Unione Europea diventi un potere pubblico altrettanto forte in campo militare quanto lo è nel campo economico e politico. Nell’agenda della comunità internazionale dovrebbe essere scritta in permanenza anche la competenza a svolgere azioni di polizia internazionale, una funzione in parte bellica, in parte diretta al mantenimento della sicurezza e dell’ordine. Infine, anche fuori dei confini nazionali c’è bisogno di maggiore unione. Se i problemi sono globali (e tali sono il terrorismo e le controversie sulle zone di influenza), le soluzioni non possono che essere anche esse globali.

19 febbraio 2015 | 07:25
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_febbraio_19/armi-spuntate-vecchi-stati-e4785130-b7fb-11e4-8ec8-87480054a31d.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 27, 2015, 04:32:42 pm »

Ue e diritti nazionali
Il laccio della corte tedesca

Di Sabino Cassese

I governi nazionali negoziano in continuazione a Bruxelles. I parlamenti hanno proprie sedi di consultazione a livello europeo. Le burocrazie nazionali si incontrano periodicamente nei numerosi comitati dell’Unione. Le corti nazionali, specialmente quelle di vertice, sono, invece, organismi solitari. Sono guardiane delle costituzioni nazionali e non possono certamente concordare con altre corti le loro decisioni. Ma che cosa succede se si mettono a difendere il proprio backyard , il proprio orticello, come ha notato, criticando una recente ma isolata decisione della Corte costituzionale italiana, Antonio Baldassarre, che quella corte ha presieduto alcuni anni fa? E che cosa accade se una corte come quella costituzionale tedesca si distingue in questo ruolo di difensore dell’interesse nazionale (per esempio, di recente, nel caso dell’Omt, Outright Monetary Transactions, misure non convenzionali della Banca centrale europea)?

Rispondere a questa domanda è importante, perché le corti costituzionali hanno sempre l’ultima parola, perché esse possono tirare la corda e creare spaccature all’interno dei sistemi giuridici nazionali, e perché, se esse vanno in direzioni opposte, finiscono per dare all’Unione Europea un vestito d’Arlecchino.

Semplificando, il filo del discorso che da qualche anno la corte tedesca sta svolgendo è il seguente. Gli Stati nazionali sono i «signori dei trattati europei», come i condomini lo sono di un condominio. L’Unione ha solo i compiti a essa trasferiti dai suoi «padroni», gli Stati. Nello Stato tedesco, solo il Parlamento può conferire funzioni statali al livello sopranazionale, perché solo esso garantisce il rispetto della volontà popolare e dell’identità nazionale. Ogni passo avanti dell’Unione, ogni suo impegno, deve essere autorizzato dal Parlamento.

Queste motivazioni, svolte con ricchezza di sottili ragionamenti giuridici, producono tre effetti. Annullano le forze endogene di sviluppo dell’Unione, negandone l’esistenza, oppure condizionano tale sviluppo. Mettono al guinzaglio tedesco (e degli altri Paesi che intendano seguire la stessa strada) tutti i passi avanti dell’Unione. Creano uno squilibrio tra Stati più filo-europei e Stati più guardinghi o addirittura restii a operare «cessioni di sovranità».
Altri Paesi sono più filo-europei, e tra questi è l’Italia. Se si esclude la decisione criticata dall’ex presidente della Corte, le corti supreme italiane hanno assunto un atteggiamento più aperto rispetto al diritto europeo e al diritto internazionale. Non si chiedono quali limiti discendono dalla Costituzione nazionale per il diritto europeo, ma, al contrario, quali vincoli europei il diritto e le corti nazionali debbono rispettare.

Neanche noi siamo immuni da difetti. Anche le corti italiane, più orientate ad aprire le porte del diritto nazionale a quello europeo, creano dei problemi. Infatti, il loro atteggiamento fa risaltare la debolezza degli adempimenti comunitari da parte dell’esecutivo. È noto che l’Italia è tanto pronta a dichiarare di volersi adeguare alle direttive e ai regolamenti comunitari, quanto lenta nell’applicarli. Ed è noto che il balletto dei governi rende la nostra presenza a Bruxelles sempre precaria (qualche giorno fa, uno dei più alti funzionari dello Stato italiano ha dichiarato che in cinque anni aveva accompagnato nella capitale europea cinque diversi ministri italiani, mentre quelli dei nostri partner sono rimasti gli stessi).

L’atteggiamento tedesco, per la cura con cui è motivato, per la sua costanza, per il peso che quel Paese ha in Europa, pone, tuttavia, un interrogativo di fondo, che riguarda l’esistenza stessa dell’Unione e la sua essenza. Gli Stati nazionali non hanno conferito all’Unione soltanto compiti che questa deve ordinatamente svolgere come un mero esecutore. Hanno anche sottoscritto un patto con il quale, consentendo l’elezione diretta del Parlamento europeo, hanno permesso lo stabilirsi di un rapporto diretto tra questo e i cittadini di ciascuna nazione. Hanno creato, in altre parole, un motore, hanno stabilito una diversa legittimazione, un potere che può disporre regole eguali per tutti i Paesi. Se ognuno degli Stati europei interpreta in modi diversi i vincoli che derivano dai trattati, allunga o accorcia a suo piacimento il guinzaglio che lega l’Unione agli Stati, non si pongono in dubbio le premesse stesse su cui è fondato il «condominio» europeo?

25 febbraio 2015 | 08:22
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_25/laccio-corte-tedesca-ad2bad1e-bcb8-11e4-ad0c-cca964a9a2a1.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 14, 2015, 12:20:01 pm »

LA Sentenza
Pensioni, le strade possibili della Corte costituzionale

Di Sabino Cassese

La sentenza della Corte costituzionale sulla rivalutazione monetaria delle pensioni sta suscitando molte critiche. La difendono solo i sindacati (ma questi fanno il loro mestiere, essendo ormai associazioni di pensionati) e le parti politiche che sperano in una buccia di banana per il governo.

Mi paiono fuori centro le critiche di sconfinamento della Corte, con conseguente svuotamento dei poteri del Parlamento. Il compito della Corte è, infatti, proprio quello di assicurare che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullandole quando non la rispettano. Gli autori di questa critica vorrebbero fare a meno del garante della Costituzione, facendo così un salto indietro di duecento anni nella storia del costituzionalismo.

Più ragionevoli le critiche al modo in cui ha proceduto la Corte in questo caso. La decisione presa ha implicazioni molto gravi per il bilancio dello Stato. La Corte, in un passato abbastanza lontano, si era dotata di uffici che valutavano le conseguenze finanziarie delle sue decisioni. Riteneva, quindi, di dover svolgere il suo ruolo di tutore della Costituzione bilanciando la tutela dei diritti con quella dell’equilibrio finanziario, da cui anche discendono diritti. In passato, più volte ha atteso e rinviato, aiutando contemporaneamente Parlamenti e governi a definire e tutelare i diritti dei cittadini, ma senza provocare buchi nel bilancio. Solo due mesi fa, la Corte ha adottato una importante sentenza con effetti solo per il futuro, perché altrimenti «si determinerebbe una grave violazione dell’equilibrio di bilancio ai sensi dell’art. 81 della Costituzione».

U n bilanciamento diritti- costi è necessario, in particolare, quando vi sono diritti a prestazioni che - come ha osservato Mario Monti - non sono più sostenibili (correndo, in più, il pericolo di una messa in mora da parte della Commissione europea). E quando - come in questo caso - i costi di una sentenza debbono necessariamente essere compensati dalla riduzione di altri diritti sociali; ad esempio, limitando le prestazioni in materia di istruzione o sanitaria. La Corte non era obbligata a scegliere tra due sole soluzioni. Aveva molte alternative. Avrebbe potuto ripetere il monito (la messa in mora che la Corte fa quando non vuole produrre gli effetti immediati e traumatici che derivano da un annullamento), già fatto in precedenza in materia di pensioni, come è accaduto negli ultimi anni in materia elettorale.

Avrebbe potuto fare una sentenza chiamata, nel gergo, additiva di principio, cioè stabilendo il principio della rivalutazione anche per le pensioni di livello pari a tre volte la minima, ma lasciando a governo e a Parlamento il compito di scegliere come provvedere. Così ha fatto molte altre volte. Avrebbe potuto agganciarsi ad altre norme che stabiliscono soglie e scaglioni diversi, graduando gli effetti concreti della propria pronuncia. Anche questo tipo di decisioni manipolative ha molti precedenti. Avrebbe potuto, infine, non comportarsi come Giove pluvio, facendo trovare gli organi di spesa dinanzi al fatto compiuto (uno dei più acuti giudici costituzionali americani ha scritto un libro per dimostrare che la forza delle corti supreme sta nella loro capacità di collaborare con gli altri poteri dello Stato).

12 maggio 2015 | 08:21
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_12/pensioni-sentenza-corte-costituzionale-07de0a40-f869-11e4-ba21-895cc63d9dac.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 25, 2015, 10:59:31 am »

Consulta e governo
La valanga che andava evitata

Di Sabino Cassese

Il governo ha dunque riconosciuto a 3 milioni e 700 mila pensionati (quelli che godono di trattamenti da tre a sei volte il minimo) una rivalutazione di ammontare diverso, a favore delle pensioni più basse (40, 20 e 10 per cento) per gli anni 2012 e 2013. Contemporaneamente, ha stabilito una indicizzazione delle pensioni del 20 per cento per il 2014-2015 e del 50 per cento dal 2016. Ha indicizzato così l’importo complessivo di tutti i trattamenti pensionistici di cui ciascuno gode, inclusivi degli eventuali assegni vitalizi. Ed ha fatto ciò con tempismo, senza aspettare momenti più propizi, e con atteggiamento di riguardo e cooperativo nei confronti della Corte costituzionale, nonostante che la sua sentenza non sia risultata gradita, giungendo anzi come un fulmine a ciel sereno.

Si spera che questa soluzione metta a tacere le interpretazioni estremistiche, quelle di chi vorrebbe la «restituzione di tutto». La Corte, infatti, lamentava che non vi fosse «alcuna rivalutazione», con il «blocco integrale» della perequazione disposto nel 2011. Consentiva che le attese dei pensionati venissero bilanciate con le esigenze di contenimento della spesa. Dichiarava irragionevole il blocco, non dichiarava ragionevole la rivalutazione disposta nel 1998. La Corte non poteva dire di più, sancendo una sorta di intangibilità del modo di rivalutare le pensioni scelto nel 1998 e bloccato nel 2011 - come vorrebbero i sostenitori della tesi del «rimborso totale» - perché l’articolo 38 della Costituzione dispone che i lavoratori hanno diritto a vedersi assicurati mezzi «adeguati alle esigenze di vita», e giudice dell’adeguatezza è il Parlamento.

Il Parlamento è tenuto solo a rispettare i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Si lamenterà che quella decisa dal governo non è una rivalutazione al cento per cento e che chi gode di pensioni superiori a sei volte il minimo non avrà rivalutazione. Ma la Costituzione dispone che siano assicurati «mezzi adeguati», non che questi vadano necessariamente dati con una piena rivalutazione. Ed è difficile sostenere che coloro che godono di pensioni superiori di sei volte il minimo non abbiano mezzi adeguati alle esigenze di vita.

Questo intervento equitativo del governo chiude un triste capitolo della vicenda pensionistica. Mentre l’equilibrio finanziario è tanto precario e voci autorevolissime come quella di Maurizio Ferrera predicano da anni che il welfare italiano dà troppo agli anziani e troppo poco ai giovani (infatti, il decreto legge mira anche alla «salvaguardia della solidarietà intergenerazionale»), lo scivolone della Corte, dimentica per un momento delle sue proprie responsabilità di tutore dell’art. 81 della Costituzione, avrebbe potuto innescare una valanga rovinosa non solo per l’economia italiana, ma anche per gli stessi pensionati.


19 maggio 2015 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_19/valanga-che-andava-evitata-d8d75ea0-fde4-11e4-bed4-3ff992d01df9.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 08, 2015, 05:40:28 pm »

Stato e criminalità
Questioni nazionali (non locali)

Di Sabino Cassese

L a questione romana, riesplosa nei giorni scorsi, è solo la spia di una malattia più grave: il vuoto politico amministrativo della gestione capitolina (quella in carica ormai da un biennio e quella precedente) e la debolezza delle classi dirigenti locali. I sintomi sono la città in stato di abbandono, l’incuria per ogni servizio essenziale (a partire dalla manutenzione delle strade, delle piazze, del verde pubblico), l’incapacità gestionale, l’assenza di rispetto per l’interesse collettivo, l’abuso delle risorse pubbliche, la carenza di guida e di controlli, cui conseguono disamore dei cittadini per Roma e scoraggiamento delle persone serie ed oneste che lavorano nelle amministrazioni locali. Ma non basta sciogliere questa amministrazione e tornare alle urne, perché la questione riguarda l’intera nazione.

I segnali di corruzione che stanno emergendo mostrano la straordinaria galassia che sta alla base del malaffare (enti pubblici di vario genere, società, consorzi, fondazioni, municipi, cooperative, appaltatori di pubblici servizi), le reti sulle quali lo sfruttamento privato di risorse pubbliche corre (dominate dalla indistinzione tra amministrazione e politica locale, clan privati e funzionari pubblici), il coinvolgimento delle burocrazie nella corruzione. Questo accade per scarsa capacità di leadership politico-gestionale e assenza di una solida amministrazione capitolina: secondo molti osservatori, è una finzione giuridica che a Roma vi siano un Comune e un sindaco, tanto grande è l’incuria per gli interessi della collettività romana. O ra le indagini della Procura faranno il loro corso. Ma non ci si può illudere che esse possano risolvere il problema che sta alla base della questione, le cui cause risalgono alla pochezza delle amministrazioni, allo strapotere del consiglio comunale e alle sue troppe interferenze con la gestione amministrativa e con l’uso delle risorse finanziarie, ai grandi e piccoli abusi (questi ultimi peggiori dei primi, perché penetrano nella società, abituano anche i cittadini a corrompere il vigile urbano perché non multi le auto in sosta abusiva dinanzi a un negozio), a politici-affaristi, a burocrati scelti per l’appartenenza o la fedeltà politica e non per il loro merito, a mediatori e mestieranti, al sottobosco della cosiddetta politica locale, alla criminalità. Questo sistema corrotto richiede un’opera risanatrice più grande, richiede che lo Stato si accolli temporaneamente questo compito e ridia alla nazione una capitale non infetta.

La questione romana è questione nazionale, come ha ben capito il partito di maggioranza quando ha nominato il suo presidente commissario straordinario della federazione di Roma. Ora si completi l’opera. La nazione dia un segno della sua presenza. Lo Stato assuma il compito temporaneo di ridare a Roma una amministrazione. Gli strumenti non mancano. Si può commissariare il Comune. Oppure approvare una legge speciale, temporanea, che dia un nuovo assetto a Roma, per la durata della cura. Nell’amministrazione dello Stato, nel ministero dell’Interno e in quello dell’Economia e della finanza, e persino nelle strutture capitoline, non mancano le persone adatte a liquidare superfetazioni amministrative, a ridare una struttura, a ridisegnare procedure, in modo che Roma diventi una capitale di cui l’Italia non si debba vergognare.

Annamaria Cancellieri ha scritto nel suo libro di memorie che, nominata commissario del Comune di Bologna, si dedicò subito a due compiti: ascoltare gli amministrati, e curare l’amministrazione, girando persino nelle strade e segnalando le buche. I romani e i tanti italiani e stranieri che visitano Roma sanno che di questo c’è bisogno nella Capitale.

7 giugno 2015 | 08:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_07/questioni-nazionali-non-locali-3159cac4-0cde-11e5-8612-1eda5b996824.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 27, 2015, 11:02:05 am »

Giustizia e bilanci
Una corte che rispetta i vincoli
Saggia sentenza della Corte costituzionale che ha valutato che la illegittimità del blocco dei contratti pubblici vale per il futuro e non per il passato

Di Sabino Cassese

Saggia sentenza della Corte costituzionale. Questa ha stabilito che bloccare troppo a lungo la contrattazione collettiva del pubblico impiego è illegittimo. Ma ha contemporaneamente deciso che questa è una illegittimità «sopravvenuta» e che la dichiarazione relativa decorre dalla pubblicazione della sentenza (che deve necessariamente avvenire entro il 10 luglio prossimo). Quindi, la illegittimità vale per il futuro e non per il passato.

Due giudici, uno di Roma e uno di Ravenna, su richiesta di due diverse organizzazioni sindacali, avevano sollevato questione di costituzionalità delle norme che, a partire da quelle del governo Berlusconi, nel 2010, avevano bloccato stipendi e contrattazione del pubblico impiego, e poi avevano prorogato il blocco. I giudici avevano chiesto di far cadere sia l’arresto della contrattazione, sia il congelamento del trattamento economico, sostenendo anche che la perdita del potere di acquisto, insieme con il blocco delle assunzioni, produceva un duplice danno, dovendo i dipendenti lavorare di più con una retribuzione ridotta dall’inflazione.

La Corte costituzionale si è limitata ad affermare che l’attuale «blocco della contrattazione collettiva» è illegittimo. E l’ha probabilmente deciso sulla base delle sue sentenze precedenti nelle quali aveva stabilito che il blocco può essere temporaneo, non duraturo o permanente. N on credo che il governo e il Parlamento siano stati presi in contropiede da questa sentenza. Il ministro della Funzione pubblica aveva già dichiarato di voler sbloccare la contrattazione collettiva a partire dal 2016. Quindi, ora la negoziazione ricomincia, come vuole la legge e come ha ribadito la Corte costituzionale nel 2012, entro i limiti generali di compatibilità con le linee di politica economica e finanziaria fissate dal legislatore, che richiedono un accurato calcolo degli oneri finanziari.

Perché questa è una decisione equilibrata? Perché, innanzitutto, fa cessare una intrusione legislativa nell’area contrattuale, senza tuttavia necessariamente sconvolgere gli equilibri di finanza pubblica, in quanto la contrattazione deve svolgersi necessariamente dentro le disponibilità di bilancio: lo Stato non può dare più di quello di cui dispone. La Corte ha fissato un principio: la contrattazione non può essere bloccata indefinitamente, se il pubblico impiego è contrattualizzato. Essa ha riaperto la strada della negoziazione tra le parti. Spetta ora al governo e al Parlamento stabilire le risorse disponibili e avviare la negoziazione entro i limiti di tali risorse.
Perché, in secondo luogo, non crea, con un’applicazione retroattiva, un buco che costituirebbe, come ha scritto la stessa Corte in una eccellente sentenza del febbraio scorso, «una grave violazione dell’equilibrio di bilancio». Il principio stabilito da quella sentenza trova ora una seconda attuazione con questa decisione: spetta alla Corte anche regolare gli effetti delle proprie decisioni, innanzitutto quelli temporali. In questo modo la Corte è anche più libera di esercitare il proprio ruolo, avendo disponibile una più ampia gamma di decisioni di illegittimità costituzionale. La Corte tedesca ha affermato da molti anni questo principio, che è poi stato codificato in una legge.

Infine, questa sentenza è saggia perché mostra che la Corte è consapevole dei limiti degli effetti distributivi delle proprie decisioni. Se la Corte, con sentenze che hanno grande impatto sulla spesa pubblica, obbliga il Parlamento a riallocare grandi quantità di risorse, non solo produce squilibri di bilancio, ma priva di tutela altri titolari di diritti. Se obbliga il Parlamento a perequare le pensioni, toglie risorse che potrebbero andare ai giovani. Ecco uno dei grandi problemi dei sistemi politici contemporanei, fondati sulla contrapposizione dei poteri: le Corti hanno l’ultima parola, ma possono agire solo sotto la spinta di altri giudici, e sono tenute a «stare nel seminato»; non possono prendere esse stesse l’iniziativa e debbono rispondere solo alla domanda che è stata loro posta dai giudici rimettenti. Solo i governi e i Parlamenti - che non hanno l’ultima parola - possono attuare una vera giustizia distributiva, compensando, bilanciando, equilibrando. Un buon motivo perché le Corti costituzionali si frenino quando la loro azione si svolge in quel campo minato che è la finanza pubblica.

25 giugno 2015 | 09:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_25/corte-che-rispetta-vincoli-12b21354-1afa-11e5-8694-6806f55cfc9e.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:07:31 am »

Costituzione e poteri
La riforma che non va cancellata

Di Sabino Cassese

Non bisogna far marcia indietro sulla proposta di riforma costituzionale. Questa prevede una forte riduzione del bicameralismo parlamentare e un modesto rafforzamento del governo. Il primo obiettivo è raggiunto svuotando di funzioni il Senato, riducendo il numero dei senatori e rendendone l’elezione indiretta. Il secondo obiettivo affidando solo alla Camera dei deputati il compito di dare la fiducia al governo e dando una corsia preferenziale alle proposte di legge del governo.

Ambedue questi obiettivi erano tra le proposte di coloro che prepararono la Costituzione del 1948. Questi sapevano bene che da quando Tocqueville, in Francia, nel 1848, si batteva per il bicameralismo le cose erano cambiate. Ad esempio, Massimo Severo Giannini, capo di gabinetto di Nenni al Ministero per la costituente e testa pensante del partito socialista, nell’aprile 1946, propose al congresso fiorentino del partito un sistema monocamerale, notando che «in tutti i casi in cui la seconda camera non è stata rappresentativa di determinati gruppi o interessi politici, regolarmente essa ha fatto fallimento». «D’altra parte, la funzione moderatrice che alcuni attribuiscono alla seconda camera, nella maggioranza dei casi, risponde più ad una affermazione che a una realtà; anzi, molto spesso è una deformazione ottica».

Oggi possiamo aggiungere che nel nostro sistema politico gli strumenti del pluralismo e gli istituti destinati a bilanciare i poteri, ad evitare l’eccessiva loro concentrazione in un solo organo, si sono moltiplicati. Molti poteri sono stati deferiti all’Unione Europea e alle Regioni, che agiscono da contropoteri, condizionano e frenano l’azione del complesso Parlamento-governo. Che bisogno c’è dunque, dello sdoppiamento dell’assemblea legislativa in due camere con eguali poteri? Non si finisce così per frammentare eccessivamente l’azione di governo, e qualche volta per rendere i governi impotenti?

Anche il secondo obiettivo, quello di rafforzamento del governo, era tra le aspirazioni dei nostri costituenti. Piero Calamandrei osservò il 4 marzo 1947 all’Assemblea costituente: «Di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto della Costituzione non c’è quasi nulla». Come lui, anche Mortati e Perassi, democristiani e repubblicani, non volevano un sistema parlamentare puro con governi instabili. Sapevano che il fascismo non era stato il prodotto di esecutivi forti, ma della debolezza dei governi precari e transeunti del periodo liberale.

Oggi di governi che abbiano una base meno fragile e maggiore durata, e che assicurino continuità alle politiche pubbliche c’è ancor più bisogno, se vogliamo partecipare a quel grande condominio che è l’Unione Europea, nel quale non ci possiamo permettere di mandare un ministro nuovo ogni anno, mentre le altre nazioni sono rappresentate dalla stessa persona almeno per la durata della legislatura, per cinque anni.

I politici attardati che vorrebbero fare marcia indietro sulla riforma costituzionale aspirano a togliere forza al potere della maggioranza, con la conseguenza che nessuno governa, mentre dovrebbero invece dare voce e potere alla minoranza, perché questa possa tenere sotto controllo la maggioranza, per poter poi aspirare a diventare essa stessa maggioranza.

Ripetono così lo storico errore di De Gasperi e di Togliatti, ciascuno timoroso della prevalenza dell’altro e quindi ambedue favorevoli a indebolire l’azione della maggioranza e del governo. Così venne creata una democrazia forte con maggioranze deboli, che finiscono per infiacchire la democrazia.

Dopo sessanta anni, finita la Guerra fredda e la divisione del mondo in due parti, dopo che si sono sviluppate le istituzioni del pluralismo ed è scomparso lo Stato monolite, la coscienza democratica dei cittadini è divenuta più matura, il dibattito pubblico più aperto, i mezzi di comunicazione più rapidi, la gestione pubblica più trasparente, il potere più decentrato, non bisogna buttare sabbia nelle ruote della maggioranza, ma invece consolidare il ruolo delle minoranze, dando loro uno statuto legale riconosciuto, rafforzare il compito di controllo della seconda camera, moltiplicare gli strumenti conoscitivi delle stesse minoranze non rappresentate in Parlamento.

4 luglio 2015 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_04/riforma-costituzionale-36e6d5d4-220c-11e5-a8a7-86b884c5fff2.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 16, 2015, 05:00:34 pm »

Come può cambiare lo Stato
Una burocrazia del merito

Di Sabino Cassese

U n Parlamento bloccato su un particolare della riforma costituzionale (elezione diretta o indiretta di un Senato comunque ridotto e svuotato) ha dato al governo, dopo un iter non breve (circa un anno), ma neppure difficoltoso, con una larga maggioranza, una enorme apertura di credito per la riforma dello Stato.

Si apre un grande cantiere, con circa quindici deleghe, che richiederà almeno cinque anni per essere portato a compimento. Riguarda l’assetto centrale dello Stato, la sua distribuzione sul territorio, gli enti periferici, i processi di decisione e le semplificazioni, la prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, le conferenze dei servizi, le forze di polizia, l’ordinamento sportivo, gli enti di ricerca, le società pubbliche, i servizi pubblici locali, i concorsi pubblici, il codice dell’amministrazione digitale. Ridefinisce i confini tra pubblico e privato. Mira a trasformare un’amministrazione corporativa, poco efficace, troppo legata ai politici di passaggio, in una struttura sensibile agli impulsi della politica e alle esigenze della collettività, ma non dipendente dai politici. Lo stato degli edifici scolastici, il tempo di una licenza, le condizioni delle nostre città, il costo dei servizi, l’adempimento degli obblighi tributari, la bontà del servizio sanitario, dipenderanno, nei prossimi anni, dal successo di questa riforma.

Le chiavi di volta di questo ambizioso disegno sono le tre Commissioni autonome per le tre categorie della dirigenza unificata (Stato, Regioni ed enti locali) e il nuovo assetto della Scuola dell’amministrazione. Da queste dipende la possibilità di costruire una classe di amministratori pubblici scelti sulla base dei loro talenti, indipendenti e imparziali. L e tre Commissioni dovranno, da un lato, immettere i vincitori del corso-concorso nell’amministrazione, dall’altro tenere sotto controllo il conferimento degli incarichi ai dirigenti, da parte dei corpi politici. È un compito enorme, diretto sia a migliorare la dirigenza amministrativa selezionando i capaci e meritevoli, sia a far rispettare dalla politica i principi cardine dell’accesso aperto, della concorrenza e del merito, oltre che della definizione preventiva dei requisiti dei dirigenti. La scelta dei componenti delle tre Commissioni sarà un banco di prova per il governo. Dovranno essere nominate persone autonome, indipendenti e «terze», non politici o sindacalisti. Lì si misurerà la lungimiranza dell’esecutivo e la sua capacità di spogliarsi della veste di parte nell’interesse del Paese.

La Scuola nazionale di amministrazione sarà la principale fornitrice dei nuovi dirigenti, il «vivaio degli alti funzionari». Anche qui si misurerà la capacità del governo di guardare lontano. C’è bisogno anche in Italia di quello che gli inglesi chiamano fast stream, un sistema accelerato che porti rapidamente al vertice degli uffici pubblici un manipolo di giovani capaci, scelti non per il loro credo politico ma per le abilità acquisite, l’esperienza, l’equilibrio, le capacità gestionali, le conoscenze linguistiche, una élite che non sia aristocrazia.
Il governo è ora chiamato ad adempiere questi compiti difficili. Ma di ciò dovrebbe anche interessarsi chi si preoccupa della democrazia italiana, temendo che degeneri in autocrazia: una burocrazia indipendente e preparata, non scelta dai membri del corpo politico tra i propri fedeli, sarà capace di condizionare il politico di turno, ricordandogli i suoi limiti, e di mettere finalmente in sintonia lo Stato con la società, che lo vede oggi come un nemico, indolente, costoso e invadente.

14 agosto 2015 (modifica il 14 agosto 2015 | 08:50)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_14/burocrazia-merito-82e2e7d2-4243-11e5-ab47-312038e9e7e2.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 24, 2015, 05:36:22 pm »

Riforme e ostacoli
La giustizia che si deve ritrovare

Qualcosa si muove nella giustizia. Le riforme avviate nel giugno 2014, articolate in dodici punti, dopo una pubblica consultazione, stanno dando qualche magro frutto: calo dell’arretrato civile, tempi più brevi dei processi.
Ma la china da risalire è erta. Il contesto è difficile. La qualità delle leggi pessima (ma nessuno se ne dà carico). Gli avvocati troppi (ma continuano ad aumentare). Il Consiglio superiore della magistratura dominato da gruppuscoli denominati correnti (ma non c’è accordo per uscirne). La Cassazione intasata da un numero abnorme di ricorsi (ma le proposte di soluzione troppo timide). I magistrati troppo leggeri nel limitare la libertà personale (la Scuola della magistratura non dovrebbe fare qualcosa per insegnare che la detenzione cautelare, senza processo, va usata in casi estremi?). Troppe le carriere politiche di magistrati in carica e troppe le loro esternazioni (mentre il Consiglio superiore della magistratura sta a guardare). Eccessiva la tendenza di procure e corti a dettare l’agenda della politica e a stabilire i criteri della politica industriale, quasi fossero la coscienza del Paese e il governo della politica economica (perché il Consiglio non fissa linee guida non vincolanti, come fa negli Stati Uniti il Dipartimento di giustizia,
e perché la Scuola della magistratura non promuove il ricorso all’analisi economica del diritto?). Palese l’inadeguatezza - con l’eccezione di alcune importanti procure - del contrasto alla criminalità organizzata. La criminalità organizzata si è diffusa in vaste aree del territorio nazionale (non varrebbe la pena di fare una analisi sulla preparazione di chi dirige le investigazioni, comprese le forze di polizia?). Sproporzionato il posto che il sistema giudiziario è venuto ad occupare nella vita civile, se rapportato al suo fallimento come erogatore del fondamentale servizio della giustizia (qui occorrerebbe una analisi distaccata e imparziale, alla quale tutti possano partecipare, promossa dal Parlamento). Al fondo, la crisi della giustizia in Italia non sta tanto nell’enorme numero di cause non decise e nei tempi dei processi, ma nel fatto che tutto ciò ha prodotto una vera e propria fuga dalla giustizia, a causa della sfiducia nei suoi tempi.
Non vengono da ultime, in questo quadro, le proposte, recentemente ribadite, relative ad intercettazioni, carcerazione preventiva e separazione delle carriere. Prima ancora della loro divulgazione, è l’uso a volte eccessivo delle intercettazioni (specialmente di quelle indirette) come mezzo di prova che andrebbe disciplinato, ricordando che, secondo la Costituzione, la segretezza delle comunicazioni è inviolabile. La carcerazione preventiva è stata talvolta usata come mezzo di pressione, per ottenere ammissioni di colpa, anche qui mostrando le debolezze investigative nella raccolta documentale di prove. Per quanto la sua importanza sia diminuita dopo la distinzione funzionale, la separazione delle carriere, ambedue con indipendenza garantita, è dettata molto semplicemente dal fatto che accusa e giudizio sono mestieri diversi, che richiedono preparazione e professionalità differenti.
Il governo italiano ha finora avuto giudizi molto negativi dalla Corte di Strasburgo e apprezzamenti sia dai commissari europei per le iniziative intraprese nel campo della giustizia, sia dal Consiglio d’Europa per la produttività dei giudici. Ma il tempo passa e risultati più consistenti sono attesi, non solo dai cittadini, ma anche dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa. Non dimentichiamo che uno dei punti della decisione dell’Eurosummit del luglio scorso relativa alla Grecia, presa con la collaborazione dell’Italia, ha riguardato l’accelerazione delle procedure giudiziarie e la riduzione dei costi della giustizia.

Sabino Cassese
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24 agosto 2015 (modifica il 24 agosto 2015 | 07:15)

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_24/giustizia-che-si-deve-ritrovare-01468b9c-4a1e-11e5-bdc5-ee9c5a368093.shtml
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